Louk Hulsman
Jacqueline Bernat de Célis
PENE PERDUTE
Il sistema penale messo in discussione
Parte prima
Colloqui con un abolizionista del sistema penale
Presentazione di Jacqueline Bernat De Célis*
Avevo ascoltato Louk Hulsman in più occasioni, a Lovanio, a Syracuse,
a Colimbari, a Parigi... (1) nel corso di incontri internazionali
in cui vennero discussi, sotto diversi aspetti, i mezzi, i limiti, le origini,
la legittimità del diritto di punire; anche in assemblee più
ristrette, alla Facoltà di Parigi o davanti a un gruppo di riflessione.
Ero colpita dalle sue idee. La sua prospettiva mi pareva tanto più
degna d'attenzione poiché esercitava la sua professione nel diritto
penale! Bisognava che Louk Hulsman fosse convinto di aver raggiunto una verità
primaria per mettere in discussione la sua principale attività e per
lanciare, dalla sua cattedra universitaria, questo pressante appello per abolire
un sistema che molti studenti, destinati alle professioni giudiziarie, sarebbero
stati un giorno chiamati a far funzionare...
Il desiderio di entrare più compiutamente all'interno di questo pensiero
innovatore mi ha condotta a invitare Louk Hulsman a spiegarsi su vari punti
che per me restavano oscuri, e a rispondere alle obiezioni che mi venivano
in mente. La seconda parte di questo libro è il risultato di questa
puntualizzazione.
Ma volevo anche sapere come Hulsman fosse diventato un abolizionista del sistema
penale. Un pensiero così singolare e così fermamente radicale
non sorge per caso in una coscienza. Chi è Louk Hulsman? Da quale luogo
egli parla? Con quale autorevolezza? Glielo domandai nel corso delle conversazioni
che seguono, le quali costituiscono la prima parte di questo libro.
1
Situazioni ed eventi
Jacqueline Bernat De Celis
Allora, chi è lei, Louk Hulsman?
Sono professore all'Università di Rotterdam già da 18 anni
circa. Ricordo molto bene com'è successo. Un giorno, qualcuno che conosco
solo di nome mi telefona, dice che vuole parlarmi della nuova facoltà
di diritto. Era il 1964. L'anno prima, erano state create due nuove facoltà,
una facoltà di diritto e una facoltà di scienze sociali, giunte
a completare la vecchia Facoltà di Economia. Durante il primo anno,
non c'è diritto penale. Ma per il secondo anno, ci voleva un professore.
Non so perché, ho detto di sì senza esitare.
Non ha dovuto fare un concorso? Questo è un modo normale di diventare
professore in un'università olandese?
Sì, le nomine si fanno il più delle volte considerando
il curriculum vitae della persona.
Che cosa aveva fatto prima perché le fosse affidato tale incarico?
Quando mi è stata offerta la cattedra di diritto penale, ero al
Ministero della Giustizia e inoltre, all'epoca, presiedevo, a Strasburgo,
il Comitato europeo per le questioni criminali, del quale ho fatto parte per
parecchi anni. Ma prima di far parte del Ministero della Giustizia, avevo
lavorato al Ministero della Difesa dei Paesi Bassi, nel quale ero entrato
al termine dei miei studi di diritto; e avendomi questo Ministero mandato
a Parigi per oltre due anni al fine di partecipare ai lavori del Comitato
interinale per la Comunità europea di difesa, avevo da tempo una buona
pratica delle relazioni internazionali.
Questi primi impegni forse non avevano nulla a che fare coi problemi
del sistema penale?
Sì, appunto. Ho lavorato a Parigi su un progetto di codice militare
europeo e alla preparazione di un regolamento europeo di mutuo aiuto giudiziario,
che del resto non sono approdati a nulla, avendo la Francia rifiutato di firmare.
Ero molto impegnato in questo lavoro, vi avevo consacrato un'enorme energia,
e sono rimasto fortemente demoralizzato all'epoca nel vedere che tanti sforzi,
e l'incessante spola tra Parigi e i Paesi Bassi, non erano serviti a niente.
Questa è certamente una delle ragioni per cui sono passato al Ministero
della Giustizia.
E prima di essere mandato a Parigi?
Avevo lavorato per tre anni all'ufficio giuridico del Ministero della
Difesa. L'aspetto più curioso quando ci penso, è questa sorta
di vocazione che, fin dai primi tempi mi ha portato a insorgere contro il
modo inumano con cui si applicano le decisioni penali. Ho dovuto occuparmi
subito di questioni riguardanti il diritto penale militare. L'ufficio in cui
ero, tra gli altri compiti, si pronunciava sulle richieste di grazia e sulle
"liberazioni condizionali", ed io ero molto infelice, perché
dovevo rispondere a queste istanze sulla base delle indicazioni dei miei capi,
i quali mi parevano incredibilmente severi. "No, no, mi dicevano quando
volevo dar la grazia o la liberazione a qualcuno, devi rifiutare." L'ufficio
del personale prendeva anch'esso delle decisioni disciplinari alcune delle
quali mi rivoltavano. E giovane com'ero, non esitavo mai ad andare a cercarne
i responsabili. A uno di loro che aveva deciso di respingere una richiesta
di qualcuno con effetto retroattivo, chiesi con tono deciso: "Cosa farebbe
lei se venisse personalmente rifiutato in questo modo?" E cercavo con
quale mezzo avrei potuto ottenere un'evoluzione della politica sulla "liberazione
condizionale" che fosse favorevole ai condannati.
Naturalmente, era un sogno impossibile?
Ebbene non del tutto. Col tempo sono riuscito a piegare in senso più
liberale la politica sulla "liberazione condizionale". Ho imparato
molto presto - è anzi una delle grandi scoperte della mia vita - che
persino da alcuni posti assai modesti, si possono smuovere le burocrazie,
a condizione certo d'impegnarsi enormemente e di essere ben preparato tecnicamente.
Forse sono stato favorito anche dalla fortuna. Ero in un posto molto interessante.
Giungevano al mio ufficio, per conoscenza, tutte le questioni che non fossero
esplicitamente militari o esplicitamente economiche, e tutti i progetti elaborati
dagli altri Dipartimenti passavano dal Ministero della difesa prima di andare
al Consiglio dei ministri. Ora, quando sono arrivato io, gli altri membri
della mia équipe erano tutti quanti assorbiti dal problema
dell'Indonesia, e bisognava preparare il passaggio alla sovranità nazionale.
Ciò procurava un lavoro enorme alla gente del mio ufficio. Di modo
che venivano indirizzati a me, l'ultimo arrivato, gli affari "correnti"
che non sempre erano ordinari! Ero in questo ufficio da soli due mesi quando,
per esempio, giunse un progetto di legge sull'energia nucleare. Orbene non
ne sapevo niente, io, dell'energia nucleare! Mi misi dunque a lavorare su
questo progetto con grande cura. Il mio lavoro fu apprezzato, e si cominciò
a nutrire considerazione nei miei confronti. Ciò mi diede in qualche
modo una moneta di scambio: c'era bisogno di me, tecnicamente, per fare un
lavoro giudicato importante nella tradizione dell'ufficio; potei da allora,
al momento buono, chiedere che si fosse meno restrittivi per le ammissioni
alla libertà condizionata. D'altronde avevo imparato altri piccoli
trucchi grazie ai quali la mia influenza poteva ugualmente esercitarsi: per
esempio quando i ministeri si scambiano delle note. Affinché una pratica
arrivi al Consiglio dei ministri, i ministeri devono mettersi d'accordo. Allora,
se un ministero voleva guadagnare tempo, il mio poteva diventare esigente,
avendo così il primo ogni interesse ad accettare quel che chiedevamo
affinché la sua pratica passasse. Con questo potere di ritardare o
di accelerare il processo, potevo ottenere certe cose. In qualche modo, al
Ministero della Difesa, ho esercitato, prima di averne coscienza, una specie
di pratica abolizionista.
Ciò che lei sta spiegando getta una luce piuttosto inquietante
sul modo in cui passano i progetti di legge!
E sul modo in cui vengono elaborati! Durante quel periodo della mia vita,
ho visto con molta chiarezza come vengano fabbricate le leggi: fatte in genere
da tirapiedi, quindi emendate nella precipitazione e nel compromesso politico,
esse non hanno assolutamente nulla di democratico, e difficilmente sono il
risultato di una coerenza ideologica. Peggio ancora, sono promulgate ignorando
la diversità delle situazioni sulle quali andranno a influire. Ma questa
messa a nudo di una realtà priva di rapporti con i princìpi
acquisiti fu soltanto una tappa nella scoperta che in fondo non c'è
nulla nelle nostre società che funzioni secondo i modelli che ci vengono
proposti. Ma per rendere ciò più chiaro, dovrei risalire lontano
nella mia storia personale.
Se lo può fare, sarà interessante nella misura in cui la
sua esperienza può essere rivelatrice per altre persone.
Forse infatti. Ebbene, a lungo ho creduto che quel che ci veniva insegnato
fosse realtà: una certa teologia morale, per esempio, o l'ideologia
dello Stato protettore della persona. E in occasione di certi eventi, mi sono
reso conto che niente di tutto questo reggeva.
Di quale teologia morale sta parlando?
Sono stato educato in una regione dei Paesi Bassi dove predominava assoluta
la dottrina cattolica ufficiale - precedente al Concilio Vaticano II. Ci veniva
inculcata la strana idea che ci fosse della gente eletta, e altri, che non
lo erano. Nell'ideologia scolastica, tutto è ordinato da Dio e ogni
definizione è data una volta per tutte. Così, c'è della
gente, scelta da Dio, che appartiene al Corpo mistico del Cristo, al Popolo
eletto; e ci sono gli altri, che ne sono fuori.
Non sta forzando un po'? Si legge nel Vangelo: Sono venuto a cercare
e salvare ciò che era perduto!
Non forzo affatto. Mi è sempre stato insegnato che soltanto quelli
battezzati sono con Dio. Evidentemente, il concetto di battesimo è
stato un po' allargato. Sono stati considerati come battezzati quelli che
avevano il desiderio di esserlo. È stato pure inventato il battesimo
di sangue. Ma erano estensioni di un principio ristretto, almeno nell'insegnamento
da me ricevuto. Io non parlo del Vangelo, parlo di una certa corrente della
Chiesa, la corrente specificamente giuridica, quella che ha coniato la formula:
fuori dalla Chiesa, nessuna salvezza. Un uomo come il mio santo patrono
per esempio, che io trovo assai simpatico, Luigi re di Francia, non voleva
fare la guerra. Eppure, ha fatto quella di Tunisi. E quando si legge ciò
che scrive, si resta confusi. Non bisognava far la guerra, secondo lui, contro
gli Inglesi, perché gli Inglesi sono anch'essi degli esseri umani.
Ma bisognava far la guerra contro gli Arabi, perché non sono nulla,
non appartengono al Corpo mistico. Si diceva: "peccato, ma così
è, sono perduti". Era gente che, ad ogni modo, non poteva capire
il senso delle cose. Perché le cose avevano un senso che solo gli eletti
potevano capire, del resto con diversi gradi, secondo la posizione gerarchica
che occupavano, restando inteso che solo il Papa vedeva del tutto chiaro,
a causa di un legame diretto con Dio. perciò, io vivevo nell'inquietudine.
Mi domandavo sempre se non sarei finito all'inferno. Perché, per molto
tempo, ho creduto all'inferno. Non mi ci sarei ritrovato? Avrei almeno voluto
saperlo. Facevo ogni sorta di giochi per ottenere una risposta: se arrivo
al bivio prima di aver contato la tal cosa, vado all'inferno, se no, non ci
vado. Tutto il giuridico era già lì! Ne ho parlato pubblicamente
non molto tempo fa. Ho detto quali casi di coscienza sperimentassi a causa
di queste penitenze che si potevano fare e che valevano del tempo in meno
di purgatorio, per sé o per qualcun altro. Si potevano guadagnare sessanta
giorni recitando la tal preghiera; e se si andava in chiesa nel giorno d'Ognissanti,
uno poteva essere completamente esentato. Ricordo ancora un certo Primo novembre.
Era una giornata così bella! Potevo andare a giocare, o dovevo compiere
questa penitenza che dava l'assoluzione totale? Tante anime urlavano in Purgatorio!
Come potevo andare a passeggiare nei boschi se potevo invece salvarli?
Com'è uscito finalmente da questa inquietudine?
Durante il mio ultimo anno in collegio - perché ho vissuto parecchi
anni in un collegio - ho fatto della teologia morale. Di mia iniziativa, s'intende,
perché non era nel programma. Allora ho cominciato a non credere più
a quel che si raccontava. C'era in fin dei conti troppa distanza tra quel
che veniva insegnato e la mia esperienza. Così, ho cominciato a forgiare
la mia propria religione. All'inizio, era estremamente difficile ottenere
un'informazione contraria a quella trasmessa dalla Chiesa. Sono riuscito,
a un certo punto, a impossessarmi della Bibbia. Questa lettura è stata
come dinamite. Vi ho subito trovato, ivi compreso nei Vangeli, ogni tipo di
materiale contro il sistema, e persino contro la liturgia che ci facevano
seguire - e che mi piaceva tra l'altro. Avevo comunque difficoltà a
uscire dal quadro imposto, perché non solo non mi si davano, nella
classe in cui ero, dei libri critici, ma pure perché non c'era alcuna
possibilità di trovare, nel contesto regionale cattolico in cui vivevo,
né in una biblioteca né in una libreria, la benché minima
letteratura contraria alle idee dell'istituzione Chiesa. Ho veramente vissuto
in quel periodo della mia vita l'influenza totalitaria di un sistema istituzionale
che impediva il formarsi di un altro modo di vedere. Il dubbio tuttavia stava
cominciando a disalienarmi.
In che modo?
Sfuggire al conformismo permette di accedere a un universo di libertà.
Ma non sempre è facile lasciarsi destrutturare, sebbene a volte faccia
piacere. Certi eventi mi hanno aiutato. La guerra di Spagna per esempio, è
stata per me una tappa importante. Nella regione dove vivevo, i giornali erano
tutti per Franco. Così, seguendo questa stampa, anch'io ero contento
dentro di me quando Franco prendeva una nuova città, quando il suo
esercito avanzava. Ma nel 1938, ho cominciato ad avere accesso ad altre fonti
d'informazione, e di colpo, fui ben poco fiero di me. Sentivo che ero stato
totalmente ingannato dal sistema nel quale ero stato rinchiuso. Ora che leggevo
i libri dei Repubblicani e di coloro che, in Francia e nei Paesi Bassi, avevano
partecipato alla lotta contro Franco, mi rendevo conto del profondo errore
in cui ero stato cacciato, e la mia vergogna s'ingrandiva. Non sono mai stato
in Spagna prima della morte di Franco, a causa del trauma profondo vissuto
in quel momento. Questo episodio mi ha molto segnato.
È in quel momento che lei ha cominciato a interrogarsi anche sui
princìpi che legittimano lo Stato?
Sono l'occupazione tedesca, la Resistenza e la guerra che hanno per me
demistificato lo Stato. A un certo momento, siccome vivevo sotto falsa identità
per evitare di andare a lavorare in Germania, sono stato arrestato dalla polizia
olandese - la polizia del mio paese! - e spedito in un campo di concentramento.
Avevo già notato che l'intero apparato di governo olandese funzionava
sotto i Tedeschi come se nulla fosse accaduto, con gli alti funzionari, rimasti
al loro posto, che continuavano a produrre leggi. M'accorgevo ora che le leggi
e le strutture fatte in teoria per proteggere il cittadino possono, in certe
circostanze, rivoltarsi contro di lui. Scoprivo falso il discorso ufficiale
che, da un lato, pretende che lo Stato sia necessario alla sopravvivenza della
gente, e dall'altra parte lo legittima rivestendolo della rappresentatività
popolare. Scoprivo che ero stato ingannato dal discorso politico, così
come ero stato ingannato dalla mia educazione scolastica e indotto in errore
dal mio ambiente a proposito della guerra di Spagna. Un profondo scetticismo
s'insediò in me, impedendomi finalmente di accettare ogni sistema generale
di spiegazioni che non potessi verificare.
Questo genere di filosofia fa di lei un professore piuttosto diverso
dal modello convenzionale?
Al riguardo ho vissuto un'evoluzione. Devo dire che dopo aver accettato
d'istinto, come ho già detto, la responsabilità della cattedra
di diritto penale propostami nel 1964, ebbi un momento di stupore. Come me
la sarei cavata? Certo avevo conosciuto, in occasione d'incontri del Comitato
europeo per le questioni criminali, degli esperti in scienze del crimine di
molti paesi. Avevo un'idea di cosa sono i sistemi penali in contesti differenti,
comunque in Europa, e avevo già qualche contatto con dei criminologi
su posizioni avanzate. Queste relazioni m'avevano aiutato a superare l'approccio
giuridico ai problemi. D'altra parte, ero stato prigioniero durante l'occupazione
tedesca, e la condizione del detenuto era rimasta inscritta nel più
profondo di me come una questione aperta. È vero altresì che
avevo appreso da Van Bemmelen, mio maestro all'Università, a pormi
in modo critico rispetto ai sistemi esistenti; poiché in un'epoca nella
quale un professore di diritto penale non faceva altro di questa disciplina,
da sempre stranamente considerata minore, che una tecnica legalistica, egli
ne dava un approccio da criminologo, e aveva saputo appassionarmi a ciò
che insegnava. Al punto che per alcuni mesi, terminati i miei studi di diritto,
fui suo assistente all'Università. Ma tutto questo, pur avendomi spinto
ad accettare il posto, non mi dava le conoscenze specifiche che potessero
far di me un insegnante, perlomeno secondo l'idea, rimasta abbastanza classica,
che me ne facevo io allora. Mi sentivo dunque molto povero, preparato malissimo
per questo nuovo compito. Non sapevo niente, per esempio, della storia del
diritto penale, e non vedevo come potermi lanciare nell'insegnamento di tale
sistema senza avere una chiara idea di ciò che lo aveva preceduto,
delle sue origini e della sua evoluzione. Si poneva anche una questione di
metodologia. Per riuscire a fornire quel che credevo fosse un insegnamento
degno di tal nome, avrei dovuto ripensare tutte le categorie. Mi immergo quindi
nello studio della storia e della pedagogia. Orbene, m'aspettava una sorpresa.
Via via che leggevo le opere più interessanti sull'insegnamento in
generale e sul concetto d'umanità nell'insegnamento, scoprivo d'avere
avuto dei presupposti completamente falsi riguardo al ruolo del professore.
C'è un'opera molto chiarificatrice di Bloom sui vari livelli di attività
cognitive. Per quanto riguarda l'aspetto cognitivo dell'insegnamento, egli
distingue cinque livelli: livello uno, conosco il testo, lo posso
ripetere; livello due, capisco il testo; livello tre, posso
applicare dei concetti; livello quattro, analizzo; livello cinque,
posso far la sintesi. Mi sono quindi detto: se chiarifico e se organizzo,
mi trovo, io, a quel livello superiore d'analisi e di sintesi; ma se do questo
bell'e pronto ai poveri studenti, essi rimarranno sempre al livello "conoscere"
o "capire". Quel che mi accingo a fare è del tutto aberrante.
Decisi dunque di non dar loro bell'e fatte le idee chiare e comprensibili
che erano diventate mie, ma di dar loro soltanto elementi di riflessione che
avrebbero permesso loro di trovare la propria strada in situazioni complesse.
Sarebbero stati loro a fare le analisi, cercare la sintesi, e avrebbero tratto
le loro conclusioni personali sui problemi che avremmo analizzato.
Quando ha preso possesso della sua cattedra universitaria, lei non era
ancora abolizionista?
Non realmente, no. È infatti all'Università che l'idea
stessa di abolizionismo ha preso corpo in me. Mi sono accorto che il sistema
penale, eccetto casi eccezionali, non funziona mai come richiedono quegli
stessi princìpi che pretendono di legittimarlo.
Perché, lei era tenuto a giustificarlo in quanto professore universitario?
È vero che per molti l'Università svolge un'attività
di giustificazione del sistema statale. Ma al tempo stesso, essa favorisce
un'attività critica. L'Università mi ha messo in contatto con
la ricerca critica e con degli approcci altri dall'approccio giuridico. In
questo senso, mi ha appunto consentito di arrivare a una nuova visione globale
del sistema penale e di affermare la mia posizione di abolizionista.
Direi d'altronde che se le scienze sociali m'hanno in fin dei conti precipitato
verso questa posizione, è perché ho scoperto, praticandole,
che esse non danno il tipo di risposta che m'aspettavo. Esse m'hanno insegnato
che il "sapere" scientifico passa sempre in ultima istanza attraverso
il "vissuto", e non può in nessun caso sostituirlo, come
io credevo erroneamente. In tal senso, sono le scienze sociali che mi hanno
rivelato l'importanza del vissuto. Mi hanno pure indotto a pensare che favorendo
una miglior comprensione di questo stesso "vissuto", potessero avere
un effetto positivo su di esso. Parallelamente, esse hanno a poco a poco fatto
apparire ai miei occhi il non-senso del sistema penale, nel quale
appunto il vissuto non ha quasi posto. Non-senso che alcune ricerche empiriche
mi avrebbero aiutato in modo assai diretto a scoprire.
Ha potuto dimostrare il nonsenso del sistema penale?
Ora vedrà in che misura. All'inizio del mio corso, mi ero tenuto
in una prospettiva più o meno tradizionale, cercando d'organizzare
un quadro razionale di sperimentazione. Ma nello stesso tempo volevo far posto
alla mia visione globale sul sociale, sulla vita, a delle conclusioni che
avevo verificato personalmente. La ricerca sul sentencing mi fornì
una particolare occasione. A partire da questa ricerca, avevo sviluppato un
modello normativo nel quale cercai di rendere operativi i princìpi,
largamente accettati da giuristi e criminologi, secondo i quali può
essere pronunciata una "giusta" sentenza (proporzionalità
tra pena e delitto, sussidiarietà del sistema penale, informazione
certa sull'imputato, eccetera). Uno dei miei collaboratori aveva inserito
questo modello nel computer. E quando abbiamo voluto lavorare con questo modello
su problemi concreti, abbiamo fatto un'esperienza stupefacente: noi chiedevamo:
"nel tal caso e in quest'altro qual è la pena corrispondente?"
La macchina rispondeva sempre: "nessuna pena". Mai si ritrovavano
riunite tutte le condizioni perché il tribunale potesse infliggere
una pena giusta nel quadro del sistema! Era il 1970.
Non è l'anno in cui Denis Chapman, in Inghilterra, ha pubblicato
il suo famoso "stereotipo del delinquente"? Lei era influenzato
da lui e dai criminologi americani?
No, allora non li conoscevo. Facevo per conto mio esperienze di sociologia
empirica, che cominciavano un po' dovunque in maniera indipendente. È
più tardi che ho conosciuto i lavori di Denis e che l'ho invitato ad
aggiungersi al mio gruppo di ricerca del Consiglio d'Europa sulla decriminalizzazione.
Dunque, mi accorgo attraverso questo studio intorno al sentencing
che è quasi impossibile che dal sistema penale sorga una pena legittima,
dato il modo in cui esso funziona. Mi salta agli occhi che questo sistema
opera nell'irrazionalità, che è totalmente aberrante. E in quel
momento scopro che possiedo la risposta a un quesito profondo, rimasto senza
risposta, che mi ponevo da quand'ero giovane. Fin dalla mia adolescenza, mi
ero chiesto, a proposito della civiltà romana, perché quella
gente facesse dipendere le proprie decisioni dal volo degli uccelli, o dall'aspetto
dei visceri di polli sacrificati. Questo problema non mi aveva ancora abbandonato
dopo il superamento dell'esame di maturità. Avevo cercato di dimenticarlo
dicendomi che, dopo tutto, i Romani, erano qualcosa di ben lontano da noi.
Ma la domanda era rimasta sepolta in me, e la ritrovai in occasione d'un soggiorno
di alcune settimane a Roma. L'immagine che m'ero fatto della civiltà
romana mi tornò in mente, ed ebbi la sensazione che non era trascorso
molto tempo dai Romani dell'Antichità, i quali non dovevano essere
poi così diversi da noi, e che tutta la nostra vita, in una certa misura,
era tuttora piena delle loro idee ed anche, un po' paradossalmente, che potesse
essere altrimenti a un certo punto, che il tipo di civiltà in cui viviamo
un giorno potesse fermarsi. Non avevo ancora potuto rispondere, tuttavia,
alla pressante questione riguardante i polli e i loro visceri. Era adesso,
all'Università, in questo momento di rivelazione del nonsenso del sistema
penale, che trovavo la risposta all'interrogativo che mi perseguitava. Capivo
di colpo che quel che facciamo col diritto somiglia a ciò che i Romani
facevano con i loro uccelli e i loro polli. Vedevo che il diritto, la teologia
morale, l'interpretazione dei visceri, l'astrologia funzionano infine allo
stesso modo. Sono dei sistemi che hanno la loro propria logica, una logica
che non ha nulla a che fare con la vita né coi problemi della gente.
In ogni sistema, mi dissi, si fanno dipendere le risposte da segni che nulla
hanno a che vedere con le vere domande poste. Per noi, la risposta è
nel diritto, per i Romani, era nei visceri, per altri, si trova nell'astrologia,
ma il meccanismo è lo stesso. Nel mio corso, paragono spesso il giuridico
occidentale ai flipper, quelle macchine nei bar che fanno scintillare ogni
tipo di luci. Quel gioco ha la sua propria logica. Evidentemente, si è
liberissimi di dire: se esce il 1000 mi sposo, se è l'800 accetto quel
lavoro si possono estrarre a sorte le decisioni da prendere, ma allora, non
bisogna essere illusi, bisogna essere ben coscienti di obbedire a una logica
del tutto differente.
È in quel preciso momento che lei ha detto: bisogna abolire questo
sistema irrazionale?
Non c'è stato un momento in cui l'idea sia improvvisamente nata.
La necessità dell'abolizionismo mi si è imposta gradualmente.
Parallelamente alle mie esperienze empiriche all'Università, ricevevo
informazioni da altri pensatori e ricercatori che mi hanno aiutato ad acquisire
dei punti di partenza certi. Leggendo soprattutto certi lavori di storia,
mi ero accorto che ovunque si manifesta una sorta di movimento circolare dal
quale non si esce. I sistemi si trovano, qui e là, a vari stadi, ma
si ritorna sempre allo stesso punto, e così è in tutti paesi.
Sono dei cerchi che girano. Il libro di Thomas Mathiesen, Politics of
abolition, ha svolto un grande ruolo a quel punto della mia riflessione,
perché ero ormai del tutto maturo. Ci sono molte cose che scioccano
in quel libro. È scritto in un modo così personale. È
un po' come la Bibbia. È pure incompiuto e, per me, questo aspetto
conta parecchio. C'è stato pure il grande Rapporto in quattordici volumi
della Presidential Commission degli Stati Uniti: Challenge of
crime in a free society. Se si vuol capire cosa sia il sistema penale
e cosa sta per diventare, è illuminante. Fra tutti gli aspetti presi
in considerazione dalle molteplici ricerche che compongono quest'enorme documento,
riportando un insieme di dati senza precedenti sul sistema penale, c'era un'analisi
che mostra chiaramente come si formi la catena delle decisioni. Anche questa
lettura fu per me un momento forte. Devo pure molto a Ortega y Gasset, anche
se devo risalire più in là per ritrovarlo, fino al tempo della
mia giovinezza. Di lui mi è rimasta un'immagine importante che è
questa: si costruiscono dei sistemi astratti per sentirsi al sicuro in quanto
civiltà, e si lavora per perfezionare questi sistemi. Ma, col tempo,
li si è elaborati con tanti dettagli, e le condizioni per cui furono
creati sono talmente cambiate, che tutta quella costruzione non risponde più
a nulla. Il divario tra la vita e la costruzione diventa così grande
che questa cade in rovina.
Vorrebbe suggerire che il sistema penale è una costruzione astratta
così lontana dalla realtà che dovrebbe sprofondare da solo?
Veramente, questo sistema non dà, malauguratamente, alcun segno di
deliquescenza. Viene semmai voglia di dire: al contrario! Dinanzi alla valanga
di nuove leggi sempre repressive che vengono varate nel mondo, dinanzi a tante
"commissioni di revisione del codice penale" che si apprestano un
po' dappertutto a rinvigorire il sistema, si potrebbe essere piuttosto pessimisti.
Personalmente, non sono radicalmente pessimista. Voglio dire che senza essere
di un ottimismo irreale, ho ragioni per sperare. Ma per far cogliere tali
ragioni, e insieme capire come ho potuto compiere il passaggio che mi è
proprio verso l'abolizionismo, forse bisogna che io provi a render conto di
quel che è successo in me a un livello più profondo, lasciando
il regno dei fatti, degli eventi che hanno segnato la mia vita, per tentare
di raggiungere l'esperienza interiore. Alcune circostanze mi hanno portato
a interessarmi più particolarmente della giustizia penale e ad assumere
delle responsabilità in questo campo. È ciò che abbiamo
appena visto. Ma alcune esperienze profonde, del resto evidentemente legate
agli eventi che hanno costituito la trama della mia vita, hanno influito su
tutto il mio modo di essere e di pensare, e sono queste esperienze che costituiscono
le fonti nascoste del mio attuale cammino riguardo al sistema penale. Dopo
una certa crisi personale, attraversata una quindicina di anni fa, ho preso
coscienza del fatto che la mia spiegazione del mondo e la spiegazione che
mi do di me stesso sono dei processi paralleli, come due facce di una stessa
medaglia. Ciò deve esser vero per ognuno di noi: la via con cui arriviamo
alle nostre angosce e ai nostri desideri influisce sul modo che abbiamo di
comprendere il mondo, e viceversa, utilizziamo quel che apprendiamo
dall'esterno come griglia esplicativa dell'esperienza interiore.
Vuol dire che per render conto della sua posizione abolizionista del
sistema penale, lei deve scavare nel più profondo di sé?
Sì, è così! L'evoluzione della mia visione del mondo
- e dunque del mio sguardo sul sistema penale - è necessariamente parallela
all'evoluzione interiore personale.
Allora, dovremo prenderci il tempo per un secondo colloquio, se vogliamo andare alla scoperta delle più segrete motivazioni della sua posizione abolizionista.
2
Esperienze interiori
Jacqueline Bernat De Celis
Louk Hulsman, credo che lei si definisca volentieri attraverso le esperienze
che ha fatto.
Infatti. È sempre una certa combinazione di esperienze, unica
o rara come combinazione, che permette di afferrare una persona.
Ciò che questa persona ha vissuto, i confronti che ha avuto, le influenze
scientifiche astratte che ha ricevuto, i modelli di spiegazione di sé
e del mondo uditi e le pratiche constatate, l'incrocio di tutto questo, ecco
che cosa la spiega. Molto più dei tratti di carattere che la definirebbero.
Quali sono state le esperienze che hanno segnato la sua vita?
Ne ho già, di passaggio, indicata qualcuna. Ma in effetti bisogna ritornarci
se voglio far capire cosa mi muove interiormente. L'esperienza del collegio
è indubbiamente una di quelle che mi hanno più segnato, posso
dire quasi, traumatizzato. M'hanno messo parecchie volte in collegio. L'ultima
volta, fu in una scuola secondaria gestita da preti, da dove scappai a quindici
anni. Anche se i miei genitori ovviamente giustificavano la loro decisione
in altro modo, io credevo che mi mandassero in collegio per punirmi, perché
mia madre mi diceva spesso che ero un ragazzo difficile. Sono stato molto
infelice durante quegli anni. Sopportavo malissimo la disciplina, l'atmosfera
di costrizione che regnava in quel collegio. E, poiché gli altri si
adeguavano, non avevo amici. Ero isolato, in una specie di marginalità
che raddoppiava il sentimento di rigetto che provavo verso la mia famiglia.
Ero un bambino non conforme a ciò che ci si aspetta da lui. In seguito,
le esperienze più significative sono state quelle causate dalla guerra
e dalla Resistenza. Ne ho già parlato. Ma vorrei precisare qualcosa
che ancora non ho detto e che mi sembra un'esperienza fondamentale. Quand'ero
bambino, abitavamo in una via dove la Germania cominciava dal marciapiede
di fronte. Facevamo le nostre compere ad Aquisgrana, e conoscevamo bene i
commercianti e tutta la gente che viveva dall'altro lato della via. Orbene,
venuta la guerra, durante l'occupazione, ho visto nascere e ho vissuto io
stesso dei comportamenti molto manichei contro i Tedeschi. A un certo punto,
avrei tranquillamente potuto ucciderli tutti. Quando sono stati sconfitti
mi sono accorto che, in fondo, non avevo nulla contro di loro, e ho potuto
guardarli senza risentimento. Ho già accennato al fatto che ero stato
catturato, imprigionato e buttato in un campo di concentramento. Ma se mi
riferisco ora all'esperienza interiore devo dire che, in realtà, semmai
ho vissuto meglio quel periodo di detenzione - il quale d'altronde fu breve
- che gli anni di collegio.
Davvero?
Pare sorprendente. Ma il prigioniero politico non perde né
la stima di sé né la stima degli altri. Egli soffre in ogni
tipo di dimensione della sua vita; ma resta un uomo che può tenere
la fronte alta. Non è decaduto. Quell'esperienza è stata capitale
per me, poiché mi ha dimostrato l'importanza del non essere stigmatizzati
quando si è messi da parte. Infine, sempre in rapporto al lato nascosto
degli eventi così come li ho interiorizzati, dirò che le circostanze
della liberazione mi hanno parimenti permesso di vivere qualcosa che ha contato
molto per me. Ero riuscito a fuggire dal campo di concentramento - così
com'ero fuggito dal collegio; la prima esperienza aveva indubbiamente facilitato
la seconda! Saltai da un treno che mi portava verso la Germania mentre, avendo
gli Americani già liberato il sud dei Paesi Bassi, i Tedeschi in ritirata
trasferivano i prigionieri dal campo d'Amersfoort, in cui ero detenuto, verso
l'interno. Era il settembre del '44, e mi trovai nella parte nord del paese,
rimasi nascosto per sette mesi, presso una famiglia amica. Fino al giorno
in cui ritrovai, in un villaggio del nord liberato, qualcuno del mio gruppo
di Resistenza, diventato esercito regolare, dopo l'entrata degli Americani
nei Paesi Bassi. Un compagno mi diede dei documenti falsi e un'uniforme, con
i quali potei, senza problemi, ritornare a casa mia nel sud, nonostante il
divieto di attraversare il fiume imposto temporaneamente ai Neerlandesi delle
due zone. Raggiunsi quindi quest'unità militare uscita di recente dalla
clandestinità, e non equipaggiata, che rubava senza complessi tutto
ciò di cui abbisognava. Ed è qui che si situa l'esperienza -
la doppia esperienza - di cui volevo parlare: abbiamo rubato, abbiamo preso
fucili agli Americani, e abiti agli Inglesi, così come avevo preso
una bicicletta ai Tedeschi, con la coscienza del tutto in pace! D'altronde,
in una settimana ero passato dalla condizione di chi vive in clandestinità
allo status ufficiale di militare delle forze d'occupazione in Germania! Mi
creda: tutto ciò invita a non legare troppo il valore di un uomo alla
sua condizione giuridica o sociale.
Potremmo ora tentare di scoprire come tutte queste esperienze messe insieme
abbiano fatto di lei quel che è, e definire finalmente cosa la caratterizza?
Mi pare che tre parole chiave potrebbero simboleggiare quel che ho vissuto
in profondità e quel che provo ad essere ancora: restare aperto, vivere
in solidarietà, essere in permanenza disposto alla "conversione".
Se si ammette, come propone, che le nostre griglie di lettura valgono
sia per parlare di noi stessi sia per analizzare il mondo, esse sarebbero
anche, secondo lei, le parole chiave di un certo umanesimo?
Sì, è così.
Come agiscono dunque in lei?
Ho avuto per la prima volta la sensazione di aprirmi, o se preferisce, di
uscire da una chiusura, quando, avendo rifiutato definitivamente il collegio,
andai da esterno al liceo. Stavo in una classe dove eravamo soltanto in sei
e ci intendevamo tutti quanti benissimo. Avevo finalmente degli amici, non
ero più solo. Organizzavamo un mucchio di cose fuori programma, prima
dei dibattiti filosofici, poi abbiamo composto un giornale che abbiamo chiamato
alternativo, in cui ci atteggiavamo a contestatori.
Contestatori rispetto a che cosa?
Contestavamo la situazione della scuola, ma anche, indirettamente, l'istituzione-Chiesa,
dato che erano dei preti francescani a dirigere quel liceo. È forse
da quel periodo che sento la vita comune come una scoperta continua, come
una liberazione. Sì, è uno dei miei sentimenti più
forti vivere la vita come una liberazione.
Ecco un sentimento che non è affatto diffuso!
Non è diffuso perché il discorso dominante, l'educazione presentano
la vita, la società, in un modo che allontana dalla propria esperienza.
E in questo senso, sono alienanti. Ma si può combattere quest'alienazione
appunto rimanendo aperti. Alcune fra le mie letture già avevano contribuito
a farmi uscire dalla chiusura. Quando avevo 17, 18 anni, divoravo i libri.
Il sistema scolastico in cui ero stato educato è fondato sull'obiettività.
Scarta la persona, il soggetto. Nega parimenti l'importanza degli affetti
o, per meglio dire, non gli dà un linguaggio per esprimersi. Amavo
l'arte romanica, il gregoriano, la sobrietà delle chiesette e le liturgie
sontuose. Ma mi era stato fabbricato un universo intellettuale -
che del resto aveva il suo fascino - nel quale i sentimenti non trovavano
posto. Non mi sarebbe mai venuta l'idea, per esempio, di andare a ballare,
e le lettere d'amore che un tempo scrissi a mia madre erano sembrate sconvenienti.
La mia visione del mondo ne era stata necessariamente troncata. Ricordo il
gran desiderio che avevo di poter rispondere alla domanda: "che vuol
dire 'sapere'?", e dell'interesse molto particolare che avevo dedicato
a un libro di Merleau-Ponty che mostrava cosa c'è di soggettivo
nella conoscenza. Avevo capito fin da quel momento che l'atto di conoscere
è un legame, il legame tra l'oggetto che si conosce e colui che conosce,
e che ciò che chiamiamo "la realtà", è questa
interazione... Sì, fin da quell'epoca, ero partito alla scoperta
del mondo e di me stesso, ed è questo un processo che si alimenta da
se stesso: più scoperte si fanno, più si è spinti presto
e lontano. Così questo processo di apertura al mondo in seguito si
è sempre andato accentuando. Parallelamente ai miei studi universitari
- ho fatto diritto all'università di Leyden - mi ero impegnato nel
grande movimento di rimessa in discussione che ha scosso la Chiesa dei Paesi
Bassi fin dagli anni 46-47, uno di quelli che hanno preparato il Concilio
Vaticano II. Ero, con degli uomini politici e dei preti, nel Comitato di redazione
della rivista L'undicesima ora, dove ho continuato per lunghi anni,
prima e dopo la guerra, in questo sforzo di deistituzionalizzazione della
Chiesa, che ha avuto d'altronde grande influenza nei Paesi Bassi.
Ha lavorato per la deistituzionalizzazione della Chiesa prima di lavorare,
più tardi, per quella dello Stato?
Il mio lavoro di deistituzionalizzazione statale è in effetti una replica
di quello della Chiesa. È successo tra l'altro qualcosa di sorprendente.
All'inizio, pensavo che la sola vera deistituzionalizzazione stesse nella
Chiesa, e che la secolarizzazione sarebbe stata una specie di liberazione.
E non era vero!
No! Fu insieme un'esperienza molto interessante e deludente scoprire che il
medesimo meccanismo combattuto in seno alla Chiesa si ritrovava nel contesto
cosiddetto secolarizzato. Ho riconosciuto a più riprese, sempre con
la stessa sorpresa, questa rassomiglianza impressionante tra le strutture
dello Stato e le strutture della Chiesa-istituzione. Sicché la mia
attività al servizio della deistituzionalizzazione della Chiesa mi
ha dato un'ottima idea del meccanismo che si sarebbe dovuto combattere in
tutti i casi. Questo mi avrebbe permesso di fare utili raffronti, più
tardi, tra i princìpi che informano le istituzioni di Stato, soprattutto
il sistema penale, e il sistema scolastico.
Insomma, quando lei dice che bisogna restare aperti, vuol dire che bisogna
sempre lottare per evitare, individualmente e collettivamente, il ripiegamento
su di sé?
È così, sì. Se ci rinchiudiamo nei nostri sistemi, nella
verità che crediamo d'avere, passiamo a fianco della vita. E allora
diventa per noi del tutto impossibile esercitare una qualunque azione su quello
che vogliamo far evolvere. Ho fatto la ripetuta esperienza che quando si vuole
influire sulla realtà senza conoscerla per quel che è,
le cose si rivoltano contro di noi. Ho fatto dapprima questa esperienza coi
miei bambini, come molta gente. In una certa misura, anche senza volerlo,
noi ci imponiamo ai nostri bambini, e quando abbiamo tentato di prevedere
ciò che è bene per loro, il risultato è raramente quello
che ci aspettiamo. Perché il bambino concreto che abbiamo davanti a
noi, non lo abbiamo ascoltato. Non più di quanto, in fondo, ascoltiamo
noi stessi.
E questo atteggiamento ci allontana dalla vita?
Esso viene costantemente battuto in breccia dalla realtà. Fra parentesi,
l'inumanità del sistema penale proviene in parte dalla situazione reciproca
tra l'imputato e gli agenti che hanno a che fare con lui. Nel contesto di
questo sistema, dove chi è accusato non può parlare davvero,
dove non ha l'occasione di dire di sé, il poliziotto, il giudice, quand'anche
volessero ascoltarlo, non possono farlo. Il tipo stesso di rapporti
istituito da questo sistema crea delle situazioni inumane. Per ritornare alla
mia esperienza personale, dirò che a un certo punto ho constatato che
ogni sorta di riforme realizzate da me stesso o da altri - che erano state
volute per far cessare talune ingiustizie, si ritorcevano contro il progetto
iniziale, creando ancor più repressione e più impotenza. Oppure
che tutti gli sforzi profusi, per quanto intensi fossero stati, restavano
assolutamente senza effetto, come assorbiti o neutralizzati dal sistema. Ho
capito a poco a poco che lo scacco proviene sempre dall'avere in noi un'idea
falsa sulla realtà delle strutture che cerchiamo di maneggiare, confondendo
legittimazione e realtà.
Un'obiezione viene in mente ascoltandola: se prima di voler toccare ciò
che esiste, bisogna sapere come le cose avvengano realmente, non si rischia
di cadere in una sorta di attendismo?
Non dico che bisogna astenersi da ogni azione fino al momento in cui non si
sappia tutto! Ma è certamente necessario conoscere bene il terreno
su cui ci si impegna e stare attenti a quel che succede lungo l'intero corso
dell'azione. E per conoscere la materialità e il funzionamento delle
strutture che si vogliono cambiare, bisogna impegnarsi in una pratica.
La vera comprensione è il risultato di una pratica e di una riflessione
su di essa. Da qui la mia spontanea partecipazione a numerose pratiche alle
quali "normalmente", data la mia posizione nella vita, non avrei
avuto accesso. Partecipazione o prossimità reale. È così
che ho voluto conoscere persone nate in altri ceti sociali, o appartenenti
ad altre società, gli Indiani d'America e alcuni popoli dell'India;
persone definite come devianti: detenuti, ex detenuti, bambini "difficili",
"malati" mentali, devianti sessuali, drogati, squatter; esperti
in altre discipline, sociologi, antropologi, storici, così come gli
agenti del sistema, poliziotti, giudici, amministratori. Ho partecipato a
centinaia di riunioni, ho fatto parte di commissioni, gruppi di lavoro o gruppi
d'azione d'ogni specie, che mi hanno aperto e destrutturato. Le idee false
s'incrostano in noi perché viviamo in compartimenti che ci
separano dall'esperienza di altre persone, le quali vivono in altri compartimenti.
Personalmente, ho fatto di tutto per uscire senza posa dal mio compartimento,
il che d'altra parte mi ha procurato esperienze appassionanti.
Se lei dovesse riassumere in poche frasi ciò che le hanno insegnato
tanti incontri e scambi con gente che vive esperienze così diverse,
cosa direbbe?
Adesso so con certezza che molte pretese verità o pretese conoscenze
sono false. Sono stato, come la maggior parte della gente, formato per comprendere
il sociale secondo la griglia di lettura volontaristica. Il discorso politico,
il discorso giuridico, ci spingono a vedere in questo modo il sociale. Presumono
che un'intenzionalità è stata introdotta da certuni nei processi
sociali e che questi siano conformi a tale intenzionalità. Orbene,
sono arrivato a capire che l'approccio volontaristico serve soltanto là
dove gli uomini abbiano relazioni faccia a faccia relativamente egualitarie,
e che l'approccio fenomenologico o l'approccio materialista - che parte dalle
condizioni di vita - sono molto più appropriati dell'approccio normativo
per capire la realtà sociale. Tutti quegli incontri, tutti quei dibattiti
ai quali ho partecipato, l'ascolto di tante persone differenti, m'hanno ugualmente
portato a demistificare l'idea di una pretesa superiorità delle società
industrializzate sulle società tradizionali. Sono adesso persuaso che
sotto certi aspetti dovremmo ispirarci qui da noi a forme di sistemazione
esistenti nelle società tradizionali, le quali del resto sussistono
nelle nostre società benché il discorso ufficiale le misconosca
totalmente. Sono in effetti gli elementi più vitali per le nostre società
industrializzate.
Non c'è in questo, in una certa misura, una proposta insieme utopica
e regressiva?
Niente affatto! Da un lato, io non predico un ritorno romantico alla
società tradizionale. D'altro lato, bisogna particolarmente diffidare
di questa idea di regressione che lei avanza e che si sente spesso
evocare. Cosa si vede infatti quando osserviamo le nostre società?
Vi si è sviluppato un modo di produrre beni materiali fondato su un
certo numero di princìpi: divisione del lavoro, gerarchizzazione, disciplina,
selezione, importanza del quantificabile e importanza del potere di analizzare.
Questo approccio ha avuto la sua utilità, non lo nego. Ha permesso
di por fine a una certa povertà. Ma pure in questo preciso quadro della
produzione di beni materiali, esso non è privo di problemi. Orbene,
lo si vuol estendere a tutti i campi della vita: alla salute, all'educazione,
all'habitat, all'ambiente, e persino ai conflitti interpersonali.
E lì è assolutamente nefasto. Questo sviluppo della razionalità,
propria dell'industrializzazione in campi sempre più importanti e sempre
più profondi della vita, è catastrofico.
Molti pensatori dicono in effetti che i fenomeni della vita sono difficilmente
osservabili alla sola luce della razionalità di cui lei parla.
on dico niente di nuovo, è vero. Quasi tutti vedono qui un grande problema.
Ma in genere lo si dice, e anch'io lo faccio a volte, in modo astratto. Più
in profondità, vivo nella realtà della mia esperienza personale
questa spinta della razionalità di cui stiamo parlando come una sorta
di cancerizzazione. Nella mia partecipazione alla vita sociale percepisco
quanto tale approccio, che si diffonde sempre più in fretta, accresca
sempre più il divario tra il modo in cui si presentano le cose e la
realtà vissuta, e quanto si arrivi attraverso questo processo a una
società di apparenze. Ora, quando quel che si dice è
profondamente diverso da quel che succede realmente e da quel che si fa, si
prova un grande senso d'impotenza e si smette di sentirsi coinvolti nella
vita sociale.
Lei crede dunque che un qualche ritorno alla società tradizionale
sarebbe per noi benefico?
Sì lo affermo. I paesi industrializzati che si trovano nella fase storica
che conosciamo sono chiamati a rivalorizzare princìpi tipici delle
società tradizionali. Queste conoscono delle forme di sistemazione
sociale che implicano meno divisione del lavoro. Là dove questa esiste,
si applica meno in un quadro istituzionale che in un quadro di
complementarietà. L'aspetto qualitativo vi mantiene maggior
importanza. La visione analitica non vi spegne un approccio intuitivo
e globalizzante della vita, che predomina. Bisogna tornare a questo.
Come prepararvisi praticamente?
Bisogna cercare di deprofessionalizzare, di deistituzionalizzare, di decentralizzare.
Facile a dirsi!
È vero che può sembrare estremamente difficile uscirne. Noi
- voglio dire la gente come me che ha ricevuto una formazione professionale
- siamo talmente colonizzati dall'approccio istituzionale che perfino
quando vogliamo deistituzionalizzare e decentralizzare, ricadiamo sempre nel
modello che cerchiamo di sfuggire. Abbiamo perso l'abitudine, il saper fare,
il saper agire non istituzionale sul piano sociale globale. Orbene, quando
vogliamo ritrovare i princìpi di sistemazione sociale che sorreggono
le società tradizionali, non dobbiamo cercare di reintrodurli all'interno
del modello istituzionale, che del resto è incompatibile con essi...
Come fare allora?
Il solo modo, secondo me, di fermare la cancerizzazione istituzionale per
rivalorizzare altre pratiche di sistemazione sociale è la deistituzionalizzazione
nella prospettiva abolizionista.
Tutti i sentieri la portano all'abolizionismo.
In effetti. Le altre esperienze chiave cui ho fatto cenno: solidarietà,
conversione, mi ci portano ugualmente, così come al tempo
stesso danno conto della mia identità.
Può chiarirlo?
Prendiamo la parola "solidarietà". Per me è legata
al modo in cui percepisco la mia esistenza. È una specie di motore
interiore. Credo che il mio sentimento della solidarietà si radichi
assai profondamente in un acuto senso dell'uguaglianza degli esseri. Ma attenzione,
è una nozione d'uguaglianza totalmente opposta a quella che generalmente
viene proposta dal discorso ufficiale e dalla pratica istituzionale delle
nostre società.
Come?
La nozione d'uguaglianza che la pratica e il discorso istituzionale utilizzano
più sovente, esclude la diversità. La nozione ufficiale d'uguaglianza
riesce a mascherare una riduzione della vita. Le istituzioni, per rendere
le faccende malleabili, le riducono alla loro natura d'istituzione. Ciò
è in totale contraddizione con la nozione d'uguaglianza, per me sinonimo
di diversità. Un libro importante di Van Haersolte chiarisce bene questo
punto. Van Haersolte, che è professore di filosofia del diritto, s'interroga
sul livello in cui si può collocare lo Stato, corpo sociale, in rapporto
a tutto ciò che esiste: gli uomini, le piante, le pietre, le istituzioni
in generale. Per lui, la persona è un certo livello d'integrazione
d'informazioni, e la qualità della persona dipende dal suo livello
d'integrazione. E dopo aver accettato la possibilità di personalizzare
lo Stato come corpo sociale, egli mette in guardia contro quella tendenza
che gli dà lo statuto più elevato: lo Stato, dice egli, dal
punto di vista dell'integrazione, è apparentabile forse a un verme,
ma certamente non a una persona umana! Sono molto colpito da questa immagine.
Non nego che le istituzioni possano avere una certa utilità poiché
danno personale organizzativo per sistemare certi settori. Ma sono convinto
che esse abbiano una vita ben inferiore a quella dell'uomo. Il meno intelligente
degli uomini, che meraviglia d'integrazione al livello dei compiti che deve
adempiere! E un'istituzione, al livello dei compiti che sono suoi, che limitati
ruoli svolge! Orbene, nelle nostre società industrializzate, si personificano
a tal punto le istituzioni, e specialmente lo Stato, che del verme,
facciamo un dio! Invece di riconoscere allo Stato e alle istituzioni
in generale un ruolo modesto e subordinato, sono gli umani che vengono messi
all'ultimo posto. Gli umani vengono degradati, inferiorizzati. E la vita umana,
che è d'una ricchezza e adattabilità estreme, viene ridotta
alla natura semplificatrice e compartimentatrice delle istituzioni.
Quando si parla di solidarietà, bisogna forse dire verso chi o
che cosa ci si sente solidali?
Solidarietà non vuol dire mai, per me, compromissione con una qualunque
forma di sistemazione sociale o istituzionale. È sempre di una solidarietà
vissuta con esseri concreti o gruppi concreti che io parlo: persone, animali,
oggetti concreti.
Anche oggetti?
Quando ci si trova in una regione desertica o poco popolata, la materia, il
legno per esempio, anche il sasso, assumono un'altra dimensione. Diventano
"vicini". Sì, vivo in solidarietà con ogni elemento
del mondo, ma non con le istituzioni o i loro emblemi. Molti sentimenti di
solidarietà si manifestano, nelle nostre società, attorno a
certe istituzioni o simboli d'istituzioni. Questo tipo di solidarietà
mi fa rabbrividire.
A questo punto?
Assolutamente. Un simile riflesso credo trovi la sua origine nelle esperienze
della mia giovinezza. Ricordo bene, prima che Hitler salisse al potere, e
soprattutto dopo, quando vi fu portato, i discorsi che udivo alla radio e
le reazioni della folla. E ho visto questa specie di solidarietà che
esecro espandersi in Germania. Ero un bambino, e poiché abitavamo vicino
al confine, io già sentivo che giocava su di me, come sugli altri,
il fascino, l'attrazione magnetica d'una tale forma di solidarietà,
di cui presentivo al tempo stesso l'enorme pericolo. La solidarietà
di cui parlo è un concetto assai sottile, che non posso mai afferrare
completamente e che difficilmente riesco a far comprendere. È un sentimento
di mutua dipendenza, che è per me, in un certo senso, la definizione
stessa della vita. Noi esistiamo tutti insieme in una sorta di comunione cosmica.
Esserne cosciente sviluppa una sorta di rispetto, di delicatezza, di desiderio
di mutuo aiuto. Ciò implica un senso di responsabilità, un'attenzione
particolare riguardo a colui che è in difficoltà o in stato
di debolezza. È un sentimento vitale che la liturgia della Pentecoste
esprime particolarmente bene: "Vieni, Spirito Santo. Vieni in noi, padre
dei poveri, vieni, luce dei nostri cuori, lava ciò che è sporco,
bagna ciò che è arido, guarisci ciò che è ferito.
Ammorbidisci ciò che è rigido, riscalda ciò che è
freddo, rendi dritto ciò che è storto". Questa sequenza
è sempre stata molto significativa per me, probabilmente perché
raggiunge una specie di atmosfera interiore, la stessa che mi fa riconoscere
il diritto di essere a ogni forma d'esistenza. Perché non si può
rifiutare ad alcuno il diritto di vivere a modo suo quando si reclami lo stesso
diritto per sé. Sono stato messo a confronto, attraverso l'educazione
che riceviamo nella nostra società, con una visione del mondo che rifiuta
un tale diritto. Ho già detto come, in collegio, si era voluto convincermi
che fossi diverso dagli altri: io, cattolico, ero più di coloro che
non appartenevano a questo gruppo. Visceralmente, non ho mai potuto accettare
questo e, nel corso della mia vita, sono stato portato a rifiutare tutte le
separazioni, tutti i modi di comprendere il mondo che escludono altre forme
di vita. Anche quelle che fanno dell'uomo un essere completamente a parte.
Per me l'animale e ciò che viene definito "la natura" sono
inclusi nella comunione universale.
Allora lei dovrebbe sentirsi bene nell'approccio francescano.
Sì, se ci si situa nel mondo cristiano. Ma mi sento ugualmente me stesso
nell'esperienza di vita che fanno gli Indiani d'America. O ancora, in rapporto
alle ideologie nate dalla società industrializzata, nella corrente
ecologica.
Non la si accusa a volte di "angelismo"?
In che senso? Non ignoro che il sociale si trova necessariamente in una situazione
di conflitto. Per questo aspetto, infatti, il mio linguaggio è meno
utopico di quello tradizionale, e in particolare di quello del sistema penale,
che s'appoggia a un presunto consenso del tutto irreale.
Volevo dire che potrebbe sembrare non realistico restarsene in una contemplazione
passiva di tutti i modi d'essere senza prendere a volte energicamente partito
contro alcuni di essi.
Il modo in cui parlo della solidarietà, lo riconosco, aiuta a credere
che io non provi mai aggressività. È completamente falso. I
sentimenti di cui ho parlato non escludono né spirito di lotta né
aggressività, né un rifiuto redibitorio di certe situazioni
o modi d'agire. Posso anzi vivere rifiuti molto forti e molto passionali.
Come vivere contemporaneamente una comunione intensa con ogni forma di
vita, e la volontà di distruggere un avversario?
Non confondo, direi, non confondo più il mio avversario con ciò
di cui egli è portatore e che ritengo mio dovere combattere. È
un fatto che io non sia mai stato pacifista. È di un settore armato
della Resistenza che ho fatto parte durante l'occupazione, e credo ancora
fosse così che dovevo partecipare a quella lotta. Forse non avevo ancora,
all'epoca, la chiara visione che l'avversario non dovesse esser ridotto alla
posta in gioco della guerra. Ma posso dire a distanza di tempo e grazie alle
esperienze vissute in seguito, che proprio il tipo di solidarietà che
sperimento nel più profondo di me stesso m'impedisce, oggi comunque,
di ridurre le persone implicate in un combattimento alla situazione, o alle
forme di sistemazione sociale contro le quali mi levo e nelle quali tali persone
si trovano compromesse. Фото наших Ñамых прекраÑных и роÑкошных проÑтитуток найдете по ÑÑылке: https://sex-tumen.prostitutki72.com Вызвать девушку проще проÑтого в два клика.
Come fa per unire il lato, diciamo quasi "moralizzante" in
lei, con un senso di solidarietà che vuol dare a ognuno una possibilità
di vivere il proprio modo d'esistere?
A prima vista, ciò può infatti sembrare paradossale. Nella pratica
della mia vita, non lo è. Provo, fondamentalmente, una reticenza a
giudicare, a stimare una situazione prima d'aver provato ad afferrare un modo
di vivere nella sua globalità e dall'interno. Non parto neppure dall'idea
che un'altra forma di vita sia a priori meno buona di quella cui aderisco.
C'è in me d'altronde una curiosità naturale che mi spinge a
interessarmi di tutto ciò che è differente, e a provare piacere
scoprendolo. L'incontro con un altro modo d'essere al mondo non è per
me un'esperienza negativa, ma uno stimolo!
Ma che cosa fa quando, avendo potuto stimare una situazione dall'interno
e ricollocandola nel suo contesto globale, il suo giudizio è critico?
Forse bisogna fare qui una distinzione importante. Posso personalmente ritenere
cattivo, dannoso o indegno, un certo modello di vita o una certa situazione
nella vita. Per esempio il posto specifico della donna in alcune società.
Ma se gli stessi interessati non vi vedono un problema, non penso che io debba
imporre il mio punto di vista. In quel contesto non posso che cercar
di spingere gli interessati verso un cambiamento che devono realizzare loro
stessi. La storia è piena di processi di cambiamento che hanno provocato
immense sventure proprio perché si è voluto imporre ad altri,
per la loro salvezza, un modello di vita "migliore", senza passarvi
col loro consenso. Questo modo d'agire mi sembra profondamente contrario all'uguaglianza
fondamentale degli umani così come la intendo. Ciò vuol dire
che per partecipare in questo caso a un processo di cambiamento, i miei mezzi
sono limitati. Posso provare a convincere; posso demistificare alcune cose,
posso mostrare modelli di comportamento diversi - in una specie d'invito
fatto all'altro per avviare un processo di cambiamento o per farne parte.
E se io sono dal lato del potere, cercherò i mezzi per facilitare condizioni
di vita che rendano possibile a quest'altro o a questi altri la scoperta di
un altro modo di vivere. Senza mai disconoscere il loro diritto fondamentale
di esistere secondo la loro visione delle cose. L'altro caso è più
semplice: si tratta di quando alcuni subiscono il modo di vivere di altre
persone che causa loro un danno o un torto. Ci si ritrova allora in pieno
conflitto. E se m'impegno in questo conflitto, prenderò parte a un'azione
- forse a una lotta - in corso, nella quale cercherò di svolgere un
ruolo utile che sia al tempo stesso compatibile con la mia percezione del
mondo. Vale a dire che allora farò di tutto - ciò può
naturalmente porre ogni genere di problema nel concreto - per non disumanizzare
mai i miei avversari.
Non crede alla cattiveria umana?
È la domanda postami da mio figlio quando aveva 4 o 5 anni. "padre,
c'è gente veramente cattiva?" mi aveva domandato. Gli ho risposto:
"Non so, Lodewyk, ma non ne ho mai incontrata". Oggi, 28 anni più
tardi, posso ancora dire che non ho incontrato nessuno di cui io sia incline
a dire, dopo aver stabilito un vero contatto: "È un uomo cattivo".
Ho incontrato parecchia gente difficile. Incontro spessissimo gente noiosa.
Ma mai qualcuno che, dopo uno sforzo di comprensione, mi sia apparso ripugnante
e neppure fondamentalmente distante da me. Per me, ogni essere è al
tempo stesso profondamente differente ed esistenzialmente prossimo. Ciò
mi libera dalle spiegazioni del mondo che poggiano su delle discriminazioni
e vorrebbero provocare una messa in disparte di alcuni considerati cattivi.
La mia esperienza personale mi ha convinto che simili spiegazioni, del resto
derivanti dall'approccio volontaristico di cui abbiamo parlato, sono poco
realistiche, e meno fruttuose per la vita sociale del mio approccio fenomenologico.
La criminologia anglosassone ha fatto vedere che il "criminale",
in base alla definizione che egli dà della situazione, trova il proprio
comportamento più o meno "normale", e in ogni caso non più
cattivo del comportamento della maggior parte della gente. Così, quando
si ammetta che l'altro può dare a quel che vive un senso rispettabile
- anche se non si simpatizza personalmente col suo modo di vedere - si possono
trovare delle risposte umane alle situazioni conflittuali. Le spiegazioni
teoriche che poggiano su distinzioni manichee sfociano al contrario in desolidarizzazioni
inaccettabili per me.
Lei ha indicato come un certo numero di esperienze l'abbiano condotta
a prestar fede solo a ciò che ha potuto verificare da se stesso; non
solo tra l'altro tramite l'osservazione e il ragionamento, ma tramite una
sorta di comunione interiore con gli esseri, che ha definito come il suo senso
di solidarietà. Ha detto della sua diffidenza verso le istituzioni
riduttrici per natura, e della sua fede nell'uomo, in tutti gli uomini, verso
i quali è spinto da una particolare disposizione all'apertura verso
gli altri. Ma per dare pienamente conto della sua posizione abolizionista,
lei ha detto di dover far appello a un altro dei suoi atteggiamenti di fondo.
Sì, per spiegare del tutto chi sono, bisogna che io provi a circoscrivere
un'ultima esperienza fondamentale, quella della conversione.
In che senso usa questo termine?
Farò uso di una metafora. Si può definire se stessi come una
specie di armadio composto da una molteplicità di piccoli cassetti.
Vi organizziamo tutti i dati che ci arrivano: quel che vediamo, i messaggi
che ci giungono dall'esterno o dall'interno; vi classifichiamo pure il nostro
sapere. E abbiamo una tendenza a rifiutare i messaggi che non coincidono con
questa organizzazione personale. Se non abbiamo un cassetto, o se quel che
ci arriva non ha il formato adatto per entrare nei cassetti esistenti, lo
eliminiamo. Ma se invece di rigettare il nuovo dato, si accetta di rivedere
la classificazione di tutti gli altri e di riorganizzare tutti i cassetti,
è questa, la conversione di cui parlo. Nella realtà,
la conversione implica sempre un salto, perché non si sa mai esattamente
che cosa darà una simile riorganizzazione. Un salto tanto più
pericoloso giacché la conversione si produce necessariamente a due
livelli: quello della comprensione della realtà e, parallelamente,
quello della pratica che ne discende.
È angosciante, no?
Le reticenze che si possono provare durante il salto da fare diminuiscono
quando si è fatto più volte questo tipo d'esperienza. Per quel
che mi riguarda, non parlerò di angoscia. L'ansietà con cui
si pensa davanti a una conversione necessaria proviene dall'idea che si stia
per perdere la propria identità. La mia esperienza mi ha fatto provare
l'esatto contrario. Non ho mai perduto nulla di me stesso durante i salti
che ho dovuto fare. Tutto è stato reinterpretato con nuovi significati,
più profondi e più veri. In una conversione, non ci si perde,
si trova se stessi. Ed è perché ho provato questo fenomeno come
estremamente fruttuoso che ho potuto, a un certo punto, "fare il salto"
nella posizione abolizionista.
Ma l'abolizionismo potrebbe restare una posizione personale solitaria!
Appunto, volevo dire che ci sono due tipi di conversione; le conversioni individuali
e le conversioni collettive. Per abolire il sistema penale, ci vorrebbe una
conversione collettiva.
Le conversioni collettive sono rare.
È ciò che quasi tutti credono. E s'intende parlare della gente,
intorno a sé, la quale dà l'impressione che le forme di sistemazione
sociale così come esistono siano eterne, o che se devono cambiare ciò
avverrà solo molto lentamente. A lungo ho condiviso quest'opinione.
L'esperienza m'ha insegnato a liberarmi di tale idea.
Ha fatto l'esperienza di conversioni collettive?
L'abbiamo fatta tutti, quest'esperienza! Sappiamo anzitutto dalla storia che
ogni civiltà è vissuta secondo forme di sistemazione, e ha espresso
modi di vedere, che ci risultano oggi completamente incomprensibili. Come
si è potuto credere alle streghe, e credere pure che bruciandole si
sarebbe evitato ogni genere di catastrofe? Nessuno di noi oggi potrebbe aderire
a una tale idea né chiedere di nuovo una tale pratica. È vero
che questo esempio può sembrarci molto lontano, e si potrebbe dire
che credenze simili siano in effetti scomparse gradualmente. Ma si
possono citare altri esempi più vicini a noi che evocano delle svolte
spettacolari, come l'abolizione della schiavitù e l'interdizione dei
castighi corporali nelle scuole, le quali hanno messo fine bruscamente a delle
pratiche che non capiamo più come abbiano potuto essere accettate,
né soprattutto volute sul piano dei princìpi.
Gli esempi che lei dà colpiscono molto, ma si situano in una storia
che non è la nostra. Lei parlava di esperienza personale!
Sì appunto, quando esamino la mia esperienza, constato che in 60 anni
circa, ho visto dei cambiamenti enormi che nessuno poteva pensare si sarebbero
prodotti così presto. Ne indicherò due, che mi hanno impressionato
particolarmente: il primo, è il cambiamento che s'è prodotto
in Germania nel momento in cui i nazisti sono saliti al potere. Ho visto
in qualche anno come il modo di comprendere la società e di considerare
certi gruppi di popolazione gli ebrei cambiava nella mentalità di parecchia
gente, e come al tempo stesso si modificava la loro pratica. Ho pure visto
del resto come dopo la guerra, nello stesso modo e al contrario, nuovi modi
di vedere, con le corrispondenti pratiche, sono venuti alla luce altrettanto
rapidamente.
Stava parlando di un altro esempio?
Sì, che stupisce altrettanto. Sono nato in una regione dei Paesi Bassi
dove, l'ho già detto, le istituzioni della Chiesa dominavano quasi
completamente le istituzioni civili: librerie, scuole, sindacati, erano in
mano alla Chiesa istituzionale, la quale dominava ovviamente pure le pratiche
quotidiane, in particolare la questione dei rapporti sessuali e dell'utilizzo
di tecniche contraccettive. Ogni osservatore di quelle pratiche avrebbe detto
che si trattasse di opinioni inestirpabili. Orbene, esse erano motivate dalle
posizioni ufficiali della Chiesa, e io ho visto tutta questa rete istituzionale
crollare in cinque anni! La gente s'è liberata, in questo
breve arco di tempo, dagli obblighi della Chiesa istituzionale, e ha profondamente
modificato certe pratiche che erano legate all'ideologia veicolata da questa
istituzione, in particolare il proprio comportamento sessuale. Prima che un
simile evento si producesse, avrei detto che era impossibile si modificassero
in profondità, in così breve tempo, le relazioni personali in
quel che hanno di più intimo. Ma io ho assistito a questo
evento! Ne ho tratto la profonda convinzione che non si deve mai ritenere
impossibile una conversione collettiva nel senso in cui sono ricorso a questo
termine.
Di contro, non si potrà mai assicurare che essa si realizzerà!
È vero. Nessuno può pretendere di controllare o di provocare
volontariamente una mutazione. E parecchia gente ha ragione nel dire che là
dove essa sta, non può far niente, o quasi niente. Ma ognuno, quale
che sia il suo posto, può liberarsi almeno dall'idea che ogni speranza
di cambiamento sia vana. Ogni persona che, nel più profondo di sé,
respinga come sbagliato un certo stato di cose, può far fruttare interiormente,
come forza positiva, il suo desiderio di cambiamento, e vivere, come dice
l'apostolo, "in questo mondo pur non essendo di questo mondo". In
termini cristiani, ciò ha un nome: è la speranza.
Note:
* Jacqueline Bernat de Célis, dottore in diritto e criminologia, è ricercatrice presso il Centre de Recherches de politique criminelle di Parigi. Ha realizzato le conversazioni della parte prima.
1 Louk Hulsman era venuto a una riunione dell'Associazione Droits de l'homme et solidarité il 18 marzo 1981