clicca qui per andare al sito Filiarmonici, per un mondo senza galere

Noi soldati israeliani a Hebron, così violiamo i diritti dei palestinesi

Alberto Stabile

La Repubblica - il Venerdì, 18 giugno 2004

«Avevo un amico al quale piaceva sparare gas lacrimogeni. Senza alcun motivo, quando vedeva un gruppo di ragazzi che stavano sulla strada a chiacchierare, gli sparava contro un candelotto. Gli piaceva vederli scappare e tossire e piangere... Ma io non voglio che tu scappi via davanti a quello che ho fatto». La voce che racconta è quella di un giovane soldato della Brigata Nahal, una delle unità storiche dell'esercito israeliano, che fino a pochi mesi fa prestava il suo servizio militare ad Hebron, la città dei Patriarchi cara alle tre religioni monoteiste, diventata negli anni il simbolo di un conflitto apparentemente irredimibile tra palestinesi e israeliani, almeno fino a quando perdurerà l'occupazione.
Quella voce, assieme ad altre decine di voci, anonime e non, rappresenta, per così dire, la colonna sonora di una mostra fotografica che ha costretto gli israeliani a fermarsi e a riflettere, al di là delle alchimie della politica, sulla loro presenza nei Territori occupati, ora è trentasette anni, dopo la Guerra dei sei giorni.
Le duecento foto esposte nei saloni della Scuola superiore di fotografia geografica di Tel Aviv, insieme alle decine di testimonianze registrate, tutte provenienti da giovani militari del Nahal, svelano, fin dal titolo dato alla mostra, Rompiamo il silenzio, un aspetto finora soltanto intuito, ma non abbastanza indagato, dell'occupazione: l'inevitabile corruzione che la pratica di dominare un altro popolo comporta nell'animo degli occupanti.
Esattamente come aveva intuito il grande pensatore Yeshayahu Leibowitz, all'indomani della Guerra dei sei giorni, quando aveva ammonito il governo israeliano a restituire immediatamente i territori agli arabi, perché non esiste «un'occupazione illuminata», come pretendeva Moshè Dayan. ma qualsiasi forma d'occupazione finisce con il ritorcersi contro l'occupante.
Lasciamo che a parlare di quanto possa risultare sconvolgente l'esperienza di Hebron sia uno dei protagonisti: un ufficiale della riserva identificato soltanto con il nome, Noam.
«Sono stato in tutti i territori occupati ed Hebron è il posto più folle, più paradossale, meno logico, fra tutti quelli in cui mi sono ritrovato durante il servizio di leva. Perché a Hebron, appena arrivi e ti mettono in pattuglia. s'avvicina un bambino ebreo con una tazza di caffè che ripete quello che gli suggerisce sua madre: "Grazie per essere qui a difenderci, soldato", e tu ti senti davvero bene. Il giorno dopo, vedi lo stesso bambino assieme a una decina di suoi amici che lancia pietre e picchia con un bastone una vecchia palestinese, uscita di casa durante il coprifuoco, per comprare qualcosa da mangiare. Ti volti indietro e vedi un gruppo di giovani più grandi e di adulti che li guardano e ridono, e allora cominci a non capire più dove ti trovi. In un primo momento, corri e tenti di "separare le forze", ma nessuno ti ha mai addestrato a confrontarti con un gruppo di bambini di undici anni che picchiano una vecchia. Non è il tuo compito. Questi bambini non sono neanche punibili secondo il codice penale. Allora torni alla tua postazione per riposare un po' in attesa del prossimo turno. Ma subito ti chiamano per intervenire alla casbah, che è piena di negozi distrutti e di graffiti sui muri, opera dei settlers, dove un arabo ha lanciato una molotov contro gli ebrei... La questione non è quello che succede a Hebron, ma ciò che succede a noi. E cioè che, a poco a poco, diventi indifferente».
Le foto mostrano scene di ordinaria Ingiustizia. Il giovane palestinese ammanettato e bendato con la sua stessa kefia. Il lungo corteo di macchine ferme a un posto di blocco dove i soldati tardano ad arrivare. Un gruppo di bambini palestinesi sotto lo sguardo di un soldato israeliano: qui l'immagine non è violenta di per sé, i bambini giocano indisturbati, il militare ha il fucile in spalla, ma quei bambini stanno facendo un gioco che si gioca soltanto qui. Giocano al «posto di blocco», dove alcuni, nella parte dei palestinesi, devono stare con le mani appoggiate a un muro e le gambe divaricate mentre altri, nella parte degli israeliani, stanno perquisendo in quel momento uno di loro.
Gli episodi più gravi vengono ricostruiti soltanto dalle voci. Un soldato racconta che spesso granate assordanti venivano lanciate contro bambini palestinesi soltanto per rompere la monotonia. Un altro ricorda come usavano le case vuote per «esercitare la mira». «Ogni volta che si sentiva sparare un singolo colpo noi ricevevamo l'ordine via radio: "Aprire il fuoco! Aprire il fuoco!" E in risposta sceglievamo un obiettivo a caso e lo centravamo. Era come giocare un videogame sul computer e distruggere gli obiettivi con il joystick...».
«Un giorno stavo uscendo dalla mensa quando arrivò un ambulanza con i corpi di due terroristi uccisi e ho visto tre persone tenere quei corpi in piedi per farsi fotografare».
Nulla s'impara più rapidamente che ad abusare della propria autorità. «Ero con il vicecomandante e notai come la sua faccia s'illuminò d'un colpo quando scorgemmo un corteo nuziale che s'era mosso durante il coprifuoco. Fu come se stessimo per assaggiare un dolce prelibato. I palestinesi, coi loro vestiti buoni, uscirono dalla macchina. C'era la sposa, lo sposo, il padre. Vedevi la paura nelle loro facce. Cominciarono a discutere con il vicecomandante della compagnia. Lui non volle lasciarli passare. Disse loro di tornarsene a casa. Confiscò le chiavi della macchina. La sposa piangeva. Il padre dello sposo implorava. Posso ancora vedere come il vicecomandante li guardava. Non li vedeva come esseri umani».
Molti parlano senza pudore della vertigine di cui ci si lascia prendere in questo quotidiano esercizio di dominio. «Un giorno, quando realizzai che stavo godendo di questo senso di potere, mi sono vergognato di me stesso. È terribile. È una droga che ti rende schiavo».
«È una situazione folle» spiega Noam «una situazione in cui nessun ragazzo di 18-19 anni può rimanere sano di mente. La forza che hai in mano quando sei a un posto di blocco, dove se muovi un dito verso destra cento persone corrono a destra e, se piove e non ti va di esporti, basta un cenno e i palestinesi capiscono che devono fare marcia indietro e tornarsene a casa, questa forza che diamo in mano a ragazzi di 19 anni, li ubriaca e li fa impazzire».
Sugli abusi che la mostra ha avuto il coraggio di denunciare l'Esercito ha aperto un'inchiesta. definendoli «eccezionali». Ma si sa che quello di Hebron non è un caso isolato. come dimostra la storia di tre guardie di frontiera arrestate e messe sotto processo per le umiliazioni inflitte a due giovani arabi che non avevano fatto niente di male. Bloccati senza permesso di entrare in territorio israeliano, i due erano stati portati in un boschetto dove erano stati costretti a mangiare rifiuti, a leccare le armi dei militari, a subire minacce e percosse.
La denuncia sarebbe probabilmente sparita nei meandri della burocrazia militare se da qualche tempo non si avvertisse nell'opinione pubblica come un senso di saturazione, una ribellione morale per lo meno contro certi aspetti paradossali, se non gratuiti, dell'occupazione. Gli israeliani non vogliono vedere il loro esercito trasformarsi da arma di difesa in strumento d'oppressione. L'aveva capito Yitzhak Rabin, ed era stato questo uno dei motivi che l'aveva spinto verso gli accordi di Oslo. Forse l'ha capito anche Sharon.

***

Ho colpito un arabo in faccia

Gideon Levy

Haaretz, dicembre 2003

Più prendevo confidenza con la situazione più io, come gli altri, arrivavamo alla conclusione che noi eravamo coloro che comandavano, che noi eravamo quelli forti e man mano che sentivamo il nostro potere ognuno di noi cominciava a forzare sempre più i limiti. E non appena il servizio al checkpoint diventava routine, tutti i tipi di comportamenti deviati diventavano normali. Si cominciava con la ‘collezione di souvenir’, confiscando tappetini da preghiera e poi sigarette e da quel punto non ci si fermava più. Diveniva un comportamento abituale.
Il sergente Liran Ron Furer non potrà mai più vivere come prima. È perseguitato dalle immagini dei suoi tre anni di servizio militare a Gaza e il pensiero che questa sia una sindrome che colpisce chiunque sia di stanza ai checkpoint, non gli dà tregua. Verso la fine dei suoi studi di disegno all’Accademia d’Arte e Design di Bezalel, ha deciso di abbandonare tutto e dedicare tutto il suo tempo al libro che voleva scrivere. Le principali case editrici che ha contattato hanno rifiutato la pubblicazione. L’editore che alla fine ha accettato (Gevanim) ha asserito che la catena di librerie, Steimatsky, ha rifiutato di distribuirlo. Ma Furer è determinato a portare il suo libro all’attenzione pubblica. "Si possono adottare le posizioni politiche più dure, ma nessun genitore permetterebbe a suo figlio di diventare un ladro, un criminale o una persona violenta”, afferma Furer. “Il problema è che la cosa non si presenta mai in questo modo. Il ragazzo stesso non si ritrarrebbe in questo modo alla sua famiglia al momento del ritorno dai territori occupati. Al contrario, verrà ricevuto come un eroe, come qualcuno che stia facendo un lavoro importante nel suo essere un soldato. Nessuno può restare indifferente al fatto che ci siano tante famiglie nelle quali, in un certo senso, ci sono state già due generazioni di criminali. Il padre passò attraverso tutto ciò e ora il figlio ci sta passando e nessuno ne parla attorno al tavolo da pranzo”.
Furer è certo che quello che è successo a lui non è per nulla un caso isolato. Lui era una persona sensibile, un creativo, diplomato alla Thelma Yellin, scuola delle arti, che si è trovato a diventare un animale al checkpoint, un sadico violento che picchiava i palestinesi perché non gli mostravano la cortesia dovuta, che sparava loro alle gomme delle auto solo perché gli occupanti tenevano il volume della radio troppo alto, che ha abusato di un ragazzino ritardato legandolo sul pavimento della Jeep, solo perché doveva scaricare la sua rabbia su qualcosa.
La “Sindrome del Checkpoint” (questo è anche il titolo del suo libro) gradualmente trasforma ogni soldato in un animale, senza alcun riguardo per i valori che aveva portato da casa. Nessuno può sfuggire da questo marchio. In posti dove praticamente ogni cosa è permessa e la violenza è percepita come un normale comportamento, ogni soldato mette alla prova i propri limiti riguardo agli impulsi violenti sulle sue vittime: i palestinesi.
Il suo non è un libro facile da leggere. Scritto in una prosa secca e feroce, nel grezzo e volgare linguaggio dei soldati, ha ricostruito le scene degli anni nei quali era di istanza a Gaza (1996-1999), anni che, si deve tenere a mente, erano relativamente calmi. Descrive come lui e i suoi compagni costrinsero alcuni palestinesi a cantare “Elinor” – “era davvero qualcosa alla quale assistere vedere questi arabi cantare una canzone di Zohar Argov, come in un film”; le emozioni che i palestinesi gli suscitavano: “qualche volta questi arabi davvero mi provocavano disgusto, specialmente quelli che provavano ad adularci, quelli che arrivavano al checkpoint con un sorriso stampato sulla faccia”; le reazioni che suscitavano “se davvero ci annoiavamo, trovavamo il modo per bloccarli al checkpoint per delle ore. Perdevano un intero giorno di lavoro ma solo così potevano imparare come comportarsi”.
Furer ha descritto come ordinavano ai bambini di pulire i checkpoint prima che arrivasse l’ispezione, come un soldato di nome Shahar inventò un gioco: “controllava la carta di identità di qualcuno e invece di ridargliela la lanciava in aria. L’arabo in questione era così costretto a uscire dall’auto e chinarsi per raccogliere il suo documento e lui lo calciava... Facendo questo gioco poteva passarci tutto il tempo”; come umiliarono un nano che arrivava al checkpoint ogni giorno: “lo obbligavamo a farsi una foto sopra a un cavallo, poi lo colpivamo e deridevamo per una buona mezz’ora e lo lasciavamo andare solo quando altre automobili arrivavano al checkpoint. Il poveretto, davvero non se lo meritava”; come si fecero una foto ricordo con arabi legati, sanguinanti, che loro avevano picchiato; come Shahar pisciò sulla testa di un arabo perché l’uomo aveva avuto il coraggio di sorridere al soldato; come Dado costrinse un arabo a camminare a quattro zampe abbaiando come un cane; e come rubavano i tappetini da preghiera e le sigarette – “Miro voleva che gli dessero le sigarette, agli arabi che non volevano dargliele Miro rompeva la mano e Boaz gli faceva a pezzi le gomme”. Confessione a freddo
La più raggelante tra tutte le confessioni dell’autore:
“Corsi verso di loro e colpii un arabo dritto sulla faccia. Non avevo mai colpito nessuno in quel modo. Collassò sulla strada. Gli ufficiali dissero che dovevamo perquisirlo per trovare i suoi documenti. Gli portammo le mani dietro alla schiena e lo legai con le manette di plastica. Poi lo bendammo così che non potesse vedere quando si sarebbe trovato nella Jeep. Lo trascinai via dalla strada. Il sangue colava dalle sue labbra, lungo il mento. Lo trascinai nel retro della Jeep e lo caricai, le sue ginocchia batterono contro la barra e cadde all’interno. Ci sedemmo anche noi nel retro, passando sul suo corpo... Il nostro arabo era sdraiato quasi immobile, piangendo solo sommessamente. Il suo viso era giusto sul mio giubbotto antiproiettile e stava sanguinando tanto da fare una sorta di pozza di sangue e saliva, il ché mi fece arrabbiare e mi disgustò, così lo tirai per i capelli e lo colpii duramente alla schiena. Questo lo fece accasciare al suolo per un po’, poi riprese a piangere. Concludemmo che dovesse essere un po’ ritardato o pazzo”.
“Il comandante della compagnia ci informò per radio che dovevamo portarlo alla base. ‘Bel lavoro, tigri’ disse ironicamente. Tutti gli altri soldati stavano aspettando di vedere cos’avevamo preso. Quando arrivammo con la Jeep, loro ci acclamarono e applaudirono. Mettemmo l’arabo vicino alla guardiola. Non smetteva di piangere e qualcuno che capiva l’arabo disse che si lamentava che le sue mani erano ferite dalle manette. Uno dei soldati gli si avvicinò e lo prese a calci nello stomaco. L’arabo si piegò in due con una specie di grugnito, tutti noi ridemmo. Era buffo... lo calciai davvero forte nel culo e cadde esattamente come mi sarei aspettato. Mi gridarono tutti che dovevo essere completamente pazzo e risero... mi sentii felice. Il nostro arabo era solo un ragazzo mentalmente ritardato di 16 anni”.
Nell’attico di Tel Aviv di sua sorella, dove vive ora, Furer, che ha 26 anni, passa per essere un giovane uomo intelligente e premuroso. È cresciuto a Givatayim, dopo che i suoi genitori vi immigrarono dall’Unione Sovietica nel 1970. Prima dell’assassinio di Yitshak Rabin, sua madre era un’attivista di destra, ma lui riferisce che il clima familiare non era politicizzato. Voleva far parte di un’unita di combattimento dell’esercito, e si impiegò in due unità di élite della fanteria. Svolse tutto il periodo di servizio nell’esercito nella striscia di Gaza.
Dopo l’esercito, ha viaggiato in India, come molti altri. “Ora che ero libero, le folli energie di Goa e dei Chackra aprirono la mia mente... rividi quella Gaza puzzolente e mi rividi prima che mi faceste il lavaggio del cervello con le vostre armi e le vostre marce, mi avete ridotto in uno straccio, incapace di pensare”, scrisse da Goa. Ma fu solo dopo, mentre stava studiando a Bezalel, che le sue esperienze nell’esercito davvero cominciarono ad affliggerlo. "Cominciai a realizzare che qui veniva offerto un modello immodificabile”, disse. “Fu la stessa cosa durante la prima intifada, nel periodo nel quale ero in servizio, nonostante fosse un momento tranquillo, e nella seconda intifada. È diventata una realtà immutabile. Cominciai a sentirmi realmente a disagio col fatto che una questione così scomoda era così difficilmente riferita al grande pubblico. Le persone ascoltavano le vittime e i politici, ma non quella voce che dice: feci questo, facemmo cose sbagliate, crimini... questa voce non viene ascoltata. La ragione per la quale non gli si presta ascolto è una combinazione di repressione – esattamente come io stesso la repressi e ignorai - e di profondo senso di colpa”.
"Non appena uscite dall’esercito, i politici e i media intorno a voi non sono pronti ad ascoltarvi. Ricordo che fui sorpreso che nessun soldato avesse ancora reso pubblico tutto ciò. È qualcosa che deve sparire nel dibattito sulla legittimità degli insediamenti nei territori, sull’occupazione (che si sia pro o contro) e nulla connesso a queste abitudini relative al mantenimento dell’occupazione appare sui media”.
Non un caso unico
Furer sta cercando di dimostrare che la sua non è una sindrome isolata, un caso personale. Per questo ha cancellato molti dettagli personali dal manoscritto originale, così da sottolineare la natura generale di quanto descrive. “Durante il mio servizio militare, credevo di essere atipico perché avevo un background artistico e creativo. Ero considerato un soldato moderato, ciò nonostante mi sentivo nella stessa trappola nella quale si sentono rinchiusi molti soldati. Una trappola che ti fa sentire in balia della possibilità di agire nel modo più impulsivo e animale, senza paure di punizioni e senza controllo. All’inizio questa cosa non è spontanea, ma con il tempo diventa più naturale stando al checkpoint. Le persone gradualmente testano quali siano i limiti del loro comportamento nei confronti dei palestinesi. Diventa gradualmente sempre più spietato.
“Più prendevo confidenza con la situazione più io, come gli altri, arrivavamo alla conclusione che noi eravamo coloro che comandavano, che noi eravamo quelli forti e quando sentivamo il nostro potere ognuno di noi cominciava a forzare sempre più i limiti, chi più chi meno. Non appena il servizio al checkpoint diventava routine, tutti i tipi di comportamenti deviati diventavano normali. Si cominciava con la ‘collezione di souvenir’, confiscando tappetini da preghiera e poi sigarette e da quel punto non ci si fermava più. Diveniva un comportamento abituale.
“Poi veniva il gioco di potere. Ci arrivava il messaggio dall’alto che noi fungevamo da deterrenti per gli arabi. Anche la violenza fisica diventava quindi abituale. Ci sentivamo liberi di punire qualunque palestinese che non seguisse l’ ‘opportuno codice di comportamento’ al checkpoint. Chiunque pensassimo non fosse abbastanza gentile o che provasse a fare il furbo veniva severamente punito. Era violenza deliberata per i più volgari pretesti.
“Durante il mio servizio militare, non ci fu un singolo avvenimento che ci fece capire o che facesse sì che i nostri comandanti si sentissero tenuti a intervenire. Nessuno ci parlò mai di cosa fosse permesso e cosa no. Era tutto, semplicemente, routine. Retrospettivamente la più grande fonte di sensi di colpa per me non fu mentre ero al checkpoint, ma quando entrai nel Gush Katif, quando prendemmo il ragazzo ritardato. Dimostrai i comportamenti più estremi. Fu una possibilità per me catturarne uno – la cosa più vicina a prendere un terrorista, una possibilità di far sfiatare tutte le tensioni accumulate e gli impulsi, per tutti noi. Una sferzata alla comprensione di ciò che davvero volevamo. Venivamo usati per dare schiaffi, per ammanettare, per pigliare a calci, per picchiare e lì c’era una situazione nella quale eravamo giustificati a fare tutto ciò. Anche l’ufficiale che era con noi fu molto violento. Picchiammo così forte quel ragazzo e non appena arrivammo sul posto ricordo che sentivo una fortissima sensazione di orgoglio per essere riuscito a trattare qualcuno così duramente. Dissero “che pazzo che sei, che matto”, che era fondamentalmente come dire “quanto sei forte”.
“Al checkpoint i giovani hanno la possibilità di essere padroni e di usare la forza e la violenza in modo legittimo... e questo è un impulso primitivo oltre che un punto di vista politico o un principio che ti porti da casa. Quando alla violenza è data legittimità, e viene anche premiata, la tendenza è di portarla il più oltre possibile. Per quanto cattivi, rudi, pazzi si possa essere – e noi pensavamo a tutto ciò in senso positivo. A volte anche la situazione: essere in un posto desolato, lontano da casa, lontano da qualunque controllo, rende tutto giustificato... La linea del proibito non è mai stata tracciata con precisione. Nessuno fu mai punito e loro ci lasciarono semplicemente continuare.
“Oggi ho idea che anche gli ufficiali più importanti, il comandante di brigata, il comandante di battaglione, siano consci del potere che i soldati hanno in questa situazione e di cosa possano fare. Come può un comandante non essere informato quando lui stesso è il più duro e pazzo tra tutti, in una zona di relativa calma? La foto degli effetti a lungo termine dei comportamenti violenti è qualcosa di cui si può giusto diventare consci quando si è lontani dal checkpoint.
“Oggi mi è chiaro che quel ragazzo il cui padre fu umiliato in quel modo senza ragione crescerà odiando chiunque rappresenti coloro che fecero ciò a suo padre. Ora ho definitivamente capito i motivi. Noi siamo crudeli, abbiamo il potere. Sono sicuro che la loro risposta sia influenzata da elementi che ora fanno parte della loro società – mancanza di valore per la vita umana e la facilità di sacrificare la vita- ma il desiderio fondamentale di resistere, l’odio, la paura, sento che sono completamente legittimati e giustificati, anche se è un rischio dirlo.
“È impossibile trovarsi in uno stato emozionale di questo tipo e tornare a casa e non sentirtelo dentro. Sono stato insensibile nei confronti della mia ragazza in quel periodo, ero un animale anche quando me ne andavo di là. Tutto ciò resta con te ben dopo la fine dell’orario di servizio. Vidi i risultati della sindrome in India, qualcosa che succede nel Terzo Mondo, tra le persone di pelle scura che ti riportano al peggio “del brutto israeliano”. O il modo nel quale ci si trova a reagire a un sorriso: quando i palestinesi mi sorridevano al checkpoint mi si alzava la tensione e diventava diffidenza, come fosse un’insolenza. Quando qualcuno mi sorrideva in India, immediatamente mi mettevo sulla difensiva.
“Ero un soldato medio” dice. “Ero il burlone del gruppo. Ora vedo che diventai spesso poi colui che portava le situazioni alla violenza. Fui spesso il primo a dare schiaffi, a uscirmene con ogni tipo di idee, come bucare le gomme. Suona strano ora ma davvero ammiravamo chiunque picchiasse un ragazzo che supponevamo si volesse avvicinare. L’ufficiale che ammiravamo di più era colui che sparava a ogni occasione. Ho tirato fuori tutto, mi resta solo un enorme senso di colpa... un mio amico nell’esercito ha letto il libro e ha detto che ho ragione, che abbiamo fatto cose cattive, ma che eravamo ragazzi. E che è un peccato che io la prenda così male”.

Fonte: tradotto e pubblicato on line da Nuovi Mondi Media