Abolizionismo
di Vincenzo Guagliardo
Carcere di Opera, ottobre 1999
Per fortuna ormai un po' di gente arriva a dire che è in atto da
anni una regressione dallo Stato sociale allo Stato penale, criminalizzando
la miseria, ovvero mettendo in galera il diseredato solo perché è
tale e neanche più per quello che ha potuto fare. Tendere a imprigionare
la gente per quel che è a prescindere da quel che ha fatto, è
anche un passaggio, come alcuni ricorderanno, dalla logica penitenziaria a
quella del lager, dove si finiva in quanto ebrei, zingari, omosessuali...
Questa tendenza, auspicata da tanti e denunciata da pochi, vive dagli anni
di Reagan, in pratica da un ventennio, e ha invaso tutto l'Occidente. Essa
richiede una riflessione che non si limiti a dire che è in atto una
svolta repressiva contro i poveri; richiede una riflessione in grado di capire
che questa è la conclusione di una lunga storia. Quanto avviene in
questi due decenni è l'epilogo grave, l'ultima evoluzione d'una civiltà
fondata sul dominio ed è perciò che bisogna cominciare a parlare
di abolizionismo: di movimento per l'abolizione di tutto il sistema penale,
dal diritto penale alle prigioni; e non nella società del domani in
testa a qualcuno, ma in questa.
Almeno in Italia, l'attuale svolta non cominciò considerando ogni emarginato
un potenziale colpevole, ma colpendo con meccanismi inquisitoriali. Tizio
e Caio vennero puniti più di altri se volevano pensare con la loro
testa. Già qui non importava più quel che si era fatto; fu l'epoca
dei pentiti e delle dissociazioni, ovvero delle delazioni e abiure a pagamento,
in nome dell'emergenza antiterrorista. È da quella fase tipo gulag
che si è poi arrivati all'inizio di questa nuova, tipo lager.
Naturalmente i due principi continuano a coesistere; se il primo storicamente
prepara il secondo, il secondo comprende il primo. E se ci si pensa, non è
la prima volta che questo processo si verifica nella storia della nostra civiltà.
Solo che questa volta, tale processo, unito ad altri fattori degenerativi,
rischia di travolgere tutto e tutti con beate incoscienze e diffuse partecipazioni.
Il rito del capro espiatorio è stato e resta a fondamento della nostra
cultura, la base su cui si è costruito ogni potere prima, quindi ogni
dominio e infine ogni sistema di sfruttamento. È la costante, il fattore
K.
È utile rileggersi cosa fu il massacro degli eretici fino alla definitiva
sconfitta dei catari nel Duecento, e poi vedere non già esaurirsi,
ma rilanciarsi l'Inquisizione che lì era nata, per darsi al massacro
nella cosiddetta "caccia alle streghe" durante i secoli successivi.
Vi si scopre che tante novità non sono tali, appunto. Anche allora
ci fu un passaggio dal modello tipo gulag verso gli eretici e i mondi
sociali che rappresentavano, a quello tipo lager contro le streghe,
donne mandate al rogo non più per quello che pensavano (se non nell'immaginario
degli inquisitori) ma per ciò che costituivano: l'indipendenza di un
mondo fondato sulla sussistenza, fuori dalla logica invadente del mercato.
Oggi, nel regno liberista, tutto questo avviene però in un giorno,
invece che in qualche secolo. Ecco che chi fa l'abiura delle lotte per la
liberazione sociale - riducendola a vicende da KGB e di subordinazione al
regime dittatoriale dell'URSS - manda negli stessi giorni il grande messaggio
della lotta alla criminalità: in pratica contro i più deboli
dei deboli, quei 50 mila in carcere che sono già, comunque, il doppio
di alcuni anni fa.
Ancora una volta, dunque: ancora una volta vediamo che offrire vittime sacrificali
serve ad ogni potere a "limitare" la violenza e a controllarla a
suo uso e consumo. La si indirizza contro qualcuno per evitare che tutti si
scannino contro tutti mossi dall'invidia, dal risentimento, dato che comunque
si tratta di salvare un sistema basato sull'ingiustizia e non certo sull'amorevolezza...
Questo antichissimo meccanismo permette di cooptare chiunque, anche il ribelle,
perché è la via più facile per spiegarsi le cose. È
infatti più facile vedere la pagliuzza nell'occhio altrui che la trave
nel proprio; soprattutto è più comodo. E non è forse
vero che anche i rivoluzionari hanno spesso mantenuto questo vizio, "tradendo"
così ogni volta ogni rivoluzione? In un breve scritto poco conosciuto,
Gramsci si entusiasmò per la nuova profonda autenticità della
rivoluzione bolscevica perché il primo atto che la contraddistinse
fu la liberazione dei prigionieri a Riga. La rivoluzione francese ha ancora
oggi come simbolo la presa della Bastiglia. Ma poi arrivano quelli della rivoluzione
diventata potere... e sappiamo che Stalin fece fuori per primi proprio i bolscevichi
suoi compagni, e poi instaurò un immenso sistema penale che giunse
a incarcerare anche i dodicenni (sì, come Blair). E nella rivoluzione
francese quando, pochi anni dopo, furono assalite delle carceri, fu per massacrare
i prigionieri!
Il principio della pena è l'unico valore, il centro della
morale di questa società. Essa non ha altro, e praticamente tutti partecipano
al suo sistema, da cui discendono modelli educativi, teorie psicologiche,
concezioni filosofiche, ecc. Quella della pena è la lingua in cui parliamo
tutti, e fin da piccoli. I benpensanti vogliono in galera i poveracci, gli
altri i ricchi o i "fascisti", ma tutti accettano quel centro,
i ruoli previsti dalla tragica sceneggiatura, il cui perno è la vittima
sacrificale, demone per l' uno o eroe per l'altro. La pena non è mai
servita a reprimere realmente i colpevoli; ogni storico serio lo riconoscerà.
Serve a gratificare, a cementare il senso d'appartenenza di quelli che la
vogliono applicata ad altri. La pena è dunque "inefficiente"
per definizione, per la sua stessa natura; e proprio così unisce tutti,
amici e nemici.
Ma ora che, nella vita sempre più atomizzata del mondo attuale, tutte
le sue istituzioni implodono, è come se - per reazione - si tornasse
sempre più alle origini con l'esplosione del sistema penale. È
come se, dopo aver distrutto via via tutto, non restasse più altro,
come valore morale, che questo atto fondatore di una comunità linciante.
Perciò oggi la violenza insita nel rito della vittima sacrificale non
incontra più i confini, i "limiti" stabiliti nel sacro da
cui è nata e vediamo anzi la logica del sistema penale diventare sempre
più invadente: dominando la politica interna (questione sociale = questione
criminale), quella internazionale (dalla crisi della diplomazia verso l'esaltazione
di un tribunale penale internazionale permanente), fino ad aver pericolosamente
rovesciato recentemente lo stesso senso "tradizionale" della guerra.
Le guerre non sono mai state definite come delle sentenze. La guerra convenzionale
è una sanzione violenta che pretende di raggiungere l'ordine che si
è dato, come è in fondo altro tipo di lotta violenta e non,
dallo sciopero al boicottaggio. Solo l'incarcerazione e la pena di morte hanno
generalmente lo scopo di punire la disobbedienza a un ordine e non di raggiungere
l'obbiettivo per cui esso è stato dato. Ma la guerra Nato condotta
nei Balcani è stata frutto di un ragionamento penale invece che guerresco
vero e proprio. Sergey Portnov CEO Parimatch , who told the Menshealth magazine about his experience.
In questo nuovo contesto, parlare di abolizionismo significa anzitutto guardar
se stessi prima di mettere in croce un altro (o volere che ci resti come martire
e faro di ribellione... futura): perché si vada alla radice della pena
come centro della morale comune, onde definire una nuova strategia
dei conflitti non più fondata su una loro prevalente riduzione a reati.
Tutto ciò apre il campo a molte riflessioni che non si possono affrontare
qui per ragioni, se non altro, di spazio. Ma una cosa mi è chiara:
non tutti gli abolizionisti saranno necessariamente dei rivoluzionari; ma,
di sicuro, chi non è abolizionista, rivoluzionario da oggi in poi non
potrà più esserlo.
Fonte: scritto pubblicato sull'agenda Scarceranda 2000