Louk Hulsman
Jacqueline Bernat de Célis
PENE PERDUTE
Il sistema penale messo in discussione
Parte seconda
La prospettiva abolizionista
presentazione in due tempi
2
Per quale libertà?
31. Solidarietà
I movimenti che cercano di ridare al detenuto la sua dignità di uomo,
"umanizzando" il carcere, trovano di solito la loro radice in un
sentimento di solidarietà verso la sorte dei detenuti. Ebbene, colpisce
la constatazione che praticamente tali proposte non vanno avanti. Energie
considerevoli si perdono così nelle sabbie mobili dell'istituzione
penitenziaria. Ho visto persone che volevano riforme vere dispiegare sforzi
enormi per risultati assolutamente ridicoli, per ottenere, ad esempio, dopo
un anno, che i detenuti avessero un quarto d'ora di televisione.
Non basta cercar di modificare la condizione del detenuto perché qualcosa
cambi davvero. L'approccio che concentra gli sforzi su quest'ultima fase del
percorso penale si rivela impotente nella pratica. Voler trasformare il carcere,
e soltanto il carcere, vuol dire lavorare all'interno di una posizione che
non muta, di una prospettiva bloccata. È a monte del percorso che bisogna
collocarsi, là dove le persone vengono selezionate per diventare dei
detenuti.
D'altra parte, a questo livello dovrebbero intervenire altre forme di solidarietà
che sono tutt'altro che incompatibili. Secondo me, si tratta di vivere quattro
tipi di solidarietà: la solidarietà con le persone condannate;
la solidarietà con le persone vittimizzate; la solidarietà con
l'insieme delle persone viventi in una società, che è importante
liberare dai falsi timori e dagli errori che commettono collegando sconsideratamente
i propri problemi nella società con l'esistenza di un sistema penale;
la solidarietà, infine, con la gente che garantisce il funzionamento
del sistema penale, e che si ritroverebbe felicemente liberata se potesse
smettere di lavorare per la sopravvivenza di una macchina simile.
Quelli che percepiscono e vogliono accettare queste quattro forme di solidarietà
non possono accontentarsi di un orientamento volto semplicemente a riformare
il carcere neppure della sola abolizione, e nient'altro, della pena carceraria.
Per costoro, dei quali faccio parte, è l'intero sistema che bisogna
ribaltare.
32. Circolo vizioso
Diverse scuole di pensiero hanno cercato di limitare gli effetti inumani
del sistema penale. Talune, preconizzando una rigorosa limitazione delle pene
che privano della libertà, hanno cercato d'influire pure sulla loro
applicazione quando il ricorrervi sembrava inevitabile. Esse hanno creduto
che trasformando gli scopi della pena facendo in particolare della pena privativa
di libertà una misura rieducativa invece che un castigo si sarebbe
trasformato il sistema penale e penitenziario. Hanno ritenuto che quest'ultimo
potesse diventare una specie di scuola di riadattamento in cui il detenuto
sarebbe stato preparato per un miglior inserimento sociale.
Questa corrente umanistica è ben riuscita a introdursi nella formulazione
delle leggi, poiché rari sono i codici penali odierni i quali non dicano
che la pena ha per fine "il reinserimento sociale del condannato".
Sfortunatamente, questo è un pio intento: nella pratica, il sistema
in quanto tale è rimasto ovunque repressivo. Il carcere non significa
mai altro che castigo, e il marchio che imprime su coloro che tocca si manifesta,
contrariamente al princìpio proclamato, con l'emarginazione sociale
più o meno definitiva di chi esce di prigione.
Altre correnti di pensiero hanno proposto di eliminare/escludere la pena,
sia rimpiazzandola con un intervento medico o pedagogico, sia sopprimendo
ogni intervento. Ma c'è da notare che tutti questi approcci, compreso
l'ultimo, si riferiscono sempre a qualcuno che è definito come "autore".
Questa premessa non è messa in discussione. Si è più
o meno comprensivi, più o meno umani, verso chi ha agito; tuttavia
si continua a vederlo come l'autore responsabile di un'azione disdicevole.
Ora, l'esperienza dimostra che non basta cercar di trovare una soluzione sociale,
piuttosto che giudiziaria, del conflitto, ma che si deve problematizzzare
il concetto stesso di reato, (1)
e con esso, il concetto di autore. (2) Se ci rifiutiamo di spostare questa
pietra angolare del sistema attuale, se non osiamo spezzare questo tabù,
ci condanniamo a girare in tondo all'infinito, quali che siano le nostre buone
intenzioni.
33. Vocabolario
Eliminare il concetto di "reato" costringe a rinnovare completamente
il discorso globale su ciò che viene chiamato fenomeno criminale, e
sulla reazione sociale che esso suscita.
Bisogna prima di tutto cambiar linguaggio. Non si potrebbe superare la logica
del sistema penale se non si rifiutasse il vocabolario che quella logica sottintende.
(3) Le parole:
crimine, criminale, criminalità, politica criminale,
eccetera appartengono al dialetto penale. Riflettono i presupposti del sistema
punitivo statale. L'evento qualificato come "reato", separato in
partenza dal suo contesto, estrapolato dalla rete reale delle interazioni
individuali e collettive, presuppone un autore colpevole; l'uomo presunto
"criminale" considerato come appartenente al mondo dei "cattivi",
è proscritto in anticipo...
L'importanza della scelta delle parole non deve più esser dimostrata:
ognuno sa quanto cambi dall'interno lo statuto sociale di una persona che
non sia più una serva, ma una collaboratrice domestica,
o che cessi di essere una ragazza madre per diventare una madre
nubile. È altrettanto sicuro che anche in un contesto che si vuole
scientifico, parole come criminologia, sociologia del crimine,
scienza del crimine, eccetera si rifanno in modo negativo ai concetti
discriminatori, inconsciamente accettati, del sistema penale...
Ci si dovrebbe abituare a un nuovo linguaggio, capace di esprimere uno sguardo
non giudicante sulle persone e sulle situazioni vissute. Così, parlare
di "atti spiacevoli", di "comportamenti indesiderabili",
di "persone implicate", fa già entrare in una nuova mentalità.
Cadono pareti che mettevano da parte l'evento e limitavano le possibilità
di risposta; che impedivano per esempio di paragonare, dal punto di vista
dell'emozione o del trauma provati, un "furto con scasso" a delle
difficoltà sul posto di lavoro, o nella situazione della coppia. Liberato
dalla compartimentazione istituzionale, un linguaggio aperto lascia emergere
delle possibilità di confronto fino ad oggi sconosciute.
34. Un'altra logica
Cambiar linguaggio non basta se si conservano, sotto nuovi termini, le vecchie
categorie. Se ad esempio si definisce "evento indesiderabile" il
medesimo contenuto del concetto legale di "reato" un solo atto
mirato, una responsabilità addossata al solo attore visibile, eccetera
si resta, senza accorgersene, nella logica di fondo del controllo sociale
che già conosciamo. Ci si chiede allora con cosa sostituire il
sistema penale, si cercano delle soluzioni di ricambio, e questo
non è un buon approccio. Perché non si tratta di ricostruire
un edificio che vada a combaciare perfettamente col vecchio stampo, ma di
guardare la realtà con altri occhi.
In molti casi, un comportamento potrebbe cessare d'essere un crimine senza
che nessuna struttura debba sostituirsi al defunto sistema penale. Pensiamo
a tutto ciò che ha potuto esser definito come reato nel corso
della storia, e che un giorno ha cessato, per volontà di legge, di
far parte dei comportamenti presi di mira dalla legge penale. L'omosessualità,
cantata da Platone e vissuta liberamente nell'antica Grecia, è stata
a lungo condannata penalmente dallo Stato moderno, e lo è ancora in
alcuni paesi. La prostituzione ha avuto diverse sorti, dall'interdizione sotto
minaccia penale fino alla totale libertà, passando attraverso vari
tipi di condizioni controllate amministrativamente. Si può dire altrettanto
per il consumo di vini e liquori, non interessandosi la legge penale occidentale
che indirettamente al consumo di alcol, quando esso dia luogo a un altro delitto:
la guida in stato d'ubriachezza. Per quanto riguarda le sostanze psicotrope,
si nota che i vari paesi reagiscono diversamente: gli uni condannano penalmente
il consumo e il traffico di droga, altri non fanno rientrare nel sistema penale
che il solo traffico, escludendo il consumo personale, altri ancora fanno
rientrare nel sistema penale solo le droghe cosiddette "pesanti",
escludendo quelle chiamate "leggere".
Alcuni si spaventano udendo la parola "decriminalizzazione", come
se togliere la punibilità di un fatto comporti necessariamente un trauma
sociale insopportabile. Ebbene che succede quando si decriminalizzano dei
comportamenti? Certuni continuano a creare problemi, e si cerca allora di
risolvere questi problemi con dei mezzi che non facciano ricorso alla polizia
repressiva, al giudice penale, al carcere. Quando per esempio è stato
decriminalizzato il vagabondaggio in Norvegia, si è vista gente ubriaca
nei parchi e si sono cercate delle soluzioni per evitare ciò. In Francia,
il fatto d'aver decriminalizzato l'interruzione di gravidanza, ha portato
alla necessità di fornire un'informazione sistematica alla popolazione,
in particolare ai giovani, sulla contraccezione (pubblicità che, in
un recente passato, era anch'essa punibile!) e allo sviluppo dell'idea di
planning (pianificazione) familiare e di paternità consapevole.
Certe altre decriminalizzazioni non pongono alcun problema speciale. I comportamenti
che cessano d'essere penalizzati vanno nella categoria degli atti della vita
sociale liberamente gestiti dagli interessati, non assoggettati al potere
di punire del sovrano. Non si bruciano più, in nome dell'ordine pubblico,
persone definite penalmente come "streghe", si lascia la gente credere
o non credere ai fenomeni ormai chiamati parapsicologici, e le cartomanti
e altri "maghi" dei nostri tempi fanno parte di una categoria socio-professionale
riconosciuta: pagano delle tasse, si fanno liberamente pubblicità sulla
stampa, eccetera. Sta a ognuno porsi come crede riguardo all'esistenza di
queste persone e a ciò che propongono.
In certi casi, infine, è del tutto chiaro che la decriminalizzazione
costituisce una liberazione per le persone e i gruppi e un risanamento
della vita sociale. In un paese come la Spagna, dove riunirsi, associarsi,
esprimere pubblicamente un'opinione contraria all'ideologia ufficiale, sono
stati per 40 anni attività punibili come delitti, la scomparsa di questi
casi dal codice repressivo è stata salutata, dopo la morte di Franco,
come una vittoria della democrazia.
Ai nostri giorni, commissioni di studio nazionali riflettono, in diversi paesi,
sulle possibilità di espungere dal codice penale comportamenti che
lo Stato riconsegnerebbe in tal modo alla libertà individuale. Ma generalmente
queste istanze sono molto restie a farlo. Esse si sentono a loro agio solo
quando si sia prodotto, nel ceto sociale cui appartengono i membri delle commissioni
stesse, un cambiamento tangibile nel modo di considerare il comportamento
che è in esame. È così che hanno avuto luogo delle decriminalizzazioni
su certi aspetti della vita sessuale. In altri campi nei quali un tale cambiamento
non si è avuto, si esita a decriminalizzare se non si è convinti
che sia possibile mettere al suo posto un altro modello istituzionale di controllo
del fenomeno.
È chiaro che un simile atteggiamento è contrario al modo di
vedere e alla pratica qui sostenuti. Criminalizzare all'interno di un codice
nazionale, dato il ruolo che questo codice svolge nella pratica del sistema
penale, vuol dire centralizzare e istituzionalizzare. Da
parte sua, chi segue o suggerisce una politica di decentralizzazione e di
deistituzionalizzazione è animato da una fiducia assai maggiore nei
processi di regolazione sociale non formalizzati e non centralizzati, o meno
formalizzati e meno centralizzati. E la resistenza verso la decriminalizzazione
gli risulta tanto meno comprensibile dato che egli intravede il ruolo che
potrebbe svolgere il sistema giuridico civile se gli venissero fornite,
attraverso opportuni adattamenti, le possibilità di una tale
promozione. (4)
35. Cinque studenti
Chiamare "crimine" un fatto o "delitto" vuol dire limitare
straordinariamente le possibilità di comprendere cosa succede e di
organizzare la risposta. Se le astratte griglie riduttive che il sistema penale
applica agli eventi venissero sostituite da griglie naturali, che partano
dalle persone invece di partire dalla struttura socio-statale, potrebbero
svilupparsi vari tipi di reazione. Una parabola lo farà capire meglio.
Cinque studenti vivono assieme. A un certo punto, uno di essi si avventa sul
televisore e lo manda in frantumi; rompe anche un po' di piatti. Come reagiranno
i suoi compagni? Nessuno di loro è contento, ovviamente. Ma ognuno,
analizzando l'evento a modo suo, può adottare un diverso atteggiamento.
Lo studente numero 2, furente, dichiara che non vuol più vivere col
primo, e chiede di cacciarlo via; lo studente numero 3 dichiara: "non
ha che da comprare un nuovo televisore e altri piatti, che paghi". Lo
studente numero 4, assai traumatizzato da quanto è appena successo,
esclama: "È sicuramente malato, bisogna trovare un medico, farlo
vedere da uno psichiatra, eccetera". L'ultimo infine sussurra: "Noi
crediamo d'intenderci bene, ma qualcosa non deve funzionare nella nostra comunità
se un tale gesto si è reso possibile. Facciamo tutti quanti un esame
di coscienza".
C'è qui quasi tutta la gamma di reazioni possibili di fronte a un dato
evento quando esso è attribuito a una persona: (5) il modello punitivo,
i modelli compensativo, terapeutico, conciliatorio. Se si restituisse alle
persone direttamente coinvolte il controllo dei propri conflitti, si vedrebbero
spesso applicare, accanto alla reazione punitiva, altri modelli di
controllo sociale; misure sanitarie, educative, d'assistenza materiale o psicologica,
di riparazione, eccetera.
Chiamare "reato" un fatto, vuol dire escludere in partenza tutte
queste altre griglie; vuol dire limitarsi al modello punitivo, e
al modello punitivo della griglia socio-statale, cioè un modello
punitivo dominato dal pensiero giuridico, esercitato da una rigida struttura
burocratica totalmente avulsa dalla realtà. Chiamare "reato"
un fatto, vuol dire chiudersi in partenza in questa opzione sterile.
Per me, non ci sono né crimini né delitti, ma delle situazioni-problemi.
E al di fuori delle persone direttamente implicate in tali situazioni, è
impossibile risolverle umanamente.
36. Appesantitore
La "gravità" del fatto non è un buon criterio per
determinare la risposta sociale. Riflettete sulle esperienze da voi vissute.
Sapete benissimo che una reazione punitiva non per forza è ciò
che possa aggiustare meglio una situazione difficile. Un esempio lo dimostrerà.
In una famiglia regna un certo spirito di disciplina. In particolare, ciascuno
deve arrivare in orario per i pasti. Ora, un giovane arriva sempre in ritardo.
Come reagirà questa famiglia? In un primo tempo, in modo punitivo:
viene soppressa la sua paghetta, lo si priva del pranzo, eccetera. Ma se il
giovane, esasperato, lascia questa famiglia, va a vivere altrove, che succede?
In molte famiglie, cambia allora il "modello" di reazione. Non viene
più applicato il modello punitivo, diventato inefficace, ma
il modello terapeutico o conciliatorio. Nella vita quotidiana, ci si accorge
che molto spesso, il modello punitivo è inefficace quando si tratta
di cose serie. La stessa "gravità" della situazione costringe
a definirla altrimenti e a inventare altre forme di risposta.
Ciò che è possibile in condizione di libertà non lo è
più all'interno del penale. Se si è nel sistema penale, non
si può più cambiare reazione. E il discorso penale è
innestato sulla nozione di gravità. Si crede che nei casi
"gravi", non si possa fare a meno del penale. Io non sono di
questo parere.
Che cos'è d'altronde la gravità? In questo termine si mescolano
elementi eterogenei che gli impediscono d'essere un criterio operativo dal
punto di vista della realtà sociale. Alcuni di questi elementi sono
esterni rispetto all'autore: si dice che un atto è grave quando grande
è il pregiudizio arrecato. Altri elementi riguardano invece la vita
interiore dell'attore: il suo intento di nuocere, la sua colpevolezza. Come
pretendere di trovare la misura da adottare nei confronti dell'autore, unendo
elementi che non hanno nulla in comune? Bisogna inoltre notare che né
gli uni né gli altri di questi elementi, né l'intento di nuocere,
né il danno provocato, danno di per se stessi ai decisori
la minima indicazione che consenta loro di conoscere la situazione in modo
utile per gli interessati.
La gravità dell'atto, che è la piattaforma girevole del sistema
penale, deve smettere di determinare la reazione a tale atto. Quando si evita
di bloccarsi su questo concetto di gravità, diventa possibile mettere
all'opera altri modelli, molto più soddisfacenti, di reazione sociale.
37. Griglie di lettura
In tutti i casi, bisognerebbe ridare alle persone il controllo dei propri
conflitti. L'analisi che esse compiono dell'atto indesiderabile, e dei loro
interessi reali, dovrebbe essere il punto di partenza necessario della soluzione
da trovare. Il confronto dovrebbe sempre essere possibile, perché le
reciproche spiegazioni, lo scambio di esperienze vissute e, se ce n'è
bisogno, la presenza attiva di persone vicine psicologicamente possono portare,
nel confronto, a soluzioni realistiche per l'avvenire.
Nessuno può dire in anticipo quale sia la griglia più adeguata
per risolvere una situazione conflittuale, e la legge dovrebbe guardarsi dall'imporre
una griglia di valutazione uniforme, così come dal definire le situazioni
in cui queste griglie sarebbero automaticamente applicabili. La determinazione
della griglia dovrebbe sempre essere un caso a sé.
La griglia applicabile varia necessariamente secondo le caratteristiche della
situazione-problema e delle persone in causa, è d'uopo necessario constatare
che ogni situazione è unica. La griglia varia anche secondo
quanto ci si faccia carico del problema: al figlio che ha commesso contro
i vicini degli atti di prevaricazione, un padre potrà rimproverare
severamente il suo vandalismo e punirlo. Ma se fatti simili si ripetono in
una comunità o in un quartiere, se sono la pratica abituale di tutto
un gruppo di giovani, il sindaco della comunità, constatando il generalizzarsi
del problema, logicamente cercherà innanzitutto di trovare quali siano
i fattori che favoriscono questi eventi, per tentare di agire su quelli ove
sia possibile intervenire. Non considererà i giovani individualmente.
Egli si interrogherà per esempio sull'esistenza di centri giovanili
e sui mezzi loro forniti, oppure ancora dirà qualcosa ai gruppi di
giovani per cercare una soluzione ai problemi di quel quartiere.
Uno stesso evento può perciò esser visto in modi differenti,
a seconda delle persone o dei gruppi implicati. La scelta della griglia muta
con la posizione della persona che solleva una determinata situazione-problema.
Qualcuno è entrato a casa mia con lo scasso. Come reagirò? Ho
una scelta da fare. Se decido di andare dalla polizia, la polizia a sua volta
si trova dinanzi a una decisione da prendere. Dal punto di vista della comunità,
o del legislatore, lo stesso comportamento richiama altre opzioni.
Quel che è certo, è che l'opzione "reato" non è
mai feconda.
38. Buona salute
Bisogna ammettere in partenza che ad ogni modo, qualunque cosa si faccia,
alcuni problemi non saranno mai risolti.
Molti pensano che una vita "normale" sia una vita senza problemi.
Sul piano medico, non si dovrebbe mai essere malati. Patire il mal di denti,
avere l'appendicite, che sfortuna, che insopportabile perdita di tempo! Ma
vivere, è appunto far fronte a delle difficoltà e imparare a
farsene carico. Ho conosciuto una giovane donna che aveva avuto la poliomielite
e che rivedeva i suoi anni d'immobilità, poi di rieducazione, come
fonte in lei di stupefacenti trasformazioni, e diceva d'essere diventata se
stessa attraverso questa prova. Sul piano sociale, si tratta parimenti
d'imparare a negoziare lo stato conflittuale che è la condizione normale
degli uomini in una società.
Ogni vita sociale prevede lo scontro di mentalità, d'interessi, di
punti di vista differenti e divergenti. Nessuno somiglia a nessuno. Nessuna
situazione è identica a un'altra. Un accordo è sempre il frutto
di un riconoscimento e di un'accettazione reciproci delle differenze. E l'accordo
lascia sussistere le tensioni. È inevitabile. E utile. Le tensioni
forzano verso l'incontro, il confronto, il dialogo. Esse stimolano in ognuno
la scoperta della propria identità. L'unanimismo è sempre solo
un'apparenza e, di solito, il prodotto d'influenze totalitarie.
Cerchiamo di non sopprimere le tensioni, di non ridurre indebitamente le differenze.
Impariamo piuttosto a viverle e a viverne. Per il potere politico questo vuol
dire: decriminalizziamo; organizziamoci per rendere sopportabili i conflitti
latenti. Senza credere con questo che si riesca ad evitare ogni evento doloroso
o confronto spiacevole. Rispetto al sistema penale statale, che non padroneggia
affatto la situazione, un simile approccio offre certamente maggiori possibilità.
39. Una scelta migliore
In certi casi, la scomparsa del sistema penale potrebbe contribuire a rivitalizzare
il tessuto sociale: talvolta, quando il riferimento alla legge penale scompare,
è più facile far fronte ai problemi veri.
In un quartiere di Rotterdam, dove da sempre era nota una certa forma di prostituzione,
apparve a un certo punto una forma più moderna, quella dei sex-club,
che trasformò l'ambiente: una clientela esterna al quartiere affluiva
di notte; diventava più difficile trovare alloggio, eccetera. Gli abitanti,
che s'erano adeguati alla prima forma di prostituzione, stimarono inaccettabile
la seconda. Finirono per scoppiare delle liti. E i promotori della nuova prostituzione,
per imporsi, si fecero ben presto accompagnare da "gorilla". La
popolazione locale si sentì allora direttamente minacciata nei suoi
diritti di precedenza sul territorio e decise di difendersi.
Non fu il sistema penale a risanare la situazione. Fu l'azione degli stessi
interessati. Il rappresentante del quartiere coinvolto pose il problema al
Consiglio comunale e il Municipio, sotto la pressione della popolazione locale,
si mise in moto: 1º fece rispettare la legge amministrativa, che esige
un'autorizzazione per aprire un locale pubblico, e non concesse la licenza
ai sex-club; 2º mandò la polizia sul posto per eliminare le minacce
dei "gorilla" e assicurare il rispetto delle norme amministrative
ove la presenza (intermittente) della polizia rendeva non redditizio un club
illecito. Grazie a queste due tattiche, e a una politica parallela di rinnovamento
dell'habitat, il problema è stato praticamente risolto in qualche anno.
Senza l'intervento diventato inutile del sistema penale.
40. Strutture parallele
Decriminalizzare, vuol dire sottrarre un lembo della realtà sociale
al sistema penale. Ciò si può fare con una chiara volontà
del potere: nei Paesi Bassi, per esempio, una legge del 1976 ha depenalizzato
(6) il consumo di cannabis, situazione che è sfociata in una decriminalizzazione
de facto.
Ma ciò si può fare anche empiricamente, con la messa in
opera di strutture che rendano inutile l'appello al sistema penale. È
quel che accade, di nuovo nei Paesi Bassi, per quanto riguarda i bambini maltrattati.
Benché esista nella legge olandese il reato di "percosse e lesioni
volontarie", questi eventi oggi non rientrano più nel sistema
penale del paese. In ogni regione è stato designato un "medico
di fiducia" al quale si rivolge per esempio il medico di famiglia quando
sospetta un problema di tale natura. Tutti possono del resto segnalare l'esistenza
di questi fatti a tale "medico di fiducia", al quale ora si rivolge
normalmente anche la polizia. (7)
Il medico di fiducia ha a propria disposizione un'équipe
di operatori sociali, attraverso la quale s'informa della situazione, non
nei modi dell'inchiesta poliziesca tradizionale, che stigmatizza la famiglia,
ma in maniera discreta e prudente. L'operatore sociale parla di persona con
gli interessati, eventualmente con i servizi locali esistenti, ma senza creare
legami permanenti, perché questo rapporto rappresenta soltanto un intervento
d'emergenza. L'operatore vede se può ottenere un mutamento di situazione
con l'informazione, il sostegno psicologico, l'aiuto materiale. Può
anche chiedere al servizio di protezione dell'infanzia di adire la via del
giudice dei minori, e provocare così l'allontanamento del bambino dalla
sua famiglia.
Si vede bene che là dove la messa in moto del sistema penale provocava
drammi irrimediabili e di totale inefficacia, la messa in opera di un diverso
approccio ha permesso di trovare sbocco in una soluzione, e in una
soluzione umana.
41. E la violenza?
Sento dire: sopprimere il sistema penale sarebbe lasciar via libera ai malfattori!
Questa riflessione richiede, in ogni caso, due risposte.
In primo luogo, essa tende a limitare il campo della nostra problematica a
una piccolissima parte della delinquenza: si pensa all'omicidio, alle aggressioni
per strada, al furto con scasso. Ora questi fatti sono relativamente rari.
Benché le cifre abbiano un valore relativo molto approssimativo, indichiamo
quelle di una statistica realizzata su 1380 persone colte in "flagranza
di reato" a Parigi durante l'anno 1980: scippo: 0,82%; rapina semplice:
0,55%; furto con scasso: 0,55%; rapina aggravata: 0,27%; aggressione-violenza
contro le persone: 2,75%; percosse e lesioni ad agenti: 0,06%. In tutto: 5%
dei casi trattati. D'altronde, studi seri hanno indicato che dal 1900, il
numero degli omicidi in Francia non ha avuto variazioni in valore assoluto:
si situa sempre intorno a 500 all'anno. Essendo invece la popolazione aumentata
assai considerevolmente da allora, il tasso di omicidi volontari è
proporzionalmente calato. In rapporto al volume totale dei casi trattati dalla
polizia, (8) il numero di omicidi volontari ha rappresentato, nel 1977, un tasso
dello 0,09%. (9) Non si può dunque trattare l'insieme dei problemi riguardanti
attualmente il sistema penale considerando soltanto i reati citati.
In secondo luogo, dire che la soppressione del sistema penale porterebbe alla
moltiplicazione degli atti di violenza dà per acquisito, da un lato
che questo sistema protegga efficacemente contro tale genere di rischio, dall'altro
che esso sia il solo meccanismo capace di garantire una tale protezione. Nessuna
di queste due proposizioni è stata mai dimostrata scientificamente.
Ognuno può constatare che l'esistenza attuale del sistema penale non
impedisce per niente né gli omicidi, né le rapine, né
i furti.
È vano aspettarsi dal sistema penale che sopprima "la criminalità". (10)
I lavori degli esperti di statistica indicano che non c'è rapporto
tra la frequenza e l'intensità degli eventi "violenti" che
si producono in un dato contesto, da un lato, e la repressività ed
estensione di un sistema penale, dall'altro. Non si può dire perciò
che l'esistenza e l'importanza di un sistema penale vadano di pari passo con
una diminuzione del numero di eventi violenti nel contesto preso in considerazione.
Al contrario. (11)
La ricerca di soluzioni a livelli altri da quello statale là dove la
gente si conosce, s'incontra, può raggrupparsi, riflettere assieme,
mettere in comune delle strategie di difesa adeguate ai suoi problemi concreti
rappresenta certamente una strada più promettente in vista di una riduzione
dei rischi evocati, senza tuttavia credere che possano mai esistere meccanismi
di protezione di efficacia assoluta.
42. Statistica
Il senso d'insicurezza si propaga nelle popolazioni come si diffonde un gas
nell'atmosfera, senza che lo si possa imbrigliare. È una forza psicologica,
praticamente incontrollabile, sulla quale, curiosamente, le informazioni serie
hanno scarso effetto. Le idee sviluppate da criminologi e sociologi sulla
natura socio-politica delle risposte sociali ai fenomeni di devianza
non riescono a sfondare. Molto raramente sono riportate dai media. Bisogna
per questo rinunciare a lottare contro l'imponderabile che alimenta questa
psicosi collettiva? Certamente no. Si possono almeno combattere certe azioni
di disinformazione.
Una volta all'anno, in Francia, il Ministero dell'Interno presenta, secondo
i dati forniti dalla polizia, una certa "statistica della criminalità"
che pretende di misurare quest'ultima e indicarne le variazioni annuali. Mi
trovai di passaggio a Parigi in una sera di novembre, mentre i quotidiani
l'avevano appena pubblicata, uno dei quali su due colonne sormontate da un
grosso titolo: LA CRIMINALITÀ IN FRANCIA È AUMENTATA DEL 13%
NEL 1980. Un tassista reagì alla notizia con una agitazione incontenibile:
"La criminalità sale più in fretta dei prezzi, diceva con
febbrile indignazione, è spaventoso. Ho un compagno che lavora soltanto
col suo cane lupo accanto sul sedile dell'auto. Non ci sono abbastanza poliziotti.
La gente non osa più uscir di sera. Tra poco, si sarà costretti
ad armarsi per fronteggiare la situazione."
Ora, le statistiche di polizia non rappresentano in nessun caso la misura
della criminalità di un paese. Conviene soffermarsi in primo
luogo su questo punto. Notiamo anzitutto che le cifre fornite dalla polizia
corrispondono, non già ai "crimini" o ai "delitti, i
quali diventano tali solo dopo un giudizio emesso da un tribunale penale,
ma al volume dei verbali trasmessi alla Procura, il che è
assai differente. Questo volume è molto più grande perché
include le pratiche che saranno archiviate dal Pubblico ministero (12) e il numero
degli imputati che verranno prosciolti.
Seconda osservazione: le statistiche della polizia contano le pratiche
di cui essa deve occuparsi, non le persone incolpate o i fatti commessi, e
un verbale viene redatto per ogni "pratica". Pertanto un solo fatto
punibile può generare un gran numero di verbali: secondo il numero
d'inchieste cui il fatto dà luogo, il numero di persone che vi si trovano
successivamente coinvolte, il numero di denunce consegnate, le diverse incriminazioni
sotto le quali vari poliziotti hanno registrato il fatto, eccetera. È
vero che una norma limita i conteggi multipli: è il primo SRPJ che
si trova a occuparsi di un caso a doverlo conteggiare. Ma questa norma non
sempre evita le ripetizioni, nonostante l'informatizzazione degli uffici.
Supponiamo che una rapina a mano armata sia stata commessa nella regione parigina
da più persone, una delle quali è in fuga, grazie ad un'auto
rubata ad Amiens; e che gli oggetti derubati vengano ritrovati 6 mesi più
tardi (l'anno dopo) a Bordeaux. Lo stesso evento ha tutte le probabilità
d'essere registrato e computato sotto più rubricazioni e nei tre SRPJ. (13)
Da una tale contabilizzazione viene fuori una considerevole inflazione statistica.
Non si tratta di esprimere un giudizio critico su questo modo di registrare
i fatti, che rende conto delle attività della polizia e costituisce
per essa uno strumento operativo. Ma è inammissibile far passare una
statistica per uso interno come "misura della criminalità"
di un paese.
Non è tutto, una terza osservazione s'impone. I fatti trattati dalla
polizia sono registrati sotto rubriche che nulla hanno da spartire con la
classificazione legale. La statistica parla di "grande criminalità", (14)
di "media criminalità" e di "delinquenza", categorie
che non si ritrovano nelle statistiche del Ministero della Giustizia che riportano,
invece, le condanne archiviandole secondo la divisione legale tra
crimini, delitti e multe. Sicché, statistiche di polizia e statistiche
giudiziarie in nessun caso possono fornire informazioni confrontabili. Ma
questa classificazione fabbricata dalla polizia che per uso interno può
avere la sua utilità non corrisponde neppure al concetto di "gravità"
presente nella testa del pubblico. La polizia colloca nella "grande criminalità"
la criminalità degli "atti violenti a scopo di lucro"; nella
"media criminalità" gli "atti senza scopo di lucro";
e nella "delinquenza" tutto il resto. Ne risultano talvolta delle
classificazioni stupefacenti. Per esempio, un ragazzo ritornato da un viaggio
con 100 grammi di hascisc, o uno scippatore, si ritroveranno registrati nella
prima categoria, quella della "grande criminalità" mentre
lo stupro di una donna, un infanticidio, l'omicidio di qualcuno al quale non
sia stato preso il portamonete saranno registrati nella "media criminalità". (15)
D'altra parte, un'ultima osservazione s'impone, riguardante le rubriche di
queste statistiche: alcuni comportamenti vi si trovano sovra-rappresentati
mentre altri sono sotto-rappresentati. Tanto per dare un semplice
esempio sorprendente: i cosiddetti reati contro il patrimonio, in particolare
il furto semplice, e la rapina, sono sovra-rapppresentati, perché le
compagnie d'assicurazione esigono che sia presentata una denuncia per prendere
in esame il risarcimento richiesto dalla vittima. Non vi figurano invece la
criminalità nel campo degli affari, i reati economici, i quali vanno
direttamente in Procura senza passare dalla polizia. Si potrebbero fare ancora
altre osservazioni su queste statistiche poliziesche, a dimostrazione del
fatto che non essendo stilate per valutare la "criminalità",
è scorretto presentarle come un indicatore affidabile di questa. Diffonderle
al pubblico dando loro un valore che non hanno può soltanto sviluppare
angosce e stimolare reazioni fondate sulla paura.
Certamente, non si tratta di negare che esistano delle situazioni di rischio:
ma invece di spaventare la gente con cifre avulse dal loro reale contesto,
converrebbe farla riflettere sui rischi veri che affronta.
Si dovrebbe cominciare col far capire che tutti i problemi d'insicurezza per
strada sono sempre, per quanto riguarda l'evento primario, problemi locali.
E quando dico locali, intendo dire, trattandosi di una città, problemi
di quartiere. Generalmente, è a livello di due o tre vie che di fatto
si presentano situazioni preoccupanti. Dunque, non c'è mai su nessun
territorio un'insicurezza per strada al livello nazionale. È
perché lo Stato s'impadronisce degli eventi locali (onde trattarli
nel sistema penale), e perché la stampa presenta tali fatti come casi
modello, che essi sono "nazionalizzati": così, se una signora
è stata derubata della sua borsa in qualche posto a Parigi o a Lione,
è l'intera Francia ad aver paura.
Se si circoscrivesse il rischio nei suoi limiti reali, le persone implicate
potrebbero allora chiedersi come porvi riparo. Per esempio, un gruppo di responsabili
locali (funzionari di vari servizi ufficiali, personale di vari servizi sociali,
uomini politici locali), o un Comitato di quartiere, può riflettere
sulla vera mancanza di sicurezza vissuta dagli abitanti di alcune precise
vie: chi crea insicurezza? dei giovani, degli stranieri, gente proveniente
da altre zone della città? chi è minacciato? chi è stato
realmente aggredito? Partendo da una situazione concreta, il gruppo che vive
questa situazione può allora vedere come farvi fronte.
Evitare di generalizzare ciò che è soltanto locale libererebbe
certamente un poco da quel senso deleterio di mancanza di sicurezza che intossica
la gente.
43. Libertà e sicurezza
L'abolizione del sistema penale in un determinato paese non farebbe aumentare,
ne sono convinto, i rischi reali di scontri gravi o di violenze. Da una parte,
perché le situazioni corrispondenti verrebbero allora esaminate a livelli
di approccio umano. D'altra parte, perché la prospettiva abolizionista
prevede la necessità di forme d'intervento d'emergenza capaci di farsi
carico dei momenti, o intervalli, di crisi.
Sopprimere la meccanica penale è una cosa. Escludere ogni coercizione
è altra cosa, e bisogna lasciare alla polizia la possibilità,
nel quadro del mantenimento dell'ordine pubblico, di arrestare un individuo
che aggredisca un altro o rifiuti di allontanarsi in certe situazioni come
essa fa in altre circostanze a titolo di pronto soccorso.
Bisognerebbe instaurare un controllo giudiziario serio sul potere
di coercizione affidato in tal modo alla polizia. Un controllo che si dovrebbe
esercitare in tempi molto rapidi e in maniera sistematica. Nelle grandi città,
un giudice dovrebbe essere sempre disponibile a tal fine. Dovrebbe esaminare
fin dall'arresto le condizioni di legalità in cui è stato compiuto (16)
e decidere a brevissimo termine quale seguito dargli. Per ricordare una celebre
formula che proprio qui trova la sua esatta collocazione, bisognerebbe cercare
come armonizzare, in questo contesto non penale d'intervento d'emergenza,
la libertà e la sicurezza dei cittadini.
Ciò del resto costringerebbe a riproporre in maniera più generale,
in questa nuova cornice, la questione delle garanzie individuali, che non
sempre è risolta in modo soddisfacente dal sistema penale odierno in
ogni caso non nei Paesi Bassi. Il discorso ufficiale parla di garanzie individuali
in astratto, come d'una cosa un po' magica. Molti pensano che l'esistenza
di un dettato costituzionale o legislativo sia di per sé una protezione
sufficiente. Ebbene, alcune ricerche empiriche hanno indicato che quando si
scende nel concreto, partendo dalla condizione dell'interessato, certe cosiddette
garanzie esistono solo sulla carta.
Il problema delle garanzie individuali nel processo penale è attualmente
affrontato col fatto che lo stesso giudice è contemporaneamente incaricato
di proteggere l'"ordine" e il cittadino. In concreto, gli riesce
assai difficile assumere questo duplice ruolo. Un giudice avente una missione
di garanzia delle libertà individuali in un sistema non penale potrebbe
dare a questo ruolo, rinnovato, tutt'altra dimensione.
44. Dal lato delle vittime: autodifesa
Taluni dicono che il sistema penale assume su di sé la vendetta privata,
e che questa risorgerebbe qualora esso scomparisse. Ora, la rinascita delle
polizie e delle giustizie private agenti nel segno di un'autodifesa punitiva (17)
si verifica per la precisione proprio in contesti nei quali il sistema penale
funziona pienamente. Non vi è alcuna ragione per ritenere che un tale
fenomeno debba ampliarsi se si decriminalizzassero, del tutto o parzialmente,
i comportamenti indesiderabili.
La gente desidera essere protetta dai pericoli, è normalissimo. Ma
è troppo semplice interpretare questo desiderio come un appello a favore
del mantenimento di un sistema duramente punitivo.
Le vittime della criminalità o le persone che si sentono direttamente
minacciate chiedono un aiuto e una protezione efficaci. Ecco cosa chiedono.
E a tale riguardo, il loro rapporto con l'attuale sistema repressivo è
complesso. Molti sanno alcuni ne hanno fatto l'esperienza che nel suo stato
attuale, questo sistema non reca né questo aiuto né quella protezione.
Ed essi domandano, questo è certo, un cambiamento nella situazione
attuale.
Molti, a causa della accertata inefficacia del sistema penale ufficiale, effettuano
spontaneamente dei cambiamenti nel loro stile di vita, per arginare i rischi
che corrono (reali o sovrastimati), o per trovare un aiuto. È così
che le donne picchiate si sono, qua e là, riunite in associazioni;
che alcuni movimenti femministi manifestano la loro solidarietà con
le donne violentate; che, nel commercio e nelle aziende, si organizzano dei
sistemi antifurto. Il fenomeno dell'autodifesa punitiva non è
che un piccolo aspetto di un movimento che si va generalizzando.
È vero che alcuni di questi gruppi, di fronte alla ravvisata carenza
del sistema penale, chiedono anche un rafforzamento dell'approccio punitivo.
Ma non esprimeranno una simile richiesta perché sono parzialmente condizionati
dal messaggio che l'istituzione penale stessa diffonde nella società?
È un'istituzione che crea e sostiene l'idea d'altronde del tutto sbagliata
di poter fornire alle vittime l'aiuto e la protezione che queste giustamente
reclamano. La fiducia d'alcuni verso il messaggio ufficiale e hanno fiducia
perché non sanno fino a che punto questa fiducia sia senza fondamento
li conduce in effetti a chiedere un aumento delle espressioni del sistema
penale. Non sono in grado di sviluppare da se stessi una visione d'insieme
che permetta un discorso alternativo con un diverso approccio.
Tuttavia, la conoscenza dei bisogni profondi delle persone che richiedono
un rafforzamento dell'approccio repressivo permette d'affermare che è
precisamente l'approccio abolizionista a convenire loro. L'approccio
abolizionista raggiunge queste persone in quanto riconosce con esse che il
sistema penale non protegge né aiuta nessuno.
Non si può sostenere che un rafforzamento del sistema penale sia in
grado di portare maggior aiuto e protezione alle persone che si reputano vittime
o si sentono minacciate. Al contrario, un tale rafforzamento non farebbe che
aggravare la loro situazione, poiché nel sistema penale, la vittima
non ha alcun posto e non può averlo. (18)
Se si dimostrasse alle vittime e alle persone che temono di diventare vittime
di azioni illegali che altre vie, diverse da quella penale, sono più
utili alle loro aspettative; se queste si accorgessero che quelli che desiderano
vedere scomparire il sistema penale lungi dal disinteressarsi della loro sorte,
se ne interessano altrimenti e meglio, proponendo un modo migliore per farsi
carico del loro problema, non rinuncerebbero in molti a una reazione tanto
nociva quanto sterile?
45. Vittime e processo penale
I media, che sempre citano i casi più dolorosi, gli eventi irreparabili,
hanno la tendenza a far testimoniare delle vittime soprattutto famiglie di
vittime che esigono vendetta. Ce ne sono ovviamente, soprattutto se sono intervistate
nel momento in cui hanno appena vissuto l'evento. Ci si deve però guardare
dall'impressione che una simile reazione sia generale o durevole.
L'Institut Vera di New York, che su richiesta dei responsabili del
sistema penale lavora per il suo miglioramento, si è appunto accorto
dello scarso interesse personale che hanno le vittime nel sostenere l'accusa.
Esse generalmente evitano di andare a testimoniare. Ora, il sistema americano
non può funzionare se non ci sono testimoni a carico. L'Institut
Vera si chiese dunque cosa fare perché le vittime andassero alle
udienze.
I ricercatori hanno cominciato col fare un'inchiesta per conoscere le ragioni
di questo massiccio assenteismo. Gli interessati dissero: "Ci dimentichiamo
di venire, ci fanno aspettare troppo, ci costa soldi, ecc.". Allora,
l'Institut Vera ha organizzato un servizio che si incarica gratuitamente
di ricordare alle vittime e ai testimoni il giorno e l'ora della convocazione,
e di andarli a prelevare per accompagnarli in tribunale; è stato inoltre
organizzato un servizio d'accoglienza con un asilo infantile, un bar e altre
strutture di supporto.
Anche in queste condizioni, la gente non è andata. L'Institut Vera
ha allora capito che, fondamentalmente, la vittima non sente il bisogno
di un procedimento penale contro un preciso autore dell'illecito, e ha
organizzato, con l'aiuto delle autorità, una sorta di fase di compromesso,
per i casi gravi, quando c'era una relazione preesistente tra criminale
e vittima. Solo per i casi gravi, dato che in questo sistema i casi minori
decadevano da soli per mancanza delle parti.
In un tale contesto, la fase processuale è andata avanti solo nel caso
in cui la vittima, dopo il tentativo di risoluzione del conflitto al di fuori
del sistema penale, chiedeva che il processo avesse luogo.
46. Vittime: le loro attese
Un Servizio d'accoglienza per le vittime e i testimoni funziona presso il
Tribunale di Parigi dal giugno 1980: esso offre un campo d'osservazione assai
rivelatore sul comportamento abituale delle "vittime".
In primo luogo, i responsabili di questo Servizio si sono accorti che chi
veniva a consultarli non faceva differenza tra causa civile e causa penale.
Il Servizio è per princìpio fornito alle vittime del crimine.
Questa è la sua ragion d'essere. Ma vi si presenta spontaneamente una
quantità di gente che non ha minimamente l'idea di perseguire
chicchessia, pur ritenendosi vittima di ogni tipo di fatti, misfatti,
comportamenti o situazioni che trova insopportabili. Fondamentalmente, questo
Servizio offre la prova senza averla cercata che il pubblico non si ritrova
nelle distinzioni puramente giuridiche del sistema. E si capisce. Come sapere,
per un determinato danno, se la legge non dà altro che la
possibilità di rivolgersi a un giudice civile per chiedere i danni,
oppure se dà in più il diritto di far punire
il responsabile di quel danno? Neppure il criterio di gravità, almeno
secondo il senso comune, serve a operare una distinzione. Quando, per esempio,
un ipermercato è "vittima" di un taccheggio, la causa è
penale. Ma quando un salariato è vittima di una risoluzione
arbitraria del contratto di lavoro, questa sarà sempre una causa civile.
Eppure, l'atto dalle conseguenze più gravi sulla vita delle persone,
non è forse il secondo? Andate a capire!
Di fatto, gli atti di cui si lamenta la gente che va a chiedere consulenza
a questo Servizio non fanno di solito parte dei comportamenti previsti dal
codice penale. Sono situazioni la cui soluzione, se dovrà realizzarsi
tramite l'intermediazione di un'istanza esterna agli interessati, è
attribuita dalla legge alla competenza dei tribunali civili. (19)
Si vede sfilare in questi uffici gente che si ritiene vittima dell'incompetenza
del proprio dentista, della negligenza del proprio avvocato, delle richieste
non legittime dei padroni di casa, di un debitore insolvente o di un agente
immobiliare scorretto, della lentezza della giustizia, di un esattore troppo
vorace, di un datore di lavoro che non gli versa l'indennità dovuta.
Qualche volta, ma raramente, alcuni fatti hanno un possibile rilievo penale,
non necessariamente visto o sottolineato da chi richiede un consulto, le cui
spiegazioni sono magari sorprendenti, come quell'abitante di una villetta
in un quartiere residenziale di Parigi che, derubato durante le vacanze, si
lamentava meno del furto quanto di ciò che chiamava "il disinteresse
del commissario per la sua vicenda".
Seconda osservazione: quelli che vanno in questi uffici non hanno nulla di
particolarmente aggressivo. Non nutrono propositi di vendetta. Sono venuti
per parlare del danno subìto, semplicemente con la speranza di far
cessare la situazione che li sta mettendo alla prova e per riavere eventualmente
i loro soldi. Quel che vogliono queste vittime è ottenere una riparazione
e ritrovare la pace. Anche trovare qualcuno che li ascolti con pazienza e
simpatia.
C'è forse qui la più inattesa rivelazione di questo tipo d'esperienza.
La persone in difficoltà e preoccupate hanno bisogno anzitutto di qualcuno
che le ascolti. Quando delle persone comprensive e amichevoli permettono
loro di esprimersi a lungo, e di situarsi meglio nel proprio conflitto, una
parte del problema è già risolta.
47. Dimensione simbolica della pena
È molto grave sul piano dei princìpi affermare che
il criminale debba esser punito perché la vittima ritrovi pace. Si
tocca qui un problema metafisico che può raggiungere altre questioni
come: l'uomo è naturalmente buono o malvagio? L'uomo ha bisogno di
vendicarsi, di rispondere alla violenza con la violenza? Se così fosse,
i procedimenti pacifici rischierebbero in effetti di non trovare uno sbocco
o di essere sopraffatti. A un certo momento, la violenza risorgerebbe.
Non voglio entrare in una discussione teorica. Sta ad ognuno trovare una propria
risposta in merito alle questioni di natura filosofica. Ma io dico che se
si scommettesse sulla possibilità di fermare la relazione causa-effetto
sarebbe possibile ogni innovazione. Dico pure che, se lo spirito di vendetta
deve necessariamente esprimersi, può essere canalizzato altrimenti
che nell'alveo punitivo di cui soffriamo.
Nel mezzo-livello o nel micro-livello delle relazioni, là
dove la gente vive i suoi legami più personali, si potrebbero trovare
forme punitive umane, perché capite e accettate dalle persone
in causa. E se, in alcuni casi, gli interessati volessero fare appello a una
giustizia macro-statale, funzionante sul modello civile,
il fastidio, le mortificazioni, le ammende pecuniarie che questo tipo di procedimento
impone, e il suo seguito, potrebbero assumere agli occhi del richiedente
un significato riparatore soddisfacente.
Quando si crede di legittimare il sistema penale, affermando che esercita
la vendetta collettiva, si dimentica che quel sistema non rappresenta che
un'espressione storica, ben circoscritta nel tempo e nello spazio, di tale
presunta necessità. Nel Medioevo e fino al XIII secolo, la maggior
parte dei conflitti tra le persone si risolveva nel quadro della compensazione.
Per quanto la gente ci tenesse a vendicarsi, lo faceva all'interno di quel
sistema. (20)
Contrariamente a quanto fa credere una certa lettura della storia, non si
nota una progressione lineare nel tempo verso forme di reazione più
benevole.
Questa tendenza è diventata tanto più crudele quanto più
i poteri si sono centralizzati e appare senza legame con un presunto bisogno
di vendetta che non spiega affatto le variazioni o i gradi della risposta
sociale. La storia e l'antropologia mostrano chiaramente che l'evoluzione
della "pratica della punizione" in un contesto statale (è
la definizione stessa del sistema penale) poggia in realtà su ben altri
fattori che non il bisogno di vendetta della vittima, e che questa evoluzione
è stata principalmente giustificata con altre legittimazioni. Esse
consentono anche di affermare che non è la durata o l'orrore della
sofferenza inflitta a placare colui che eventualmente reclami vendetta, ma
la dimensione simbolica della pena, cioè il senso di riprovazione
sociale del fatto che ad essa viene collegato.
48. E i colletti bianchi?
Tra coloro che sono inquieti a causa dei problemi della giustizia penale,
e che denunciano il funzionamento del sistema penale perché degrada
e avvilisce l'uomo, alcuni tuttavia sostengono la necessità di perseguire
penalmente le persone che, nei campi ecologico, finanziario, economico, arrechino
grandi danni alla collettività. "Mettiamo in prigione, essi dicono,
quelli che frodano il fisco o i consumatori, mandano i loro capitali all'estero,
inquinano l'ambiente, si rifiutano di attuare nella loro impresa le misure
di sicurezza che ridurrebbero gli infortuni sul lavoro". Questo non è
il mio modo di vedere.
So bene che chi ha questo genere di propositi è motivato da un'indignazione,
che condivido, di fronte allo scandalo di un'organizzazione politico-sociale
che utilizza due pesi e due misure, secondo la categoria sociale presa in
considerazione e che l'obbiettivo sarebbe quello di ristabilire l'eguaglianza
dei cittadini di fronte alla legge. Ma il macchinario penale resta un cattivo
sistema, quale che sia il giudizio morale e sociale che si ha su un dato comportamento.
Da parte mia, credo che nei settori non ancora criminalizzati, si debba evitare
a ogni costo la criminalizzazione. E nell'intento di ritrovare un'uguaglianza
di trattamento per tutti, mi auguro piuttosto che ci si ispiri, nei confronti
di quelli comunemente chiamati "piccoli criminali", ai procedimenti
di conciliazione che si praticano per i "pesci grossi" attraverso
il Ministero delle Finanze, la Commissione per le operazioni di Borsa, e altri
intermediari, in margine al sistema penale che si cerca d'abolire per tutti.
Procedere con nuove criminalizzazioni nei campi in cui attualmente il sistema
penale non funziona mi pare proprio il tipico modello della falsa manovra,
atta a risollevare la macchina dandole una nuova legittimità. Ciò
non significa che si debbano lasciare privi di controllo giurisdizionale i
meccanismi di transazione che alcuni oggi utilizzano a danno d'altri. Ciò
non significa neppure che chi ha una parte in situazioni lesive degli interessi
di un gran numero di persone non debba essere sanzionato per le sue azioni
o debba esserlo solo in modo insignificante.
Non è esattamente questo il luogo per esaminare tali problemi in dettaglio.
(21) Si può
tuttavia affermare che procedimenti di regolarizzazione o di controllo diversi
dal penale sono stati già sperimentati in certi contesti e si sono
rivelati estremamente efficaci per le persone giuridiche. Un esempio tratto
dalla legislazione del Quebec chiarirà questo aspetto: le imprese che
impiegano più di 50 persone devono obbligatoriamente, dopo 5 anni,
presentare quello che là si chiama un "certificat de francisation"
[certificato di francesizzazione], avere cioè una ragione sociale in
lingua francese, registrare le loro operazioni commerciali e di contabilità
in tale lingua, eccetera. Quest'obbligo non è accompagnato da una minaccia
penale, ma da una sanzione che agisce in altro modo: le imprese che non si
sottomettono a questa norma si ritrovano il divieto di commerciare con lo
Stato.
Non sono i procedimenti non penali di controllo a mancare, ma una volontà
politica chiara e decisa di metterli in opera. Il blocco delle relazioni commerciali
è un ottimo mezzo di persuasione. Ce ne sono altri. A livello ecologico
per esempio, non si otterrebbero forse dei risultati immediati se si dicesse:
le imprese che non si sottometteranno al tale obbligo di risanamento non avranno
sovvenzioni dallo Stato?
Da parte mia, affermo che il princìpio della necessaria abolizione
del sistema penale, del macchinario penale così come lo definisco,
non prevede alcuna eccezione.
49. Uno sguardo alla storia
L'antica Francia conosceva procedure non penali di regolazione dei conflitti.
Se ne trovano tracce in un certo Règlement des assemblées
de Mme de La Moignon, Première Présidente du Parlement de Paris,
pour assister les prisonniers, les pauvres honteux et les malades.
Questo regolamento, apparentemente, è del 1671. Sotto la rubrica: processi
e dispute, si parla delle "assemblee" che, a Parigi, sono state
incaricate di "pacificare le controversie", "Assemblee illustri"
composte da "duchi, pari, cordons-bleus, ufficiali del Re, abati,
dottori della Sorbona, presidenti, consiglieri, referendari del Consiglio
di Stato, consiglieri di Stato, avvocati, procuratori, notai, gentiluomini,
mercanti e altri d'ogni qualità". Vi si fa anche allusione all'invito
che l'Assemblea generale del clero ha rivolto a tutti i vescovi del Regno
di "lavorare per la mediazione in tutti i processi e dispute".
Nell'ordine civile come nell'ordine religioso, questo Règlement
indica che esisteva in quell'epoca, tra i responsabili di collettività,
un orientamento a convincere la gente a evitare le istanze ufficiali. In tal
senso si legge: "i nostri re hanno invitato tutti i loro sudditi, coi
loro editti, a porre termine ai loro processi in modo amichevole e con la
parola di arbitri" e ancora: "gran numero di vescovi hanno ordinato
ai loro parroci di lavorare per questo raccolto di pace, tramite loro e la
gente onesta dei luoghi".
L'epoca non conosce la separazione tra Chiesa e Stato. Sicché viene
detto nel documento: "Il nostro Principe felicemente regnante ha pure
ordinato con le sue lettere circolari ai Vescovi, marescialli di
Francia e governatori di provincia, d'impedire i duelli e di pacificare le
controversie che ne son causa". Il Re comanda i vescovi, e nelle istruzioni
riguardanti anche i marescialli di Francia e i governatori delle province,
dice a tutti: "lavorare per l'accordo nei processi, vuol dire seguire
le massime del Vangelo e obbedire agli ordini di Sua Maestà".
Luigi XIV, monarca per diritto divino, dà ordini che legittima con
un riferimento al Vangelo. Non ci si stupirà dunque della costante
confusione che s'instaura tra il civile e il religioso, sul piano delle pratiche:
i poteri di mediazione sono affidati tanto a ecclesiastici che ad autorità
civili, e le persone in conflitto tra loro sono invitate a passare eventualmente
da un tipo di mediatore a un altro.
Col beneficio di queste osservazioni, si trovano nel citato Règlement
delle disposizioni molto interessanti. In generale i parroci, su mandato del
loro vescovo, sono invitati ad avvertire i loro parrocchiani, durante la predica
domenicale, d'aver ricevuto la missione di mediatori nelle controversie le
quali possono essere, dice il testo, "processi, dispute o inimicizie".
Sono previsti perciò diversi procedimenti di conciliazione.
"Se è solo questione d'inimicizia proveniente da causa lieve,
dice il testo, il parroco andrà a trovare (gli interessati) col Superiore
o altri dell'Assemblea, gradito alle parti, e li farà abbracciarsi
tra loro nel presbiterio". "Per le dispute aventi come fondamento
gravi ingiurie che richiedano una riparazione, si cerca un accomodamento in
presenza e con il parere delle persone nobili del posto (perché esse)
siano testimoni e garanti di quel che le parti si promettono tra loro".
Per quanto riguarda, infine, i "processi", il Règlement
distingue "quelli che sono con piccola conseguenza" e gli altri.
Per i primi, si cerca di fare in modo che le parti accettino "gli espedienti
loro proposti". Per i processi "con conseguenza", o quando
le parti non accettino gli anzidetti espedienti, è prevista una procedura
d'arbitrato, con delle successive fasi dinanzi a differenti persone.
"Si prosegue la mediazione, dice il testo, fino a quando non si sia del
tutto d'accordo". È previsto il caso in cui una delle parti non
sia della Parrocchia: si scrive (a proposito della controversia) al proprio
parroco e a coloro ritenuti in grado "di potere far qualcosa". C'è
anche il caso in cui una delle parti accetti e l'altra rifiuti. Si cerca allora
di fare intervenire delle persone in grado di convincere "il ricusante":
si approfitta della visita del vescovo "perché gli parlino (del
loro caso)", si scrive al Signore del luogo, o ancora al Governatore,
o a un Maresciallo di Francia. Tutto dipende dalla "nobiltà"
della persona che ricusa la pace, che si cerca di commuovere tramite degli
intermediari naturali. Se la faccenda accade in campagna si chiede "la
mediazione del Signore o della Dama del luogo, e in loro assenza, dei loro
agenti, intendenti o fattori, o di quelli che abbiano relazioni con essi".
Parecchi elementi mi colpiscono in queste pratiche. Ovviamente, l'insistenza
con la quale si ricerca l'accordo amichevole tra la gente; ma anche la pazienza
e la perseveranza con cui si tenta di portarli a questo accordo. Stupisce
il numero di persone che viene via via scomodata per arrivare a convincere
chi rifiuta all'inizio la conciliazione e che mai viene costretto ad accettarla.
Tutto si svolge sempre in presenza delle parti, e coloro che vengono chiamati
per aiutarli, dal più altolocato fino al più piccolo nella scala
sociale, sono sempre in definitiva "gente che ha delle relazioni con
essi", persone psicologicamente vicine. Lo scopo dell'operazione
è di evitare la giustizia ufficiale.
50. Leviatano e società
Se si credesse a certuni, la vita sociale non avrebbe punto d'ancoraggio
che nel sistema statale. Orbene, persino nell'Occidente del XX secolo, la
società non va confusa con lo Stato e con le istituzioni
dello Stato.
La società innanzitutto rappresenta per ognuno i suoi legami personali,
le relazioni di lavoro, di vicinato, il tempo libero, gli interessi che condivide
con altri: la chiesa, il quartiere, la comunità, ecc. Perché
lasciare allo Stato, potenza spesso anonima e lontana, la cura esclusiva di
regolare i problemi nati dai nostri contatti più personali?
Si cerca di solito, almeno nei paesi democratici in nome della libertà
individuale di diminuire l'ingerenza dello Stato nella vita dei singoli. Ogni
movimento a favore dei diritti dell'uomo vuol liberare l'individuo dalle dominazioni
e dalle oppressioni collettive. Le correnti politiche che reclamano la decentralizzazione,
le autonomie regionali, una democrazia di base, vanno nello stesso senso,
denunciando l'anonimia e l'isolamento di cui soffre il cittadino delle grandi
società industriali.
Esistono forse delle sfere di decisione e d'azione in cui il dominio dello
Stato risulta vantaggioso. (22) In molti campi, ci si accorge che al contrario,
è meglio se sono gli stessi cittadini, o delle organizzazioni ad essa
vicine, a prendere in mano i problemi. I conflitti interpersonali, a mio parere,
sono fra questi.
Ciò non vuol dire che in questo campo i cittadini non possano aver
bisogno dei servizi che lo stato può offrire. Uno di questi servizi
è senza dubbio la possibilità di accedere a una giurisdizione,
potendo questa decidere che alcuni mezzi di coercizione vengano messi a disposizione
delle persone implicate in un conflitto interpersonale. Ma la messa in opera
di questi mezzi coercitivi nei limiti fissati dalla legge e dalla giurisdizione
dovrebbe dipendere da chi ha richiesto l'intervento della giurisdizione per
la risoluzione del proprio conflitto.
51. I cammini (le vie?) della concordia
Troppo spesso si considerano le cosiddette società primitive come
delle sotto-civiltà, non ancora giunte al livello della civilizzazione
occidentale. Sarebbe molto più esatto collocarle in un ordine diverso
dal nostro, dove le strutture, le ideologie di fondo, le mentalità,
sono animate da altri princìpi, ammettere che queste società
non sono forme di transizione in via di evoluzione verso i nostri modelli.
Così, invece di guardarle con commiserazione e tentar di farle rientrare
nei nostri sistemi, potremmo apprendere, o riapprendere da esse, certe dimensioni
della convivialità che mancano alle nostre società d'oggi.
Un antropologo, Michel Alliot, spiegò un giorno che il nostro
concetto di "reato" è praticamente sconosciuto nelle civiltà
primitive. Egli forniva due esempi, uno ripreso dalle società africane,
l'altro dagli Esquimesi del Quebec. Nella mentalità bantu, diceva,
quel che importa quando qualcuno ha ucciso, non è che anch'egli venga
ucciso o punito, è che ripari, di solito lavorando per la famiglia
della vittima. Le conseguenze di un omicidio sono civili, non penali, e la
riconciliazione non viene dal castigo, ma dalla riparazione.
Nel grande nord, presso gli Inuit, cosa accade quando un conflitto, anche
se vi è la morte d'un uomo, non viene risolto dalle persone direttamente
interessate? Le persone o le famiglie colpite organizzano tra di loro un duello
di canti. Ogni giorno, quando arriva l'inverno, un gruppo apostrofa l'altro
con dei canti satirici; il secondo risponde allo stesso modo. Chi assiste
segna dei punti. Perde il gruppo che non trova più niente da replicare.
A questo punto avviene allora la riconciliazione che si celebra con un pranzo
in comune. Quest'usanza, strana per le nostre mentalità europee è
psicologicamente sana, osservava l'antropologo, poiché consente di
scaricare pacificamente l'aggressività dei due gruppi.
Egli parlò anche delle società maghrebine, dove le vicende si
discutono senza fine "nel ventre del villaggio", fino a che non
si crei l'unanimità sul modo migliore di definire il conflitto. Ora,
fa notare Alliot, queste modalità di soluzione dei conflitti non sono
sconosciute qui da noi. Quando si fa l'archeologia di una società
occidentale vi si ritrova vivo, nascosto sotto le istituzioni di Stato centralizzatrici
e uniformanti, una sorta di dinamismo originario della soluzione dei conflitti,
apparentabile a quello delle società "naturali".
Qui da noi, il "ventre del villaggio" è il quartiere, il
comitato dei genitori degli alunni di una classe di scuola elementare, il
consiglio d'amministrazione di un'impresa, un'associazione di pescatori a
lenza, l'unione locale dei consumatori, il tale club sportivo, in seno ai
quali molti conflitti trovano di fatto una soluzione definitiva. Non bisogna
volere la scomparsa di queste pratiche, ma al contrario favorirle, lasciando
o mettendo a disposizione degli interessati delle possibili vie di ricorso. (23)
52. Compagnonnage
La risoluzione dei problemi interpersonali si realizza, molto più
spesso di quanto non si creda, in un contesto privato. Quando in un gruppo,
interno a una comunità naturale, sorge un conflitto più o meno
acuto, gli interessati, i loro parenti, i loro amici, cercano il modo di smorzare
quel conflitto. Non è raro essere chiamati a intervenire in un alterco
tra vicini. Spontaneamente, si tenta di appianare certe difficoltà
coniugali o certi problemi di convivenza tra genitori e i loro figli grandi.
Si cerca di rendere distesa l'atmosfera quando, sul lavoro, sale la tensione
tra colleghi o compagni. E molto spesso, durante la nostra stessa vita, non
abbiamo creduto di dover chiedere il consiglio, l'aiuto, la mediazione d'un
altro per accettare un evento doloroso, prendere una decisione importante,
avviare un dialogo difficile?
Questi "meccanismi naturali di regolazione sociale" operano in ogni
momento, e sono fattori di disalienazione. Il fatto di non ritrovarsi più
isolato davanti a un problema rende questo problema più sopportabile.
Cercare una soluzione con altri è già in sé un'attività
liberatoria.
53. Attorno a un barbecue
Certi comitati di quartiere, nei Paesi Bassi, sono un luogo naturale di soluzione
dei conflitti. Sono una cornice in cui le persone s'incontrano, fanno conoscenza,
possono discutere dei problemi che talvolta le vedono in opposizione tra loro,
o che vedono il quartiere in opposizione al Comune.
Ricordo un conflitto abbastanza duro che era scoppiato all'interno del Comitato
di quartiere cui appartengo, posto nella città vecchia, al centro di
Dordrecht. Questo quartiere possiede la caratteristica di ospitare ceti sociali
assai diversi. In una vecchia via abita gente di ceto medio: commercianti,
ingegneri, pensionati, artisti. Un'altra via è quasi interamente riservata
a giovani intellettuali agiati. Più in là, una via tradizionalmente
definita "la via asociale" raggruppa straccivendoli, immigrati poveri
turchi e marocchini in particolare studenti squattrinati che fanno gli squatters
negli edifici abbandonati.
A un certo punto, i giovani di questa via detta "asociale" che è
naturalmente la più sociale, perché quelli che vi abitano si
aiutano tra di loro alcuni di questi giovani, dunque, commisero atti di vandalismo
nelle case e giardini degli intellettuali di posizione elevata, e uno di questi
chiamò la polizia.
Quando il Comitato di quartiere si riunì dopo tali eventi, i genitori
degli adolescenti, autori dei danneggiamenti, dissero: "come può
della gente che vive assieme in un quartiere chiamare la polizia e mettere
gli uni contro gli altri?" Venne deciso di fare una riunione speciale
in cui sarebbero stati invitati la persona che aveva fatto la denuncia e i
ragazzi che avevano danneggiato la sua casa. L'interessato non facendo parte
del Comitato, non si rendeva conto dei problemi di quei giovani, non aveva
mai parlato con loro.
Il giorno dell'incontro, egli capì tante cose. Disse che non avrebbe
più cercato di risolvere nessun problema senza aver prima provato a
capire che cosa avveniva sul piano personale. E invitò i giovani a
un barbecue.
54. Retribuzione e sistema civile
Quando i modelli naturali di soluzione dei conflitti mancano, o quando si
sono rivelati impotenti, gli interessati si vedono in qualche maniera costretti
a ricorrere a meccanismi artificiosi. L'apparato ufficiale di giustizia
entra allora in gioco. Il ruolo dei tribunali consiste appunto nell'affermare
i diritti d'ognuno nelle situazioni confuse, e nel riorientare le relazioni
interpersonali che hanno fallito o che mal si integrano nella vita sociale.
Che ognuno ritrovi il suo posto, il suo bene, il suo onore perduti: ecco a
cosa s'impegnano per princìpio i tribunali d'ogni genere, che intervengano
su richiesta degli interessati incapaci di risolvere i propri problemi, o
ai quali la legge imponga questo tipo di soluzione. Non c'è affatto
bisogno che il potere di punire venga attribuito in sovrappiù
a tribunali repressivi perché in certi conflitti,
designati in modo discutibile, (24)
alcune persone siano trattate come colpevoli da castigare. Se ripensiamo alle
diverse griglie di possibile approccio a una situazione conflittuale, (25)
si vede bene che l'approccio civile può sempre nei limiti
che pone il livello istituzionale essere una griglia adeguata quale che sia
il conflitto. Ogni tribunale detto "civile" sottoposto a opportune
modifiche può o dovrebbe potere intervenire, in modo più utile
per gli interessati dell'attuale sistema penale.
D'altronde, non ci si illuda, i modelli di soluzione civile dei conflitti
possono risultare di fatto come un elemento di coercizione penosa
per chi ne sia preso di mira; e quando una persona si ritiene vittimizzata,
può benissimo utilizzare questo sistema civile per dar fastidio,
addirittura per punire di fatto chi ritiene responsabile della propria situazione.
Non bisogna dire troppo presto che solo il sistema penale permette di canalizzare
i sentimenti di vendetta della gente. Un sistema di tipo compensativo può
benissimo svolgere tale ruolo.
Combattere con qualcuno nel quadro di una procedura (alla maniera degli Inuit
e dei loro duelli di canti!), fargli pagare dei danni e sopportare le spese
della procedura, udire leggere la sentenza che dichiara che l'avversario ha
torto, ecco dei mezzi che i meccanismi civili mettono a loro disposizione
per soddisfare le vittime animate da sentimenti retributivi.
Nelle situazioni in cui il divorzio appaia come la sola via d'uscita, i sentimenti
dello sposo che si ritiene ingannato, ferito, aggredito, sono spesso estremamente
violenti molto più violenti di quelli provati per esempio dalla vittima
di una rapina. Ora, in tema di divorzio, tutti questi sentimenti segnati da
un forte desiderio punitivo devono trovare trovano di fatto il loro sfogo
nel sistema civile. (26)
Non sto facendo l'apologia di questi sentimenti. Ma se devono esprimersi,
gli svantaggi dell'approccio civile sono evidentemente minori dei pesanti
inconvenienti del sistema penale.
55. I "faccia a faccia" organizzati
Delle esperienze in corso indicano in che maniera potrebbero essere organizzati
- a margine del sistema giuridico di Stato e come complemento ai meccanismi
naturali di controllo - modelli di soluzione dei conflitti col metodo del
confronto diretto.
C'è stato in America, al tempo dell'amministrazione Carter, un certo
M. Bell, membro del Bar Association, che aveva riunito un gruppo
per riflettere su tale problema. Divenne Ministro della giustizia e fece votare
una legge che doveva finanziare ogni sorta di esperimenti/studi. Dovette abbandonare
l'amministrazione prima che i decreti applicativi vedessero la luce, e il
nuovo Ministro della Giustizia seppellì naturalmente il progetto.
Un certo numero d'idee lanciate in quel momento sono tuttavia in via di sperimentazione
in vari luoghi. Ci sono parecchie formule. Una prima formula funziona già
da una decina d'anni per le vicende penali di scarsa importanza. Si tratta
di una specie di confronto organizzato dalla polizia. Prima che la
faccenda sia inviata ai tribunali, quelli che vanno a sporgere una denuncia
sono invitati a incontrare il loro avversario e a chiedersi se vogliono veramente
far entrare il loro problema nel sistema penale. Quando me ne parlarono, là
dove l'esperienza proseguiva, erano degli studenti di diritto a guidare i
confronti, che sfociavano normalmente in qualche tipo di compromesso.
In verità, non credo che ciò faccia cambiare granché
il sistema penale, salvo disingorgarlo. E ancora. Se si paragona quel che
accade in questo sistema di confronti con la pratica esistente nei Paesi Bassi,
si è portati a pensare che i problemi risolti a questo livello, e che
dunque non entrano nel sistema penale, non vi rientrerebbero in ogni caso.
Verrebbero semplicemente archiviati. Ma si può anche dire che un certo
numero di tali confronti, poiché offrono alla gente la possibilità
di un faccia a faccia, costituiscono in sé una specie di meccanismo
d'appianamento dei conflitti, che non è cosa trascurabile.
Una seconda formula è quella del procedimento arbitrale. Alcune vicende
sono portate direttamente dinanzi a un conciliatore, sia che la gente decida
così, sia che queste vicende siano state inviate a questo circuito
da organismi d'assistenza sociale, di protezione dei minori, o da gruppi come
quelli della Chiesa, per risolvere conflitti interni. Viene data ai conciliatori
una preparazione che li renda capaci d'intervenire nei conflitti. Il conciliatore
ascolta le persone separatamente e prepara un tipo di compromesso in grado
di rispondere a ciò che ha inteso, poi propone il suo progetto a ognuno
degli interessati, e lo modifica eventualmente fino a quando non sia accettato
da tutti.
La terza formula mi pare di gran lunga quella più fortunata. Si tratta
dei comunity boards, formati da un gran numero di conciliatori di
tipo completamente differente da quelli della formula precedente. Questi conciliatori
formano delle commissioni ad hoc, con elementi variabili a seconda
delle persone venute a sollecitare l'intervento del comunity board.
Se il conflitto avviene fra Portoricani, o fra Messicani, c'è almeno
un Portoricano o un Messicano nella commissione; se il conflitto
oppone un uomo e una donna, bisogna che ci siano un uomo e una donna; se il
conflitto si è sviluppato tra un commerciante e dei giovani, devono
esserci un commerciante e dei giovani.
L'idea fondamentale, è che i membri della commissione devono essere
prossimi a quelli implicati nel conflitto. Una seconda idea, anch'essa molto
importante, è alla base di questo modello di soluzione dei conflitti:
i conciliatori non vengono preparati per risolvere i conflitti, ma addestrati
per non proporre una soluzione. Essi vengono formati per aiutare
la gente a riconoscere da sé il proprio conflitto, ad ascoltarsi, a
entrare in uno stato di comprensione della situazione vissuta dall'altro,
e a decidere infine cosa voglia fare del proprio conflitto: rilanciarlo e
in quale contesto, o risolverlo.
Non ho visto in azione questi comunity boards. Ma ho letto su di
essi un certo numero di relazioni, e ho avuto l'occasione di parlare a lungo
con persone che vi svolgevano un ruolo: pare che funzionino bene. Hanno inoltre
un merito nascosto. Poiché non si può stare più di due
anni in un comunity board, a poco a poco nella comunità ci
sono sempre più persone che sono state conciliatore. Alla
lunga è l'intera comunità che diventa più conciliante,
al di fuori d'ogni istituzionalizzazione.
Questi comunity boards si occupano soprattutto dei conflitti interpersonali.
Ma intervengono ugualmente in casi più generali di conflitti tra collettività.
56. Prossimità
Se si spezzasse la logica che collega il sistema penale a meccanismi di morte
e ci si sforzasse di creare, in tutte le istanze giudiziarie inevitabili,
una situazione di vicinanza psicologica con le persone direttamente coinvolte
in una situazione problematica, una buona parte di questi organi potrebbero
rivivere al servizio di un compito umano. Alcuni potrebbero persino fornire
servizi insostituibili nella soluzione dei conflitti. Una politica giudiziaria
consapevole dovrebbe orientarsi verso la necessaria trasformazione delle mentalità
in un sistema di giustizia ristrutturato.
In una riforma che eliminasse la macchina repressiva, ogni giudice sarebbe
un giudice civile (o amministrativo); e un tale giudice, con un ruolo specifico
di protezione dei diritti dell'uomo e delle garanzie individuali, (27) interverrebbe
ad ogni appello rivoltogli dagli interessati, sia nel caso in cui gli istituti
intermediari di controllo abbiano fallito, sia che le parti in causa le abbiano
rimesse in questione.
Ma si cercherebbe d'evitare di far rientrare nella macchina statale i problemi
particolari. All'uopo bisognerebbe ridare ai membri della polizia la loro
prima vocazione di agenti di pace appoggiandosi a esperienze locali
significative.
Nei Paesi Bassi, ad esempio, in alcuni comuni sono stati riorganizzati i vecchi
agenti di quartiere, le cui funzioni giudiziarie sono scarsamente importanti.
Al contrario, questi agenti sono anzitutto al servizio degli abitanti del
quartiere. Si chiede loro di avvisare il medico, di far aprire una farmacia,
di svegliare un fabbro, eccetera. Stanno lì per rispondere a ogni caso
urgente. Ma essi servono anche come intermediari tra il quartiere loro affidato
e il sistema politico: trasmettono le informazioni utili sulle carenze che
notano, e mobilitano gli organismi competenti a fronteggiare le situazioni-problemi
di cui siano a conoscenza. Questi agenti ritengono che la loro prima missione
sia quella d'aiutare la gente, e molto spesso fanno quel che possono per evitare
di consegnare qualcuno al sistema penale.
In un quartiere povero al centro della città di Dordrecht, in un certo
periodo, si notò ogni mattina che nelle scuole erano stati rotti dei
vetri. L'ufficio del Municipio, al quale si rivolsero gli interessati per
la sostituzione dei vetri, decise ad un certo punto di chiedere al Commissario
d'"intervenire". Il Commissario comandò agli agenti del quartiere
di essere "attivi", cioè in parole povere di acciuffare i
fautori di disordine. Un certo agente di quartiere sapeva che erano i giovani
a rompere i vetri. Ma invece d'arrestarli, andò a discutere con l'ufficio
comunale interessato. Chiese che gli fosse dato l'elenco delle scuole dove
i vetri erano stati rotti nei vari quartieri di Dordrecht. E quando ebbe questa
lista tra le mani, disse: "Vedete, c'è un rapporto diretto tra
il numero di vetri rotti nelle varie scuole e l'esistenza di strutture per
i giovani nei quartieri in cui si trovano queste scuole. È nel mio
quartiere che ci sono più vetri rotti. Ma è pure nel mio quartiere
che tali strutture mancano maggiormente. Non serve a nulla che io arresti
quei ragazzi. Se si vuole che diminuisca il numero di vetri rotti, bisogna
progettare misure di carattere urbanistico".
Mi pare che quest'esempio rifletta uno spirito al quale sarebbe opportuno
permettere di manifestarsi e svilupparsi dovunque.
57. Il delitto impossibile
L'abbandono di un punto di vista orientato unicamente sull'autore
(colui che compie l'illecito) dovrebbe sfociare nel promuovere una ricerca
sistematica e non semplicemente occasionale delle misure cosiddette "preventive"
in tutti i campi in cui sia preoccupante il ripetersi di atti dannosi. Nel
campo della circolazione stradale per esempio, si comincia a intravvedere
che esiste interazione tra l'autista, la strada e il mezzo, e che portando
dei cambiamenti nella concezione delle strade e dei veicoli, si può
far diminuire il numero e la gravità degli incidenti stradali. D'altronde,
quando si montano dei congegni di sicurezza nelle auto, nei grandi magazzini,
nei self-service o nelle banche, il numero di furti diminuisce considerevolmente.
Si può anche prevedere la riorganizzazione sociale e legale
in alcuni settori. L'entrata in vigore in alcuni paesi d'Europa degli assegni
garantiti, la creazione di trasporti pubblici gratuiti, il pagamento anticipato
di alcuni servizi (taxi, ristoranti eccetera) rispondono a questa preoccupazione.
La curva della criminalità cala notevolmente negli ambiti in cui si
ricorre a tali mezzi, senza per questo far sparire del tutto il rischio.
Ma bisogna spingere la riflessione più in là, e dire non solo
che la collettività può organizzarsi affinché alcuni
tipi d'infrazione non abbiano luogo materialmente, ma anche perché
scompaia la loro stessa nozione. In fin dei conti alcune riforme strutturali
sono state possibili solo grazie ad una nuova ottica riguardo ai legami interpersonali
che sono alla base di tali strutture. Così, una nuova concezione
dei rapporti uomo-donna e dei rapporti genitori-figli ha potuto cambiare le
dimensioni della violenza domestica e delle reazioni che suscita.
Cercare una riorganizzazione delle strutture giuridiche e sociali che non
lasci neanche più posto al concetto d'infrazione in particolare
con la rivalorizzazione del ruolo d'ogni persona all'interno di tutti i tipi
di rapporti sociali, diventa, in quest'ottica, un obiettivo politico prioritario.
58. Sdrammatizzare
Nel corso delle epoche, gli uomini, le civiltà, modificano i loro
differenti modi di vivere e di risolvere i conflitti. Ci si accorge così
che qui da noi eventi un tempo considerati inaccettabili oggi sono sopportati,
perfino desiderati dalla comunità sociale: per esempio la contraccezione.
Oppure ancora, che comportamenti un tempo rifiutati ora sono tollerati, almeno
in alcuni paesi: per esempio il consumo di sostanze psicotrope o l'omosessualità.
Questa tolleranza ufficiale per certe pratiche che prima erano ufficialmente
al bando non cade evidentemente dal cielo. Il più delle volte, questa
specie d'inversione di tendenza è preparata dal consolidarsi di comportamenti
(nuovi/diversi) nei settori di popolazione che possono influire sul processo
legislativo. Perché non accettare in partenza una maggiore diversità,
lasciando agli altri sistemi di regolazione sociale il compito di reagire
di fronte alle difficoltà che tale diversità può creare
in alcuni casi? Là dove un intervento istituzionale è voluto
da alcuni interessati e dove questo si ponga in un quadro giuridico, è
importante evitare l'effetto di drammatizzazione proprio del sistema penale.
Ci si può augurare che i governi di società che si vogliono
pluraliste prendano coscienza di questo aspetto della decriminalizzazione.
Non si può infatti minimizzare l'influenza del potere politico sul
contesto psicologico e simbolico in cui si producono gli eventi . In un clima
di decriminalizzazione, si sviluppano atteggiamenti di tolleranza verso i
comportamenti fuori dalla tradizione, e la disponibilità individuale
di fronte agli eventi indesiderabili si ritrova preservata e aumentata. Quando
questi atteggiamenti aumentano in una data società, ne possono derivare
due tipi di vantaggi: anzitutto, l'escalation del conflitto può
essere evitata, e limitati i suoi risultati negativi. E poi, il timore dell'evento
può diminuire.
Forse vale la pena che in tanti campi si smetta di concentrare sull'"autore"
dell'illecito le risorse disponibili in materia di protezione sociale e di
salute, per consacrarle alle altre persone coinvolte nel fatto, cioè
alle potenziali "vittime".
59. Per un tessuto vivo
Rifiutare il concetto di reato costringe a ripensare il concetto connesso
di "prevenzione". "Prevenire la criminalità" non
ha più senso se ci si sforza di ripensare la realtà in una logica
altra da quella dell'"atto punibile".
Criminologi e governanti parlano di prevenire la criminalità,
lottando contro le origini economiche, urbane, culturali, sociali, di certi
atti spiacevoli. È interessante perché così ammettono
implicitamente che gli atti oggi definiti crimini o delitti, e per i quali
precisi individui sono avviliti e marchiati a vita nelle nostre prigioni,
costituiscono in realtà dei fatti imputabili a cause complesse e collettive.
Tuttavia bisogna andar più lontano. Più esattamente, è
d'un altro cammino che si tratta. Conviene risalire all'origine stessa del
discorso penale. Un nuovo sguardo vede sotto una nuova luce i problemi di
sempre, e porta con sé una mutazione dello stesso apprendere la realtà.
Non amo la parola "prevenzione" perché imprigiona in vecchi
schemi. In realtà, si dovrebbe mirare assai più lontano della
prevenzione immediata di problematiche. Bisognerebbe rivolgersi alle strutture
e alle mentalità sociali, e cercare in quali condizioni gli uomini
e le donne del nostro tempo possano esser resi capaci d'affrontare i loro
problemi e di farsene carico.
60. Rinnovamento
Con l'abolizione del sistema penale l'intera materia della soluzione dei
conflitti, ripensata in un nuovo linguaggio e ripresa in un'altra logica,
si ritroverebbe trasformata dall'interno. La fine di questo sistema non eliminerebbe
ovviamente le problematiche; ma l'assenza di griglie d'interpretazione riduttive
e delle soluzioni stereotipate che tale sistema impone dall'alto e da lontano
permetterebbe, a tutti i livelli della vita sociale, l'entrata in gioco di
una moltitudine d'approcci e di sviluppi che oggi si fatica persino a immaginare.
Se, nel mio giardino, rimuovo gli ostacoli che impediscono al sole e all'acqua
di fertilizzare la terra, nasceranno delle piante di cui non sospettavo neppure
l'esistenza. Così, la scomparsa del sistema punitivo statale aprirà,
in una convivialità più sana e più dinamica, le vie di
una nuova giustizia.
Note:
1 Cfr. paragrafi 7-9, 22, 23, 24, 25 e infra.
2 Si potrebbe qui vedere lo sbocco logico di un approccio proposto fin dal
1945 da Marc Ancel. Nel celebre lavoro che ha appena ripubblicato, Marc Ancel
denuncia le finzioni legali che impediscono l'osservazione della
realtà sociale e insiste sulla necessità di de-giuridicizzare
alcuni concetti per arrivare fino all'uomo. (M. Ancel, La défense
sociale nouvelle, 3ª ed., Paris, Cujas, 1981). La prospettiva qui
suggerita si spinge lungo lo stesso cammino: si tratta di de-giuridicizzare
il concetto di atto punibile per ritrovare l'evento e la situazione realmente
vissuti.
3 È evidente che, il solo cambiamento di terminologia non può
garantire una svolta di fondo. Si sono persino viste al contrario delle modificazioni
di linguaggio permettere a vecchie pratiche di continuare a esistere sotto
forme più benigne (quando per esempio s'è voluto che la carcerazione
diventasse un trattamento di risocializzazione). In modo forse un po' semplificato,
qui si afferma che un cambiamento di linguaggio è una condizione necessaria
per il mutamento auspicato. Non sufficiente certamente, ma necessaria.
4 Questa vastissima questione, che qui non può trovare lo spazio che
richiede, è trattata a lungo in un lavoro pubblicato dal Consiglio
d'Europa: Rapporto sulla decriminalizzazione, Comitato europeo per
i problemi criminali, Strasburgo, 1980. Vi si trovano approfondite, un certo
numero d'idee qui sollevate, e vengono proposte delle strategie realistiche
in vista di una progressiva decriminalizzazione.
5 Abbiamo visto (paragrafo 26) che raramente addebitiamo un "evento"
a una persona precisa. Lo interpretiamo allora sia in rapporto a un quadro
di riferimento naturale o soprannaturale, sia in un quadro di riferimento
sociale, che attribuisce tale evento a una struttura sociale e non a una persona.
6 Lo ha trasformato in un illecito punibile con una multa.
7 Quando i Paesi Bassi hanno introdotto il "medico di fiducia",
il sistema penale era sempre più raramente chiamato in causa proprio
a causa della sua impotenza nell'intervenire in modo adeguato in una situazione
globale complessa.
8 Conviene notare che uno stesso omicidio può essere contato più
volte. Sul problema delle statistiche di polizia, cfr. paragrafo 42.
9 Ricordarsi anche che il tentativo, in Francia, è assimilato
all'atto commesso. I tentati omicidi rientrano dunque in questo tasso.
10 Tanto più vano dal momento che, al contrario è esso stesso
a crearla! Cfr. paragrafi 7 e 9.
11 La criminologia tradizionale ha tentato di trovare i fattori atti a spiegare
le variazioni di grado della "criminalità" in società
differenti, partendo dall'idea - che tutto questo libro cerca di rifiutare
- che bisogna intendere col termine criminalità un comportamento
specifico. Se una tale lettura fosse vera, i Paesi Bassi dovrebbero avere
una fortissima criminalità. Essi presentano infatti un gran numero
di fattori che nell'ottica di questa criminologia tradizionale si presume
possano favorire un'elevata criminalità (società in rapida trasformazione,
alto numero di giovani, di stranieri, eccetera). I Paesi Bassi hanno d'altra
parte un sistema penale sostanzialmente meno repressivo di quello delle nazioni
vicine. Ebbene, quando si vive nei Paesi Bassi o si va a visitare questo paese,
nessuno ha l'impressione che gli eventi violenti siano qui più frequenti
o numerosi che altrove. Piuttosto il contrario.
Gli Stati Uniti patiscono un numero elevatissimo di eventi violenti registrati.
I tassi d'omicidi registrati in alcune città americane superano di
gran lunga la cifra assoluta degli omicidi registrati in tutta la Francia.
Eppure, gli Stati Uniti hanno uno dei sistemi penali più repressivi
che ci siano (tasso di carcerazione tra 250-300 per 100.000 abitanti). Non
sarebbe più plausibile avanzare la tesi inversa a quella che sentiamo
sostenere il più delle volte sul supposto rapporto "eventi violenti/repressività
di un sistema penale" ? Questa tesi potrebbe esser formulata nel modo
seguente: un sistema molto repressivo produce violenza tra i membri della
società alla quale viene applicato. Nessuno può negare
che la risposta penale sia una risposta violenta. Non è certamente
aberrante affermare che una tale risposta violenta e pubblica sia suscettibile
d'incitare alla violenza in altri campi della vita.
12 Cfr., supra, "Quale abolizione?" n. 8, nota 6.
13 Service régional de Police judiciaire [Servizio regionale
di Polizia giudiziaria].
14 Anche nel primo caso, si ritiene che vi sia violenza perché si attenta
all'incolumità fisica. Nei due casi, c'è scopo di lucro.
15 Perché tali atti non hanno scopo di lucro.
16 Condizioni di legalità che dovrebbero comprendere l'indicazione
di quali altri approcci all'evento sono stati presi in esame e avrebbero potuto
essere scelti di preferenza, perché disponibili.
17 Si parla di "rinascita". Ma è difficile valutare se si
tratta in effetti di un vero aumento, o semplicemente di una maggiore visibilità
di questo fenomeno, in seguito a un ritorno d'interesse che alcune istituzioni
e, appresso a loro, i mass media, manifestano al riguardo.
18 Se si risale alle origini del sistema penale e dell'invenzione del concetto
di "reato" così come sono intesi nel discorso attuale origini
che si collocano intorno al XIII secolo ci si accorge che la specificità
del penale rispetto ad altri approcci "giuridici" è
proprio la messa in disparte delle vittime. Prima di questa svolta, era la
vittima la guida d'orientamento dell'approccio giuridico e l'animatrice del
procedimento. Dopo, essa ha perduto gran parte della sua influenza. Lo statuto
della "parte civile" nel processo penale non cambia nulla di fondamentale
in questo stato di cose poiché la vittima deve svolgere il proprio
ruolo all'interno del quadro penale e la sua sorte è subordinata alle
finalità delle istituzioni penali.
19 La grande divisione giuridica che distingue il penale dal civile
situa in quest'ultimo i casi di competenza amministrativa, di giurisdizione
dei probiviri, eccetera.
20 Aggrappata all'idea che bisogna "vendicare le vittime del delitto",
l'ottica ufficiale spesso trascura una più urgente aspettativa: l'emarginazione
di coloro il cui comportamento risulta inquietante.
21 Cfr. Avvertenza della Parte seconda.
22 Sussiste cioè un certo modo d'organizzare, di definire i problemi
e d'agire che è specifico del funzionamento attuale dello Stato.
23 La prospettiva qui indicata, evidentemente non dà un'elaborata soluzione
al problema delle ineguaglianze nei rapporti di forza tra le persone
implicate in un conflitto. Da notare che conviene parlare, non "d'ineguaglianza",
ma di "ineguaglianza nei rapporti di forza". Se si ammette infatti
che l'ineguaglianza profonda degli esseri, cioè la loro diversità
e la loro singolarità, costituisce il lievito stesso della vita, ogni
vita sociale che si voglia ricca e non alienante dev'essere costruita sul
princìpio di quest'ultima ineguaglianza. Ma l'ineguaglianza, feconda
in questo senso, può essere pervertita da un'ineguaglianza nei
rapporti di forza tra coloro che si trovano implicati in un conflitto.
Il quadro istituzionale è parzialmente legittimato, nelle nostre società,
dall'idea che tale quadro permetta d'equilibrare le differenze nei rapporti
di forza. Per quanto riguarda il sistema penale, questa visione è completamente
falsa. Tutte le ricerche dimostrano che, al contrario, questo sistema rafforza
considerevolmente le ineguaglianze nei rapporti di forza esistenti. Tutto
permette dunque d'affermare che è impossibile porre rimedio a questa
situazione nel quadro del suddetto sistema, e che invece l'abolizione del
sistema porterebbe ad un miglioramento della situazione. Le differenze nei
rapporti di forza sono infatti minori là dove la gente s'incontra faccia
a faccia, perché le ineguaglianze osservate non sono assolute e riguardano
solo alcuni aspetti di tali rapporti di forza. Sicché certi handicap
si ritrovano annullati in una situazione di confronto diretto.
Nel caso in cui si prendano in considerazione delle società piuttosto
stratificate non ci si può ritenere autorizzati a dire, visto il miglioramento
che ci si aspetta dall' abolizionismo, che il confronto diretto sia la risposta
ai problemi menzionati. La via del confronto può dare un contributo
positivo in combinazione con altri fattori. È in questo senso che tali
esempi sono stati qui richiamati.
24 Cfr. paragrafi 8 e 16.
25 Cfr. paragrafi 35 e 37.
26 Nella misura in cui non si esprimono in altro modo. In ogni caso, nessuno
pretende che l'esistenza di un potente desiderio di vendetta obblighi a mettere
di nuovo in moto il sistema penale in questo campo!
27 Cfr. paragrafo 43.