Fuchu, che pena
di Renata Pisu
22 febbraio 2003

Obbligati a mangiare come cani, con l'addome stretto da cinture "a manetta". Un film tratto da un fumetto finalmente alza il sipario su come vengono trattati i detenuti nel megacarcere di Tokyo

Camminano in fila per uno cadenzando il passo, le braccia rigide, lo sguardo fisso sulla nuca del compagno che 1i precede: vestono un'uniforme di tela verde, ai piedi sandali senza calze, silenziosi si avviano alla mensa. Sono i carcerati della prigione di Fuchu che sorge alla periferia nord-ovest di Tokyo e che ospita tremila detenuti.
     In Giappone fino a oggi nessuno si è mai occupato di loro perché, una volta oltrepassata la soglia del carcere, cala il sipario, nessun giornale scrive dei casi di suicidio che pure sono numerosi, né degli scioperi della fame, tanto meno dei tentativi di evasione, d'altronde rarissimi, come se tutti i detenuti giapponesi fossero detenuti modello e il sistema penitenziario vigente nel Paese il non plus ultra della perfezione.
     Ora però un film appena uscito e intitolato In carcere, sta facendo scalpore. Denuncia la totale disumanità del trattamento subito dai 67 mila detenuti delle 74 case di pena del Paese. Ispirato a una storia a fumetti (i fumetti giapponesi trattano anche di questioni serie) disegnata da un ex carcerato, Kazuichi Hanawa, il film rivela le regole, gli usi e gli abusi di un universo concentrazionario che impone una disciplina arcaica di tipo militaresco: proibito parlare, se non quindici minuti dopo il pasto serale, proibito girare lo sguardo, bisogna tenere sempre gli occhi fissi davanti a sé. Obbligatorio rivolgersi alle guardie con un profondo inchino e chiamarle "Signor responsabile", obbligatorio sottoporsi due volte al giorno alla perquisizione personale che i detenuti chiamano, come racconta Hanawa, il "French Can Can" in quanto movimenti da eseguire ricordano il famoso ballo: completamente nudi, i carcerati devono alzare prima la gamba destra e il braccio sinistro, poi la gamba sinistra e il braccio destro mostrando la lingua. Se sbagliano l'ordine della sequenza devono ricominciare da capo. Terribile è il trattamento di rigore in cella di isolamento che può durare per mesi e anni e che ha provocato, negli ultimi tempi, la morte di cinque detenuti per emorragia interna dovuta all'uso della "cintura a manette" che viene stretta il più possibile alla vita comprimendo l'addome e impedisce insieme l'uso della mani che non arrivano fino alla bocca; così, quando viene servito il pasto, i prigionieri possono soltanto mangiare alla maniera dei cani, tuffando la faccia nella ciotola. Racconta Hanawa che in cella di rigore si ha diritto soltanto a mezz'ora di esercizio fisico tre volte la settimana: per tutto il resto del tempo bisogna stare seduti sui talloni e guardare fisso davanti a sé. Pare che siano all'incirca duemila i detenuti sottoposti a questo regime di rigore, ventisei da più di dieci anni, uno da oltre trent'otto anni. Lo ha rivelato il Centro per i diritti dei detenuti che si è costituito nel 1999, dopo che la Commissione per i diritti dell'uomo delle Nazioni Unite aveva clamorosamente denunciato il sistema carcerario nipponico per gravi violazioni dei diritti dei detenuti.
     L'opinione pubblica giapponese, che ha da sempre accettato la durezza della pena carceraria perché il crimine sarebbe sinonimo di una perdita di senso morale che giustificherebbe una sorta di autopurificazione attraverso la sofferenza, oggi si ribella a questa concezione, legge con orrore il fumetto carcerario di Kazuichi Hanawa, si commuove fino alle lacrime nelle sale dove si proietta il film che ne è stato tratto. Non un bel film, ma un film "necessario", come fu "necessario" il film francese di André Cayatte Giustizia è fatta (1950) che tanto contribuì all'abolizione della pena di morte in Europa. Pena di morte che nel Paese del Sol Levante ancora è in vigore, anche se non se ne discute apertamente, almeno finora. Reklama: seo paslaugos kaina


Fonte: pubblicato il 22 febbraio 2003 su D, la Repubblica delle Donne, supplemento de la Repubblica.