«Avevo un amico al quale piaceva sparare gas lacrimogeni. Senza alcun
motivo, quando vedeva un gruppo di ragazzi che stavano sulla strada a chiacchierare,
gli sparava contro un candelotto. Gli piaceva vederli scappare e tossire e piangere...
Ma io non voglio che tu scappi via davanti a quello che ho fatto». La
voce che racconta è quella di un giovane soldato della Brigata Nahal,
una delle unità storiche dell'esercito israeliano, che fino a pochi mesi
fa prestava il suo servizio militare ad Hebron, la città dei Patriarchi
cara alle tre religioni monoteiste, diventata negli anni il simbolo di un conflitto
apparentemente irredimibile tra palestinesi e israeliani, almeno fino a quando
perdurerà l'occupazione.
Quella voce, assieme ad altre decine di voci, anonime e non, rappresenta, per
così dire, la colonna sonora di una mostra fotografica che ha costretto
gli israeliani a fermarsi e a riflettere, al di là delle alchimie della
politica, sulla loro presenza nei Territori occupati, ora è trentasette
anni, dopo la Guerra dei sei giorni.
Le duecento foto esposte nei saloni della Scuola superiore di fotografia geografica
di Tel Aviv, insieme alle decine di testimonianze registrate, tutte provenienti
da giovani militari del Nahal, svelano, fin dal titolo dato alla mostra, Rompiamo
il silenzio, un aspetto finora soltanto intuito, ma non abbastanza indagato,
dell'occupazione: l'inevitabile corruzione che la pratica di dominare un altro
popolo comporta nell'animo degli occupanti.
Esattamente come aveva intuito il grande pensatore Yeshayahu Leibowitz, all'indomani
della Guerra dei sei giorni, quando aveva ammonito il governo israeliano a restituire
immediatamente i territori agli arabi, perché non esiste «un'occupazione
illuminata», come pretendeva Moshè Dayan. ma qualsiasi forma d'occupazione
finisce con il ritorcersi contro l'occupante.
Lasciamo che a parlare di quanto possa risultare sconvolgente l'esperienza di
Hebron sia uno dei protagonisti: un ufficiale della riserva identificato soltanto
con il nome, Noam.
«Sono stato in tutti i territori occupati ed Hebron è il posto
più folle, più paradossale, meno logico, fra tutti quelli in cui
mi sono ritrovato durante il servizio di leva. Perché a Hebron, appena
arrivi e ti mettono in pattuglia. s'avvicina un bambino ebreo con una tazza
di caffè che ripete quello che gli suggerisce sua madre: "Grazie
per essere qui a difenderci, soldato", e tu ti senti davvero bene. Il giorno
dopo, vedi lo stesso bambino assieme a una decina di suoi amici che lancia pietre
e picchia con un bastone una vecchia palestinese, uscita di casa durante il
coprifuoco, per comprare qualcosa da mangiare. Ti volti indietro e vedi un gruppo
di giovani più grandi e di adulti che li guardano e ridono, e allora
cominci a non capire più dove ti trovi. In un primo momento, corri e
tenti di "separare le forze", ma nessuno ti ha mai addestrato a confrontarti
con un gruppo di bambini di undici anni che picchiano una vecchia. Non è
il tuo compito. Questi bambini non sono neanche punibili secondo il codice penale.
Allora torni alla tua postazione per riposare un po' in attesa del prossimo
turno. Ma subito ti chiamano per intervenire alla casbah, che è piena
di negozi distrutti e di graffiti sui muri, opera dei settlers, dove un arabo
ha lanciato una molotov contro gli ebrei... La questione non è quello
che succede a Hebron, ma ciò che succede a noi. E cioè che, a
poco a poco, diventi indifferente».
Le foto mostrano scene di ordinaria Ingiustizia. Il giovane palestinese ammanettato
e bendato con la sua stessa kefia. Il lungo corteo di macchine ferme a un posto
di blocco dove i soldati tardano ad arrivare. Un gruppo di bambini palestinesi
sotto lo sguardo di un soldato israeliano: qui l'immagine non è violenta
di per sé, i bambini giocano indisturbati, il militare ha il fucile in
spalla, ma quei bambini stanno facendo un gioco che si gioca soltanto qui. Giocano
al «posto di blocco», dove alcuni, nella parte dei palestinesi,
devono stare con le mani appoggiate a un muro e le gambe divaricate mentre altri,
nella parte degli israeliani, stanno perquisendo in quel momento uno di loro.
Gli episodi più gravi vengono ricostruiti soltanto dalle voci. Un soldato
racconta che spesso granate assordanti venivano lanciate contro bambini palestinesi
soltanto per rompere la monotonia. Un altro ricorda come usavano le case vuote
per «esercitare la mira». «Ogni volta che si sentiva sparare
un singolo colpo noi ricevevamo l'ordine via radio: "Aprire il fuoco! Aprire
il fuoco!" E in risposta sceglievamo un obiettivo a caso e lo centravamo.
Era come giocare un videogame sul computer e distruggere gli obiettivi con il
joystick...».
«Un giorno stavo uscendo dalla mensa quando arrivò un ambulanza
con i corpi di due terroristi uccisi e ho visto tre persone tenere quei corpi
in piedi per farsi fotografare».
Nulla s'impara più rapidamente che ad abusare della propria autorità.
«Ero con il vicecomandante e notai come la sua faccia s'illuminò
d'un colpo quando scorgemmo un corteo nuziale che s'era mosso durante il coprifuoco.
Fu come se stessimo per assaggiare un dolce prelibato. I palestinesi, coi loro
vestiti buoni, uscirono dalla macchina. C'era la sposa, lo sposo, il padre.
Vedevi la paura nelle loro facce. Cominciarono a discutere con il vicecomandante
della compagnia. Lui non volle lasciarli passare. Disse loro di tornarsene a
casa. Confiscò le chiavi della macchina. La sposa piangeva. Il padre
dello sposo implorava. Posso ancora vedere come il vicecomandante li guardava.
Non li vedeva come esseri umani».
Molti parlano senza pudore della vertigine di cui ci si lascia prendere in questo
quotidiano esercizio di dominio. «Un giorno, quando realizzai che stavo
godendo di questo senso di potere, mi sono vergognato di me stesso. È
terribile. È una droga che ti rende schiavo».
«È una situazione folle» spiega Noam «una situazione
in cui nessun ragazzo di 18-19 anni può rimanere sano di mente. La forza
che hai in mano quando sei a un posto di blocco, dove se muovi un dito verso
destra cento persone corrono a destra e, se piove e non ti va di esporti, basta
un cenno e i palestinesi capiscono che devono fare marcia indietro e tornarsene
a casa, questa forza che diamo in mano a ragazzi di 19 anni, li ubriaca e li
fa impazzire».
Sugli abusi che la mostra ha avuto il coraggio di denunciare l'Esercito ha aperto
un'inchiesta. definendoli «eccezionali». Ma si sa che quello di
Hebron non è un caso isolato. come dimostra la storia di tre guardie
di frontiera arrestate e messe sotto processo per le umiliazioni inflitte a
due giovani arabi che non avevano fatto niente di male. Bloccati senza permesso
di entrare in territorio israeliano, i due erano stati portati in un boschetto
dove erano stati costretti a mangiare rifiuti, a leccare le armi dei militari,
a subire minacce e percosse.
La denuncia sarebbe probabilmente sparita nei meandri della burocrazia militare
se da qualche tempo non si avvertisse nell'opinione pubblica come un senso di
saturazione, una ribellione morale per lo meno contro certi aspetti paradossali,
se non gratuiti, dell'occupazione. Gli israeliani non vogliono vedere il loro
esercito trasformarsi da arma di difesa in strumento d'oppressione. L'aveva
capito Yitzhak Rabin, ed era stato questo uno dei motivi che l'aveva spinto
verso gli accordi di Oslo. Forse l'ha capito anche Sharon.
***
Più prendevo confidenza con la situazione più io, come gli altri,
arrivavamo alla conclusione che noi eravamo coloro che comandavano, che noi
eravamo quelli forti e man mano che sentivamo il nostro potere ognuno di noi
cominciava a forzare sempre più i limiti. E non appena il servizio al
checkpoint diventava routine, tutti i tipi di comportamenti deviati diventavano
normali. Si cominciava con la ‘collezione di souvenir’, confiscando
tappetini da preghiera e poi sigarette e da quel punto non ci si fermava più.
Diveniva un comportamento abituale.
Il sergente Liran Ron Furer non potrà mai più vivere come prima.
È perseguitato dalle immagini dei suoi tre anni di servizio militare
a Gaza e il pensiero che questa sia una sindrome che colpisce chiunque sia di
stanza ai checkpoint, non gli dà tregua. Verso la fine dei suoi studi
di disegno all’Accademia d’Arte e Design di Bezalel, ha deciso di
abbandonare tutto e dedicare tutto il suo tempo al libro che voleva scrivere.
Le principali case editrici che ha contattato hanno rifiutato la pubblicazione.
L’editore che alla fine ha accettato (Gevanim) ha asserito che la catena
di librerie, Steimatsky, ha rifiutato di distribuirlo. Ma Furer è determinato
a portare il suo libro all’attenzione pubblica. "Si possono adottare
le posizioni politiche più dure, ma nessun genitore permetterebbe a suo
figlio di diventare un ladro, un criminale o una persona violenta”, afferma
Furer. “Il problema è che la cosa non si presenta mai in questo
modo. Il ragazzo stesso non si ritrarrebbe in questo modo alla sua famiglia
al momento del ritorno dai territori occupati. Al contrario, verrà ricevuto
come un eroe, come qualcuno che stia facendo un lavoro importante nel suo essere
un soldato. Nessuno può restare indifferente al fatto che ci siano tante
famiglie nelle quali, in un certo senso, ci sono state già due generazioni
di criminali. Il padre passò attraverso tutto ciò e ora il figlio
ci sta passando e nessuno ne parla attorno al tavolo da pranzo”.
Furer è certo che quello che è successo a lui non è per
nulla un caso isolato. Lui era una persona sensibile, un creativo, diplomato
alla Thelma Yellin, scuola delle arti, che si è trovato a diventare un
animale al checkpoint, un sadico violento che picchiava i palestinesi perché
non gli mostravano la cortesia dovuta, che sparava loro alle gomme delle auto
solo perché gli occupanti tenevano il volume della radio troppo alto,
che ha abusato di un ragazzino ritardato legandolo sul pavimento della Jeep,
solo perché doveva scaricare la sua rabbia su qualcosa.
La “Sindrome del Checkpoint” (questo è anche il titolo del
suo libro) gradualmente trasforma ogni soldato in un animale, senza alcun riguardo
per i valori che aveva portato da casa. Nessuno può sfuggire da questo
marchio. In posti dove praticamente ogni cosa è permessa e la violenza
è percepita come un normale comportamento, ogni soldato mette alla prova
i propri limiti riguardo agli impulsi violenti sulle sue vittime: i palestinesi.
Il suo non è un libro facile da leggere. Scritto in una prosa secca e
feroce, nel grezzo e volgare linguaggio dei soldati, ha ricostruito le scene
degli anni nei quali era di istanza a Gaza (1996-1999), anni che, si deve tenere
a mente, erano relativamente calmi. Descrive come lui e i suoi compagni costrinsero
alcuni palestinesi a cantare “Elinor” – “era davvero
qualcosa alla quale assistere vedere questi arabi cantare una canzone di Zohar
Argov, come in un film”; le emozioni che i palestinesi gli suscitavano:
“qualche volta questi arabi davvero mi provocavano disgusto, specialmente
quelli che provavano ad adularci, quelli che arrivavano al checkpoint con un
sorriso stampato sulla faccia”; le reazioni che suscitavano “se
davvero ci annoiavamo, trovavamo il modo per bloccarli al checkpoint per delle
ore. Perdevano un intero giorno di lavoro ma solo così potevano imparare
come comportarsi”.
Furer ha descritto come ordinavano ai bambini di pulire i checkpoint prima che
arrivasse l’ispezione, come un soldato di nome Shahar inventò un
gioco: “controllava la carta di identità di qualcuno e invece di
ridargliela la lanciava in aria. L’arabo in questione era così
costretto a uscire dall’auto e chinarsi per raccogliere il suo documento
e lui lo calciava... Facendo questo gioco poteva passarci tutto il tempo”;
come umiliarono un nano che arrivava al checkpoint ogni giorno: “lo obbligavamo
a farsi una foto sopra a un cavallo, poi lo colpivamo e deridevamo per una buona
mezz’ora e lo lasciavamo andare solo quando altre automobili arrivavano
al checkpoint. Il poveretto, davvero non se lo meritava”; come si fecero
una foto ricordo con arabi legati, sanguinanti, che loro avevano picchiato;
come Shahar pisciò sulla testa di un arabo perché l’uomo
aveva avuto il coraggio di sorridere al soldato; come Dado costrinse un arabo
a camminare a quattro zampe abbaiando come un cane; e come rubavano i tappetini
da preghiera e le sigarette – “Miro voleva che gli dessero le sigarette,
agli arabi che non volevano dargliele Miro rompeva la mano e Boaz gli faceva
a pezzi le gomme”. Confessione a freddo
La più raggelante tra tutte le confessioni dell’autore:
“Corsi verso di loro e colpii un arabo dritto sulla faccia. Non avevo
mai colpito nessuno in quel modo. Collassò sulla strada. Gli ufficiali
dissero che dovevamo perquisirlo per trovare i suoi documenti. Gli portammo
le mani dietro alla schiena e lo legai con le manette di plastica. Poi lo bendammo
così che non potesse vedere quando si sarebbe trovato nella Jeep. Lo
trascinai via dalla strada. Il sangue colava dalle sue labbra, lungo il mento.
Lo trascinai nel retro della Jeep e lo caricai, le sue ginocchia batterono contro
la barra e cadde all’interno. Ci sedemmo anche noi nel retro, passando
sul suo corpo... Il nostro arabo era sdraiato quasi immobile, piangendo solo
sommessamente. Il suo viso era giusto sul mio giubbotto antiproiettile e stava
sanguinando tanto da fare una sorta di pozza di sangue e saliva, il ché
mi fece arrabbiare e mi disgustò, così lo tirai per i capelli
e lo colpii duramente alla schiena. Questo lo fece accasciare al suolo per un
po’, poi riprese a piangere. Concludemmo che dovesse essere un po’
ritardato o pazzo”.
“Il comandante della compagnia ci informò per radio che dovevamo
portarlo alla base. ‘Bel lavoro, tigri’ disse ironicamente. Tutti
gli altri soldati stavano aspettando di vedere cos’avevamo preso. Quando
arrivammo con la Jeep, loro ci acclamarono e applaudirono. Mettemmo l’arabo
vicino alla guardiola. Non smetteva di piangere e qualcuno che capiva l’arabo
disse che si lamentava che le sue mani erano ferite dalle manette. Uno dei soldati
gli si avvicinò e lo prese a calci nello stomaco. L’arabo si piegò
in due con una specie di grugnito, tutti noi ridemmo. Era buffo... lo calciai
davvero forte nel culo e cadde esattamente come mi sarei aspettato. Mi gridarono
tutti che dovevo essere completamente pazzo e risero... mi sentii felice. Il
nostro arabo era solo un ragazzo mentalmente ritardato di 16 anni”.
Nell’attico di Tel Aviv di sua sorella, dove vive ora, Furer, che ha 26
anni, passa per essere un giovane uomo intelligente e premuroso. È cresciuto
a Givatayim, dopo che i suoi genitori vi immigrarono dall’Unione Sovietica
nel 1970. Prima dell’assassinio di Yitshak Rabin, sua madre era un’attivista
di destra, ma lui riferisce che il clima familiare non era politicizzato. Voleva
far parte di un’unita di combattimento dell’esercito, e si impiegò
in due unità di élite della fanteria. Svolse tutto il periodo
di servizio nell’esercito nella striscia di Gaza.
Dopo l’esercito, ha viaggiato in India, come molti altri. “Ora che
ero libero, le folli energie di Goa e dei Chackra aprirono la mia mente... rividi
quella Gaza puzzolente e mi rividi prima che mi faceste il lavaggio del cervello
con le vostre armi e le vostre marce, mi avete ridotto in uno straccio, incapace
di pensare”, scrisse da Goa. Ma fu solo dopo, mentre stava studiando a
Bezalel, che le sue esperienze nell’esercito davvero cominciarono ad affliggerlo.
"Cominciai a realizzare che qui veniva offerto un modello immodificabile”,
disse. “Fu la stessa cosa durante la prima intifada, nel periodo nel quale
ero in servizio, nonostante fosse un momento tranquillo, e nella seconda intifada.
È diventata una realtà immutabile. Cominciai a sentirmi realmente
a disagio col fatto che una questione così scomoda era così difficilmente
riferita al grande pubblico. Le persone ascoltavano le vittime e i politici,
ma non quella voce che dice: feci questo, facemmo cose sbagliate, crimini...
questa voce non viene ascoltata. La ragione per la quale non gli si presta ascolto
è una combinazione di repressione – esattamente come io stesso
la repressi e ignorai - e di profondo senso di colpa”.
"Non appena uscite dall’esercito, i politici e i media intorno a
voi non sono pronti ad ascoltarvi. Ricordo che fui sorpreso che nessun soldato
avesse ancora reso pubblico tutto ciò. È qualcosa che deve sparire
nel dibattito sulla legittimità degli insediamenti nei territori, sull’occupazione
(che si sia pro o contro) e nulla connesso a queste abitudini relative al mantenimento
dell’occupazione appare sui media”.
Non un caso unico
Furer sta cercando di dimostrare che la sua non è una sindrome isolata,
un caso personale. Per questo ha cancellato molti dettagli personali dal manoscritto
originale, così da sottolineare la natura generale di quanto descrive.
“Durante il mio servizio militare, credevo di essere atipico perché
avevo un background artistico e creativo. Ero considerato un soldato moderato,
ciò nonostante mi sentivo nella stessa trappola nella quale si sentono
rinchiusi molti soldati. Una trappola che ti fa sentire in balia della possibilità
di agire nel modo più impulsivo e animale, senza paure di punizioni e
senza controllo. All’inizio questa cosa non è spontanea, ma con
il tempo diventa più naturale stando al checkpoint. Le persone gradualmente
testano quali siano i limiti del loro comportamento nei confronti dei palestinesi.
Diventa gradualmente sempre più spietato.
“Più prendevo confidenza con la situazione più io, come
gli altri, arrivavamo alla conclusione che noi eravamo coloro che comandavano,
che noi eravamo quelli forti e quando sentivamo il nostro potere ognuno di noi
cominciava a forzare sempre più i limiti, chi più chi meno. Non
appena il servizio al checkpoint diventava routine, tutti i tipi di comportamenti
deviati diventavano normali. Si cominciava con la ‘collezione di souvenir’,
confiscando tappetini da preghiera e poi sigarette e da quel punto non ci si
fermava più. Diveniva un comportamento abituale.
“Poi veniva il gioco di potere. Ci arrivava il messaggio dall’alto
che noi fungevamo da deterrenti per gli arabi. Anche la violenza fisica diventava
quindi abituale. Ci sentivamo liberi di punire qualunque palestinese che non
seguisse l’ ‘opportuno codice di comportamento’ al checkpoint.
Chiunque pensassimo non fosse abbastanza gentile o che provasse a fare il furbo
veniva severamente punito. Era violenza deliberata per i più volgari
pretesti.
“Durante il mio servizio militare, non ci fu un singolo avvenimento che
ci fece capire o che facesse sì che i nostri comandanti si sentissero
tenuti a intervenire. Nessuno ci parlò mai di cosa fosse permesso e cosa
no. Era tutto, semplicemente, routine. Retrospettivamente la più grande
fonte di sensi di colpa per me non fu mentre ero al checkpoint, ma quando entrai
nel Gush Katif, quando prendemmo il ragazzo ritardato. Dimostrai i comportamenti
più estremi. Fu una possibilità per me catturarne uno –
la cosa più vicina a prendere un terrorista, una possibilità di
far sfiatare tutte le tensioni accumulate e gli impulsi, per tutti noi. Una
sferzata alla comprensione di ciò che davvero volevamo. Venivamo usati
per dare schiaffi, per ammanettare, per pigliare a calci, per picchiare e lì
c’era una situazione nella quale eravamo giustificati a fare tutto ciò.
Anche l’ufficiale che era con noi fu molto violento. Picchiammo così
forte quel ragazzo e non appena arrivammo sul posto ricordo che sentivo una
fortissima sensazione di orgoglio per essere riuscito a trattare qualcuno così
duramente. Dissero “che pazzo che sei, che matto”, che era fondamentalmente
come dire “quanto sei forte”.
“Al checkpoint i giovani hanno la possibilità di essere padroni
e di usare la forza e la violenza in modo legittimo... e questo è un
impulso primitivo oltre che un punto di vista politico o un principio che ti
porti da casa. Quando alla violenza è data legittimità, e viene
anche premiata, la tendenza è di portarla il più oltre possibile.
Per quanto cattivi, rudi, pazzi si possa essere – e noi pensavamo a tutto
ciò in senso positivo. A volte anche la situazione: essere in un posto
desolato, lontano da casa, lontano da qualunque controllo, rende tutto giustificato...
La linea del proibito non è mai stata tracciata con precisione. Nessuno
fu mai punito e loro ci lasciarono semplicemente continuare.
“Oggi ho idea che anche gli ufficiali più importanti, il comandante
di brigata, il comandante di battaglione, siano consci del potere che i soldati
hanno in questa situazione e di cosa possano fare. Come può un comandante
non essere informato quando lui stesso è il più duro e pazzo tra
tutti, in una zona di relativa calma? La foto degli effetti a lungo termine
dei comportamenti violenti è qualcosa di cui si può giusto diventare
consci quando si è lontani dal checkpoint.
“Oggi mi è chiaro che quel ragazzo il cui padre fu umiliato in
quel modo senza ragione crescerà odiando chiunque rappresenti coloro
che fecero ciò a suo padre. Ora ho definitivamente capito i motivi. Noi
siamo crudeli, abbiamo il potere. Sono sicuro che la loro risposta sia influenzata
da elementi che ora fanno parte della loro società – mancanza di
valore per la vita umana e la facilità di sacrificare la vita- ma il
desiderio fondamentale di resistere, l’odio, la paura, sento che sono
completamente legittimati e giustificati, anche se è un rischio dirlo.
“È impossibile trovarsi in uno stato emozionale di questo tipo
e tornare a casa e non sentirtelo dentro. Sono stato insensibile nei confronti
della mia ragazza in quel periodo, ero un animale anche quando me ne andavo
di là. Tutto ciò resta con te ben dopo la fine dell’orario
di servizio. Vidi i risultati della sindrome in India, qualcosa che succede
nel Terzo Mondo, tra le persone di pelle scura che ti riportano al peggio “del
brutto israeliano”. O il modo nel quale ci si trova a reagire a un sorriso:
quando i palestinesi mi sorridevano al checkpoint mi si alzava la tensione e
diventava diffidenza, come fosse un’insolenza. Quando qualcuno mi sorrideva
in India, immediatamente mi mettevo sulla difensiva.
“Ero un soldato medio” dice. “Ero il burlone del gruppo. Ora
vedo che diventai spesso poi colui che portava le situazioni alla violenza.
Fui spesso il primo a dare schiaffi, a uscirmene con ogni tipo di idee, come
bucare le gomme. Suona strano ora ma davvero ammiravamo chiunque picchiasse
un ragazzo che supponevamo si volesse avvicinare. L’ufficiale che ammiravamo
di più era colui che sparava a ogni occasione. Ho tirato fuori tutto,
mi resta solo un enorme senso di colpa... un mio amico nell’esercito ha
letto il libro e ha detto che ho ragione, che abbiamo fatto cose cattive, ma
che eravamo ragazzi. E che è un peccato che io la prenda così
male”.
Fonte: tradotto e pubblicato on line da Nuovi Mondi Media