Sfidare zone rosse o sottrarsi alle zone grige?
di Vincenzo Guagliardo
Carcere di Opera, agosto 2001
La teoria abolizionista del sistema penale si è diffusa nell'Europa
del Nord ed è ancora poco conosciuta in quella meridionale. In Italia
in particolare, la critica del diritto è anzi dominata dalla scuola
del «diritto penale minimo». I minimalisti sono in generale degli
accademici che, per ciò stesso, fanno parte a pieno titolo del sistema
penale (università, contributi al potere legislativo ecc.). Attualmente,
per esempio, uno dei più noti minimalisti, il prof. Eligio Resta, è
presente nell'organo supremo del potere giudiziario - il Consiglio superiore
della magistratura (CSM). Anche un'associazione come Antigone, che da anni
difende i diritti dei detenuti, è largamente orientata in senso minimalista.
Chi, non importa se in nome del realismo verso l'«inevitabile»
o della fede verso ciò che sarebbe «giusto», accetta o
difende l'idea di pena come forma di sanzione, si pone però necessariamente
come difensore della violenza politica. L'abolizionismo ritiene che il conflitto
sia invece positivo in sé, e che perciò sia possibile, liberandolo,
farlo evolvere verso forme sempre più coscienti, ossia meno alienate
e violente. Esso si presenta dunque come esempio di strategia non-violenta
per la soluzione dei conflitti. E proprio qui, di fronte alla questione
della violenza e dei suoi tanti inconsci sostenitori, sorgono le difficoltà
di comprendere questo movimento: se è relativamente semplice immaginare
una pratica non-violenta, più difficile è elaborare un sistema
di pensiero libero dalla violenza.
I minimalisti, per esempio, si presentano come una nuova scuola di riformatori.
D'altronde ogni riforma si presenta come novità; e tutta la storia
dell'evoluzione del sistema penale vive anzi delle teorie dei riformatori
volte a umanizzare-ridurre la pena mentre proprio così, in realtà,
la pena si estende sempre di più quale assurda volontà di dis-soluzione
dei conflitti. Anche Beccaria e John Howard erano dei minimalisti del loro
tempo, e perciò sono i fondatori del sistema penitenziario moderno
nel diciottesimo secolo. La pena funziona infatti esattamente come un cancro;
è così che si rinnova, si estende e coopta sempre nuove figure
nel suo sistema, aumentando in pari tempo i suoi fallimenti rispetto agli
intenti dichiarati dai suoi teorici riformatori. Spunti una pena di qua, e
rispunta di là in altra forma, insidiosa come le metastasi del cancro.
Ad alcuni dei sempre nuovi riformatori umanizzanti dobbiamo ormai anche concetti
come quello di premio che cancella già di per sé, per definizione,
il concetto di diritto, in nome di una contorta teoria della «flessibilità»
della pena: che elimina quindi ogni «certezza» non già
della pena, ma del diritto. Il risultato è che sono aumentate le lunghe
pene, quindi il numero complessivo dei reclusi, e infine i tipi di pena.
Di fronte a questo fenomeno tumorale poco più che bicentenario la proposta
pratica abolizionista è, almeno all'apparenza, quanto mai moderata:
spostare sempre più la sanzione dal campo del diritto penale a quello
civile. Ma dietro a questa moderata proposta c'è l'abbandono di una
mentalità punitiva, c'è uno sguardo che prova a interrogarsi
invece di trovare ogni volta un capro espiatorio, l'«altro» su
cui riversare ogni spiegazione della «situazione-problema» (termine
di Louk Hulsman): ciò mette in discussione una civiltà, vale
a dire la sua cultura. Lo scopo del sistema penale è infatti quello
di... fallire riguardo a quanto dichiara di voler realizzare; in questo fallimento
esso non solo paradossalmente si estende sempre di più, ma funge da
cemento morale della comunità, costruisce il centro della sua scala
di valori: il perpetuarsi del rito del capro espiatorio per ricostruire il
senso di appartenenza alla comunità. Solo che via via, il «Tutti
contro uno (per salvare il tutto)» va diventando «Tutti contro
tutti (che minaccia il tutto)»...
Qualche superficialone potrebbe già pensare, in base a quanto ho detto
fin qui, che la colpa della mancanza di un movimento abolizionista in Italia
sia da attribuire ai minimalisti, dato che essi costituiscono la teoria stessa
del sistema penale. No, la responsabilità principale di una tale situazione
è da attribuire invece proprio ai «rivoluzionari», agli
«antagonisti», alla sinistra in generale: a tutti coloro cioè
che affermano di militare contro le ingiustizie sociali e le logiche repressive.
Essi non sono all'altezza di quel che credono di essere già, e non
si distinguono affatto dai minimalisti che lavorano alla costante autoriforma
del sistema penale. Del resto, i minimalisti fanno anch'essi parte di questo
movimento.
Lungo è l'elenco delle responsabilità anzitutto, potremmo dire,
per omissione di soccorso. Provo ad elencarne alcune.
Ecco una classica litania di sinistra: in galera ci stanno le persone sbagliate
(i poveri invece dei ricchi, o i comunisti invece dei fascisti, ecc.): l'essenziale
è salvaguardare l'istituto della galera, e dietro a essa il bisogno
profondo del capro espiatorio, centro morale dell'inconscio collettivo della
civiltà attuale. C'è così un dato di fatto in Italia:
il paese europeo che ha forse conosciuto le maggiori esperienze di protesta
sociale (con il più grande PC d'Occidente, il più vasto movimento
d'estremismo di sinistra ecc.) è tra quelli con le più lunghe
pene da scontare, uno dei più indietro nel rispetto dell'affettività
dei carcerati, e ora abbiamo raggiunto il traguardo dei 100 detenuti per centomila
abitanti in una prospettiva che promette solo di peggiorare verso il modello
americano. E tutto questo con una legge penitenziaria fra le più premiali
d'Europa, che lascia imperare un arbitrio ai confini della follia. Un simile
risultato dimostra che in Italia l'opposizione è stata quanto mai ambigua
sul fronte punitivo.
I meccanismi di cui si sta qui parlando in modo necessariamente schematico,
sono molto sottili. Intanto, anche fra i militanti più radicali, l'istituzione
penale viene vista come una questione tra tante altre, non certo come una
priorità, dato che nessuno riconosce in essa il più grande monumento
eretto per celebrare la religione comune che guida l'inconscio collettivo
della società. Ma ecco che anche chi decide di mobilitarsi sul carcere,
per esempio, individua in generale sempre delle priorità a mio avviso
sbagliate. Vengono ignorati proprio i casi più significativi, la base
dell'iceberg, e ci si muove solo sugli aspetti che coinvolgono i grandi numeri.
Ci si preoccupa per esempio (giustamente, per carità) della grande
massa di reclusi che entrano ed escono e rientrano in galera, ma si trascura
completamente che tutto ciò è il risultato del fatto che in
Italia c'è una minoranza in aumento di persone che scontano pene tra
le più lunghe d'Europa. La differenza tra i primi e i secondi è
che quelli sono considerati meritevoli di comprensione (emarginati innocenti)
mentre questi hanno spesso compiuto atti considerati odiosi. Eppure non ci
vuole molto a capire che se si abolisse il vertice della scala (l'ergastolo),
anche tutte le altre pene andrebbero a scalare. In Germania l'ergastolano
finisce la sua pena dopo 15 anni, in Francia dopo 19, in Svizzera
e in Europa del Nord prima ancora. Qui da noi capita d'incontrare un non
ergastolano in carcere ancora dopo 30 anni (devo però dire che da qualche
tempo va in permesso...). Non è forse poi un luogo comune dire che
i «terroristi» sono tutti fuori grazie al pentitismo, alla dissociazione
e poi alla Gozzini?
Credo che questo non voler vedere sia la base fondante del sistema penale.
Perché non si vuol vedere?
Intanto, notiamo che a sinistra come a destra, tutti amano attribuire gli
«eccessi» del sistema penale all'avversario, alla sua ideologia.
I lager sono colpa dei nazisti, cioè del nazismo; il gulag è
colpa dei comunisti per la destra e della controrivoluzione stalinista per
la sinistra. Sembra di dire un'ovvietà. Io credo che le cose siano
al tempo stesso più complicate e più semplici da capire.
I nazisti furono da subito razzisti antisemiti. All'inizio pensavano di poter
deportare tutti gli ebrei nell'isola di Madagascar... Solo dopo, durante la
guerra, prevalse l'idea della «soluzione finale»: Perché
i nazisti erano dei nazisti? O perché, di emergenza in emergenza, gli
risultò come un «ovvio» dato di fatto, quale via di liberazione
del loro «problema», ciò che il mondo penitenziario offriva
già in modo praticamente spontaneo fra brutalità di norma e
spesso assassine, fatiche e denutrizioni? Per il semplice fatto di dover andare
avanti nelle «difficili» condizioni di guerra, il campo di concentramento
non provocava forse la morte facile di molte persone? Il resto non poteva
avvenire, dopo, come unica decisione «realistica» di gente che
già era così ben predisposta con i suoi miti gerarchico-razzisti?
In Urss non c'era la stessa filosofia aprioristicamente razzista, ma l'estensione
del sistema penale in nome della lotta ai «controrivoluzionari»
produsse risultati altamente catastrofici per la vita di tanti esseri umani
(e lo stesso avvenne in Cina).
L'Occidente liberale ama oggi denunciare questi orrori imputandoli alle ideologie
nazista e comunista. Il liberalismo nasconde così la lunga, normale
storia dei massacri sistematici (li si chiami olocausti o genocidi, se si
vuole), e dei campi di concentramento (li si chiami lager o gulag, se si vuole),
che precede e segue le esperienze germanica e sovietica. Nell'esperienza coloniale,
tanto per fare un solo esempio.
La mia tesi è semplice: in ogni carcere esiste, come suo centro nascosto,
l'embrione del peggio. Il suo ulteriore sviluppo dipende soltanto da «circostanze
esterne», «emergenze» eccetera. E tutti i sistemi sociali
e le ideologie che abbiamo conosciuto potevano accettare, hanno accettato
e ancora accettano le presunte necessità che il rito espiatorio richiede.
Perciò io non do del nazista, del liberista o del comunista a chi è
forcaiolo o indifferente ai casi significativi e poco visibili della sofferenza
umana prodotta dalla mentalità punitiva. So che questa sarebbe un'accusa
superficiale, un modo di essere complice di tutto ciò che oggi bisogna
denunciare: si demonizza qualcuno per affermare la sua unicità e non
dover vedere cosa c'è in comune tra lui e noi. Non voglio dunque banalizzare
le cause dei lager, del gulag, dei campi di concentramento costruiti dall'Occidente
del capitalismo liberale, dei massacri sistematici che non sono solo l'Olocausto
degli ebrei (dal trattamento dei nativi d'America, alla «Tratta Atlantica»
che ha sconvolto l'Africa per 150 anni di rapimenti e morte per la schiavitù,
al successivo colonialismo imperialista, alla sorte che vivono i palestinesi
da oltre 50 anni, la storia è lunga).
La mia tesi è semplice, ripeto: ogni volta che vedi una prigione, là
dentro c'è un'isola, qualche caso che è già
, da sempre e come realtà comunemente accettata, quell'orrore che denunci
solo come caso estremo, solo quando lo vedi estendersi in dimensioni che vanno
verso il cosiddetto «genocidio». Lì dentro, alcune
persone conoscono il lager, il gulag, il «genocidio» o la
«deportazione». Il carcere fa da cordone protettivo a questa realtà,
da maschera, da vivaio eccetera. Ma per te, questi casi significativi, dato
che non fanno alto numero a causa della disseminazione delle prigioni, non
sono una «priorità politica». Hai altro a cui pensare,
tu. È come per gli alberi: si vedono il tronco, i rami, le foglie,
i frutti; non le radici.
Oggi però, con poco sforzo, queste radici si possono vedere meglio.
Le antiche minacce che si credevano confinabili (e perciò sepolte)
perché imputabili al «nazismo» e al «comunismo»
secondo la vulgata neoliberale, stanno tornando. Perciò della barbarie
del sovraffollamento carcerario si parla come se fosse una notiziola fra le
altre, ignorando che lo Stato sociale in crisi trova il suo... naturale sostituto
nello Stato penale, che quest'ultimo tende cioè a diventare la nuova
politica per i poveri, e che ciò costituisce un aspetto strategico
nella politica delle grandi multinazionali. Meno asili più galera,
insomma, è l'ultima metastasi. Ora, che in questa civiltà tale
tendenza trovi persino l'entusiastica approvazione di tanti, è normale,
dato quel che si è accennato finora sul bisogno «religioso»
del principio vittimario. È semmai opportuno riflettere sulla scarsa
attenzione dedicata a questa minaccia sociale (ché di questo ormai
si tratta) dal «movimento dei movimenti» (i No Global). Esso si
muove su contenuti molto avanzati: non più ossessionato dal tema della
conquista del potere politico (come fu per eredità resistenziale ai
tempi della mia generazione) può entrare in conflitto in termini «pacifici»
e al tempo stesso scoprire e criticare con delle pratiche intelligenti, come
ha fatto, il modello di vita che le aziende multinazionali impongono. Eppure,
nonostante questi due vantaggi rispetto a una trentina d'anni fa, la critica
al principio vittimario latita troppo.
Le ragioni di questa scarsa attenzione mi sembrano discutibili dal punto di
vista logico, ma anche comprensibili da un punto di vista storico. Vorrei
accennare alle due principali.
La non-violenza. Dopo Genova alcuni provano già a dire che il dilemma non è violenza o non-violenza; altri affermano che è assurdo far ripiegare un movimento così ricco di contenuti sull'obiettivo (difensivo) del diritto a manifestare. Purtroppo, piaccia o meno, è difficile sfuggire a questo problema in una società come la nostra. L'avversario cerca di portarti sul suo terreno, che è la violenza, e tu perciò devi scegliere se essere violento o no. Il guaio è che spesso dalle nostre parti si spacciano per non-violenti tanti moderati . Di riflesso, all'interno cioè dello stesso gioco di specchi, vi sono altri che giocano con la «violenza rivoluzionaria» (a volte più che altro simulandola) e non si rendono conto che questo gioco ha conseguenze pericolose. Questi due giochi fanno ignorare che la vera non-violenza richiede anzitutto un coraggio e un rischio maggiori di quanto non richieda la violenza, dato che l'unica arma di cui si dispone è la propria vita. Accettare il rischio di farsi schiacciare da un blindato senza reagire non è facile... Occorrono dei militanti ancora più disciplinati e organizzati di un guerrigliero, e soprattutto coinvolti in una concezione ancora più «globale»... È allora abbastanza naturale che la maggior parte delle persone sia poco portata a fare delle riflessioni così scomode e ripieghi su una più o meno vera accettazione della violenza «contro». E se lo fa, per giustificarsi, deve demonizzare l'avversario, astraendolo in una sua isola che lo renda altro da lui, ben diverso eccetera. Ma è proprio così facendo che si deve allora soprassedere su molte questioni, diventando simile all'avversario intorno al principio vittimario, in un costante circolo vizioso. La non-violenza è anzitutto una radicale non-collaborazione culturale, una sottrazione di ruolo.
La falsa memoria. L'altra ragione, forse meno importante, ma che
rafforza la precedente nella difficoltà a capire le dinamiche vittimarie,
è che dai luoghi di sofferenza legale difficilmente possono giungere
molte testimonianze veritiere. Esse esistono, ma per lo più sono condannate
alla diffusione underground, oppure sono fraintese.
La storia dei lager in Germania ci è stata raccontata dai sopravvissuti,
molti dei quali dovettero accettare terribili compromessi per farcela, a spese
dei propri compagni. Primo Levi, ben conosciuto per la sua testimonianza e
al tempo stesso persona lucida e corretta che sottolinea l'esistenza delle
«zone grige» della collaborazione, è un caso fortunato
(per noi) e non così frequente. Non è facile per i testimoni
disvelare poi le dinamiche che da sempre comprendono la complicità
degli oppressi nel realizzarsi del processo vittimizzante. Demonizzare l'avversario
dopo serve allora a nascondere questa triste realtà e così a
rinnovarla per mancanza di coscienza. Essere non-violenti in carcere vuol
dire non collaborare, sottrarsi a questa complicità inevitabilmente
pretesa da chi ti opprime; vuol dire difendere la propria dignità e
lo si paga diventando dei sepolti vivi, o dei cadaveri, a seconda dei casi.
Ci vuole una nuova mentalità, una grande com-passione per ammettere
che anche gli antinazisti, per esempio, contribuirono, dal basso e sotto ricatto,
a creare i lager. Ma quelli che ricostruiscono il senso della storia lo fanno
sempre da duri e puri: il loro inconscio deve salvaguardare l'istituto della
pena e perciò «assolvere» le debolezze dell'«io»
e attribuire tutto e solo ai demoni, all'Altro.
Sotto questo profilo - fornire il senso della storia - le cose non sono cambiate
se non in peggio. Sono cambiate nelle forme per estendersi, e per raffinarsi
nella sostanza. La menzogna avanza e con essa, una crudeltà non più
riconosciuta come tale, in una spirale distruttiva e suicida per l'umanità.
Fonte: pubblicato sul sito di Liberiamoci del carcere: http://www.tmcrew.org/detenuti/liberiam/info.htm