Louk Hulsman
Jacqueline Bernat de Célis
PENE PERDUTE
Il sistema penale messo in discussione
POSTFAZIONI
Tre esperti di scienza del crimine presentano qui la loro opinione sulla prospettiva
abolizionista di Louk Hulsman, aprendo il dibattito che questo libro spera di
suscitare.
Ecco per primo il punto di vista di Marc Ancel, membro dell'Institut de France,
presidente onorario alla Corte di Cassazione e presidente della Società
internazionale di difesa sociale.
Claude Faugeron, ricercatrice al Service d'études pénales et criminologiques
di Parigi, che dà alla propria riflessione il titolo "Gli apparati
del potere ovvero l'ambiguità della funzione penale".
Infine Nils Christie, professore presso l'Università di Oslo, con un
contributo dal titolo "Stati pericolosi".
II
Gli apparati del potere ovvero l'ambiguità della funzione penale
Questo libro pone dei problemi. E questo era il suo obiettivo.
È vero, Foucault l'ha detto così bene, che il discorso sul fallimento
del carcere è contemporaneo alla nascita stessa del carcere. E che tuttavia
il ricorso al carcere non ha cessato di aumentare.
È vero che il suo uso, nei paesi paragonabili al nostro, ha geometria
variabile: si incarcera in un rapporto di uno a cento, a seconda che ci si trovi
nei Paesi Bassi o negli Stati Uniti d'America. E non è affatto una questione
di grandezza, di densità della popolazione o di ricchezza.
Variabilità, anche, del ricorso al carcere a seconda delle epoche. Per
non risalire fino alla monarchia di Luglio e alla sua frenesia repressiva, notiamo
che la popolazione penitenziaria francese cala regolarmente dal 1920 al 1939,
per risalire brutalmente nel 1945 (detenzioni per episodi di collaborazione...)
e vivere dopo delle fluttuazioni di cui le più notevoli sono nel 1968
e 1980 (al rialzo) e nel 1970 e 1975 (al ribasso).
Si conosce ancora male la teoria di queste variazioni sul lungo periodo, a meno
che non intervengano certi eventi legati alla congiuntura e facilmente identificabili,
come per esempio i bruschi cali connessi a provvedimenti d'amnistia o d'indulto.
Il fatto è che questi conti sono il risultato di meccanismi complessi:
durata delle pene comminate certamente, ma anche propensione dei magistrati
a ordinare custodie cautelari, ingorgo della macchina penale che provoca l'aumento
della durata di queste, o ancora diminuzione della tolleranza dei gruppi sociali
o fallimento dei sistemi di derivazione anteriori.
In nessun caso, si è potuto dimostrare in modo serio che tali variazioni
siano dovute a un supposto "aumento della criminalità". Invece,
al di fuori di considerazioni riferibili a certi regimi politici, pare proprio
che l'aumento della popolazione detenuta, in periodi di difficoltà economica,
sia piuttosto connesso all'ampliamento delle popolazioni-bersaglio (1) che, nello
stesso tempo, diventano più vulnerabili. (2)
Si può anche supporre che un regime in calo di legittimità tenterà
di perdurare da un lato rafforzando il proprio apparato repressivo e dall'altro
lato dando soddisfazioni a dire il vero più simboliche che reali a certi
settori di popolazione che cominciano a dubitare dello "Stato protettore?".
Più precisamente, ricerche condotte in questi ultimi anni hanno mostrato
la perdita di fiducia di un buon numero di persone nella capacità delle
istituzioni di stroncare quel che alcuni zelatori di queste stesse istituzioni
indicavano loro come un'inflazione galoppante della criminalità. È
l'effetto indubbiamente perverso di un discorso che grida "al lupo"
per chiedere più mezzi repressivi senza che questi producano altro che
un rafforzamento degli argomenti iniziali, un aumento delle statistiche che
registrano i comportamenti delittuosi. Altre ricerche ancora più recenti
mostrano il ruolo, nella richiesta di maggior repressione, della crescita del
dubbio, tra certe categorie, per ciò che riguarda il ruolo dello Stato
in difesa delle leggi e dei beni.
Fenomeno complesso, dunque, in cui s'incastrano l'ideologico e l'economico.
Ma dove la risultante è un rafforzamento delle ineguaglianze sociali
davanti all'intervento penale, in cui è coinvolta una popolazione sempre
maggiore e, all'interno della quale i meno favoriti subiscono in pieno gli effetti
pauperizzanti dell'incarcerazione.
Giacché pure in questo c'è un uso differenziato delle sanzioni.
Se esaminiamo da vicino le statistiche delle condanne e le rapportiamo a ciò
che rappresentano per ogni gruppo sociale ci accorgiamo che i padroncini non
sono meno condannati degli operai, e che gli alti dirigenti e le libere professioni
lo sono sempre di più. Ma sono soprattutto gli operai e le categorie
più povere a finire in carcere.
Comunque sia, la Francia occupa ancora, e soprattutto dopo il brusco rallentamento
dell'estate 1981, un posto meno che medio nell'albo d'onore della proporzione
di persone in carcere, in confronto a paesi con regime (e registrazione statistica)
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Non va allo stesso modo per quel che riguarda la sorte riservata ai detenuti.
Da questo punto di vista sembra che la Francia sia nel gruppo di testa per le
cattive condizioni: pratiche d'isolamento o all'opposto eccessiva promiscuità
, arbitrarietà delle decisioni senza vie di ricorso efficaci, poteri
esorbitanti dei direttori carcerari, ben nota insufficienza di mezzi e di personale
medico, di educatori, assistenti sociali, eccetera e alienazione di questo personale
per condizioni di lavoro in cui primeggia l'ideologia della sicurezza. Ciò
senza contare le brutalità di cui si ha ancora troppo spesso l'eco, malgrado
l'opacità che circonda l'istituzione; opacità ben mantenuta dalla
connivenza dell'amministrazione e dei sindacati maggiori e dall'indifferenza
pubblica.
Tutti i discorsi, tutte le buone intenzioni non possono fare granché
per questo stato di cose: senza volontà politica ben decisa e su questo
tema c'è sempre stato timore il peso delle istituzioni e le "lobbies"
professionali hanno fatto fare ben presto marcia indietro, per poco che il treno
fosse avanzato. Se n'è avuto l'esempio con la riforma del 1975. Alcune
sue disposizioni praticamente non sono mai state applicate, altre sono state
ben presto sviate, (3) senza contare l'inasprimento degli anni Settanta-Ottanta
(rarefazione dei permessi d'uscita, delle libertà condizionali eccetera).
S'è visto all'inizio del 1982 un minore di 10 anni in carcere; certo
per 24 ore soltanto. Ma che si deve pensare di un paese in cui un giudice può
intravedere come soluzione per un bambino, pur se accusato di rapina a mano
armata, soltanto il carcere?
Si sa anche che per numerose pene minori con i loro strascichi di nefaste conseguenze
si potrebbero immaginare e applicare altre soluzioni. Una circolare del 21 ottobre
1981 invita pressantemente i giudici ad agire in tal senso. Fino ad ora, non
si può valutarne l'effetto. Ma si sa che leggi del 1970 e 1975, miranti
a restringere l'uso della custodia cautelare, avevano avuto scarso successo.
E che l'istituzione del controllo giudiziario ha avuto come conseguenza di mettere
sotto controllo gente che prima d'allora sarebbe stata lasciata libera piuttosto
che quello di far diminuire il numero di accusati in stato di detenzione.
Quanto ai quartiers de sécurité renforcée [sezioni
carcerarie speciali], certo sono state eliminate. Ma le pratiche d'isolamento
rimangono e restano a discrezione del potere amministrativo, senza controllo
reale né possibilità d'appello. Detto in altri termini, è
stata soppressa l'etichetta, il che non è da disprezzare, ma non sono
state affatto modificate le condizioni che resero tanto criticabile l'uso di
tali sezioni.
Siamo dunque ben lontani dalla soppressione del sistema penale. Non siamo neppure
a una reale ristrutturazione di quel che esiste, né a una riduzione della
sua attività.
Eppure, è sorprendente constatare, nel corso di inchieste condotte presso
il pubblico - inchieste più approfondite dei soliti sondaggi d'opinione
- constatare che il nostro sistema penitenziario - senza parlare del penale
- è lontano dal raggiungere consenso unanime. A fronte di un piccolo
numero di persone che vorrebbero vederne rafforzato l'aspetto puramente repressivo
- senza voler con questo che in esso s'imprigioni di più, ma piuttosto
che lo si utilizzi più a ragion veduta - la maggior parte ritiene che
si potrebbe ridurne l'uso a coloro per i quali non ci siano altri mezzi in grado
di intervenire (categoria tra l'altro di contenuto variabile) o ancora quando
il crimine sia così orrendo da far supporre che sia una misura di protezione
sociale e/o di acquietamento della riprovazione delle vittime. Detto altrimenti
i casi più rari.
La cosa che più sorprende e che invita a riflettere è che, quando
si chiede alle persone di spiegarsi in maniera più esaustiva su ciò
che pensano dei meccanismi individuali e sociali produttori, regolatori e riduttori
di devianza, si può constatare che queste ritengono che l'intervento
penale dev'essere un intervento solo in ultima istanza, invitato ad entrare
in scena solo quando tutto il resto è fallito. Detto altrimenti, esso
non dovrebbe esser messo in moto che per sottolineare il fallimento di tutti
gli altri modelli di regolazione, controllo o soluzione dei conflitti. C'è
da dire che, anche in questo caso, non si crede molto alla sua efficacia, salvo
che per emarginare individui potenzialmente pericolosi.
La percezione del fallimento supera dunque l'aspetto ristretto del suo malfunzionamento.
Gli è consustanziale. Eppure molti pensano che soltanto l'uso della legge
penale permetta di garantirsi contro gli abusi delle "giustizie" amministrative
o private, dato che queste ammettono poco o nulla il contraddittorio e che qui
le regole del gioco non sono sempre esplicite.
Da un punto di vista giuridico, la distinzione è chiaramente posta tra
i diversi tipi di giustizia. Sul piano pratico, le cose sono meno evidenti.
In particolare, alcuni pensano che, in numerosi campi, il penale abbia sempre
più la tendenza a funzionare come una giustizia amministrativa; e reclamano
la "ripenalizzazione" del penale. In un altro senso, si è potuto
dimostrare che i vari tipi di "giustizie" non funzionavano in parallelo
ma in interrelazione. La minaccia di un intervento penale come ultima ratio
permette a polizie-giustizie private o amministrative di essere tanto più
operative. Ciò si è avverato in settori tanto diversi come i servizi
di sicurezza dei grandi magazzini o il controllo degli infortuni sul lavoro.
E ci si accorge pure sempre di più che la giustizia penale dipende, per
il suo approvvigionamento, da organizzazioni o istituzioni non penali. Il fatto
è che le vittime private, anche se pongono il sistema penale di fronte
a vicende delittuose, non sempre portano contemporaneamente i rei: sta alla
polizia scoprirli. E questa, in certi rami, ha un rendimento debole: in tema
di delinquenza contro i beni, fa luce solo sul 20% circa dei casi. Si può
pensare che su questo 20% molti casi le giungano già del tutto risolti
dall'intermediario dei servizi di sicurezza dei grandi magazzini per esempio.
Si arriva al paradosso che segue: via via che si scoprono, sotto la razionalità
giuridica, le vere logiche di funzionamento del penale e il suo ruolo nei processi
di riproduzione sociale, si sa solo chiederne l'estensione, nel peggiore dei
casi, o il nuovo spiegamento, nel migliore dei casi.
È qui che interviene, come choc salutare, l'abolizionismo così
come lo presenta Louk Hulsman.
Per lui, si tratta di un'evidenza. Per me, è ancora una questione.
È che, in Francia, le riflessioni e dibattiti dell'ultimo decennio hanno
reso assai sensibili all'idea della cancerizzazione dei controlli sociali, che
si sviluppano in sordina e tanto più temibili se poco visibili, burocratizzati
quando non informatizzati e che assumono i toni dell'aiuto, dell'assistenza,
della cura. È stata così denunciata l'estensione della competenza
psichiatrica con la settorializzazione, la "disciplinarizzazione"
delle famiglie col lavoro sociale, i pericoli che poteva far correre l'informatizzazione
delle assai indiscrete schede per la protezione di maternità e infanzia...
Questi controlli "non controllati" da un pubblico dibattito e quasi
tutti d'ordine amministrativo non troverebbero il loro limite che col ricorso
al giudiziario, la denuncia dell'abuso di potere, la reintroduzione del contraddittorio.
E, in questa reintroduzione del giudiziario, l'ambito penale può apparire
in alcuni casi come privilegiato, nella misura in cui è meno ordinario
e sembra più coercitivo dell'ambito civile. È pure più
scandaloso, porta dunque maggiore pubblicità, colpisce la pubblica opinione.
Se ne sono avuti esempi in tema di diritto del lavoro o dei consumatori, o di
protezione dell'ambiente. E il settore associativo vi ritrova i suoi diritti,
dato che ora le associazioni possono costituirsi parte civile.
Tra l'altro, questa stessa ribalta penale ha permesso di mettere in luce l'alienazione
esistente in alcuni gruppi sociali. Lottare contro la penalizzazione dell'aborto
o, in senso opposto, per la criminalizzazione dello stupro è stato per
le donne uno dei mezzi per il riconoscimento del diritto alla libertà
del proprio corpo. Ma con degli effetti non voluti: nel primo caso, un rafforzamento
del potere medico e amministrativo (di cui si può sempre dire che è
meglio questo delle mutilanti pratiche clandestine); nel secondo caso, un'aggravamento
delle pene che, per un buon numero di donne ha creato dei problemi. Far riconoscere
lo stupro come un crimine e le donne come vittime - e non provocatrici - è
una cosa. Vedere il violentatore condannato a 20 anni di reclusione lascia un
sapore amaro a molte donne che, battendosi contro la propria oppressione, hanno
preso coscienza di tutte le altre.
È quindi d'obbligo domandarsi, davanti alla moltiplicazione degli effetti
perversi: lo scenario penale è il solo possibile? Ciò tanto più
che sono rarissimi i casi in cui i gruppi sociali s'affrontano direttamente
in tale ambito, pongono con chiarezza le loro poste in gioco. L'ordinarietà
della giustizia penale è fatta di piccoli casi, funziona sempre più
come un "tariffario" e burocraticamente. Può darsi benissimo
che il lato spettacolare dei grandi scontri sia soltanto un alibi per ciò
che si può chiamare una giustizia di massa. E si possono immaginare facilmente
altri luoghi pubblici di confronto altrettanto efficaci.
È vero che, nelle nostre società occidentali, siamo talmente abituati
a pensare al penale come a una "necessità" - con degli scopi
di dissuasione generale o di protezione delle vittime (4)
- che immaginarne la soppressione richiede una vera e propria rottura; un tipo
di rotture come quelle che hanno presieduto ai grandi cambiamenti dei sistemi
di pensiero. A un dato momento, alcuni s'accorgono che ciò che è
percepito come un dato di fatto, un dato "naturale", non è
di fatto che una costruzione procedente da meccanismi sociali. Ma la presa di
coscienza del carattere secondario di queste evidenze ha bisogno di un'uscita
dai processi d'assimilazione ideologica dominanti. Uscita che può essere
solo il risultato di una lotta con se stessi, e dell'approfondimento della riflessione
critica su ciò che s'affaccia all'inizio nell'ambito dell'intuizione.
Il confronto col pensiero di Louk Hulsman è di quelli che provocano la
necessaria rottura e consentono di liberarsi dalle idee acquisite; l'ultima,
forse più difficile da combattere è che la soppressione totale
del penale in una società potrebbe mettere al suo posto dispositivi di
segregazione e controllo repressivo che si evolvono in sordina e ancora più
difficili da controllare.
Ma tutto è questione di lotte e di vigilanza, dato che lo stesso ragionamento
può essere fatto in senso inverso, si è visto più volte
come sia l'esistenza del penale ad autorizzare lo sviluppo e l'efficacia di
tali dispositivi.
Così, è l'atteggiamento stesso di non accettazione della funzione
penale che potrà portare alla conoscenza e al controllo di tali dispositivi
esistenti o supposti.
Ma, naturalmente, un simile atteggiamento richiede una grande lucidità
in merito alla natura, al ruolo e alla funzione del sistema penale. Ed è
a questo che tende la presente opera.
Claude Faugeron
Note:
1 Questo termine indica le categorie sociali più esposte al rischio
"penitenziario", del quale si sa che colpisce di preferenza i giovani,
gli immigrati, i meno privilegiati.
2 Il concetto di vulnerabilità traduce bene il fatto che la precarietà
delle situazioni (disoccupazione, instabilità professionale, marginalità
varie) fa aumentare la probabilità di essere condannati a una pena reclusoria,
in ragione anche qui di complessi meccanismi e non necessariamente di carattere
intenzionale.
3 M. Seyler, L'application de la réforme pénitentiaire de
1975, Paris, CNERP, 1978.
4 Obiettivi che tutte le ricerche hanno dimostrato di non poter essere raggiunti
utilizzando il penale, oppure solo molto parzialmente per un tempo limitato
e con un costo eccessivo per quanto riguarda la dissuasion