Quattro anni in clima di guerra
di Roberto Guadagnuolo
Lettera a Giuliano Capecchi di Liberarsi (dalla necessità del carcere), settembre 1999

Gentilissimo Giuliano, ho ricevuto oggi la tua graditissima lettera e in un momento veramente difficile per il sottoscritto. Sono quasi 4 anni che sono sotto, e come forse saprai, vissuti in un clima di guerra.
     Spero che la mia umile penna possa trasmettere a te e nel caso fosse pubblicata su "Liberarsi", ai lettori, le mie vicissitudini, o meglio le indicibili sofferenze che mi hanno procurato i secondini. Ho incominciato l'espiazione della mia pena nel tristemente famoso carcere di Sollicciano. Lì sono incominciati i miei primi problemi. Un giorno mi chiama il medico di reparto, dottor Del Vecchio e mi dice: "Lei, Guadagnuolo, a visita medica da me non viene più; quando si sente male, chiami il medico di guardia". Io di rimando gli dissi: "Scusi, dottore per quale motivo?" e lui: "Guadagnuolo, non mi faccia ripetere le cose; se ne vada o la faccio prendere a calci nel culo". Non ci ho pensato due volte: mi sono levato una ciabatta e gliel'ho tirata nel muso; poi gli ho dato una spinta. Sono arrivate le guardie e anche lì è volato qualche schiaffo di troppo. Sta di fatto che il giorno dopo ero partente per Livorno. Arrivato alle Sughere, mi si avvicina un brigadiere e mi dice: "Qui non siamo a Sollicciano, qua ti si spacca le ossa". Pensai tra me e me: s'incomincia bene ...
     I primi giorni passarono tranquilli, poi anche lì i soliti problemi.
     Un pomeriggio ero in cella a leggere. Sento bussare con le chiavi al cancello e mi vedo la guardia che con accento sardo mi dice: "Guadagnuolo, stai disturbando la sezione, abbassa il volume".
     Stupito per il fatto che la televisione era spenta, gli risposi: "Guardi, agente, sarà il televisore di un'altra cella. In questa, la mia è spenta". Lui si alterò e mi disse: "Lei sta marcando male, Guadagnuolo, ti farò piangere". Essendo un impulsivo per natura, mi alzai di scatto dal letto e cercai di tirargli uno schiaffo dalle sbarre, ma non lo presi. Il giorno dopo mi chiamò l'ispettore Spalletta che devo dire era una brava: persona e mi comunica che l'agente mi aveva denunciato. Parlai con lui a lungo spiegandogli come erano andate le cose. Lui capì e nel giro di quindici giorni fui trasferito per opportunità al carcere di Prato. A Prato non era malaccio e vi trascorsi alcuni mesi relativamente tranquilli. Parlavo tutte le settimane con lo psichiatra e raccontandogli le mie problematiche, un bel giorno fui trasfèrito all'O.P.G. di Montelupo Fiorentino in osservazione.
     Fui traumatizzato da quella esperienza. Dopo circa 30 giorni mi rispedirono di nuovo a Prato. Nei giorni a seguire incominciai a bere (quella schifezza di vino che passano nel carcere) insieme ad un amico e un sorso dietro l'altro terminò "l'acqua di fuoco", così si decise di chiedere ad un "amico" qualche boccino di vino. Ci fece la negativa, nonostante nell'armadietto ne avesse un'abbondante scorta. Francamente ci si rimase male ed io alzai la voce rimproverandolo. Ad un tratto mi sentii arrivare una forte botta dietro la schiena e nel girarmi vidi un brindellone di secondino rosso di capelli e pieno di lentiggini che mi urlava minaccioso d'uscire dalla cella dell'Ğamicoğ ... Non feci discorsi: gli diedi un diretto destro buttandolo KO. Si rialzò e scappando per la sezione andò a chiamare rinforzi. Ne arrivarono altri quattro di corsa per farmi il "Sant'Antonio".
     Non so come feci, ma ebbi la meglio. Arrivò per mia fortuna la direttrice Toccafondi, la quale mi invitò a scendere all'isolamento. Io non volevo andare, in quanto sapevo che lì avrei trovato la squadretta. Ma lei mi assicurò che nessuno mi avrebbe toccato e così fu. La mattina dopo ero partente per Porto Azzurro e lì, caro Giuliano, incominciò il mio calvario. Come arrivai all'entrata mi vidi un esercito di secondini in assetto antisommossa. Non so quel giorno quante botte presi. Mi aprirono la testa con pezzi di ferro, mi incrinarono una costola ... insomma ero messo male.
     Mi ritrovai sul letto di contenzione e ammanettato così forte che dopo alcuni giorni il ferro delle manette mi era entrato nelle carni. Per un mese fui tenuto isolato e i primi 10 giorni tutte le mattine puntuali entravano e mi massacravano. Buttavo sangue da tutte le parti.
     Un giorno mi arriva il colloquio. Viene su il comandante, il quale mi diceva: "Come va brutto figlio di puttana? Ora ti si slega e vai al colloquio, brutto camoscio di merda". Mi levarono le manette e mi fecero vestire; avevo in corpo ancora in po' di forze e con uno scatto riuscii a colpire al volto quel maledetto comandante, facendolo crollare per terra.
     Feci l'ultima delle mie; ripresi altrettante botte e saltai il colloquio.
     Non mi nascondo: quella volta ebbi veramente tanta paura; ero convinto che mi avrebbero impiccato. Per fortuna un giorno sento una guardia che mi disse: "Guadagnuolo, è partente, si prepari".
     Fu un giorno che ricorderò con felicità. Mi riportarono a Montelupo Fiorentino all'O.P.G.
     I dottori mi diagnosticarono un grave disturbo esplosivo della personalità e così mi applicarono l'art. 148.
     Passai i primi 6 mesi in coma per quanti psicofarmaci mi propinavano. Ero diventato il fantasma di me stesso. Stavo dimenticando che l'artefice del mio trasferimento da Porto Azzurro all'O.P.G. fu il gentilissimo dottor Alessandro Margara. E questa direttiva che veniva dall'alto, non è mai stata digerita dal direttore sanitario di Montelupo, dottor Franco Scarpa, il quale non perdeva occasione per aggredirmi tra le righe e ricordandomi che appena avrebbe potuto, mi avrebbe rispedito in carcere.
     Difatti poco tempo fa, dopo un disguido con un dottore (dermatologo), mi innervosii e sbattei nel muro un carrello porta bibite. Arrivarono un gruppetto di guardie male intenzionate; non feci discorsi: ruppi un tavolino e poi gli levai una gamba. Le guardie tornarono tutte indietro.
     Corsi in cella e presi una lametta per tagliarmi nel caso venissero rinforzi.
     Salì il dottor Scarpa, mi caldeggiò di recarmi in medicheria; io annuii col capo e ci si mise a discutere. Nel frattempo vidi dietro la porta semi chiusa, una valanga di guardie. Mi ricordai Porto Azzurro. A quel punto dissi al direttore che se le guardie non fossero uscite, lui non si muoveva da lì. Siamo andati avanti per 2 ore a discutere. Chiarito il tutto, tornai in cella.
     Alcuni giorni dopo, avevo una udienza in Pretura. Finito il processo, mi ammanettarono e ci si incamminò verso il cellulare e mentre stavo salendo arrivano due secondini di Sollicciano che non facevano parte della scorta e mi danno una forte spinta, facendomi scivolare sul furgone. Ho cercato di reagire, ma ammanettato, non potei fare niente. Poi a spintonarmi ci si mise anche un agente della mia scorta di nome Paradiso. Arrivato all'O.P.G., ero incazzato nero. Mi fecero una doppia puntura per tranquillizzarmi, ma volevo protestare per il maltrattamento, così mi vollero far legare.
     Mentre mi incamminavo nella stanza dove si trovano i letti di contenzione, incrociai l'agente Paradiso e in modo concitato gli dissi che non era giusto maltrattare così le persone. Lui non ha fatto discorsi: mi piglia e mi dà un paio di spinte; io non mi reggevo in piedi per la puntura fatta, ma riesco a dargli un leggerissimo pugno.
     Per farla corta, dopo 2 giorni viene la squadretta mentre dormivo e con calci e pugni mi trasferiscono all'O.P.G. di Reggia Emilia. Qui, per ora, è ferma la mia storia.
     Ciao Giuliano
Roberto Guadagnuolo



Fonte: Liberarsi (dalla necessità del carcere), anno XIII, numero 3, settembre 1999



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