Testimonianza sulla colonia penale di Isili
Maggio 2000
Raccolta da Isa Ciani

Ihmed è uscito dal carcere di Isili, Sardegna, 15 mesi fa. Dopo sette anni di carcere si è trovato libero in mezzo alla campagna sarda. Dai 21 ai 28 anni ha percorso undici istituti di pena, per finire nelle colonie di Mamone, Fiaccavento, Isili. Nessuna visita, nessun permesso, nessun beneficio: gli anni, che potevano essere cinque, sono diventati sette. La prima condanna, per droga, da incensurato ancora ragazzo, si è portata via un quarto della sua vita.
     Il "trattamento" (così chiamano il percorso penitenziario individualizzato per favorire la rieducazione e il reinserimento) per lui non ha funzionato: o forse sì, a rovescio. Dai suoi racconti non voluti, spezzoni di frasi, domande ripetute e continue in momenti diversi, emerge una realtà conficcata nella mente: la violenza continua, la reazione immediata di difesa, l'orgoglio di aver resistito, di essere uscito uomo, a fronte alta, senza diventare mai un "infame". Ma non ride e non scherza più. Si porta a ricordo un ciuffo di capelli diventati bianchi in una delle tante notti di solitudine e paura. Il suo corpo è segnato di tagli e bruciature. Un linguaggio che nessuno ha cercato di capire.
     Dopo tanto tempo l'educatrice del carcere di San Gimignano ricordava ancora Ihmed: "esprimeva una grande sofferenza", mi ha detto un giorno. In quel carcere Ihmed aveva espresso la sua sofferenza dando fuoco alla cella, con se stesso chiuso dentro. Risultato: ancora isolamento e poi trasferimenti, in carceri sempre più punitivi.
     Un po' di psichiatri e la criminologa della colonia di Mamone hanno lasciato, anche loro, cicatrici e ferite. Nel vuoto delle relazioni e degli affetti "l'osservazione scientifica della personalità" costruisce il proprio oggetto, così come l'istituzione ha deciso.
     Ihmed, alla notizia degli arresti di guardie e dirigenti dei carceri sardi, non ha brindato e non ha neppure sorriso.
     Ricorda Mamone e dice:
"Quel carcere deve chiudere, fanno del male e basta. Uno esce troppo peggiorato - è un carcere di punizione.
     Eravamo obbligati a portare pantaloni tutti uguali, dati dal carcere, anche per andare a parlare con l'educatore o il medico o con la criminologa. Dicevano che erano pantaloni da lavoro, ma era una scusa, pochi lavoravano, gli altri sempre chiusi in cella.
     Nelle celle stavamo anche in dieci-quindici, in letti a castello.
     All' aria camminavamo in tanti in un piccolo spazio, con le guardie.
     In terra c'era il cemento e le pareti di muro. Una scatola senza coperchio.
     Tanti sono stranieri, lontani, abbandonati da tutti. Le guardie trafficano vino e droga.
     Il medico è come un secondino. Ha un mare di segreti dentro di sé. Non dice quello che ha visto.
     Quando sono arrivato mi hanno detto che un marocchino era morto: lo avevano picchiato e mandato in isolamento. Lì lo hanno trovato impiccato, gli mancava poco a fine pena. Tutti dicevano che era morto di botte e che poi lo avevano impiccato. Non so se sia vero, non so se hanno fatto un'inchiesta. Ma quando tutti dicono così vuol dire che la cosa è possibile.
     Una volta ero tutto ferito di colpi, pugni e manganellate: hanno detto che ero caduto dalle scale e il medico ha finto di crederci. Poi mi hanno messo in isolamento. Ero nudo e faceva molto freddo. A Mamone anche nelle celle sembra di essere in mezzo al vento. Io cercavo di ripararmi e riposarmi dietro un tavolo fissato alla parete. Il brigadiere entrava e mi faceva rimettere in piedi al centro. Poi, dall'alto, mi faceva arrivare addosso acqua gelida. Mi avevano picchiato in undici, in particolare uno, grosso, il brigadiere. Mentre mi picchiavano dicevano che non sarei uscito vivo. Ma io dicevo non muoio, ho la pelle dura e non dimenticherò la faccia di chi mi picchia. Sono stato mandato a Fiaccavento: mi hanno trattato male. Era un carcere di internati. Lì la gente pensa che non uscirà più. La pena si ripete e si raddoppia.
     Poi sono tornato alla centrale, a Mamone. Poi sono stato trasferito a Isili.
     Tanti episodi non li ricordo bene.
     Ricordo a Pianosa, verso il 94/95. So che il carcere poi è stato chiuso, quelli del 41 bis o del 416 stavano molto male. Io una volta avevo bevuto troppo. Le guardie mi hanno detto di seguirle che mi avrebbero portato in infermeria per farmi passare l'effetto dell'alcool. Sono andato con loro e loro hanno chiesto al medico di farmi un'iniezione. Subito dopo non avevo più la forza di muovermi, così hanno potuto sfogarsi su di me che ero come incollato. Si sono divertiti, perché io non potevo rispondere.
     Tante volte avevo chiesto un permesso. Non ho mai avuto neppure un'ora, in sette anni. Non avevo parenti che mi venissero a trovare, dalla Sardegna non ho mai potuto telefonare. A Livorno quando ho chiesto una risposta alla mia domanda di permesso (mi avrebbe ospitato una suora) l'educatrice mi ha chiamato e con il mio fascicolo davanti mi ha detto "ma come si permette, lei è un delinquente ...". Altri, direttori, brigadieri, educatori mi promettevano dei permessi, per tenermi buono, ma lo sapevano che non me li avrebbero dati.
     A Isili, poco prima di uscire - fine pena - mi è arrivato ancora un rifiuto alla mia domanda di permesso. Ho buttato in terra il foglio davanti al Direttore. Lui mi ha ordinato di raccoglierlo. Ho rifiutato, ho detto che non avevo più bisogno di niente e l'ho ringraziato.
     Poi, sono uscito. Ho lasciato la porta del carcere di Isili il 20 Gennaio. Ero in mezzo ad una campagna di pietre, fredda e lontana.
     Avevo trecentomila lire, e nessun documento. Non mi hanno mai restituito i documenti personali che avevo al momento dell'arresto, ad Arezzo, sette anni prima. Uscendo dalla colonia di Isili avevo solo l'ordinanza di libertà controllata a Pisa, con obbligo di dimora ad un indirizzo datomi da un compagno di cella.
     Senza quell'indirizzo sarei rimasto dentro ancora un anno: debbo 40.000.000 allo Stato italiano per la lunga ospitalità dentro le sue carceri".


Fonte: diffuso dall'Associazione Africa Insieme di Pisa.