Nel buco nero di Guantanamo
Augusta Conchiglia
le Monde diplomatique, 19 febbraio 2004
Prevedibile, la cattura di Saddam Hussein non risolve il rebus iracheno. Finalmente liberi dall'ex dittatore, gli iracheni continuano a mostrarsi avversi, in maggioranza, all'occupazione straniera. Ogni giorno si rinnovano le ostilità nei confronti dell'esercito americano. La prospettiva di un trasferimento di sovranità alle autorità locali riaccende la sfida tra comunità (sciita, sunnita, kurda). Si percepisce la minaccia di una sorta di «libanizzazione». La pace non è a portata di mano. Proprio come in Afghanistan, dove sono tornati i talebani. La gestione fallimentare del dopo guerra rende ancora più assurda la sorte di coloro che sono stati catturati durante la guerra contro i talebani nel 2001, e poi parcheggiati nel bagno penale di Guantanamo, nell'isola di Cuba. In spregio ai diritti umani e alle stesse leggi degli Stati uniti.
Da quasi due anni, circa 660 «nemici combattenti» catturati in
Afghanistan, in Pakistan o consegnati da paesi terzi, sono detenuti in regime
di isolamento nella base americana di Guantanamo (Cuba), a dispetto di tutte
le leggi internazionali.
La detenzione si basa esclusivamente su alcuni decreti emanati dal presidente
degli Stati uniti, in nome dello «stato di guerra contro il terrorismo».
Fino a oggi, nessuna imputazione è stata formulata ufficialmente contro
i detenuti, e le commissioni militari ad hoc, annunciate nel 2001, non sono
state ancora costituite.
Malgrado una permanenza di vari giorni nella base di Guantanamo, non siamo
riusciti ad entrare in contatto con nessuno dei prigionieri.
Li sorvegliano gli uomini del generale Geoffrey Miller, comandante del campo
e capo della Joint Task Force (Jtf), che prende ordini direttamente dal Pentagono.
I giornalisti che visitano le installazioni sono tenuti lontani dai blocchi
di massima sicurezza e possono intravedere soltanto i prigionieri del Campo
4, dove vivono coloro che si mostrano «cooperativi».
È vietato loro parlare con i giornalisti o rispondere alle domande.
La base di Guantanamo era avviata verso un netto declino quando, alla fine
del 2001 e con la guerra in Afghanistan, ha ripreso ad ampliarsi. La sua popolazione
militare e civile è triplicata e ormai supera le 6.000 persone. Le
unità della Jtf e la prigione si sono insediate in una zona incolta.
Le carte della base non riportano in alcun modo l'esistenza del centro di
detenzione, né dei numerosi edifici di servizi che lo circondano.
In prossimità della zona di massima sicurezza, delle barriere arancione
costringono l'auto del visitatore ad avanzare a zigzag, facilitando il compito
delle sentinelle che verificano ogni veicolo.
Da quando il cappellano mussulmano del campo e due traduttori sono stati arrestati
con l'accusa - dimostratasi falsa - di spionaggio (1), le misure di sicurezza
sono raddoppiate.
Il campo Delta, suddiviso in quattro quartieri, può accogliere 1.000
persone; al nostro arrivo contava 660 detenuti di 42 nazionalità diverse.
È circondato da vari reticolati metallici, ricoperti di nylon verde,
su cui corre del filo spinato collegato all'alta tensione.
I prigionieri, le cui celle restano illuminate tutta la notte, sono sottoposti
alla sorveglianza permanente delle guardie che fanno la ronda o controllano
dalle torrette.
Le condizioni di detenzione sono tali che il campo ha registrato 32 tentativi
di suicidio (da parte di 21 detenuti). Secondo il capitano John Edmondson,
il chirurgo che dirige l'ospedale, 110 detenuti - uno su sei - sono in cura
per turbe psicologiche, in genere comparse a seguito di depressioni.
Venticinque di questi detenuti ricevono trattamenti psichiatrici.
Al momento della nostra visita, era ricoverato e alimentato per via endovenosa
un detenuto che da un anno attua in modo intermittente lo sciopero della fame.
In almeno tre dei quattro campi le condizioni di detenzione sono terribili.
I blocchi sono costituiti da quarantotto celle, poste su due file da ventiquattro,
ciascuna con una superficie di appena due metri per due e mezzo.
Le pareti e le porte, in rete metallica, impediscono qualsiasi intimità.
La routine è rotta soltanto da una passeggiata solitaria di venti minuti
in una grande gabbia posta sul cemento, con l'aggiunta, tre volte a settimana,
di una doccia di cinque minuti - e, ad ogni trasferimento, la bardatura regolamentare:
manette e fermi ai piedi collegati da catene.
Nel campo 4, il gruppo che riusciamo a intravedere sembra composto da coetanei,
sotto la trentina; uomini dalle barbe folte e col fez in testa.
I 129 detenuti vivono in piccoli gruppi, le loro celle, meno strette, contengono
fino a dieci letti.
Mangiano insieme e possono uscire diverse volte al giorno negli spazi adiacenti
il carcere, dove sono incollati alcuni manifesti sull'opera di ricostruzione
in Afghanistan.
La giustizia secondo Wolfowitz
Al contrario dei prigionieri degli altri tre campi, che portano una divisa
arancione, quelli del campo 4 sono vestiti di bianco, «il colore della
purezza nell'islam», spiega con fierezza una delle guardie.
Ci fa notare che questi prigionieri hanno ricevuto dei tappeti veri per la
preghiera, oltre al corano, distribuito a tutti i detenuti dopo uno sciopero
della fame che aveva segnato le prime settimane del loro arrivo (2).
È evidente che il Pentagono permette le visite della stampa nel desiderio
di migliorare l'immagine estremamente negativa dei primi mesi.
Ci mostrano quindi il «Campo Iguana», una casetta situata su una
scogliera a picco sul mare, circondata da una rete metallica di sicurezza.
È lì che sono rinchiusi da più di un anno tre «nemici
combattenti» minorenni, di età compresa tra i 13 e i 15 anni.
Ci viene detto che seguono corsi d'inglese, giocano un po' a calcio e hanno
diritto a qualche videocassetta.
Tuttavia è impossibile vederli e non possiamo conoscere neppure la
loro nazionalità.
Il programma prevede anche una deviazione attraverso il «Campo X Ray».
All'inizio, i prigionieri transitavano per questo campo e il mondo intero
ha potuto vedere le insopportabili immagini di deportati costretti in ginocchio,
nelle loro divise arancione, immobili sotto la minaccia delle armi dei loro
carcerieri, incatenati e tenuti in un totale isolamento, incappucciati e con
i paraorecchie.
Costruito in origine per rinchiudere i boat people haitiani più turbolenti,
oppure quelli colpiti da aids, X Ray, ormai invaso da una folta vegetazione,
è stato definitivamente abbandonato.
La stessa cosa succederà al Campo Delta.
È infatti in costruzione un Campo 5, la cui prima fase terminerà
nel luglio 2004. Carcere duro, costruito per circa un centinaio di prigionieri,
riservato ai detenuti che saranno definitivamente condannati dalle commissioni
militari, questo campo ospiterà anche una camera della morte per le
esecuzioni capitali...
Il 13 novembre 2001, giorno in cui l'Alleanza del nord ha assunto il controllo
di Kabul, è anche il giorno in cui è stato pubblicato l'ordine
presidenziale che ha permesso la creazione del centro di detenzione di Guantanamo.
Bisognava ricorrere a un trucco per sistemare coloro che il presidente americano
avrebbe definito «nemici combattenti», inaugurando un concetto
nuovo, estraneo al diritto americano e internazionale (3).
«L'amministrazione Bush rifiuta di considerare i "nemici combattenti"
come prigionieri di guerra, mentre nega loro il diritto di essere deferiti
davanti a un tribunale competente per determinare il loro status giuridico,
come invece è previsto dalla terza Convenzione di Ginevra, ratificata
dagli Stati uniti - afferma Wendy Patten, direttrice della sezione giustizia
di Human Rights Watch (4).
Le commissioni militari, che non prevedono la possibilità di appellarsi
ad una corte indipendente, non garantiscono un equo processo.»
L'amministrazione, dal canto suo, sostiene che la scelta delle commissioni
militari serve ad impedire che siano divulgate informazioni riservate.
Assolutamente contrario a questa posizione è Eugène Fidell,
ex avvocato militare e presidente dell'Istituto nazionale di giustizia militare:
«C'erano almeno due opzioni: le corti penali, che in passato hanno giudicato
casi di terrorismo, come quello contro il World Trade Center nel 1993, e le
corti marziali, come quella che ha giudicato il presidente di Panama, Manuel
Noriega (5)».
Un solo uomo sarà al centro delle commissioni militari: il vice ministro
della difesa Paul Wolfowitz.
Sarà lui a scegliere giudici e procuratore e a decidere i capi d'accusa.
Ancora spetterà a lui il compito di nominare i tre membri della commissione
cui potranno appellarsi i condannati.
E infine sarà sempre lui ad esaminare le loro conclusioni e a decidere.
«I militari funzioneranno da inquisitori, procuratori, consiglieri della
difesa, giudici e, nel caso venissero pronunciate pene di morte, anche da
boia», «risponderanno solo al presidente Bush», ha dichiarato
il magistrato britannico Lord Johan Steyn, nel corso di una vigorosa requisitoria
contro quello che ha definito: «il buco nero giuridico di Guantanamo
(6)».
La situazione è però mutata improvvisamente venti mesi dopo
la creazione del bagno penale di Guantanamo, quando ancora l'amministrazione
americana rifiutava di prendere in considerazione gli appelli di avvocati
e governi occidentali - tra cui quello francese - con propri cittadini residenti
all'estero tra i prigionieri.
C'è stata, prima di tutto, l'inattesa decisione della Corte suprema
di esaminare i ricorsi presentati dalle famiglie di sedici detenuti (dodici
kuwaitiani, due britannici e due australiani).
Il 10 novembre 2003, la più alta istanza giurisdizionale degli Stati
uniti ha infatti accettato di valutare se la giustizia americana sia o meno
competente «sulla legalità della detenzione di stranieri, catturati
all'estero in connessione con le ostilità, che sono detenuti nella
base navale di Guantanamo».
Eppure, pochi giorni prima, David Cole, professore di diritto a Georgetown
(Washington) e autore di molte opere sulle derive autoritarie del dopo 11
settembre (7), ci aveva confidato il suo scetticismo:
«Soltanto il 2% dei ricorsi presentati alla Corte suprema sono accolti,
e in genere questa esamina solo i casi in cui i pareri delle corti di grado
inferiore, che si sono pronunciate sulla questione, divergono».
Fino a quel momento, però, le due corti di grado inferiore avevano
sostenuto la posizione del governo.
In seguito, il 18 dicembre, una corte d'appello di San Francisco ha espresso
il parere che i detenuti di Guantanamo abbiano diritto ad un avvocato e che
siano di competenza della giustizia americana.
Il 9 novembre, rompendo il lungo silenzio dei principali dirigenti democratici,
Albert Gore, nel corso di una conferenza tenuta al Centro dei diritti costituzionali
di Washington, ha dichiarato:
«La questione dei prigionieri di Guantanamo ha fortemente danneggiato
l'immagine dell'America nel mondo, anche presso i suoi alleati (..).
Gli stranieri detenuti a Guantanamo devono essere ascoltati dalla giustizia,
affinché si possa definire il loro status giuridico, come previsto
dalla Convenzione di Ginevra (...).
Il modo in cui il segretario Rumsfeld ha gestito la questione dei detenuti
equivale più o meno al modo in cui ha gestito il dopoguerra in Iraq...».
«Il periodo più nero dopo il maccartismo» Certo, prima
di lui, altri senatori democratici, come Patrick Leahy (8), avevano interpellato
l'esecutivo circa le accuse di torture ai prigionieri - comprese le estradizioni
senza procedura di detenuti di Guantanamo verso paesi del Medio oriente dove
la tortura viene praticata normalmente - , circa la morte sospetta di due
afgani detenuti nella base di Bagram in Afghanistan, o l'utilizzo di pesanti
tecniche d'interrogatorio definite, in linguaggio militare, «stress
and duress» (pressione e costrizione) (9).
Leahy ci ha dichiarato senza esitazione che «i detenuti di Guantanamo
devono essere considerati prigionieri di guerra» e «trattati in
modo umano, conformemente alle direttive della Convenzione dei diritti dell'uomo».
Ma per molto tempo la sua determinazione è stata una posizione isolata
all'interno della classe politica americana.
Anche gli avvocati delle famiglie dei detenuti non si sono risparmiati.
Tom Wilner, membro di un prestigioso studio legale di Washington, Shearman
& Sterling, difensore delle famiglie dei kuwaitiani, ha tenuto viva l'attenzione
dei media e sensibilizzato quante più personalità politiche
possibile.
William Rogers, uno dei due ex vicesegretari di stato (10) che hanno inviato
un ricorso «riservato» alla Corte suprema, durante un incontro
a Washington, all'inizio di novembre, ci ha confidato la sua preoccupazione
per «la scarsa consapevolezza della società americana sulla gravità
di questi fatti. Non ci si può far beffe del diritto costituzionale
con il pretesto che siamo in guerra contro il terrorismo.
Al contrario, dobbiamo difendere i princìpi, di fronte a queste derive
dobbiamo incarnare il diritto internazionale».
Rogers, il cui ultimo incarico risale alla presidenza di Gerald Ford, non
trova parole abbastanza dure per condannare i metodi dell'attuale amministrazione:
«è uno dei periodi più neri della nostra storia, dopo
il maccartismo. Oggi si fa ricorso agli stessi metodi arbitrari e repressivi».
Cofirmatario del ricorso, il contrammiraglio Donald Guter, che lo scorso anno
è andato in pensione lasciando l'incarico di capo della giustizia militare
della marina.
A questo titolo, aveva partecipato alla decisione di utilizzare la base di
Guantanamo per interrogarvi i detenuti.
«Portare i prigionieri a Guantanamo aveva un senso per superiori necessità
di sicurezza, ma ora rischiamo di assistere a una condanna a vita per alcuni
di loro, senza che ci sia stato un giusto processo», ha dichiarato il
9 ottobre 2003 (11).
Anche vari ex giudici e procuratori hanno tenuto a ricordare alla Corte suprema
che i termini della Convenzione di Ginevra sono compresi nel regolamento dell'esercito
americano e che è illegale ignorarli.
Va segnalata anche l'iniziativa di un americano di origine giapponese, Fred
Korematsu, che nel 1944, durante la seconda guerra mondiale, aveva contestato
la costituzionalità del decreto che autorizzava l'internamento di 120.000
cittadini di origine giapponese.
Korematsu ha presentato un ricorso perché, ha dichiarato, si sente
impegnato a fare in modo che gli americani non dimentichino un periodo oscuro
della propria storia.
C'è da considerare poi, che nell'argomentazione alla Corte presentata
dal procuratore generale Theodore Olson, il governo aveva sostenuto, con una
notevole mancanza di tatto, che i ricorsi andavano semplicemente rigettati,
perché «in tempo di guerra, la giustizia abitualmente non interferisce
nelle decisioni dell'esecutivo...».
Senza pregiudizio sulla «sentenza» finale, che sarà resa
nel giugno 2004, la Corte ha voluto riaffermare che spetta a lei sola, e non
all'amministrazione, il compito di «dettare legge».
Da novembre, la questione Guantanamo comincia ad uscire dal silenzio.
Del resto, anche negli Stati uniti, l'opinione pubblica era rimasta colpita
dallo «sfogo» del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr)
che, uscendo dal suo abituale dovere di riservatezza, aveva denunciato la
disperazione indotta nei detenuti dalla totale assenza di prospettive.
L'amministrazione non poteva rimanere indifferente di fronte al dilagare delle
critiche.
A fine novembre, il Pentagono ha annunciato che presto avrebbe liberato dai
100 ai 140 detenuti - che stiamo ancora aspettando - e ha nominato un militare
come avvocato d'ufficio per la difesa del detenuto australiano David Hicks.
Quest'ultimo, sottoposto a un trattamento durissimo, aveva iniziato uno sciopero
della fame richiamando l'attenzione dei media.
Contrariamente a quanto disposto inizialmente per le commissioni militari,
il Pentagono lo ha allora autorizzato a farsi assistere da un avvocato civile
di sua scelta e ha garantito la riservatezza dei loro futuri colloqui.
E questo, grazie ad un accordo tra Stati uniti e Australia, simile a quello
firmato alcuni mesi prima con il Regno unito, che esclude, in particolare,
la condanna a morte dei loro cittadini residenti all'estero.
Gli avvocati di quattro dei sei detenuti francesi, uno dei quali è
Paul-Albert Iweins, presidente del tribunale di Parigi, avevano sperato che
la Francia ottenesse «almeno» garanzie simili.
Invano, malgrado l'interessamento del Quai d'Orsay.
Quando i «nemici combattenti» sono americani
Dopo Hicks, è stato un cittadino americano, Yaser Hamdi, ad essere
autorizzato a contattare un avvocato.
Arrestato in Afghanistan, Hamdi in un primo momento era stato portato a Guantanamo
e lì era rimasto fino a quando i militari non si erano convinti che
era americano.
Nell'aprile 2002 era stato allora trasferito nel carcere della base navale
di Norfolk, in Virginia, dove si trova ancora oggi in isolamento.
A questo punto il governo, che per decreto aveva riservato le commissioni
militari esclusivamente agli stranieri, ha immediatamente «esteso il
concetto di giustizia militare a cittadini americani unilateralmente designati
"nemici combattenti" (12)»; in questo modo si è arrogato
il diritto di detenerli indefinitamente nelle carceri militari, privandoli
di qualsiasi contatto con l'esterno.
Eppure, Walker Lindh, il «talebano americano» catturato in Afghanistan
nello stesso periodo di Hamdi, è stato giudicato dalla corte penale
di Alessandria (Virginia) e ha goduto di tutte le prerogative che la Costituzione
accorda alla difesa (13).
Hamdi è riuscito ad ottenere il diritto ad un consulente legale, un
giorno prima dell'ultima data utile per la consegna alla Corte suprema degli
ultimi ricorsi relativi per l'appunto ai suoi diritti...
È vero che la sua detenzione in isolamento e quella di un altro cittadino
americano, José Padilla (14), imbarazzano lo stesso entourage del ministro
della giustizia John Ashcroft.
Uno dei suoi ex assistenti, il professore Viet Dinh, che ha avuto un ruolo
preponderante nella redazione della legislazione antiterroristica, ha manifestato
il suo disaccordo nei confronti del trattamento riservato ai cittadini americani
e si è felicitato del cambiamento.
In compenso, Dennis Archer, presidente dell'Associazione americana degli avvocati
di tribunale, che conta 400.000 membri, si è rammaricato del fatto
che il Pentagono non abbia voluto farne un principio generale.
«In questo caso l'amministrazione ha esercitato un potere discrezionale,
spiega Wendy Patten di Humans Right Watch.
Il Pentagono, infatti, continua ad affermare che i "nemici combattenti"
detenuti negli Stati uniti non hanno alcun diritto legale di contattare un
avvocato.
E nel caso specifico, la concessione è stata possibile solo perché
gli interrogatori del prigioniero erano finiti. Insomma, ci si rifiuta ancora
di riconoscere che il diritto alla difesa è imprescindibile e non può
dipendere dalla buona volontà dell'amministrazione.»
Anche se la Casa Bianca sembra in difficoltà nei confronti della stampa
americana, tuttavia essa conta su alcuni sostenitori incondizionati, come
il Wall Street Journal.
Rispondendo alle critiche del Cicr, il quotidiano finanziario gli ha rimproverato
«di aver ignorato il dovere di riservatezza e di essersi deliberatamente
impegnato sul terreno politico (15)».
Ritiene che i «nemici combattenti» «debbano essere detenuti
fino alla fine della guerra contro il terrorismo».
E aggiunge: «qui non si tratta di una lotta senza fine, paragonabile
alla guerra contro il crimine o la povertà. È un conflitto tra
Stati uniti e al Qaeda, i gruppi affiliati e gli stati che hanno scelto di
proteggerli. Il conflitto finirà quando al Qaeda sarà stato
schiacciato e non sarà più in grado di lanciare attacchi contro
bersagli americani...»
Completamente diversa l'opinione della delegata generale del Cicr per l'Europa
e le Americhe, Béatrice Mégevand-Roggo. Per lei, nella «guerra»
tra Stati uniti e Al Qaida, solo in Afghanistan si può parlare di un
vero conflitto armato internazionale:
«Questo conflitto, regolato dalla terza Convenzione di Ginevra, è
finito il 19 giugno 2002, con l'Assemblea della Loya Jirga che ha legittimato
il governo del presidente Karsai. Il diritto internazionale umanitario (16)
prevede tuttavia la possibilità che si continuino a detenere dei prigionieri,
a condizione che siano accusati di fatti precisi e sottoposti a una procedura
giudiziaria le cui garanzie minimali sono previste dalla terza Convenzione.
Per tutti coloro che sono stati arrestati dopo il 19 giugno 2002, nel quadro
del conflitto interno che continua ad imperversare in Afghanistan, esistono
delle disposizioni del diritto internazionale umanitario ed alcune garanzie
fondamentali che si adattano perfettamente al caso dei detenuti di Guantanamo.
In conclusione, se non c'è l'obbligo di liberare tutti i detenuti di
Guantanamo, c'è in compenso un obbligo molto chiaro di sottoporli ad
una procedura giudiziaria regolata da norme di diritto, internazionale o interno.
Oggi, queste persone sono tenute da mesi, se non da anni, in un totale vuoto
giuridico: è proprio questo che consideriamo inaccettabile.
Affermarlo non ha niente di politico, ma rientra pienamente nel nostro ruolo
umanitario.»
Sia pure timidamente, l'opposizione degli americani alle leggi eccezionali
comincia a farsi sentire e l'amministrazione Bush si trova sotto il fuoco
incrociato di una parte crescente dell'establishment giudiziario, delle organizzazioni
umanitarie e dei media che denunciano il rifiuto di rendere giustizia ai detenuti
di Guantanamo.
Non dovrà allora, a un anno dalle elezioni, farli uscire dal «buco
nero» in cui li ha imprigionati e tornare alle regole del diritto internazionale?
Note:
(1) Le accuse sono state ridefinite e l'imputazione per spionaggio è
scomparsa. Il cappellano è stato liberato in attesa del processo.
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(2) Alcuni si sono dichiarati non credenti e uno si è detto cattolico.
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(3) Si legga «Senza diritti a Guantanamo», Olivier Audeoud, Le
Monde Diplomatique/il manifesto, aprile 2002. Si veda anche lo studio dell'Associazione
americana degli avvocati di tribunale sul trattamento dei «nemici combattenti»,
www.abanet.com.
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(4) Questa organizzazione umanitaria americana analizza le leggi post 11 settembre
e i diritti dei detenuti di Guantanamo. www.hrw.org.
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(5) «People the law forgot», James Meek, The Guardian, Londra,
3 dicembre 2003.
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(6) Lord Steyn ha avuto un ruolo di primo piano nel rimuovere l'immunità
al generale Pinochet. Si legga «Guantanamo: a monstruous failure of
justice» di Johan Steyn, International Herald Tribune, 26 novembre 2003.
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(7) Enemy Aliens, The New Press, New York, 2003 e con James Dempseym Terrorism
and Constitution, The New Press, 2002.
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(8) Il senatore Leahy (Vermont), presidente del comitato del bilancio del
senato, è stato uno dei 12 senatori che ha votato contro la legge dell'ottobre
2003, che assegna 87 miliardi di dollari alla ricostruzione dell'Iraq.
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(9) Si vedano i rapporti di Hrw (www.hrw.org) e «Us decries abuse but
defends interrogations», Washington Post, 26 dicembre 2002.
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(10) Alexander Watson è il secondo. Ci sono stati sei ricorsi oltre
a quello degli avvocati delle famiglie dei detenuti.
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(11) Kingt Ridder, Newspapers, 9 ottobre 2003.
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(12) Si legga David Cole, «Enemy Aliens», op. cit.
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(13) Lindh, accusato inizialmente di avere cospirato e aiutato al Qaeda, è
stato giudicato per aver «violato l'embargo contro i talebani»
e portato un'arma.
È stato condannato a vent'anni di prigione.
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(14) Arrestato all'aeroporto di Chicago nel maggio 2002, José Padilla
è accusato di avere raccolto, per conto di Al Qaeda, informazioni per
costruire una bomba radioattiva. Il 17 dicembre 2003, un tribunale federale
di New York ha dato al ministero della giustizia un mese di tempo per liberare
Padilla. La Casa Bianca ha fatto ricorso.
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(15) «Guantanamo on trial», Wall Street Journal, New York, 19
novembre 2003.
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(16) Emanato dalla Convenzione di Ginevra del 2 agosto 1949, ratificata da
191 Stati.
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(Traduzione di G. P.)