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Se e perchè punire, proibire, giudicare. Le ideologie penali

Luigi Ferrajoli

dal libro "Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale"

Il problema della giustificazione della pena è forse il problema più classico della filosofia del diritto.
Su che cosa si fonda la pretesa punitiva ovvero il diritto di punire? Quali sono le ragioni che rendono accettabile moralmente e/o politicamente che alla violenza illegale del delitto si aggiunge una seconda violenza legale quale la pena?
Questo problema ha rilegato in secondo piano le altre due questioni: se e perchè proibire, se e perchè giudicare. Queste tre questioni hanno ricevuto due risposte: una positiva, fornita dalle "dottrine giustificazionistiche" che giustificano i costi del diritto penale con ragioni e scopi irrinunciabili; l'altra negativa, fornita dalle "dottrine abolizionistiche" che non riconoscono giustificazione alcuna al diritto penale in quanto i vantaggi procurati sono inferiori rispetto al costo della triplice costrizione prodotta (limitazione alla libertà d'azione, soggezione a processo e conseguente punizione).
I sostenitori di tali dottrine ritengono illegittimo il sistema penale in quanto non ammettono moralmente nessun scopo possibile a giustificazione delle afflizioni arrecate, ovvero perchè reputano vantaggioso sostituire la sanzione punitiva con mezzi pedagogici o strumenti di controllo informali meramente sociali.
L'abolizionismo penale si compone di un insieme di teorie e dottrine i cui presupposti filosofici e le prospettive politiche sono i più disparati.
Le dottrine abolizionistiche più radicali sono quelle che non giustificano le pene nè le proibizioni e i giudizi penali.
Una posizione così estrema è stata espressa dall'anarchico Max Stirner il quale concepì la trasgressione e la ribellione come libere ed autentiche manifestazioni in quanto non è giusto prevenire, giudicare e punire l'egoismo a-morale dell'io. Siffatta posizione rimase alquanto isolata.
Meno anarchiche sono le altre teorie abolizionistiche che, seppur contrarie al diritto penale, non sono propense per l'abolizione di ogni forma di controllo sociale; tali dottrine di chiaro stampo giusnaturalistico e si rifanno ad una morale superiore che dovrebbe regolare direttamente la società.
Ed ecco che scrittori come Godwin, Bakunin, Molinari e Malatesta giustificano la trasgressione in quanto momento di ribellione ovvero come effetto di cause sociali patologiche; pertanto, preferiscono alla pena tecniche di controllo non giuridiche ma immediatamente morali e/o sociali (educazione morale, solidarismo terapeutico, diffusione sociale della vigilanza e del controllo).
Elementi analoghi emergono in alcuni filoni del marxismo politico: vedi, ad esempio, la concezione di Lenin secondo cui la società, una volta liberatasi dagli orrori, dalle barbarie e dallo sfruttamento capitalistico, si abituerebbe a poco a poco ad osservare le regole elementari della convivenza sociale senza costrizione e sottomissione, ossia senza quell'apparato speciale che si chiama stato.
Si pensi pure al pensiero di Gramsci dei Quaderni, dove è progettata la creazione di uno stato etico tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale.
Gramsci attribuisce al diritto un carattere educativo, creativo e formativo, e parimenti assegna allo stato un compito educativo e formativo, con la conseguenza che riduce il diritto a morale.
Tutte queste teorie hanno un doppio difetto.
Innanzitutto i modelli di società cui si ispirano sono quelli di una "società selvaggia" in quanto priva di qualunque ordine e abbandonata alla legge naturale del più forte, ovvero quelli di una "società disciplinare" in cui i conflitti sono prevenuti mediante meccanismi etico-pedagogici di interiorizzazione dell'ordine, o di trattamento medicale.
In secondo luogo queste dottrine eludono le questioni più specifiche della giustificazione e della delegittimazione del diritto penale (qualità e quantità delle pene, qualità e quantità dei divieti e tecniche di accertamento), con la conseguenza di confondere in un unico modello modelli penali autoritari e liberali.
Le dottrine abolizionistiche hanno, comunque, anche due meriti importanti.
Poichè il punto di vista abolizionista, proprio perchè si colloca dalla parte di chi subisce il costo delle pene anzichè da quella del potere punitivo, ha avuto il merito di favorire l'autonomia della criminologia critica, di sollecitarne le ricerche sulle origini culturali e sociali della devianza.
Vi è, poi, un secondo merito di carattere metodologico. Infatti, evidenziando l'arbitrarietà, i costi e le sofferenze che il diritto penale comporta, gli abolizionisti rovesciano sui giustificazionisti l'onere della giustificazione in quanto il diritto penale dovrà offrire repliche convincenti.
Per quanto concerne, invece, le dottrine di giustificazione le teorie elaborate sono le più disparate, ma possiamo raggrupparle in due grandi categorie: le teorie assolute e quelle relative.
Sono teorie assolute tutte le dottrine "retributivistiche" che concepiscono la pena come fine a sè stessa, ossia come castigo-corrispettivo-reazione-riparazione-retribuzione del reato; dunque, non un costo nè un mezzo.
Le teorie relative, invece, sono quelle "utilitaristiche" che considerano e giustificano la pena soltanto come un mezzo attraverso cui realizzare il fine utilitario della prevenzione di futuri delitti.
Le dottrine assolute e relative vengono divise in sottoclassi; le prime in relazione al valore morale o giuridico assegnato alla retribuzione penale, mentre le seconde sono distinte tra dottrine della prevenzione speciale (rivolgono lo scopo preventivo alla persona del delinquente) e dottrine della prevenzione generale (riferiscono lo scopo preventivo alla generalità dei consociati).
Le dottrine assolute si fondano tutte sulla massima secondo cui è giusto "rendere male per male", principio alquanto vetusto che ruota attorno a tre elementari idee di stampo religioso: quella della vendetta, quella dell'espiazione e quella del riequilibrio tra pena e delitto.
Queste tre idee erano entrate in crisi durante l'Illuminismo, ma sono state rilanciate nell'Ottocento grazie a Kant ed Hegel.
Secondo Kant la pena è una retribuzione etica, giustificata dal valore morale intrinseco alla legge penale infranta dal colpevole con conseguente castigo; secondo Hegel, invece, la pena è una retribuzione giuridica giustificata dalla necessità di riparare il diritto mediante una violenza contraria che ristabilisca l'ordine legale violato.
Entrambe le tesi, comunque, non sono sostenibili. Infatti, in entrambe vi è la convinzione dell'esistenza di un qualche nesso necessario tra colpa e punizione, sopravvivenza di antiche credenze secondo cui la pena ristabiliva l'ordine naturale violato ovvero attraverso il castigo si aveva la purificazione del delitto.
In realtà si è venuta a creare una certa confusione in materia a causa della mancata distinzione tra ragione legale e ragione giudiziale della pena, con la conseguenza che è stata scambiata la questione "perchè punire?" con quella "quando punire?".
Escluso che la pena possa essere considerata come fine a sè stessa, non resta che esaminare la concezione della pena come mezzo, tratto comune a tutte le dottrine relative o utilitaristiche che tendono ad escludere le pene socialmente inutili.
Si sviluppa come dottrina giuridica e politica ad opera del pensiero giusnaturalistico e contrattualistico del Seicento. La pena, come diceva Grozio, deve perseguire utilità future, come il cambiamento del reo e la prevenzione dei delitti tramite l'esempio.
Diceva a sua volta Hobbes che "nel comminare le pene non bisogna preoccuparsi del male ormai passato, ma del bene futuro: cioè non è lecito punire se non con lo scopo di correggere il peccatore o di migliorare gli altri con l'ammonimento della pena inflitta.
Durante l'Illuminismo la funzione utilitaria della pena diventò la base comune di tutto il pensiero penale riformatore.
Le afflizioni penali, affermavano concordemente Montesquieu, Voltaire, Beccaria, Hume ed altri, sono prezzi necessari per impedire mali maggiori, e non omaggi gratuiti all'etica, alla religione o al sentimento di vendetta.
L'utilitarismo giuridico presenta alcune versioni.
Una prima vresione è quella dell'utilitarismo "ex parte principis", ossia il primato della politica non solo sulla morale ma anche sul diritto; un'altra versione è quella "ex parte populi" che contrassegna la filosofia penale di origine illuministica e che ha come riferimento il benessere ovvero l'utilità non dei governanti, bensì dei governati.
Tutte le dottrine utilitaristiche hanno sempre assegnato alla pena il solo scopo della prevenzione dei delitti futuri a tutela della maggioranza non deviante, e non anche quello della prevenzione delle reazioni arbitrarie a tutela della minoranza dei devianti e di quanti sono ritenuti tali.
Le finalità preventive indicate dall’utilitarismo penale come giustificazioni della pena sono: la correzione del reo, la messa in condizione di non nuocere, la dissuasione dall’imitarli tramite l’esempio della punizione, il rafforzamento dell’ordine mediante la riaffermazione penale dei valori giuridici lesi.
Nel pensiero giuridico-filosofico che va da Platone sino agli illuministi, queste varie finalità vennero indicate in modo generico e cumulativo.
Solo sul finire del Settecento, soprattutto mediante l’opera dei giuristi, le dottrine utilitaristiche o relative iniziarono a differenziarsi tra loro a seconda dell’una o dell’altra finalità preventiva prescelta come fine esclusivo o privilegiato della pena.
Dalla fine del secolo scorso si assiste ad un ritorno a concezioni polivalenti.
Secondo la già nota classificazione, tutte queste dottrine possono essere distinte secondo due criteri: il primo si preoccupa dei destinatari della prevenzione, e a tal proposito può essere speciale ovvero generale, a seconda che la norma si riferisca alla sola persona del delinquente ovvero alla generalità dei consociati; il secondo invece riguarda la natura delle prestazioni della pena che possono essere positive e negative
Combinando i due criteri otteniamo quattro gruppi di dottrine utilitaristiche o relative, quali: a) le dottrine della prevenzione speciale positive o della correzione secondo cui la pena ha lo scopo di correggere il reo; b) le dottrine della prevenzione speciale negativa o dell’incapacitazione secondo cui la pena mira a neutralizzare il reo; c) le dottrine della prevenzione generale positiva o dell’integrazione il cui scopo è quello di rafforzare la fedeltà dei consociati all’ordine costituito; d) le dottrine della prevenzione generale negativa o dell’intimidazione che assegnano alla pena la funzione di dissuadere i cittadini mediante la minaccia della pena.
In merito alla prevenzione speciale va detto che le dottrine che la giustificano hanno ricevuto uno sviluppo rigoglioso a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; queste dottrine risentono degli influssi del nuovo ed ormai consolidato stato liberale per cui si assiste al passaggio dalla concezione del “punire meno” a quella del “punire meglio”.
E’ possibile distinguere le svariate dottrine della prevenzione speciale secondo tre orientamenti: le dottrine moralistiche dell’emenda, quelle naturalistiche della difesa sociale e quelle teleologiche della differenziazione della pena.
Le dottrine dell’emenda sono quelle di origine più remota. Esse sviluppano l’idea della “poena medicinalis”, già formulata da Platone e poi ripresa da San Tommaso, secondo cui gli uomini che delinquono possono essere sia puniti che costretti dallo stato a diventare buoni.
Abbiamo, pertanto, una visione pedagogica della pena già alla base del progetto penale di Tommaso Moro secondo cui la pena era finalizzata alla rieducazione, e nel caso in cui il soggetto fosse irrecuperabile la pena andava commutata in pena di morte.
Queste dottrine sono assai legate alla tradizione ebraico-cristiana (la pena come mezzo sacrificale dell’espiazione dei peccati e della riconciliazione dell’uomo con Dio) e a quella platonica e medioevale che non alla cultura illuministica.
L’idea della pena come medicina dell’anima riprese vigore nel secolo scorso ispirando il moderno pedagogismo penale secondo cui lo scopo della pena era quello della rieducazione e del recupero morale del condannato in quanto soggetto immorale da redimere.
Le dottrine positivistiche della difesa sociale assegnano alle pene e a più specifiche misure di sicurezza il duplice scopo di curare il condannato nel presupposto che egli sia un soggetto ammalato e/o di segregarlo e neutralizzarlo nel presupposto che sia anche pericoloso.
In quest'ottica le pene assumono il carattere di misure tecnicamente appropriate alle diverse esigenze terapeutiche della difesa sociale: misure igienico-preventive, terapeutico-repressive, chirurgico-eliminative in relazione ai tipi di delinquenti (occasionali, abituali, pazzi o passionali) e ai fattori sociali, psicologici o antropologici del delitto.
I sostenitori di queste dottrine sviluppano il progetto di una società sottoposta al controllo scientifico piuttosto che a quello moralistico dello stato e caratterizzata da pratiche medicali di tipo terapeutico o chirurgico.
Le dottrine teleologiche affidano la funzione di prevenzione speciale delle pene alla loro individualizzazione e differenziazione. Questo indirizzo viene fatto risalire sul finire del Settecento, allorquando Karl Grolman concepì la pena come mezzo di intimidazione del reo da adeguarsi giudizialmente alla sua concreta personalità. Egli, comunque, non associò mai finalità propriamente correttive all'idea dell'individualizzazione della pena, idea sviluppata, invece, da Franz von Liszt il quale elaborò un modello di diritto penale flessibile in relazione ai diversi tipi di delinquenti trattati.
Pertanto, Liszt propose una differenziazione dei singoli strumenti punitivi al fine di adattare la pena al singolo caso.
Rispetto alle prime due teorie analizzate, quest'ultima è certamente meno condizionata da presupposti filosofici.
I tre indirizzi dottrinari sopra esposti presentano aspetti in comune.
Tutti e tre considerano i delitti come patologia e le pene come terapia; tutti e tre, inoltre, hanno un aspetto sostanzialistico in quanto non separano diritto e morale. Ed infatti le dottrine dell'emenda concepiscono il reo come un peccatore da rieducare coattivamente; quelle della difesa sociale e quelle teleologiche confondono invece diritto e natura, società e stato, rappresentando il reo come un soggetto malato da curare ovvero da eliminare.
Ne consegue che queste dottrine sono le più illiberali e antigarantiste storicamente concepite, in quanto giustificano modelli di diritto penale massimo in quanto le pene risultano pesantemente aggravate sia per la natura del fine preventivo sia per la natura del mezzo punitivo.
Ed infatti propongono pene di natura e durata indeterminata, soggette a mutare con il variare delle necessità correttive e a cessare solo con il ravvedimento o la guarigione del reo.
Un altro aspetto negativo è dato dal fatto che il fine pedagogico o risocializzante propugnato non è realizzabile in quanto non esistono pene emendatrici o terapeutiche, ed inoltre il carcere è un luogo criminogeno di educazione e sollecitazione al delitto.
Tali ideologie contrastano con il principio del rispetto della persona umana in quanto violano il principio secondo cui "l'individuo è sovrano su sè stesso, sulla sua mente".
Nonostante ciò, comunque, siffatte ideologie hanno segnato pesantemente gli ordinamenti penali moderni di tipo liberaldemocratico. In Italia, ad esempio, sono state adottate strategie punitive basate sul doppio binario delle pene e delle misure di sicurezza, trattamenti penali differenziati, carceri speciali e regimi penitenziari speciali in relazione allanatura dei rei o dei reati ovvero istituti premiali come la libertà condizionale, la semilibertà o la liberazione anticipata.
Dalla prevenzione speciale va distinta quella generale che può essere positiva ovvero negativa.
La prevenzione generale positiva assegna alla pena funzione di integrazione sociale tramite il rafforzamento della fedeltà allo stato nonchè la promozione del conformismo delle condotte.
E sono tanti gli autori che concepiscono la pena come un fattore di stabilizzazione sociale destinato ad agire soprattutto sulle persone oneste.
La prevenzione generale può anche essere negativa o dell'intimidazione, e le dottrine che la sostengono hanno il merito di non confondere il diritto con la morale o la natura in quanto non hanno di mira i delinquenti ma la generalità dei consociati.
Alcune dottrine puntano sull'intimidazione verso la generalità dei consociati mediante l'esempio offerto dall'inflizione della pena; altre, invece, per mezzo della minaccia della pena contenuta nella legge.
La prevenzione speciale negativa rischia di dare vita a modelli di diritto penale massimo; inoltre presenta un altro limite dovuto al fatto che nessuna persona può essere trattata come mezzo per un fine che non è suo.