Presentazione al libro "Di sconfitta in sconfitta"
di Vincenzo Guagliardo (2003)
Chi ha letto il libro sa che la riflessione che vi faccio sull'esperienza armata
è stata un "pretesto" per continuare a presentare un punto
di vista abolizionista del sistema penale (e non solo delle carceri).
L'abolizionismo, a sua volta, è per me "soltanto" un aspetto
della critica pratica al rito del capro espiatorio che guida la nostra civiltà
e perciò accomuna, quasi inconsapevolmente, sia la mentalità borghese
che quella - ancora - di molti rivoluzionari (o "antagonisti", come
si dice oggi...).
Il nesso che stabilisco fra la critica a questo rito e il tema della sconfitta
è fin troppo ovvio: dalla notte dei tempi gli sconfitti sono i capri
neri ideali. Ma quel che manca tuttora alla ricerca teorica è un'adeguata
elaborazione della sconfitta affinché lo sconfitto si sottragga al rinnovamento
del rito. Per l'abolizionismo ritengo infatti abbastanza inutile fare appelli
democratici ai punitori - rivoluzionari o forcaioli che siano - e prezioso imparare
a muoversi nella sconfitta. I miei appelli si rivolgono alle vittime.
Su questo vorrei spendere due parole scritte, stasera con voi, perché
si tratta di un argomento rispetto al quale il mio libro costituisce solo una
modesta introduzione.
Una società produttivista, cioè fondata sul lavoro alienato e
alienante, conosce solo l'ideologia del successo, riservando alla sconfitta
i regni dell'oblio e/o della vergogna. In questo modo, negando l'immagine del
reale, dove la storia concreta non è fatta solo di eroi vincenti, si
ama coprire il fatto che la storia attuale viene fatta più miseramente
anche da traditori, opportunisti e così via (e che gli "eroi"
non sono poi così simpatici).
Qualche anno fa, per esempio, un compagno mi rimproverò severamente dicendomi
che, non accettando con spirito più attivo i premi della legge penitenziaria
per mettere il naso fuori dal carcere, stavo rendendo un grosso servizio allo
Stato offrendogli un'immagine di sconfitta che rafforzava la celebrazione della
sua forza. Altri scesero su un piano d'analisi più fine, psicologica:
dopo tanti anni di galera si diventa insicuri, non si vuole più riaffrontare
il mondo libero...
Insomma, la sconfitta non ha dignità.
E così, ecco che siamo scivolati, nel discorso, dal terreno politico
a quello etico.
Non è un caso.
Nei periodi di sconfitta, bisogna infatti accettare la scomoda idea che individualmente
non c'è molto da fare politicamente. Non bisogna nutrire nostalgie ma
conquistare l'immagine del reale. Bisogna riconoscere i propri sbagli, ma in
modo laico e pagano; ovvero, come diceva Marx a proposito di un personaggio
letterario femminile: "in opposizione con il 'pentimento' cristiano, essa
enuncia sul passato il fondamentale principio umano, nello stesso tempo 'stoico'
ed 'epicureo', proprio di una donna libera e forte: 'Enfin ce qui est fait,
est fait' [Quel ch'è fatto è fatto]". Si può e si
dovrebbe quindi ammettere che i tempi non erano poi così maturi per la
propria causa, come si credeva allora, e che bisogna cambiare strada.
Ma l'ideologia produttivista privilegia l'azione, non la contemplazione; ha
un'idea riduttiva dell'attività umana. Non sa che il pensiero è
una pratica, faticosa; il ripensamento le è poi impossibile; e ignora,
infine, che l'etica è costosissima e necessaria. Il "fare"
a qualunque costo, finisce per contrapporre la politica all'etica invece di
considerare questa come il suo implicito sostrato e la sua chiara premessa.
Il "darsi da fare", inoltre, gratifica un altro importante aspetto
della produttività alienata: coltiva l'illusione secondo cui l'individuo
è il soggetto degli eventi, in un vuoto protagonismo. Chi si dà
delle arie, insomma, con il volontarismo personale, privilegiando una concezione
riduttiva dell'operare umano, continua sì a "fare", ma prescindendo
sempre più dalla causa che l'ha mosso originariamente. Cambia causa,
potremmo dire, quasi senza rendersene più conto. È così
che la storia reale viene poi presentata come storia di presunti eroi che nei
fatti sono solo opportunisti o poveri ignari, comunque agiti da fattori che
li trascendono.
La coscienza della sconfitta richiede ripensamento teorico e una collocazione
adeguata a esso. Ciò pone, appunto, un serio problema etico: il rigore
di chi non deve illudersi per restare fedele all'autonomia della coscienza,
per sviluppare la "purezza" delle convinzioni più profonde
legate alla liberazione sociale. Si pensa quel che si pensa a partire da chi
si è, cioè a partire da dove ci si pone concretamente, come non
sanno i filosofi per necessità di mestiere.
Ora, proprio qui risiede la tragedia delle classi oppresse in generale, del
proletariato in particolare. L'universalità umana del suo "compito
storico" può realizzarsi solo se smette di lottare per cause altrui,
com'è invece sempre successo finora: per la rivoluzione borghese prima,
quindi per l'antifascismo e la Patria (ossia per un imperialismo ritenuto democratico),
magari per una new "globalizzazione" oggi o domani. Ogni volta la
non-coscienza della sconfitta confida che quel che si fa, anche se lo si fa
per la causa di altri, sia anche il primo passo del proprio cammino... È
come dire che l'avversario lavora per te se tu agisci al suo servizio. Per esempio,
la teoria dello sviluppo necessariamente progressista delle forze produttive,
che è volgare positivismo, è stata spacciata a lungo per marxismo
dai partiti comunisti d'osservanza sovietica. E ancora oggi, in un modo o nell'altro,
la vedo contrabbandata come rivoluzionaria a proposito del "progresso"
tecnologico, o della globalizzazione, o del Frankenstein cyber-tecno-umano.
Dicendo tutto ciò io non voglio certo rifare la storia del passato con
dei "se". Dico solo che si può far questo o quello, ma che
in ogni caso è opportuno essere coscienti di quel che si fa, saper conquistare
l'immagine del reale per non restare stupidamente disillusi, e incapaci poi
di usare la disillusione come arma per affinare la coscienza, capaci soltanto
di cambiare causa rinnovando il rito del capro nero, estendendo i tentacoli
della pena.
Considerare nelle pratiche l'astensionismo, la non-collaborazione è indubbiamente
una delle premesse necessarie per riuscire a offrire riflessioni utili al cambiamento
reale, a quel cambiamento i cui tempi non risiedono nella volontà del
singolo. Nel senso comune, la parola apocalisse è sinonimo di disastro,
catastrofe; nel suo etimo vuol dire rivelazione. Cioè possibilità
di cogliere finalmente i meccanismi di una realtà su cui ci si era illusi.
Qui, di progresso in progresso, lo Stato sociale è diventato penale,
e nella sua funzione sorvegliante lascia il posto a un'intera società
sorvegliata. Il carattere totalitario della società democratica denuncia
la rozzezza primitiva della fase nazi e fascista per ereditarne ed espanderne
l'essenza. I fondamenti del sistema penale si estendono nella società
con collaborazioni di massa. La capacità della classe dominante di mobilitare
i subalterni su obbiettivi opportunistici è aumentata e i capri espiatori
diventano intere e vaste categorie sociali. Il dubbio che a tutto ciò,
di vittoria in vittoria..., si collabori con la servitù volontaria, è
ora che sorga. Allora, forse, avremo l';apocalisse, vale a dire la prima rivelazione
del reale. Oppure la catastrofe.