Che
cosa vuol dire punire? Intervista a Michel Foucault Il suo libro, Sorvegliare
e punire, è piombato come una meteora sul campo di studio di penalisti e di
criminologi. Proponendo un'analisi del sistema penale nella prospettiva della
tattica politica e della tecnologia del potere, l'opera ha portato scompiglio
tra le tradizionali concezioni sulla delinquenza e sulla funzione sociale della
pena. Ha turbato i giudici repressivi, per lo meno quelli che s'interrogano sul
senso del loro lavoro. Ha scosso un buon numero di criminologi che però non
hanno affatto gradito che le loro teorie fossero definite chiacchiere.
Sempre più rari sono oggi i libri di criminologia che si riferiscono a
Sorvegliare e punire come a un'opera propriamente
inaggirabile. Bisognerebbe forse preliminarmente precisare che
cosa mi sono proposto di fare con questo libro. Non ho voluto fare direttamente
opera critica, se si intende per critica la denuncia delle disfunzioni
dell'attuale sistema penale. Né ho voluto fare una storia delle istituzioni; nel
senso che non ho voluto raccontare come funzionava l'istituzione penale e
carceraria nel corso del diciannovesimo secolo. Ho tentato di porre un problema
diverso: scoprire il sistema di pensiero, la forma di razionalità che, dalla
fine del diciottesimo secolo, sottostà all'idea che la prigione è, in
definitiva, lo strumento migliore, uno dei più efficaci e dei più razionali per
punire le infrazioni in una società. È evidente che nel fare ciò mi sono
preoccupato di come si potrebbe agire ora. Infatti mi sembra che opponendo, come
si fa tradizionalmente, riformismo e rivoluzione, non ci si dota dei mezzi per
pensare che cosa possa dar luogo a una reale, profonda e radicale
trasformazione. Si ha l'impressione che il sistema concettuale non sia per
niente cambiato. Nonostante i giuristi, gli psichiatri riconoscano la pertinenza
e le novità delle sue analisi, si scontrano, a quanto pare, con l'impossibilità
di tradurli sul piano pratico, sul piano della ricerca di ciò che si definisce
con un termine ambiguo «politica criminale». Qui si pone un
problema che in effetti è molto importante e complesso. Appartengo a una
generazione di persone che ha visto crollare una dopo l'altra la maggior parte
delle utopie che erano state costruite nel diciannovesimo secolo e all'inizio
del ventesimo secolo, e che hanno visto quali effetti perversi e talvolta
disastrosi potevano produrre i progetti dalle intenzioni più generose. Non ho
mai voluto assumere il ruolo dell'intellettuale profeta che predica alle persone
ciò che devono fare e prescrivere loro le strutture di pensiero, gli obiettivi e
i mezzi che ha desunto dalla sua testa, lavorando chiuso in una stanza, tra i
libri. Mi è sembrato che il lavoro di un intellettuale, di quello che io
definisco un intellettuale specifico, consista nel tentare di delineare, nel
loro potere vincolante ma anche nella contingenza della loro formazione storica,
i sistemi di potere che ci sono diventati ora familiari, che ci sembrano chiari
e che compenetrano le nostre percezioni, i nostri comportamenti. Bisogna inoltre
lavorare insieme a degli esperti non solo per modificare le istituzioni e le
procedure d'azione, ma anche per rielaborare le forme di pensiero. Ciò che
ha definito «chiacchiera criminologica» (definizione che è stata senza
dubbio fraintesa) indica quindi il fatto di non mettere in discussione il
sistema di pensiero entro il quale sono state condotte, per un secolo e mezzo,
tutte queste analisi? Sì, proprio questo. Forse ho usato una parola un po'
disinvolta. Quindi cancelliamola. Ma ho l'impressione che le difficoltà e le
contraddizioni che la pratica penale ha incontrato nel corso degli ultimi due
secoli non sono mai state riesaminate a fondo. E da ormai centocinquanta anni,
vengono ripetuti sempre gli stessi concetti, gli stessi temi, le stesse accuse,
le stesse critiche, le stesse esigenze, come se niente fosse cambiato, e in
effetti, in un certo senso, niente è cambiato. A partire dal momento in cui
un'istituzione che presenta tanti inconvenienti, che solleva tante critiche, dà
solo luogo alla ripetizione indefinita degli stessi discorsi, la
«chiacchiera» è un sintomo serio. In Sorvegliare e punire,
lei analizza quella strategia che consiste nel trasformare alcuni illegalismi in
delinquenza, rendendo l'apparente fallimento del carcere un successo. È come se
un certo gruppo utilizzasse più o meno coscientemente questo strumento per
produrre degli effetti non dichiarati. Si ha l'impressione, forse falsa, che vi
sia in tutto questo l'astuzia del potere che sovverte i progetti, elude i
discorsi dei riformatori umanisti. Da questo punto di vista, c'è una certa
similitudine tra le sue analisi e il modello d'interpretazione marxista della
storia (mi riferisco alle pagine nelle quali mostra come un certo tipo
d'illegalismo venga particolarmente represso mentre altri sono tollerati). Ma
non si capisce chiaramente, a differenza del marxismo, quale gruppo o quale
classe, quali interessi siano in azione in questa strategia. Nell'analisi
di un'istituzione bisogna distinguere varie cose. In primo luogo quella che si
potrebbe chiamare la sua razionalità o il suo fine, cioè gli obiettivi che si
prefigge e i mezzi di cui dispone per raggiungere questi obiettivi: in
definitiva, il programma dell'istituzione così come è stato definito. In secondo
luogo, gli effetti. Solo molto raramente gli effetti coincidono con il fine:
così, l'obiettivo del carcere-correzione, il carcere come strumento di
riparazione all'errore commesso dall'individuo, non è stato
raggiunto. Effetti che si trasformano a loro volta in fini... Proprio
così. Sono effetti che vengono inseriti in differenti usi e questi usi vengono
razionalizzati o comunque organizzati in funzione di nuovi fini. Ma tutto
non è premeditato, non c'è alla base un progetto machiavellico
occulto? Assolutamente no. Non c'è un soggetto o un gruppo che sia
titolare di questa strategia, ma a partire da effetti diversi dai fini originari
e dall'utilizzabilità di questi effetti, si costruiscono un certo numero di
strategie. Strategie le cui finalità a loro volta sfuggono in parte coloro
che le elaborano... Sì. Talvolta queste strategie sono completamente
consce: il modo in cui la polizia utilizza il carcere è più o meno conscio.
Semplicemente, in generale non vengono formulate. A differenza del
programma. Lei ha spiegato molto chiaramente
come la pena detentiva sia stata, sin dall'inizio del ventesimo secolo,
denunciata come il grande fallimento della giustizia penale, esattamente negli
stessi termini in cui lo è oggi. Non esiste penalista convinto del fatto che il
carcere raggiunga gli scopi che gli sono attribuiti: il tasso di criminalità non
diminuisce. Invece di risocializzare, il carcere fabbrica delinquenti, accresce
la recidiva, non garantisce sicurezza. Gli istituti penitenziari non si
svuotano, né si intravede in Francia a questo riguardo l'avvio di un
cambiamento sotto il governo socialista. Però nello stesso tempo lei capovolge il
problema. Chiariamo innanzitutto alcuni equivoci. In primo
luogo, in questo libro sul carcere, è evidente che non ho voluto porre il
problema del fondamento del diritto di punire. Ho voluto mostrare il fatto che a
partire da una certa concezione del fondamento del diritto di punire
riscontrabile nel pensiero dei penalisti e dei filosofi del diciottesimo secolo,
potevano essere concepiti diversi strumenti di punizione. Infatti, i movimenti
riformisti della seconda metà del diciottesimo secolo suggeriscono tutta una
serie di strumenti punitivi, ma alla fine scopriamo che è la prigione a essere
in qualche modo privilegiata. Non è stato l'unico mezzo punitivo, ma è diventato
comunque uno dei principali. Il problema è sapere perché si è scelto questo
metodo. E come esso abbia piegato non solo la pratica giudiziaria ma anche un
certo numero di problemi abbastanza fondamentali in diritto penale.
L'importanza data per esempio agli aspetti psicologici o psicopatologici della
personalità criminale che si afferma nel corso di tutto il diciannovesimo
secolo, è stata fino a un certo punto indotta da una pratica punitiva che si
poneva come fine la correzione e che incontrava come unico ostacolo solo
l'impossibilità di correggere. Ho dunque lasciato da parte il problema del
fondamento del diritto di punire per evidenziare un altro problema che credo sia
stato più spesso trascurato dagli storici: gli strumenti punitivi e la loro
razionalità. Il problema della definizione della punizione è ancora più
complesso in quanto non solo non si sa esattamente che cosa significhi punire,
ma sembra anche ripugni punire. I giudici infatti si astengono sempre di più dal
punire, vogliono curare, rieducare, guarire, un po' come se essi stessi
cercassero di discolparsi dall'esercitare la repressione. In Sorvegliare e
punire lei d'altra parte scrive: «i confini del discorso penale e del
discorso psichiatrico si confondono». «Si stabilisce allora con la molteplicità
dei discorsi scientifici un rapporto difficile ed infinito che oggi la giustizia
penale non è pronta a controllare. L'arbitro della giustizia non è signore della
verità». Oggi, il ricorso allo psichiatra, allo psicologo, all'assistente
sociale è un fatto di routine giudiziaria, sia penale che civile. Lei ha
analizzato questo fenomeno, che indica senza dubbio un cambiamento
epistemologico nella sfera giuridico-penale. La giustizia penale sembra aver
cambiato senso. Il giudice applica sempre meno il codice penale all'autore di un
infrazione e sempre di più invece tratta delle patologie e dei disturbi della
personalità. Credo che lei abbia perfettamente ragione. Perché la giustizia
penale ha allacciato questi rapporti con la psichiatria, che dovrebbe
ostacolarla moltissimo? Perché evidentemente tra la problematica della
psichiatria e ciò che esige la stessa pratica del diritto penale riguardo le
responsabilità non c'è contraddizione bensì eterogeneità. Sono due forme di
pensiero che non sono sullo stesso piano e di conseguenza non si riesce a capire
secondo quale regola l'una potrebbe avvalersi dell'altra. È certo però, ed è una
cosa che sorprende sin dal diciannovesimo secolo, che la giustizia penale di cui
si sarebbe potuto supporre la diffidenza verso il pensiero psichiatrico,
psicologico o medico, sembra invece esserne stata affascinata. Certamente ci
sono stati degli attriti, dei conflitti, non voglio certo sottovalutarli. Ma se
si considera un periodo di tempo più lungo, un secolo e mezzo, sembra che la
giustizia penale sia stata disposta, e in misura sempre maggiore, ad accogliere
queste forme di pensiero. Verosimilmente, la problematica psichiatrica ha
intralciato la pratica penale. Oggi sembra invece che la faciliti, permettendo
di lasciare nell'ambiguo il problema di sapere quello che si fa quando si
punisce. Lei osserva nelle ultime pagine di Sorvegliare e punire che
la tecnica disciplinare è diventata una delle funzioni principali della nostra
società. Il relativo potere raggiunge la sua più alta intensità nell'istituzione
penitenziaria. Lei dice d'altra parte che il carcere non è necessariamente
indispensabile a una società come la nostra poiché perde buona parte della sua
ragione d'essere tra i sempre più numerosi dispositivi di normalizzazione. E
quindi concepibile una società senza carcere? Questa utopia comincia a essere
presa sul serio da alcuni criminologi. Per esempio, Louk Hulsman, professore di diritto penale
all'università di Rotterdam, difende la teoria dell'abolizione del sistema
penale. Il ragionamento su cui si basa questa teoria si ricollega ad alcune
delle sue analisi: il sistema penale crea il delinquente, si rivela
fondamentalmente incapace di realizzare le finalità sociali che è supposta
perseguire, qualsiasi riforma è illusoria. L'unica soluzione coerente è la sua
abolizione. Hulsman osserva che la maggior parte dei reati sfugge al sistema
penale senza mettere in pericolo la società. Propone allora di decriminalizzare
sistematicamente la maggior parte degli atti e dei comportamenti che la legge
considera crimini o reati, e di sostituire al concetto di crimine quello di
«situazione-problema». Invece di punire e di stigmatizzare, tentare di regolare
i conflitti con delle procedure di arbitrariato, di conciliazione non
giudiziaria, considerare le infrazioni alla stessa stregua dei rischi sociali,
continuando a ritenere essenziale il risarcimento della parte lesa. L'intervento
dell'apparato giudiziario verrebbe riservato ai casi gravi o, in ultima istanza,
nel caso d'insuccesso dei tentativi di conciliazione e delle soluzioni di
diritti civili. La teoria di Hulsman è di quelle che presuppongono una
rivoluzione culturale. Che cosa pensa di questa idea abolizionista riassunta
schematicamente? Credo che siano molte cose interessanti nella tesi di
Hulsman, non fosse altro per la sfida che pone alla questione del fondamento del
diritto di punire dicendo che non c'è più niente da punire. Trovo anche
interessante il fatto che pone la questione del fondamento della punizione
tenendo conto nello stesso tempo dei mezzi attraverso i quali si risponde a un
qualcosa che è considerato come infrazione. In altre parole, la questione dei
mezzi non è semplicemente una conseguenza del modo in cui si sarebbe potuto
porre il problema del fondamento del diritto di punire, ma a suo modo di vedere,
la riflessione sul fondamento del diritto di punire e il modo di reagire a un
infrazione devono costituire un tutt'uno. Tutto ciò mi sembra molto stimolante,
molto importante. Forse non ho una conoscenza approfondita della sua opera, ma
mi sorgono alcuni dubbi. La nozione di «situazione-problema» non conduce
a una psicologizzazione sia dell'atto che della reazione? Una pratica come
questa non rischia, anche se non è ciò che spera Hulsman, di condurre ad una
specie di dissociazione tra le reazioni sociali, collettive, istituzionali del
crimine da una parte che verrà considerato un incidente e dovrà essere regolato
alla stessa stregua, e dall'altra, per quanto riguarda il delinquente, a una
iper-psicologizzazione che lo rende oggetto di interventi psichiatrici o medici,
con dei fini terapeutici? Ma questa concezione del crimine non porta anche
all'abolizione delle nozioni di responsabilità e di colpevolezza? Dato che nelle
nostre società il male esiste, la coscienza della colpevolezza (che secondo Paul
Ricoeur è nata presso i greci) non adempie una funzione sociale necessaria? E
possibile concepire una società completamente esonerata da ogni senso di
colpevolezza? Il problema non è sapere se una società può funzionare senza
colpevolezza, il problema è piuttosto stabilire se la società può far funzionare
la consapevolezza come principio organizzatore e fondatore di un diritto. Ricoeur
fa benissimo a porre il problema della coscienza morale, e lo pone da filosofo o
da storico della filosofia. È legittimo dire che la colpevolezza esiste, che
esiste da una certa epoca in poi. Si può discutere se l'origine sia greca o
meno. Ad ogni modo esiste e non vedo come una società come la nostra, ancora
così fortemente radicata in una tradizione che è anche quella greca potrebbe
esonerarsi dal senso di colpevolezza. Per molto tempo si è creduto di poter
direttamente articolare un sistema di diritto e una istituzione giudiziaria su
una nozione come quella della colpevolezza. Per noi invece la questione è
aperta. Attualmente, quando una persona compare davanti all'una o all'altra
istanza della giustizia penale, deve rendere conto non solo dell'atto vietato
che ha commesso, ma anche della sua stessa vita. È vero. Negli Stati
Uniti per esempio si è discusso molto sulle pene indeterminate. Credo che non si
ricorra più ad esse quasi dappertutto. Il loro uso implica una certa tendenza,
una certa tentazione che però non mi sembra che sia scomparsa: la tendenza a
indirizzare il giudizio penale molto più sull'aspetto in un certo senso
qualitativo che caratterizza un'esistenza e un modo di essere che, su un atto
preciso. In Francia è stata presa una misura riguardante i giudici che vigilano
sull'applicazione della pena. Si è voluto rafforzare (e l'intenzione è buona) il
potere e il controllo dell'apparato giudiziario sullo svolgimento della
punizione. Ma ecco il punto debole: ci sarà un tribunale composto da tre
giudici, credo, che deciderà se a un detenuto potrà essere accordata o meno la
libertà condizionale e questa decisione sarà adottata tenendo conto di elementi
tra i quali innanzitutto ci sarà l'infrazione principale in qualche modo
riattualizzata poiché la parte civile e i rappresentanti della parte lesa
saranno presenti e potranno intervenire. (Traduzione di Francesca Arra) Fonte: rivista
Volontà, Aprile 1990
di Foulek
Ringelheim
Tuttavia il sistema penale non cambia e la «chiacchiera
criminologica» prosegue immancabilmente. È come se si rendesse omaggio al
teorico dell'epistemologia giuridico-penale senza poterne trarre insegnamenti,
come se teoria e pratica fossero separate da una paratia stagna. Senza dubbio la
sua intenzione non è stata quella di fare opera di riforma, ma non si potrebbe
immaginare una politica contro il crimine che si basi sulle analisi e tenti di
trarne alcune lezioni?
Molto spesso, nelle riforme del sistema penale, si accetta
implicitamente e talvolta anche esplicitamente, il sistema di razionalità che
era stato definito e messo in pratica nel passato. E che si cerchi semplicemente
di sapere quali siano le istituzioni e le procedure che consentano di
realizzarne il progetto e raggiungerne i fini. Mettendo in risalto il sistema di
razionalità sottostante le pratiche punitive, ho voluto indicare quali fossero i
postulati logici che bisognava riesaminare se si voleva trasformare il sistema
penale. Non dico che bisognasse necessariamente liberarsene. Ma credo che sia
molto importante, quando si vuole fare opera di trasformazione e di
rinnovamento, sapere non solo che cosa sono le istituzioni e quali sono i loro
effetti reali, ma anche qual è il tipo di pensiero che li supporta: che cosa si
può ancora accettare di questo sistema di razionalità? Quali aspetti bisogna
invece accantonare, abbandonare, trasformare? Ho cercato di fare la stessa cosa
con la storia delle istituzioni psichiatriche. E in realtà sono rimasto un po'
sorpreso e un tantino deluso nel constatare che da tutto ciò non derivasse un
tentativo di riflessione e di elaborazione teorica che avrebbe potuto riunire
attorno allo stesso problema persone molto diverse tra loro, magistrati, teorici
del diritto penale, esperti dell'istituzione penitenziaria, avvocati, assistenti
sociali o comunque persone che hanno esperienza del carcere.
E vero, da
questo punto di vista, per motivi di ordine culturale e sociale, gli anni
settanta sono stati estremamente deludenti. Molte critiche sono state lanciate
un po' in tutte le direzioni. Spesso queste idee hanno avuto una certa
diffusione, talvolta hanno esercitato una certa influenza. Ma raramente si è
avuta una cristallizzazione delle questioni poste in un lavoro collettivo per
determinare quali fossero le trasformazioni da attuare. Ad ogni modo, per quanto
mi riguarda nonostante il mio desiderio, non mi è mai stata offerta la
possibilità di avere nessun contatto di lavoro con un professore di diritto
penale, un magistrato, né un partito politico. Lo stesso partito socialista,
fondato nel 1972, che ha avuto nove anni per preparare la sua ascesa al potere e
che fino a un certo punto ha riecheggiato nei suoi discorsi parecchi temi
sviluppati nel corso degli anni sessanta-settanta ha mai fatto un serio
tentativo per definire preliminarmente quale avrebbe potuto essere la sua azione
reale una volta al potere. Sembra che le istituzioni, i gruppi, i partiti
politici che avrebbero potuto dar avvio a un lavoro di riflessione non abbiano
fatto niente.
L'effetto è stato invece contrario e la prigione ha piuttosto
rinnovato i comportamenti di delinquenza. Quando l'effetto non coincide con il
fine, si hanno parecchie possibilità: o si attua una riforma o si utilizzano
questi effetti per un qualcosa che non era stato previsto all'inizio ma che può
benissimo avere un senso e un'utilità. Questo qualcosa potremmo chiamarlo l'uso:
così la prigione che non ha avuto effetti correttivi, è invece servita come
meccanismo di eliminazione. Il quarto livello di analisi è costituito da quelle
che potremmo definire configurazioni strategiche: a partire da questi usi in un
certo senso imprevisti, nuovi ma nonostante tutto, fino ad un certo grado
volontari, si possono costruire nuove condotte razionali, diverse da quelle del
programma iniziale, ma che rispondono pur esse a degli obiettivi e nell'ambito
delle quali possono collocarsi i giochi tra i diversi gruppi
sociali.
Il programma primo dell'istituzione, la finalità iniziale è
invece manifesta e funge da giustificazione, mentre le configurazioni
strategiche non sono chiare nemmeno agli occhi di coloro che vi occupano un posto
e vi svolgono un ruolo. Ma questo gioco può benissimo cristallizzare
un'istituzione e credo che il carcere sia stato cristallizzato, nonostante tutte
le critiche mossegli, perché parecchie strategie di gruppi diversi sono venute a
confluire in questo luogo particolare.
Invece di cercare i motivi di un fallimento infinitamente
rinnovato, lei si chiede a che cosa serve, a chi giova questo insuccesso
problematico. Si scopre così che la prigione è uno strumento di gestione e di
controllo differenziale degli illegalismi. In questo senso, invece di costituire
un fallimento è invece riuscita alla perfezione a specificare la delinquenza,
quella di ceti popolari, a produrre una determinata categoria di delinquenti, a
circoscriverli per meglio dissociarli dalle altre categorie di rei, provenienti
soprattutto dalla borghesia. Infine lei osserva che il sistema carcerario riesce
a rendere naturale e legittimo il potere punitivo legale, che lo naturalizza.
Questa idea è legata all'antica questione della legittimità e del fondamento
della punizione, poiché l'esercizio del potere disciplinario non esaurisce il
potere punitivo anche se è in questo che consiste, come lei ha dimostrato, la
sua funzione principale.
Ma questo non significa che la questione del fondamento della
punizione non sia importante. Su questo punto credo sia necessario essere nello
stesso tempo modesti e radicali, radicalmente modesti, e ricordarsi di quello
che diceva Friedrich Nietzsche più di un secolo fa, e cioè che nella nostre
società contemporanee non si sa più esattamente quello che si fa quando si
punisce e questo può in teoria giustificare la punizione: esercitando una
punizione lasciamo valere, sedimentate un po' le une sulle altre, un certo
numero di idee eterogenee che emergono da storie diverse, da momenti distinti e
da razionalità divergenti.
Quindi se non ho parlato del fondamento del
diritto di punire non è perché ritengo che non sia importante. Ripensare il
senso che si può dare oggi alla punizione legale, nell'articolazione tra
diritto, morale e istituzione, sarebbe invece sicuramente un compito
rilevantissimo.
E poi a integrazione gli elementi
di condotta del soggetto in carcere così come sono stati osservati, valutati,
interpretati, giudicati dalle guardie, dagli amministratori, dagli psicologi,
dal medici. E su questo insieme di elementi eterogenei che si fonderà la
decisione di tipo giudiziario. Anche se giuridicamente accettabile, bisogna
sapere che conseguenze di fatto tutto questo potrà determinare. E nello stesso
tempo rendersi conto che per la giustizia penale rischia di rappresentare un
modello pericoloso nel suo uso corrente, se effettivamente si prende l'abitudine
di formulare una decisione penale in funzione di una condotta buona o
cattiva.
La medicalizzazione della giustizia conduce a poco a poco a
un'evizione del diritto penale, delle pratiche giudiziarie. Il soggetto di
diritto cede il posto al nevrotico o allo psicopatico, più o meno
irresponsabile, la cui condotta sarà determinata da fattori psico-biologici. A
questa concezione alcuni penalisti oppongono un ritorno al concetto di punizione
che si concili meglio con il rispetto della libertà e della dignità
dell'individuo. Non si tratta di ritornare a un sistema di punizione brutale e meccanica che
astrarrebbe dal regime socio-economico nel quale funziona e ignorerebbe la
dimensione sociale e politica della giustizia, ma di trovare una coerenza
concettuale e di fare una netta distinzione tra ciò che compete al diritto e ciò
che compete alla medicina.
Credo in
effetti che il diritto penale faccia parte del gioco sociale in una società come
la nostra, e che non debba mascherarlo. Ciò significa che gli individui che
fanno parte di questa società devono riconoscersi come soggetti di diritto che
in quanto tali possono essere puniti e castigati se infrangono qualche regola.
Non vi è in questo, credo, niente di scandaloso. Ma è dovere della società fare
in modo che gli individui possano effettivamente riconoscersi come soggetti di
diritto. Cosa che è difficile quando il sistema penale in vigore è arcaico,
arbitrario, inadeguato ai problemi reali che si pongono a una
società.
Consideriamo per esempio il solo campo dei reati economici. Il
lavoro che si deve realmente fare a priori non consiste nell'iniettare sempre
più medicina o psichiatria per modulare questo sistema e renderlo più
accettabile. Bisogna ripensare il sistema penale in sé. Non auspico con questo
un ritorno alla severità del codice penale del 1810. Auspico invece un ritorno
all'idea seria di un diritto penale che definisca chiaramente ciò che in una
società come la nostra può essere considerato passibile di punizione o meno,
persino un ritorno a un sistema che definisca le regole del gioco sociale.
Diffido di coloro che vogliono tornare al sistema del 1810 con il pretesto che
la medicina e la psichiatria fanno perdere il senso della giustizia penale. Ma
diffido anche di coloro che pur sistemandolo, migliorandolo e attenuandolo con
delle modulazioni psichiatriche e psicologiche, in fondo
l'accettano.