Il problema della giustificazione della pena è forse il problema più
classico della filosofia del diritto.
Su che cosa si fonda la pretesa punitiva ovvero il diritto di punire? Quali
sono le ragioni che rendono accettabile moralmente e/o politicamente che alla
violenza illegale del delitto si aggiunge una seconda violenza legale quale
la pena?
Questo problema ha rilegato in secondo piano le altre due questioni: se e perchè
proibire, se e perchè giudicare. Queste tre questioni hanno ricevuto
due risposte: una positiva, fornita dalle "dottrine giustificazionistiche"
che giustificano i costi del diritto penale con ragioni e scopi irrinunciabili;
l'altra negativa, fornita dalle "dottrine abolizionistiche" che non
riconoscono giustificazione alcuna al diritto penale in quanto i vantaggi procurati
sono inferiori rispetto al costo della triplice costrizione prodotta (limitazione
alla libertà d'azione, soggezione a processo e conseguente punizione).
I sostenitori di tali dottrine ritengono illegittimo il sistema penale in quanto
non ammettono moralmente nessun scopo possibile a giustificazione delle afflizioni
arrecate, ovvero perchè reputano vantaggioso sostituire la sanzione punitiva
con mezzi pedagogici o strumenti di controllo informali meramente sociali.
L'abolizionismo penale si compone di un insieme di teorie e dottrine i cui presupposti
filosofici e le prospettive politiche sono i più disparati.
Le dottrine abolizionistiche più radicali sono quelle che non giustificano
le pene nè le proibizioni e i giudizi penali.
Una posizione così estrema è stata espressa dall'anarchico Max
Stirner il quale concepì la trasgressione e la ribellione come libere
ed autentiche manifestazioni in quanto non è giusto prevenire, giudicare
e punire l'egoismo a-morale dell'io. Siffatta posizione rimase alquanto isolata.
Meno anarchiche sono le altre teorie abolizionistiche che, seppur contrarie
al diritto penale, non sono propense per l'abolizione di ogni forma di controllo
sociale; tali dottrine di chiaro stampo giusnaturalistico e si rifanno ad una
morale superiore che dovrebbe regolare direttamente la società.
Ed ecco che scrittori come Godwin, Bakunin, Molinari e Malatesta giustificano
la trasgressione in quanto momento di ribellione ovvero come effetto di cause
sociali patologiche; pertanto, preferiscono alla pena tecniche di controllo
non giuridiche ma immediatamente morali e/o sociali (educazione morale, solidarismo
terapeutico, diffusione sociale della vigilanza e del controllo).
Elementi analoghi emergono in alcuni filoni del marxismo politico: vedi, ad
esempio, la concezione di Lenin secondo cui la società, una volta liberatasi
dagli orrori, dalle barbarie e dallo sfruttamento capitalistico, si abituerebbe
a poco a poco ad osservare le regole elementari della convivenza sociale senza
costrizione e sottomissione, ossia senza quell'apparato speciale che si chiama
stato.
Si pensi pure al pensiero di Gramsci dei Quaderni, dove è progettata
la creazione di uno stato etico tendente a porre fine alle divisioni interne
di dominati e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale.
Gramsci attribuisce al diritto un carattere educativo, creativo e formativo,
e parimenti assegna allo stato un compito educativo e formativo, con la conseguenza
che riduce il diritto a morale.
Tutte queste teorie hanno un doppio difetto.
Innanzitutto i modelli di società cui si ispirano sono quelli di una
"società selvaggia" in quanto priva di qualunque ordine e abbandonata
alla legge naturale del più forte, ovvero quelli di una "società
disciplinare" in cui i conflitti sono prevenuti mediante meccanismi etico-pedagogici
di interiorizzazione dell'ordine, o di trattamento medicale.
In secondo luogo queste dottrine eludono le questioni più specifiche
della giustificazione e della delegittimazione del diritto penale (qualità
e quantità delle pene, qualità e quantità dei divieti e
tecniche di accertamento), con la conseguenza di confondere in un unico modello
modelli penali autoritari e liberali.
Le dottrine abolizionistiche hanno, comunque, anche due meriti importanti.
Poichè il punto di vista abolizionista, proprio perchè si colloca
dalla parte di chi subisce il costo delle pene anzichè da quella del
potere punitivo, ha avuto il merito di favorire l'autonomia della criminologia
critica, di sollecitarne le ricerche sulle origini culturali e sociali della
devianza.
Vi è, poi, un secondo merito di carattere metodologico. Infatti, evidenziando
l'arbitrarietà, i costi e le sofferenze che il diritto penale comporta,
gli abolizionisti rovesciano sui giustificazionisti l'onere della giustificazione
in quanto il diritto penale dovrà offrire repliche convincenti.
Per quanto concerne, invece, le dottrine di giustificazione le teorie elaborate
sono le più disparate, ma possiamo raggrupparle in due grandi categorie:
le teorie assolute e quelle relative.
Sono teorie assolute tutte le dottrine "retributivistiche" che concepiscono
la pena come fine a sè stessa, ossia come castigo-corrispettivo-reazione-riparazione-retribuzione
del reato; dunque, non un costo nè un mezzo.
Le teorie relative, invece, sono quelle "utilitaristiche" che considerano
e giustificano la pena soltanto come un mezzo attraverso cui realizzare il fine
utilitario della prevenzione di futuri delitti.
Le dottrine assolute e relative vengono divise in sottoclassi; le prime in relazione
al valore morale o giuridico assegnato alla retribuzione penale, mentre le seconde
sono distinte tra dottrine della prevenzione speciale (rivolgono lo scopo preventivo
alla persona del delinquente) e dottrine della prevenzione generale (riferiscono
lo scopo preventivo alla generalità dei consociati).
Le dottrine assolute si fondano tutte sulla massima secondo cui è giusto
"rendere male per male", principio alquanto vetusto che ruota attorno
a tre elementari idee di stampo religioso: quella della vendetta, quella dell'espiazione
e quella del riequilibrio tra pena e delitto.
Queste tre idee erano entrate in crisi durante l'Illuminismo, ma sono state
rilanciate nell'Ottocento grazie a Kant ed Hegel.
Secondo Kant la pena è una retribuzione etica, giustificata dal valore
morale intrinseco alla legge penale infranta dal colpevole con conseguente castigo;
secondo Hegel, invece, la pena è una retribuzione giuridica giustificata
dalla necessità di riparare il diritto mediante una violenza contraria
che ristabilisca l'ordine legale violato.
Entrambe le tesi, comunque, non sono sostenibili. Infatti, in entrambe vi è
la convinzione dell'esistenza di un qualche nesso necessario tra colpa e punizione,
sopravvivenza di antiche credenze secondo cui la pena ristabiliva l'ordine naturale
violato ovvero attraverso il castigo si aveva la purificazione del delitto.
In realtà si è venuta a creare una certa confusione in materia
a causa della mancata distinzione tra ragione legale e ragione giudiziale della
pena, con la conseguenza che è stata scambiata la questione "perchè
punire?" con quella "quando punire?".
Escluso che la pena possa essere considerata come fine a sè stessa, non
resta che esaminare la concezione della pena come mezzo, tratto comune a tutte
le dottrine relative o utilitaristiche che tendono ad escludere le pene socialmente
inutili.
Si sviluppa come dottrina giuridica e politica ad opera del pensiero giusnaturalistico
e contrattualistico del Seicento. La pena, come diceva Grozio, deve perseguire
utilità future, come il cambiamento del reo e la prevenzione dei delitti
tramite l'esempio.
Diceva a sua volta Hobbes che "nel comminare le pene non bisogna preoccuparsi
del male ormai passato, ma del bene futuro: cioè non è lecito
punire se non con lo scopo di correggere il peccatore o di migliorare gli altri
con l'ammonimento della pena inflitta.
Durante l'Illuminismo la funzione utilitaria della pena diventò la base
comune di tutto il pensiero penale riformatore.
Le afflizioni penali, affermavano concordemente Montesquieu, Voltaire, Beccaria,
Hume ed altri, sono prezzi necessari per impedire mali maggiori, e non omaggi
gratuiti all'etica, alla religione o al sentimento di vendetta.
L'utilitarismo giuridico presenta alcune versioni.
Una prima vresione è quella dell'utilitarismo "ex parte principis",
ossia il primato della politica non solo sulla morale ma anche sul diritto;
un'altra versione è quella "ex parte populi" che contrassegna
la filosofia penale di origine illuministica e che ha come riferimento il benessere
ovvero l'utilità non dei governanti, bensì dei governati.
Tutte le dottrine utilitaristiche hanno sempre assegnato alla pena il solo scopo
della prevenzione dei delitti futuri a tutela della maggioranza non deviante,
e non anche quello della prevenzione delle reazioni arbitrarie a tutela della
minoranza dei devianti e di quanti sono ritenuti tali.
Le finalità preventive indicate dall’utilitarismo penale come giustificazioni
della pena sono: la correzione del reo, la messa in condizione di non nuocere,
la dissuasione dall’imitarli tramite l’esempio della punizione,
il rafforzamento dell’ordine mediante la riaffermazione penale dei valori
giuridici lesi.
Nel pensiero giuridico-filosofico che va da Platone sino agli illuministi, queste
varie finalità vennero indicate in modo generico e cumulativo.
Solo sul finire del Settecento, soprattutto mediante l’opera dei giuristi,
le dottrine utilitaristiche o relative iniziarono a differenziarsi tra loro
a seconda dell’una o dell’altra finalità preventiva prescelta
come fine esclusivo o privilegiato della pena.
Dalla fine del secolo scorso si assiste ad un ritorno a concezioni polivalenti.
Secondo la già nota classificazione, tutte queste dottrine possono essere
distinte secondo due criteri: il primo si preoccupa dei destinatari della prevenzione,
e a tal proposito può essere speciale ovvero generale, a seconda che
la norma si riferisca alla sola persona del delinquente ovvero alla generalità
dei consociati; il secondo invece riguarda la natura delle prestazioni della
pena che possono essere positive e negative
Combinando i due criteri otteniamo quattro gruppi di dottrine utilitaristiche
o relative, quali: a) le dottrine della prevenzione speciale positive o della
correzione secondo cui la pena ha lo scopo di correggere il reo; b) le dottrine
della prevenzione speciale negativa o dell’incapacitazione secondo cui
la pena mira a neutralizzare il reo; c) le dottrine della prevenzione generale
positiva o dell’integrazione il cui scopo è quello di rafforzare
la fedeltà dei consociati all’ordine costituito; d) le dottrine
della prevenzione generale negativa o dell’intimidazione che assegnano
alla pena la funzione di dissuadere i cittadini mediante la minaccia della pena.
In merito alla prevenzione speciale va detto che le dottrine che la giustificano
hanno ricevuto uno sviluppo rigoglioso a partire dalla seconda metà dell’Ottocento;
queste dottrine risentono degli influssi del nuovo ed ormai consolidato stato
liberale per cui si assiste al passaggio dalla concezione del “punire
meno” a quella del “punire meglio”.
E’ possibile distinguere le svariate dottrine della prevenzione speciale
secondo tre orientamenti: le dottrine moralistiche dell’emenda, quelle
naturalistiche della difesa sociale e quelle teleologiche della differenziazione
della pena.
Le dottrine dell’emenda sono quelle di origine più remota. Esse
sviluppano l’idea della “poena medicinalis”, già formulata
da Platone e poi ripresa da San Tommaso, secondo cui gli uomini che delinquono
possono essere sia puniti che costretti dallo stato a diventare buoni.
Abbiamo, pertanto, una visione pedagogica della pena già alla base del
progetto penale di Tommaso Moro secondo cui la pena era finalizzata alla rieducazione,
e nel caso in cui il soggetto fosse irrecuperabile la pena andava commutata
in pena di morte.
Queste dottrine sono assai legate alla tradizione ebraico-cristiana (la pena
come mezzo sacrificale dell’espiazione dei peccati e della riconciliazione
dell’uomo con Dio) e a quella platonica e medioevale che non alla cultura
illuministica.
L’idea della pena come medicina dell’anima riprese vigore nel secolo
scorso ispirando il moderno pedagogismo penale secondo cui lo scopo della pena
era quello della rieducazione e del recupero morale del condannato in quanto
soggetto immorale da redimere.
Le dottrine positivistiche della difesa sociale assegnano alle pene e a più
specifiche misure di sicurezza il duplice scopo di curare il condannato nel
presupposto che egli sia un soggetto ammalato e/o di segregarlo e neutralizzarlo
nel presupposto che sia anche pericoloso.
In quest'ottica le pene assumono il carattere di misure tecnicamente appropriate
alle diverse esigenze terapeutiche della difesa sociale: misure igienico-preventive,
terapeutico-repressive, chirurgico-eliminative in relazione ai tipi di delinquenti
(occasionali, abituali, pazzi o passionali) e ai fattori sociali, psicologici
o antropologici del delitto.
I sostenitori di queste dottrine sviluppano il progetto di una società
sottoposta al controllo scientifico piuttosto che a quello moralistico dello
stato e caratterizzata da pratiche medicali di tipo terapeutico o chirurgico.
Le dottrine teleologiche affidano la funzione di prevenzione speciale delle
pene alla loro individualizzazione e differenziazione. Questo indirizzo viene
fatto risalire sul finire del Settecento, allorquando Karl Grolman concepì
la pena come mezzo di intimidazione del reo da adeguarsi giudizialmente alla
sua concreta personalità. Egli, comunque, non associò mai finalità
propriamente correttive all'idea dell'individualizzazione della pena, idea sviluppata,
invece, da Franz von Liszt il quale elaborò un modello di diritto penale
flessibile in relazione ai diversi tipi di delinquenti trattati.
Pertanto, Liszt propose una differenziazione dei singoli strumenti punitivi
al fine di adattare la pena al singolo caso.
Rispetto alle prime due teorie analizzate, quest'ultima è certamente
meno condizionata da presupposti filosofici.
I tre indirizzi dottrinari sopra esposti presentano aspetti in comune.
Tutti e tre considerano i delitti come patologia e le pene come terapia; tutti
e tre, inoltre, hanno un aspetto sostanzialistico in quanto non separano diritto
e morale. Ed infatti le dottrine dell'emenda concepiscono il reo come un peccatore
da rieducare coattivamente; quelle della difesa sociale e quelle teleologiche
confondono invece diritto e natura, società e stato, rappresentando il
reo come un soggetto malato da curare ovvero da eliminare.
Ne consegue che queste dottrine sono le più illiberali e antigarantiste
storicamente concepite, in quanto giustificano modelli di diritto penale massimo
in quanto le pene risultano pesantemente aggravate sia per la natura del fine
preventivo sia per la natura del mezzo punitivo.
Ed infatti propongono pene di natura e durata indeterminata, soggette a mutare
con il variare delle necessità correttive e a cessare solo con il ravvedimento
o la guarigione del reo.
Un altro aspetto negativo è dato dal fatto che il fine pedagogico o risocializzante
propugnato non è realizzabile in quanto non esistono pene emendatrici
o terapeutiche, ed inoltre il carcere è un luogo criminogeno di educazione
e sollecitazione al delitto.
Tali ideologie contrastano con il principio del rispetto della persona umana
in quanto violano il principio secondo cui "l'individuo è sovrano
su sè stesso, sulla sua mente".
Nonostante ciò, comunque, siffatte ideologie hanno segnato pesantemente
gli ordinamenti penali moderni di tipo liberaldemocratico. In Italia, ad esempio,
sono state adottate strategie punitive basate sul doppio binario delle pene
e delle misure di sicurezza, trattamenti penali differenziati, carceri speciali
e regimi penitenziari speciali in relazione allanatura dei rei o dei reati ovvero
istituti premiali come la libertà condizionale, la semilibertà
o la liberazione anticipata.
Dalla prevenzione speciale va distinta quella generale che può essere
positiva ovvero negativa.
La prevenzione generale positiva assegna alla pena funzione di integrazione
sociale tramite il rafforzamento della fedeltà allo stato nonchè
la promozione del conformismo delle condotte.
E sono tanti gli autori che concepiscono la pena come un fattore di stabilizzazione
sociale destinato ad agire soprattutto sulle persone oneste.
La prevenzione generale può anche essere negativa o dell'intimidazione,
e le dottrine che la sostengono hanno il merito di non confondere il diritto
con la morale o la natura in quanto non hanno di mira i delinquenti ma la generalità
dei consociati.
Alcune dottrine puntano sull'intimidazione verso la generalità dei consociati
mediante l'esempio offerto dall'inflizione della pena; altre, invece, per mezzo
della minaccia della pena contenuta nella legge.
La prevenzione speciale negativa rischia di dare vita a modelli di diritto penale
massimo; inoltre presenta un altro limite dovuto al fatto che nessuna persona
può essere trattata come mezzo per un fine che non è suo.