Estratti da: Xosé Tarrío Gonzáles, Huye hombre huye, Diario di un prigioniero F.I.E.S., Edizioni La Caffettiera, 2000



Huye hombre huye è la storia dell'infinita permanenza in carcere di Xosé Tarrío González, entrato in galera per scontare un breve periodo detentivo e finito ad accumulare condanne su condanne da scontare nelle peggiori carceri spagnole in regime Fies. È anche la storia di un continuo tentativo di evsione, di una continua ribellione e della scelta di non rassegnarsi mai alla prigionia, anche quando il carcere sassume il volto di una vera e propria tomba per vivi.

Si avvertiva un clima prossimo alla violenza, perciò ricevemmo la visita di un ispettore della Direzione Generale delle istituzioni penitenziarie. Da ogni modulo vennero scelti due detenuti per dialogare ed esporre i problemi di tutti gli altri. Io ed un altro compagno andammo come portavoce del modulo 1. Il dialogo si svolse in un ufficio dell'infermeria, il mio compagno entrò per primo mentre io aspettavo scortato da un paio di secondini. Concluso il colloquio con il mio compagno, entrai nell'ufficio.
Vi era un uomo ben vestito e scrupolosamente pettinato che mi sorrideva apertamente con un sorriso di facciata. Pretendeva creare un clima di fiducia tra noi. Mi salutò:
- Salve, come va?
Mi sedetti di fronte a lui e gli risposi, cortese:
- Salve.
- Lei è Xosé Tarrìo, vero? - domandò
consultando una lista di nomi, che aveva annotatati su un foglio.
- Sì, vengo dal modulo uno.
- Bene, bene. Sono venuto per vedere se avete qualcosa da dirmi. Qui è morto uno di voi per una pugnalata e noi vogliamo sradicare questo ed altri aspetti del carcere di Daroca, che è sempre stato molto problematico. Come si vive qui?
- Male, rispondendo all'ultima domanda. Per il resto, la violenza esiste e continuerà sempre ad esistere finché le carceri manterranno atteggiamenti repressivi così selvaggi e insisteranno nel tenere tutti i detenuti in uno stesso luogo, senza prendere in considerazione altri aspetti umani, perlomeno quelli logici.
- Quali aspetti? - mi interruppe.
- I detenuti devono scontare la condanna nelle loro rispettive comunità, per evitare conflitti campanilistici e l'abbrutimento che in tutti noi provoca lo sradicamento familiare. D'altra parte non ci sono laboratori, né altre attività. La gente trascorre tutta l'ora d'aria nel patio, senz'altro intrattenimento che camminare. Trascorriamo ventidue ore su ventiquattro rinchiusi in cella, e così tutti i giorni della settimana, del mese e dell'anno. Ci vengono proibite le visite vis a vis, mentre ci portiamo sulle spalle anni di separazione dalla famiglia o senza avvicinare una donna. Ciò genera violenza, signore, in uomini che per la maggior parte sono condannati a lunghi. anni di carcere.
Feci una pausa per prendere respiro e riordinare i pensieri. Poi continuai:
- Noi detenuti di primo grado siamo già conflittuali, per questo ci rinchiudono qui; cosa si spera di ottenere se poi ci sottopongono ad un regime degradante e se ci opprimono nei bisogni fondamentali? Qui non funziona nemmeno l'infermeria. Vi sono i detenuti malati di AIDS in moduli senza una concreta assistenza medica, quella di questa prigione è pessima. Per ottenere una semplice palestra abbiamo dovuto distruggere il carcere intero, il che dimostra che a volte questa violenza è efficace e, se non lo è, perlomeno è l'unica strada che ci lasciano. Pestano noi detenuti per meschinità e questo, signore, non aiuta. Io non dico che voi fomentate la violenza di proposito, ma non riuscite a vedere la realtà dalle vostre comode sedie ed a causa dell'inesperienza umana. Noi detenuti sì che vediamo tutto questo insieme di cose che ci abbrutiscono giorno per giorno, fino a renderci crudeli e perfino insensibili.
- Diamine! Lei non lascia una via d'uscita. Vede le cose da un'ottica molto negativa, Tarrìo. Qualcosa di buono lo faremo, no? - mi interruppe di nuovo, mentre la sua mano destra giocava con una bic.
Risposi cinicamente:
- Guardi, ignoro il motivo per cui è venuto qui, ma non sarò io a fare l'apologia del terrorismo carcerario che voi utilizzate per punirci. Nel 1980 c'erano ventimila detenuti nelle carceri spagnole, oggi ne avete quarantamila. Sinceramente, credo che siete degli incompetenti per non aver saputo risolvere un problema sociale del quale siete stati incaricati. Da quanti anni vi portate dietro gli stessi problemi? Per un detenuto che riabilitate a metà, create cinque nuovi delinquenti; avete convertito il carcere in un affare, non in una soluzione.
Presi di nuovo respiro e proseguii emozionato:
- Il carcere in sé è violenza, signore. È la scuola del crimine per i delinquenti nati come me. Io e i miei compagni costituiamo il carnaio del quale si alimentano le vostre carceri, i vostri stipendi e i vostri grandi affari. Non ci si può aspettare nulla da chi non ha altro proposito se non quello di curare i propri interessi. Buongiorno! - conclusi, abbandonando l'ufficio.
Ancora un po' e mi sarei gettato su di lui.
No, quelli non avrebbero cambiato niente. Le istituzioni penitenziarie inviavano gli ispettori ogni volta che succedeva qualcosa di grave, o si presumeva che potesse succedere; allora cercavano di placare gli animi con false promesse che mai avrebbero mantenuto. Quei colloqui erano una pura routine, burocrazia per riempire delle scartoffie, giustificazione del lavoro di coloro che dirigevano da Madrid l'istituzione repressiva. Quelle carte erano lavallo con cui l'amministrazione si presentava dinanzi alla società, mostrando la sua preoccupazione per il regime carcerario. No, nulla poteva cambiare quel colloquio, come nulla avevano cambiato le centinaia di denunce che inviavamo ai tribunali di sorveglianza penitenziaria.
La soluzione dei problemi all'interno delle carceri passava irrimediabilmente attraverso l'unificazione delle lotte di tutta la popolazione reclusa: dai sequestri alle sommosse, dalle rivolte alle proteste. Solo con una violenza maggiore si poteva porre fine ai regimi distruttivi. C'era bisogno di una lotta armata all'interno delle strutture carcerarie e di un sollevamento popolare, le cui rivendicazioni avrebbero interessato i mezzi di comunicazione della società, assieme al grido di terrore degli aguzzini convertiti in ostaggi. Bisognava estendere la lotta a tutte le carceri, iniziando da quelle a regime speciale, passando poi per i regimi chiusi e terminando con quelli di secondo grado.

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2.

STATUTO DELL'ASSOCIAZIONE DEI DETENUTI IN REGIME SPECIALE (ricostituita) - APRE (R)

Non ci sono dubbi sul fatto che il disinteresse e la mancanza di coscienza sociale sulle tematiche carcerarie diano via libera alla tortura, all'abuso, alla prepotenza e al delitto; procedure con le quali si svolge l'attività carceraria. Tutto ciò da origine ad APRE(R).
La realtà del carcere la conoscono solo coloro che la soffrono: noi detenuti. Purtroppo la popolazione reclusa si divide in due tipi di detenuti: gli abituali, il cui unico obiettivo è quello di estinguere la condanna nel più breve tempo possibile, in condizioni carcerarie "comode" e noi, dell'APRE(R), denominati irrecuperabili, termine che non smette di essere vero, visto che siamo irrecuperabilmente coscienti della nostra condizione di esseri umani. Nostro obiettivo è quello di scontare le nostre condanne, rinunciando alle comodità carcerarie in difesa della nostra dignità e dei diritti che le leggi ci riconoscono. APRE (R) ha attraversato due fasi, in una prima gli unici obiettivi sono stati simbolici ed hanno solo migliorato le condizioni di vita di alcuni, provocando la delusione e lo scoraggiamento di fronte a nuovi progetti, distruggendo così l'associazione.
Ma con la casa a pezzi e con nuovi aderenti, l'associazione si è andata ricostruendo, creando una struttura orizzontale, la cui attività è diretta allo sradicamento dei maltrattamenti e all'ottenimento di condizioni di vita degne nelle carceri, con la promozione della cultura, della creatività, dello sport o di qualsiasi altra attività a fini rieducativi.
Noi lottiamo per l'abrogazione del regime speciale previsto dall'art. 10 della L.O.G.P. (Legge Organica Generale Penitenziaria) e dagli articoli
32 e 46 del R.P. (Regolamento Penitenziario), volti all'instaurazione dell'isolamento assoluto e all'annullamento della personalità dei detenuti. Soffriamo un'assoluta restrizione dei diritti fondamentali, causati dall'imposizione di un regime repressivo che non è contemplato in nessuna legge o regolamento e che ci viene applicato per far tacere, ad ogni costo, le nostre denunce ed evitare azioni rivendicative. Come se non bastassero l'isolamento e la segregazione, ci troviamo a centinaia di chilometri dai nostri ambienti familiare e affettivo.
Consideriamo che in democrazia non tutto è ammissibile. La democrazia non è un patrimonio di alcuni che per il proprio potere la degradano, agendo arbitrariamente, in diritto di casta e di status, nell'incarico amministrativo che occupano nei poteri pubblici. Ne abbiamo piene le tasche del fatto che i prosseneti della democrazia violino i nostri diritti fondamentali, pretendendo convertire i loro "concittadini" in prostituti dello Stato di Diritto. Da un decennio a questa parte, come conseguenza delle anomalie e deficienze della gestione penitenziaria del governo socialista, si è ottenuto che noi detenuti fossimo, costantemente e in maniera sistematica, facili vittime di aggressioni fisiche, di abusi di potere e di arbitrarietà da parte di alcuni secondini formatisi professionalmente sotto i più stretti canoni del catto-fascismo, durante il precedente regime militarista che ha dominato fino a 15 anni fa.
Coscientemente o meno,
l'amministrazione giuridico-penitenziaria mantiene in attività, nel corpo penitenziario. questi elementi provenunti dal braccio secolare franchista. Alcuni di essi praticando l'opportunismo politico delle tessere, sono ascesi ai ranghi amministrativi e, con perfidia, hanno imposto direttive inquisitoriali, aggiungendo a modo loro principi di sicurezza e metodi secondo i quali devono essere diretti gli istituti penitenziari.  Questi sono stati trasformati nei propri feudi, in cui predominano la violenza fisica praticata dai loro sicari, la terapia comportamentale basata sul terrore, l'intimidazione e il ricatto per ottenere l'obbedienza alle loro norme, violando in questa maniera le disposizioni legali e i diritti dei detenuti. Frequenti sono i pestaggi per il solo fatto di essere sorpresi a parlare attraverso le finestre o di stare sdraiati sul letto. Con inganni e fatti inventati hanno avviato dei procedimenti, dei quali abbiamo dovuto rispondere davanti a corrotte commissioni disciplinari, composte per la gran parte da picchiatori, gli stessi terapeuti del manganello, delle manette e degli spray, che hanno deciso la nostra classificazione di grado nel trattamento penitenziario. Non possiamo precisare con esattezza il numero dei compagni morti a causa di un sistema penitenziario infernale e terzomondista, dovuto a contagi intenzionali di AIDS, alla carenza di un'assistenza medica adeguata e all'assenza di uno spirito umanitario nel cuore dello Stato. Ricordiamo i nostri compagni: José Manuel Ruiz Verdugo, Francisco Carmona Gallardo, Ramòn Cervera Carranza, luan José Piquero, Agustin Rueda Sierra (per torture), Vicente Gigante Real... Hanno provocato così tante morti che dovremmo avere una fabbrica di carta per riuscire a stampare tutti i nomi dei nostri indimenticati compagni.
Abbiamo inviato migliaia di denunce, dirette ai tribunali e alla D.G.I.P. (Direzione Generale degli Istituti Penitenziari), sulle aggressioni fisiche, psichiche e morali delle quali siamo oggetto, senza che fino ad ora si siano adottate delle misure efficaci per sradicarle. Al contrario, le nostre denunce hanno comportato l'incremento delle rappresaglie e dell'avversione da parte degli aguzzini.
Il continuo stato di assoluta indifferenza che sopportiamo e la disperazione che questa comporta, ci hanno condotto in diverse occasioni a dar vita a rivolte con sequestri di funzionari. Questi fatti non solo hanno incrementato di molto le nostre condanne, ma hanno dato una piena impunità ai boia, che così hanno sfogato le loro basse passioni di istinto sadico su di noi. Siamo stati e siamo cavie per la sperimentazione di metodi per la tortura psicologica, diretti ad annullare la personalità dell'individuo.
La DGIP è venuta a conoscenza dei pestaggi e delle arbitrarietà che si commettono su di noi, ma non si è data da fare per farli cessare, né ha avviato delle indagini contro i responsabili. Continuano, invece, a picchiarci con brutalità e, non soddisfatti del risultato ottenuto con le punizioni psichica e fisica, ci ricattano e speculano sul nostro dolore. Ci separano dai nostri ambienti familiare e affettivo, applicando coscientemente l'allontanamento geografico come metodo per produrre lo sradicamento sociale, senza alcuna giustificazione o criterio correttivo per il rifiuto di un reinserimento che non ci viene offerto. In effetti il reinserimento sociale non esiste, se non in termini astratti; mentre ciò che si pratica su di noi è l'addestramento schiavista impartito da sindacati del crimine, organizzati in équipes di trattamento, il cui unico criterio terapeutico è l'ottenimento dell'assoluta sottomissione del prigioniero nei confronti della classe dominante.
Noi, di certo, consideriamo
l'amministrazione giuridico-penitenziaria responsabile dei danni che abbiamo sofferto e soffriamo.
Valutiamo che i pestaggi che abbiamo ricevuto, le celle di punizione, gli anni in regime di isolamento, le lesioni morali che hanno causato a noi e alle nostre famiglie, non sono equiparabili in riparazione con qualsiasi risarcimento economico. Visto che questo "Stato di Diritto" fino ad ora permette di leggere e di esprimere le proprie opinioni, noi, alla luce di quanto previsto dall 'art. 121 della costituzione spagnola, esigiamo per i danni che abbiamo sofferto:

1 - Riscatto della pena giorno per giorno, più quattro mesi per ogni anno di condanna scontato, con carattere retroattivo.
2-Indagini per il chiarimento e l'individuazione delle responsabilità di coloro che ci hanno sanzionato disciplinarmente, in violazione dell'art. 15 della costituzione spagnola e dell 'art. 3 della convenzione europea dei diritti umani.
3 - Immediata liberazione di tutti i detenuti con malattie incurabili (AIDS), senza attendere che si trovino in fase terminale; ad essi deve essere riconosciuto il diritto stabilito dall 'art. 60 del R.P.
4- Mantenere fuori dal contatto con la popolazione detenuta tutti quei secondini che siano stati denunciati per
maltrattamenti.

Siamo a conoscenza che la DGIP si propone di portare avanti una politica penitenziaria in cui predominerà il trattamento piuttosto che la disciplina, la qual cosa consideriamo positiva per il riconoscimento del ruolo rieducativo imposto dalla volontà popolare al corpo penitenziario. Se questo progetto fosse stato portato a termine così come prevedono le leggi, la maggioranza dei membri di APRE(R) avrebbe estinto le condanne o una gran parte di esse, beneficiando degli avanzamenti di grado e dei permessi di uscita. Tuttavia la realtà che ci è imposta, in cui ci troviamo, non ci permette nemmeno di ottenere delle visite
vis a vis, il che implica la proibizione di realizzare l'atto sessuale e l'impossibilità di abbracciare i nostri familiari. Conosciamo molti detenuti con condanne superiori alle nostre, ad esempio i narcotrafficanti, gli ex poliziotti, i violentatori e i terroristi di estrema destra, che occupano posti di lavoro remunerati, hanno ottenuto straordinari sconti di pena e riescono a vedere le loro famiglie. Altri casi, come quello di golpisti del 23-F (6) che hanno attentato contro le libertà ed i diritti della nazione spagnola, sono stati beneficiati dalla generosità della democrazia. Sappiamo della immunità di cui godono diversi altri, per esempio i responsabili delle morti nel carcere di Foncalent, nel gennaio 1987, delle prigioniere: Elena Màrquez Vano, Isabel Plano Pèrez e Teresa Pedraza Gonzàlez. Per non citare il "Caso GAL" il "Caso Nani", il "Caso Agustìn Rueda", gli alti funzionari della sicurezza dello Stato e i magistrati implicati nel narcotraffico, nelle falsificazioni di documenti ufficiali, nei dubbi finanziamenti ai partiti politici e un lungo elenco di scandali che si susseguono giorno dopo giorno, in un paese che si dice costituzionale e democratico. Molto probabilmente questi signori non conosceranno mai una cella di punizione. Noi, cari compagni, siamo stati facili vittime dell'invasione di droga nel paese, siamo in grande maggioranza delinquenti in seguito alle circostanze; tossicodipendenti gettati in carcere, invece di essere curati. Proprio nel carcere, i cui scopi principali sono lo sradicamento culturale e la diffusione della droga. Ci hanno imposto delle pene astronomiche, totalmente sproporzionate, per il solo fatto di appartenere ad una bassa classe sociale. E triste ma, disgraziatamente per questo paese, la democrazia esiste solo per pochi, mentre noi ci consumiamo nelle celle di punizione per aver avuto il coraggio di reclamare i nostri diritti. Siamo in molti ad avere l'AIDS e ci proibiscono di trascorrere la fine dei nostri giorni con le famiglie.
Per questo, con la coscienza sociale e lo spirito di lotta che ci caratterizzano ed identificano, con l'appoggio morale e materiale dall'esterno ogni volta più esteso, facciamo causa comune e di fronte all'amministrazione penitenziaria continuiamo a denunciare gli abusi degli agenti di custodia nella seguente maniera. È socio di APRE(R) colui che ne ha la legittimità morale. Faremo sempre in duplice copia le nostre denunce, collettive o individuali, e le intesteremo con APRE(R). In esse porremo in evidenza :  tutti i diritti calpestati; le richieste negate dei colloqui vis a vis; l'applicazione di un rigore non necessario; la proibizione di utilizzare dei locali per svolgere attività culturali, sportive e ricreative; l'assenza e i ritardi delle visite mediche e dei controlli di laboratorio; i rifiuti dei medici di far ricorso all'art.6O, che permetterebbe la liberazione dei malati; l'assenza delle équipes di osservazione e trattamento o il disinteresse delle stesse; la mancata realizzazione dei colloqui informativi e dei test di personalità; il disinteresse delle unità docenti a dare lezioni, specie agli interni di primo grado; e tutte quelle situazioni che consideriamo ingiuste o illegali. In ogni carcere ci sarà un incaricato a redigere le denunce e a raccogliere le firme, incluse quelle dei simpatizzanti. Questi invierà una copia allamministrazione penitenziaria e l'altra resterà nelle sue mani fino a che l'APRE(R) non avrà un suo recapito. Le denuncie saranno sempre inviate in busta chiusa, raccomandata e con ricevuta di ritorno. Il finanziamento della nuova APRE (R) non sarà un problema. Il problema è quello di aumentare il dossier che già abbiamo all'esterno, in modo che i nostri avvocati possano rivendicare i nostri diritti ed ottenere così il risarcimento che ci è dovuto.
Sebbene non siamo partigiani della violenza, non scartiamo le azioni collettive armate se, esauriti tutti i ricorsi legali, non ci viene dato quello che per diritto ci spetta.
Siamo coscienti che, secondo l'ordine politico stabilito, non è eticamente lecito far uso della violenza per ottenere dei fini e neanche noi giustifichiamo questi mezzi (vedi la massima di Machiavelli); ma, quando nella più oscura clandestinità veniamo massacrati, è per istinto di conservazione, nella legittima difesa del nostro diritto alla vita e allintegrità fisica e morale, che diciamo:

 ADESSO BASTA!!!
PRATICHIAMO LA DOTTRINA DI ZENONE ED OBBEDIAMO SEMPRE ALLA RAGIONE.
FORZA, COMPAGNI!!!
LA GIUSTIZIA E LA DEMOCRAZIA SONO DI TUTTL

Il coordinatore

Francisco Javier Àvila Navas
Herrera de La Mancha, gennaio 1991.

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3.

La mattina del 18 marzo, Javier Avila Navas e i suoi compagni passarono dalla teoria all'azione. La notizia fece il giro di tutto il paese, attraverso la radio e la televisione, dal carcere di Herrera de La Mancha.
Un gruppo di detenuti aveva preso degli ostaggi e si era trincerato nel modulo speciale. Tutto si svolse nella mattinata, mentre la dottoressa visitava i detenuti nelle celle. Normalmente queste avevano un cancello, che impediva qualsiasi contatto. Ma quel giorno, uno di quei cancelli era stato segato e fissato solo da un filo di ferro per evitare che il secondino se ne accorgesse. Una volta nella cella di Àvila Navas, questi, armato di coltello, si avventò sui carcerieri e, dopo averli immobilizzati e rinchiusi, si appropriò delle chiavi, correndo ad aprire ai suoi compagni di modulo, Rivas Dàvila e Losa Lòpez.
Fuori, Sànchez Montanés e Laudelino Iglesias si occupavano del controllo del patio, immobilizzando altri due secondini. In seguito, portandosi verso la zona di sicurezza, riuscirono a sequestrare un secondino, un agente ed un ufficiale della
Guardia Civil.
Scattò l'allarme.
Scartata l'idea dell'evasione, i detenuti si barricarono nei corridoi dei moduli con materassi e porte e prepararono anche delle bottiglie molotov, con le quali incendiare il modulo in caso di assalto. Gli ostaggi vennero condotti in differenti celle e spostati costantemente, al fine di evitare la loro localizzazione da parte delle forze speciali, le quali non tardarono ad arrivare. Si era disposti ad andare fino in fondo.
Da parte sua, la
Guardia Civil penetrò all'interno del carcere e prese posizione attorno al modulo speciale, circondandolo.
Cominciava il braccio di ferro. Era come una corda tirata con forza da entrambi i lati, senza mezzi terminj: chi avrebbe ceduto di un millimetro, avrebbe perso.
Iniziarono le trattative. Queste si condussero
in situ, attraverso le barricate. L'amministrazione, per negoziare aveva inviato tre ispettori della Direzione Generale di Madrid. Su richiesta dei detenuti asserragliati presenziava inoltre la giudice di sorveglianza.
In rappresentanza dei detenuti, Àvila Navas lesse a voce alta la lista di rivendicazioni che aveva dato origine a quel sequestro:

Fine delle torture in tutte le carceri.
Immediata sospensione dei secondini che ci proposero ad Alcalà-Meco di formare all'interno del carcere un gruppo volto ad assassinare i prigionieri politici di maggior peso, in cambio di miglioramenti penitenziari.
Si adegui debitamente il Centro penitenziario dei minori di Madrid, dove stanno per essere trasferite le detenute di Yeserìas.
Fine delle torture, dei pestaggi e dei maltrattamenti nel carcere psichiatrico di Alicante (Foncalent), dove si legano gli internati per mesi, obbligandoli a fare le loro necessità fisiologiche addosso, senza accesso alle loro cose, con la piena responsabilità della dottoressa Mari Angeles Lòpez.
Indagine veritiera ed individuazione dei responsabili delle impiccagioni che si sono prodotte nelle carceri di Stato, per la diretta negligenza dei secondini che hanno ricattato altri interni con privilegi, in modo da non contribuire alla spiegazione di questi omicidi. Che si seguano le denunce per contagi intenzionali di AIDS, perché ci trattengono le lamette da barba e le mischiano, dopo l'uso, senza alcun tipo di controllo.
Immediata scarcerazione di tutti i detenuti con malattie mortali, ai sensi dell'art. 60 del regolamento penitenziario.
Che ai detenuti malati di AIDS venga applicato l'art. 60 quando la malattia si trova in una fase stazionaria e non quando sono cadaveri, come proposto lo scorso anno dal procuratore generale dello Stato, Leopoldo Torres. Conosciamo molto bene il suo spirito umanitario. Si sospenda immediatamente l'art. 10 della LOGP, nel suo primo comma relativo ai detenuti in attesa di giudizio e nel secondo comma per noi definitivi, che abbiamo alle spalle anni ed anni di primo grado in prima fase, equivalenti a 22 ore d'isolamento al giorno.
Che le sanzioni di isolamento nelle celle non siano di un massimo di 42 giorni; 14 giorni sono già una barbarie ed hanno il solo effetto di rendere i detenuti invulnerabili alla punizione.
Che l'attuale governo non si accanisca contro i delinquenti dovuti alle circostanze (tossicodipendenti), vittime dell'invasione della droga nel paese e che si tengano in considerazione la loro malattia e le dimensioni del problema. I malati non si condannano, si curano.
Che la politica penitenziaria non sia solo progressista di fronte alla società; che il reinserimento come tale non sia un termine astratto e che si vigili per la vita e l'integrità fisica degli interni, rispettando i loro ideali. Che si tenga in conto anche la radice sociale dei detenuti in modo che possano scontare le loro condanne in centri vicini ai loro luoghi di residenza.
Che si rispetti il diritto alla cultura, allo sport e che si organizzino più attività e lavoro remunerato.
Che non si proibisca, ai sanzionati:, l'acquisto di articoli di economato. Che si abbia il dovuto rispetto dei familiari dei detenuti quando si trovano all'interno degli istituti penitenziari.
Che nella riforma del codice penale si includa la possibilità di permettere la libertà agli interni che abbiano scontato più di 5 anni di prigione effettiva.
Che durante l'espletamento delle pratiche disciplinari, gli interni possano consigliarsi con i testimoni, gli avvocati e il procuratore; visto che nelle corrotte commissioni di regime, i secondini sono nello stesso tempo giudici ed esecutori e le sanzioni comportano un aggravio della nostra pena.
La mancanza di difesa viola la Costituzione spagnola nei suoi artt. 24 e 119.
Che la politica penitenziaria progressista sia più generosa con i detenuti pericolosi; che semplicemente chiedono giustizia, e che non esaurisca la sua generosità solo con i terroristi di estrema destra e con i narcotrafficanti.
Che non ci processino per i precedenti sequestri di secondini, visto che sempre siamo stati incitati a farlo dal cattivo funzionamento dell'amministrazione della giustizia.


L'amministrazione, una volta messa al corrente delle richieste dei detenuti, si rifiutò di renderle pubbliche. La sua linea era di occultare quelle denunce, che facevano tremare, sulla situazione carceraria nel territorio spagnolo. Non poteva permettere che la società venisse a conoscenza di quel sottomondo, dove la dittatura continuava il suo corso.
Si ordinò l'avvio di una campagna di disinformazione.
Così i giornali più importanti, con l'eccezione di
Egin, e diversi programmi radiofonici non perdettero tempo né aggettivi nel qualificare i detenuti come pazzi, irresponsabili e molto pericolosi. Nessuno di questi fenomeni dell'informazione chiarì, tuttavia, che il regime speciale a cui erano sottoposti quegli uomini era illegale, ed era stato abrogato dal decreto reale 787/84.
Era la stessa commedia di sempre. Non si rispettava la legge, ma se la infrangeva qualcuno che non fosse dalla parte dello Stato, allora veniva accusato di essere pazzo e di essere fascista. Ipocrisia, ingiustizia, demenza. La prostituzione dei massmedia era semplicemente schifosa e ripugnante.
Non si parlava di Herrera de La Mancha, tristemente famosa per le torture e gli abusi li commessi contro i detenuti della C.O.P.E.L. 
In quel carcere dal 79 all'81, nell'assoluta impunità dei secondini, i detenuti, ammanettati, ricevevano tremendi pestaggi al fine di estorcere confessioni o delazioni contro i loro compagni, o contro i militanti reclusi dell'E.TA.
Come potevano lo Stato e i massmedia sostenere che quegli uomini sovversivi erano dei pericolosi psicopatici senza cuore, se quelle rivendicazioni erano dirette ai cittadini, con tutta la solidarietà che emanava ognuna di quelle parole? Quale giustificazione poteva darsi lo Stato se un tale atto di solidarietà veniva occultato e sottoposto a repressione?

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4.

Nel pomeriggio, ricevetti la sgradevole visita di un secondino che conoscevo dal carcere di Zamora. In quel carcere mi aveva picchiato assieme ai suoi colleghi e, adesso, pretendeva costringermi al ricordo di quel fatto, per lui eroico.
- Che succede, figlio di puttana? - mi disse attraverso lo spioncino
- Non sei stanco di ricevere bastonate? Oggi sto io di guardia, quindi stai attento perché alla minima le prendi, o non ti ricordi di me?
Mi ricordavo perfettamente.
- Certo che mi ricordo - gli risposi, avvicinandomi alla porta.x
- Bene, perché non ti voglio ascoltare per tutto il pomeriggio.
D'accordo?
Non risposi alla provocazione.
Un'ora dopo quella visita, vennero ad aprirmi per l'ora d'aria. In una delle mie scarpe da tennis avevo nascosto un piccolo coltello di ferro di mia fabbricazione. Quel figlio di cagna l'avrebbe pagata una volta per tutte.
Non ebbi problemi con il coltello, alla perquisizione che solevano farmi ogni volta che uscivo dalla cella. Egli si trovava all'altezza della porta che dava accesso al patio. La sua faccia rifletteva la tipica prepotenza di chi si sente protetto da un'uniforme, da una placca e da tutto un sistema, di chi sa che può agire impunemente, senza timore della giustizia o della legge. Si avvicinò per dirmi qualcosa, quando il mio pugno lo colpì in faccia, facendolo cadere a terra. Totalmente sorpreso che un detenuto si fosse azzardato ad alzare le mani su di lui, si mise prima carponi e poi si incamminò verso la garitta dalla quale tornò armato di manganello.
- Ti farò cagare - gridò furioso e minaccioso mentre si gettava su di me.
Mi chinai ed estrassi il coltello dalla scarpa da tennis. Nel vederlo si fermò, gettò il manganello e alzò le mani, mostrandomi che non offriva resistenza.
- Stai calmo, Tarrìo, per favore...
Mi avvicinai, lo afferrai al bavero della camicia, e lo feci inginocchiare davanti a me. Gli lanciai una coltellata all'altezza della testa, che si fermò in una delle sue mani con le quali si stava proteggendo.
- Che c'è? Non fai più il duro? - gli gridai, fuori di me.
- O sei coraggioso solo quando stai davanti ad un fanciullo nudo ed indifeso? - aggiunsi con una chiara allusione al pestaggio di Zamora.
- Stai calmo, uomo, tranquillo. Aggiustiamo tutto questo con calma, eh? - gridava una guardia dall'altra parte del modulo.
- Non fare stronzate, Tarrìo, per favore, calmati...
Guardai il mio ostaggio. Avevo voglia di ucciderlo, ma desistetti per timore delle conseguenze che quellazione avrebbe potuto causarmi, per cui alla fine lo liberai.
- Guarda, maiale, questa volta ti libero. Se un giorno tentassi di prenderti la rivincita o ti azzardassi a picchiarmi di nuovo, giuro che ti ammazzo senza pensarci su. Ti è chiaro?
- Sì, Tarrìo. Te lo prometto, non succederà nulla
Mi diressi alla cella e mi disfeci del coltello, che passai a Caamano dalla finestra. Mi sdraiai sul letto, teso per le possibili conseguenze.
Poco dopo, diversi secondini vennero da me, mi ammanettarono e mi trasferirono in un'altra cella. Non mi picchiarono, nè mi minacciarono, semplicemente si limitarono a cambiarmi di cella. Mi chiesero del coltello ed io risposi che l'avevo buttato nel water. Mi lasciarono solo, ammanettato, in una cella vuota.
Più tardi venne il secondino che avevo pugnalato. Aveva la mano bendata ed era in borghese, per cui supposi che lo avevano sospeso. Parlammo dallo spioncino.
- Guarda, Tarrìo, so che quello di Zamora non andava bene, ma obbedivo agli ordini come il resto degli altri agenti. - si scusò Quanto accaduto oggi mi ha fatto vedere le cose in un'altra maniera, sul serio. Ho parlato con i miei colleghi, affinché non effettuino rappresaglie contro di te.
- Bene... - gli risposi, sorpreso per il suo atteggiamento.
- Col tempo tutti noi ci abbrutiamo; non credere che per me sia facile lavorare qui, ma di qualcosa si deve pur mangiare.
È preferibile fare la fame, che torturare per evitarla - risposi.
Sì, però qualcuno deve fare questo lavoro ... Senti, non c'era sangue o qualcosa del genere sul coltello, vero? Lo dico per via degli anticorpi dell'AIDS, siccome sei sieropositivo.
- No, era pulito.
- Devo andarmene. Mi dispiace molto che sia andata così.
-È il carcere - risposi, riassumendo tutti i mali possibili con quella fatidica parola, istituzione che gli uomini e le donne del mondo avrebbero fatto bene ad eliminare dalla faccia della terra, qualche giorno non lontano.



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