Trieste-Contestati gli psichiatri. Partendo dalla clamorosa contestazione che un gruppo di emarginati "ex-pazzi" ha messo in atto contro il recente incontro di psichiatri democratici a Trieste, i compagni del Gynnasio Nihilista di Reggio Emilia analizzano il ruolo svolto dalla nuova psichiatria "alternativa" ed il suo contrasto di interessi con gli emarginati - Liberato dalla prigione manicomiale per esser gettato nelle fauci della repressione sistematica dello stato, l'"ex-pazzo" si ritrova nella trappola della nuova emarginazione - La psichiatrizzazione della vita quotidiana è rivelatrice della presenza capillare del potere nelle maglie della società.
La maratona della "Jet Society" della psichiatria era praticamente
conclusa, quello che doveva essere un seminario all'insegna dell'asettico incantesimo
per addetti ai lavori era stato contestato fin dalle prime battute. I matti,
pardon, gli ex-psichiatrizzati, avevano rifiutato di delegare ai tecnocrati
della psichiatria il racconto della loro sofferenza, la pratica del loro discorso.
I "non garantiti", ospiti inattesi del meeting, da oggetto di analisi
(o diagnosi) del convegno avevano costretto il "Reseau internazionale di
psichiatria alternativa" a gettare la maschera del suo interessato apostolato.
Il "reseau" era stato costretto a fare scudo del suo ruolo, decentrando
il dibattito in rivoli di commissioni concomitanti nel tempo e lontane chilometri
l'una dall'altra. Malgrado tutto i "camici bianchi" erano soddisfatti.
La vedette del Reseau, il professor Basaglia, direttore dell'ospedale psichiatrico
di Trieste, pallido ed emaciato era comunque contento, gratificato fino alla
commozione. Aveva buoni motivi per esserlo. Per il luminare progressista non
era il caso di stare a sottilizzare sulla rottura di una costola che aveva rimediato
negli ultimi tafferugli. Dettagli. Quello che veramente gli importava era di
essere riuscito a ratificare nel nome della "socializzazione della devianza"
il più sistematico, oculato, totale e tentacolare dei sistemi di controllo
del dissenso. Era stato investito con il beneplacito della créme della
psichiatria di mezzo mondo e del plauso entusiasta dei "media" della
funzione di vestale dei modelli di comportamento consoni ad un sistema autenticamente
democratico. Del resto questo era il giusto premio per i responsabili del "Reseau"
che erano riusciti fin dall'inizio a manipolare la protesta dei presenti affermando
ad hoc di essere loro stessi "non garantiti" e questo era stato sufficiente
a bollare i devianti: "la loro emarginazione è tale da non riuscire
a dialogare nemmeno con chi lavora per loro", aveva affermato Basaglia.
Non c'era posto quindi per chi non usasse il loro vocabolario discriminatorio
teso a legittimare la loro funzione esclusiva di regolatori della devianza.
La stampa di regime e non, dal canto suo, vomitava titoli di esaltazione per
l'esperienza di Trieste che grazie agli intrallazzi con l'amministrazione democristiana,
al confronto con gli enti locali, con le forze "rappresentative" dei
lavoratori e dei cittadini, era riuscita a inserire i matti con regolare "potere
contrattuale" nel "gioco della società". Ma la lotta nei
confronti dei sistemi di formazione dei sudditi, della manipolazione del consenso,
del controllo dei diversi, non si decide nei seminari o nelle commissioni. È
certo d'altro canto che questi servono ad indicare le tendenze repressive dello
stato. Non si può credere semplicemente che lo stato per imporre l'ubbidienza
faccia ricorso esclusivamente alla sua potenza di interdizione. Del resto anche
Foucault sostiene che "Quel che fa sì che il potere regga, che lo
si accetti, ebbene, è semplicemente che non pesa come potenza che dice
no, ma che nei fatti, attraverso i corpi produce delle cose, induce del piacere,
forma del sapere, produce discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva
che passa attraverso tutto il corpo sociale, molto più che come un'istanza
negativa che avrebbe per funzione di reprimere". È a partire da
questi presupposti che noi crediamo si debba analizzare il convegno di Trieste:
la istituzionalizzazione della tendenza non più alla repressione dei
diversi, all'isolamento in istituzioni ben delimitate territorialmente, ma l'apertura
di meccanismi di trasfert con le istituzioni cosidette di base, l'adesione ad
una liturgia assembleare comunque mai deliberante. Con questo non vogliamo sostenere
che l'Asinara sarà chiusa di incanto, non neghiamo gli inizi dei lavori
per la costruzione di Ospedali Psichiatrici presso Cosenza e La Spezia e forse
a Volterra. Credere però che il potere pianifichi in maniera rigidamente
dogmatica e senza lacerazioni intrinseche significa conferirgli anche una capacità
di complotto più propria di un mitico Leviatano che dello Stato. Pur
sventolato dai neoriformisti come il fiore all'occhiello della nuova psichiatria,
lo stesso progetto Basagliano di "socializzazione della devianza"
non è ancora un fenomeno diffuso e reificato nella generalità
della pratica del controllo psichiatrico. E questo proprio per l'impossibilità
del potere psichiatrico ad una pratica di "lotta" comune con la "categoria
degli utenti". Da parte dei folli è sempre più diffuso il
rifiuto di delegare la propria liberazione ai managers della psiche. Lo documentano
le testimonianze di ex degenti
triestini: "La capacità professionale è spesso contraddittoria
ai nostri bisogni" oppure "Le teorie dei tecnici non esprimono la
nostra esperienza né possono esserci di aiuto". Che queste parole
siano l'espressione di un reale rifiuto dell'autorità del sapere dei
professionisti della normalizzazione se ne sono resi conto anche gli stessi
esponenti di Psichiatria Democratica e cercano di recuperare il terreno perduto
quando affermano l'auspicio di un "contatto più stretto e proficuo
tra i tecnici alternativi e i loro utenti". Una ulteriore ed intima contraddizione
del progetto di normalizzazione che "i sovversivi di corte della psichiatria"
cercano di portare risiede poi nel rifiuto totale che la parte "sana"
della società (da sempre repressa e spaventata dall'immagine dei "pazzi"
che il potere gli veniva propinando) oppone al "diverso" che Basaglia
toglie sì dalla prigione manicomiale per buttarlo poi nelle fauci della
repressione sistematica, che uno stato oggi molto più "tecnicamente"
avanzato propina a tutti i livelli del sociale. Col progetto basagliano della
reintegrazione dell'ex degente viene così a scattare la trappola della
nuova emarginazione che si manifesta nella impossibilità di una totale
adesione ai valori, ai modelli di comportamento e ai suggestivi riti che sempre
più sorreggono gli apparati ideologici di stato (cooperazione, sindacati,
gestione sociale, partiti, famiglia, mass-media, scuola, lavoro, ecc.). La nuova
emarginazione non sarà la psichiatria dell'internamento chiuso e brutale
fatto di letti di contenzione, camicie di forza e psicofarmaci, ma coinvolgerà
una popolazione sempre più vasta. Vediamo ad esempio che aumenta il numero
dei bambini definiti handicappati messi sotto controllo, spossessati della loro
autonomia, tutelabili come psichiatrizzati. Anche Foucault in uno studio della
"follia" già da qualche anno sostiene "... La psichiatria
spinge le sue ramificazioni ben oltre: la si ritrova nelle assistenti sociali,
negli orientamenti professionali, negli psicologi scolastici, nei medici che
fanno la psichiatria di settore. Tutta questa psichiatria della vita quotidiana
che costituisce una sorta di terzo ordine della repressione e della polizia.
Questa infiltrazione si estende nella nostra società senza contare l'influenza
degli psichiatri che attraverso la stampa diffondono i loro consigli. La psicopatologia
della vita quotidiana rivela forse l'inconscio del desiderio; la psichiatrizzazione
della vita quotidiana, se la si esaminasse da vicino rivelerebbe probabilmente
l'invisibile del potere". Partendo dalle conclusioni di Foucault la più
consequenziale delle affermazioni per il superamento della visione e divisione
tra "folli" e "sani" che è poi quella tra sfruttati
e sfruttatori, sarebbe quella di affermare che solo la distruzione di qualsivoglia
potere potrebbe portare l'uomo alla piena e libera possibilità espressiva
di se stesso. Non possiamo non essere d'accordo se però ci limitiamo
a considerarlo come semplice enunciato che di per sé non è una
risposta al problema, ma soltanto un presupposto ideologico. Rimandare alla
rivoluzione la liberazione (intesa nel senso più largo), del folle significa
lavorare per lui e con lui. Significa quindi emarginarlo dal solo fattore liberante,
e questo non solo per il folle ma anche per il "sano" e cioè
il conflitto permanente con il potere. Non si può aspettare la panacea
di una società senza classi e senza potere per superare la divisione
fra anormali e normali, ma al contrario quanto più i "normali"
saranno irresponsabili e diversi, maggiori saranno le possibilità di
liberare i desideri e di vivere la Utopia. Presi alla gola da uno stato sempre
più forte, oppressi in ogni momento da un potere sempre più totalizzante
la pratica della "follia" può diventare un'arma potente per
spezzare le catene che il sistema tecnoburocratico ha tramutato in schizofrenia.
A questo punto la "follia" ci riappare come costitutiva della "ragione"
la quale finalmente diventa "forza" può, senza alcuna mediazione,
liberare fino in fondo la propria intelligenza desiderante. La follia, la diversità,
il rifiuto della norma diventano così la "virtualità permanente"
dell'essenza umana: sono il sintomo di uno spacco definitivo, di una scelta
radicale autenticamente liberatoria/libertaria. "Lungi dall'essere per
la libertà un 'insulto' la follia è la sua più fedele compagna,
segue il suo movimento come un'ombra. E l'essere dell'uomo, non soltanto non
può essere compreso senza la follia, ma non sarebbe l'essere dell'uomo
se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà".
(Lacan)