Lager e letteratura
Modulo di letteratura di Stefano Zampieri (stzampie@tin.it)
Fonte: pubblicato sulle pagine web a cura di Stefano Zampieri http://members.tripod.com/littera/
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1. Cancellare l'umano dell'uomo
Il primo gruppo di testimonianze ci porta direttamente al cuore dell'esperienza
del lager in quanto progetto sistematico di annientamento dell'umana personalità.
Fin dal primo momento in cui giungono al campo i detenuti subiscono una violenta
cancellazione di tutto ciò che rappresenta la loro storia, la loro cultura,
la loro identità. Essi sono spogliati, rasati, marchiati sul braccio
con un numero che sostituirà definitivamente il loro nome, rivestiti
con gli abiti dei detenuti che si distinguono solo per qualche particolare indicante
l'appartenenza ad una categoria (ebrei, detenuti comuni, detenuti politici...).
Il lager impone alle vittime questa metamorfosi, da esseri umani ad oggetti,
a numeri, ad elementi di un sistema, parti d'una macchina, sempre perfettamente
rimpiazzabili. Spoliati d'ogni libertà e d'ogni individualità,
le vittime del Lager devono ridurre il proprio livello d'esistenza al puro momento
biologico: la fame, il cibo diventano la sola ragione d'esistenza. Non c'è
posto per la spiritualità, per l'interiorità, per le manifestazioni
dell'arte o della cultura.
Ciò che conta è sopravvivere, nulla di più.
Quando questa metamorfosi si compie integralmente, come ci racconta Antelme,
l'uomo perde definitivamente la propria condizione umana, diventa un "nessuno"
irriconoscibile, incapace d'ogni contatto, d'ogni scambio con l'altro uomo.
E precipita nell'abisso della morte.
Viktor Frankl
Uno psicologo nei Lager (1946)
Viktor Frankl, nato a Vienna nel 1905, è un importante studioso di psicologia,
allievo di Freud, e la sua opera risente di questa prospettiva. L'autore, infatti,
racconta la sua esperienza di detenuto nei Lager nazisti mescolando ricordi
e riflessioni, ma a prevalere è pur sempre il dato biografico, nella
sua durezza e drammaticità. Anche quando, come in questo brano, egli
sembra trarre dalle vicende narrate, degli spunti di analisi psicologica, ci
accorgiamo facilmente che a prevalere è comunque il tono della narrazione,
e quella necessità di raccontare l'estremo, l'incredibile, che anima
tutti i sopravvissuti.
Il tono, infatti, è sempre molto diretto ed essenziale, e il racconto
procede in modo lineare. Le osservazioni dello psicologo si adattano senza difficoltà
ai ricordi dell'internato, la cui drammaticità non è mai né
esasperata né minimizzata. Ciò ha fatto di quest'opera una delle
più leggibili e delle più fortunate della grande schiera della
memorialistica del Lager, solo l'edizione americana ha venduto più di
tre milioni di copie.
La spoliazione
Ora attendiamo in una baracca: l'anticamera della "disinfezione". Una SS arriva con delle coperte: dobbiamo gettarci quanto ci rimane: gli orologi e tutti i gioielli. Con grande gioia dei detenuti "anziani" che collaborano all'operazione, vi sono tra noi ancora degli ingenui, che osano chiedere di conservare almeno la fede, o un medaglione, un talismano, un ricordo. Nessuno arriva a credere che ci sarà tolto proprio tutto, fino all'ultimo avere. Cerco d'accattivarmi la fiducia d'uno dei detenuti anziani; mi avvicino piano piano alla preda, gli faccio vedere un rotolo di carta, nascosto nella tasca interna del cappotto e dico: "Stammi a sentire, tu! Ho qui con me il manoscritto di un lavoro scientifico. So che cosa mi vuoi dire, lo so benissimo: salvare la vita, uscirne con la vita e nient'altro, è tutto quello che si può chiedere al destino, è il massimo. Ma non ci posso fare nulla, io sono un megalomane e voglio di più. Voglio conservare questo manoscritto, lo voglio conservare con qualsiasi mezzo, perché è il lavoro di tutta la mia vita; capisci?". E lui comincia a capire, mi capisce benissimo. Comincia a ghignare, dapprima compassionevolmente, poi ironico, sfottente, sarcastico, finché abbaia con uno sberleffo, liquida la mia domanda con una sola parola, che urla a gran voce, quella parola che mi sarebbe toccato di sentire poi in continuazione, come "la parola" del vocabolario del Lager. Sbraita: "Merda!!". E capisco benissimo anche io come vanno le cose. Giungo al punto finale di questa prima fase di reazioni psicologiche: cancello con un sol tratto la vita trascorsa finora!
Un'improvvisa agitazione anima la folla dei miei compagni di viaggio, che discutevano perplessi e non sapevano che cosa fare, con i volti spaventosamente pallidi. Di nuovo quei comandi urlati da voci rauche; siamo spinti, con percosse e di corsa, nel locale vicino che è poi la vera anticamera delle docce. Ci troviamo in un atrio, in mezzo al quale una SS attende di vederci tutti riuniti, prima di parlare: "vi lascio 2 minuti. Controllo sul mio orologio. In questi 2 minuti, dovete spogliarvi completamente, gettate tutto a terra, dove vi trovate; non potete portare nulla con voi, tranne le scarpe, la cintura e le bretelle, un paio d'occhiali e tutt'al più il cinto erniario. Cronometro i 2 minuti- via!". Con furia incredibile, la nostra gente si strappa i panni di dosso. Mentre il tempo concesso sta per scadere, i prigionieri si affannano, sempre più nervosi e inetti, intorno a capi di vestiario e biancheria, fettucce e cinture ecc. ecc. Si cominciano a sentire i primi schiocchi: nerbi di bue colpiscono corpi nudi. Poi, ci spingono in un altro locale. Siamo rasati, e non solo sul cranio; su tutto il corpo non ci resta più nemmeno un pelo. Ci trascinano poi nelle docce. Ci mettono in formazione, quasi non ci riconosciamo più tra di noi. Ma ognuno di noi costata, con enorme gioia e sollievo, che dagli imbuti della doccia cadono veramente gocce d'acqua.
Mentre continuiamo ad attendere, la nostra nudità ci diventa familiare: non abbiamo nient'altro, soltanto questo corpo nudo; non ci resta nulla, tranne questa nostra esistenza letteralmente nuda. Quale anello di congiunzione esterno ci unisce ancora alla vita di prima?
[Viktor Frankl, Uno psicologo nei Lager, Milano, Ares, 1994]
Spunti per la riflessione
Come si può spiegare l'atteggiamento del detenuto anziano di fronte alla
richiesta del protagonista appena giunto nel Lager?
"Non ci resta nulla, tranne questa nostra esistenza letteralmente nuda":
cosa intende dire l'autore?
Il brano si conclude con una domanda. Prova tu a rispondere.
Robert Antelme
La specie umana (1947)
L'opera di Robert Antelme (francese, nato nel 1919, morto nel 1980) è
certo una delle più ricche in termini di qualità letteraria fra
le tante dedicate alla vicenda del Lager. Animata com'è da un profondo
intento di comprensione, essa si muove tra i ricordi dell'internato cercando
continuamente, negli eventi e nei protagonisti, il dato umano e quello disumano;
essa si sforza, cioè, di rappresentare non soltanto la violenza spaventosa
del campo di annientamento, ma anche la verità interiore, profonda, essenziale,
che quelle vicende estreme portano alla luce. Una verità che riguarda
da un lato il progetto dell'annientamento scientificamente realizzato, e dall'altro
l'insieme dei valori che il dramma mette in luce nelle sue vittime: l'attaccamento
alla vita, il bisogno del contatto con l'altro, la resistenza interiore alla
fame, alla privazione, alla brutalità, alla tortura, alla distruzione
della personalità che il campo perseguiva.
La sensazione che si ricava dalla lettura di un'opera di questa natura è
che il rischio della violenza assoluta, dell'annientamento, va oltre la vicenda
storica del Lager, ma resta come una possibilità drammaticamente presente
nella storia, nella cultura, della nostra società. Così come resterà
sempre la forza per resistere, per ribadire il proprio rifiuto ad ogni tentativo
di cancellare l'umanità dell'uomo.
Nel brano che presentiamo Antelme mette in scena in modo straordinario, l'esperienza
della sofferenza e della morte che nel Lager significano appunto la vittoria
delle forze che puntano a fare dell'uomo, con la sua storia e la sua identità,
un oggetto, un numero, una unità in più o in meno.
Il volto
- K. sta morendo, - mi avevano detto. Era all'infermeria da circa otto giorni.
K. era professore. Al campo avevamo avuto un suo amico che in Francia lo aveva conosciuto bene e che qui non lo riconosceva più. - K. era un militante solido, - mi aveva detto. Ma io non avevo conosciuto che un uomo curvo dalla voce debole, che cercava di fare quello che gli si diceva.
Sono andato all'infermeria a trovarlo. Era notte. Attraversando la piazza deserta, sono passato vicino alla baracca del Lagerältester da dove veniva un rumore di radio. Ho camminato lungo la baracca. In alto a destra si distingueva la massa della foresta. La baracca dei russi e quella dei polacchi erano state montate direttamente sulla terra fangosa, così che apparivano come delle escrescenze nere. Più su c'era quella delle SS.
A quell'ora tutti erano rientrati. Sole vegliavano le sentinelle. Le SS passavano la serata da SS e i detenuti la loro. I quattro uomini in uniforme sulla scarpata, che ogni tanto si dicevano una parola, garantivano la prigionia. L'insieme SS-detenuti, grazie a loro, restava coerente, e la notte erano queste sagome che impedivano il confondersi del sonno SS con quello dei detenuti.
Ho camminato lungo la baracca dell'infermeria, passando davanti alla piccola persiana chiusa. In terra il fango era denso e ogni tanto c'erano delle pozzanghere. Ero il solo ad essere fuori.
Arrivato in fondo alla baracca, ho aperto la porta. Nella stanza la luce era fioca, si respirava un'aria tiepida e pesante. Tutti erano nei loro letti; delle teste immobili appoggiate sui cuscini, con ombre nelle guance incavate del viso. Sulla stufa, in mezzo al corridoio che divideva i letti, l'infermiere si faceva abbrustolire delle fette di pane. Altri che, come me, erano venuti a trovare un compagno, parlavano a bassa voce. Ogni tanto arrivavano fino a noi le grida del medico spagnolo.
Ho cercato K. nei letti. Ho riconosciuto delle facce, alle quali ho fatto un cenno di saluto. Ho camminato senza far rumore lungo i letti. Cercavo K.
Ho chiesto all'infermiere, che mi ha risposto sorpreso:
- Come, - ha detto, - se ci sei passato davanti! È là.
Mi ha accennato un letto davanti al quale ero effettivamente passato. Sono tornato sui miei passi e nei letti vicino alla porta ho guardato tutte le teste. Non ho visto K. Arrivato in fondo, mi sono girato e ho visto un tipo che prima era steso e che ora cercava di sollevarsi facendo leva sui gomiti. Aveva un lungo naso, due buche al posto delle guance, occhi blu quasi spenti, e una piega della bocca che poteva anche essere un sorriso.
Mi sono avvicinato pensando che mi guardasse, niente, ho spostato la mia testa da un lato; la sua non si è mossa e la bocca ha mantenuto la stessa piega.
Sono andato allora al letto del vicino e a lui ho chiesto dov'era K.
Ha voltato la testa e, senza parlare, mi ha indicato colui che era appoggiato sui gomiti.
Ho guardato allora quello che era K. ed ho avuto paura, paura di me. Per rassicurarmi ho guardato altre teste, le riconoscevo bene, sapevo chi erano ancora, non mi sbagliavo. L'altro era ancora nella posizione di prima, la testa ciondoloni e la bocca semiaperta. Di nuovo mi sono avvicinato e, chino su di lui, ho guardato a lungo i suoi occhi blu, poi mi sono allontanato: gli occhi non si sono mossi.
Ho guardato gli altri. Erano calmi e io li riconoscevo ancora. Subito sono tornato verso di lui.
Questa volta l'ho guardato dal sotto in su, l'ho esaminato talmente a lungo che ho finito per dirgli (anche per prova) con voce bassa ma vicinissima:
- Buona sera, vecchio mio!
Non si è mosso. Eppure io non potevo mostrarmi di più. Lui continuava ad avere sulla bocca quella specie di sorriso.
Non riconoscevo nulla ma proprio nulla di lui.
Ho fissato il suo naso, un naso lo si doveva pur riconoscere! Mi sono aggrappato a quello, niente. Ero impotente.
Mi sono allontanato dal suo letto, voltandomi spesso sempre con la speranza di ritrovare la faccia che conoscevo, no, nemmeno il naso. Solo quella testa ciondoloni con la bocca semiaperta di nessuno. Ho lasciato l'infermeria.
Tutto quel cambiamento era avvenuto in otto giorni.
Colui che la moglie aveva visto partire era diventato uno qualsiasi di noi, uno sconosciuto per lei. Ma in quel momento c'era ancora la possibilità di un doppione di K. che noi stessi non conoscevamo, non riconoscevamo. Eppure c'era ancora qualcuno che lo riconosceva. Quella trasformazione non era avvenuta senza testimoni. Quelli che avevano il letto vicino al suo, lo riconoscevano ancora. Nessuna possibilità di diventare nessuno per tutti, dunque. Quando avevo chiesto al suo vicino: - Dov'è K.? - me lo aveva subito indicato; K. era ben K. per lui.
Ora restava quel nome, K., che ondeggiava su colui che rivedevo in officina. Ma guardandolo in infermeria, non avevo potuto dire: - Ecco K. - La morte non occulta tanto mistero.
K. sarebbe morto quella notte. Questo significava che non era ancora morto; che bisognava aspettare per dichiarare morto colui che avevo conosciuto e di cui avevo ancora l'immagine in testa e di cui l'amico ne aveva un'altra ancora più antica, bisognava aspettare che colui che era là e che nessuno di noi due riconosceva più, morisse.
Questo era successo mentre K. era ancora vivo. Era un K. vivo che avevo trovato "nessuno". Poiché non ritrovavo quello che conoscevo, perché lui non mi aveva riconosciuto, per un momento avevo dubitato di me. Ed era stato per assicurarmi che io ero ben io, che avevo guardato gli altri come per riprendere fiato.
Come le facce pressoché uguali degli altri mi avevano rassicurato, anche il morto K. ci avrebbe rassicurato, rifatto l'unità di questo uomo. Restava tuttavia, tra quello che avevo conosciuto e il morto K. che avremmo conosciuto tutti, questo "nessuno".
[Robert Antelme, La specie umana, Torino, Einaudi, 1969]
Spunti per la riflessione
Perché il protagonista non riconosce l'amico pur ben sapendo di averlo
di fronte a sé? Cosa significa "riconoscere" un amico in questo
contesto? Si tratta solo di una questione d'identità, o piuttosto del
realizzarsi di una relazione umana più profonda?
Quale sensazione ricava il protagonista di fronte al volto dell'amico?
K., pur ancora vivo, è diventato "nessuno". Cosa significa
questo secondo l'autore?
"Colui che la moglie aveva visto partire era diventato uno qualsiasi di
noi, uno sconosciuto per lei." Commenta questa frase.
Jean Amery
Intellettuale a Auschwitz (1966)
Quella di Jean Améry è la riflessione, lucida, a freddo, di chi
dopo vent'anni (il libro è stato pubblicato nel 1966) ancora non è
riuscito né a dimenticare, né tanto meno a farsi capire. Ebreo
austriaco, dopo la guerra si stabilì in Belgio e ruppe con le proprie
radici rinunciando persino al nome di nascita, Hans Mayer, ma conservando l'esperienza
del lager come fondamento della propria esistenza, come il dramma a cui non
si riesce a dare risposta, come l'interrogativo che il tempo non cancella ma
amplifica.
Farsi capire, farsi credere, far sì che chi ascolta non abbia né
dubbi né incertezze, è di qui, dunque, che la sua riflessione
si muove. L'autore sceglie esplicitamente come punto di vista quello dell'"intellettuale",
cioè dell'uomo dotato di sensibilità e cultura (la sensibilità
che viene dalla cultura) ma che non può giovarsi, nel momento della catastrofe,
né dell'ausilio della fede, né delle certezze che vengono dall'ideologia.
L'intellettuale, piuttosto, vive nel Lager l'esperienza del venir meno di ogni
forma di spiritualità. Egli vive l'onnipresenza della morte e il dramma
di vedersi sottratto ogni spazio di libertà che renda la vita degna di
essere vissuta. Ciò che è presente è piuttosto il "morire"
quotidiano e inesorabile. Questa esperienza però non è tale da
costituirsi in un sapere positivo, non è tale da far diventare l'uomo
più "profondo", anzi al contrario ha le caratteristiche negative
di una spoliazione: "Dal Lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati
e ci volle molto tempo prima che riprendessimo il linguaggio quotidiano della
libertà."
Una esperienza che non costituisce sapere, che non fonda una conoscenza. Una
esperienza dell'umano che implica la rinuncia ad ogni trascendenza, ad ogni
espressione spirituale, ad ogni astrattezza, ad ogni volo poetico e scopre invece
lo scoglio duro e impenetrabile della carne, della sofferenza, del morire, della
fame, dei corpi che si disfanno. Amery, polemicamente nei confronti dei filosofi,
afferma che le loro parole nel Lager si rivelano inutili, e l'unico senso per
l'Essere, cioè per le grandi questioni della metafisica, è quello
dell'essere affamati, essere stanchi, essere ammalati.
Il saggio si conclude molto amaramente, esprimendo uno stato d'animo simile
in modo singolare ed impressionante a quello con cui Primo Levi condusse la
sua ultima opera, I sommersi e i salvati: la contraddizione insanabile
tra il risentimento incancellabile della vittima che vede i propri aguzzini
rialzare la testa come se niente fosse, e il fastidio che l'opinione pubblica
sembra provare di fronte ai discorsi delle vittime. Impressionante, anche
alla luce della tragica fine di Amery, che si è suicidato nel 1978,
è la conclusione del libro, in cui l'autore sente venir meno le sue
forze e teme di non riuscire a trasformare la sua rabbia di vittima in un
impulso positivo alla testimonianza.
Il brano che presentiamo mette a fuoco l'esperienza della impossibilità
per la vittima di abbandonarsi liberamente alle proprie fantasie. Anche l'intellettuale
che potrebbe trovare dentro di sé motivi di consolazione, di conforto,
è trascinato dalla realtà del Lager alla pesantezza della materia.
Lo stimolo per la riflessione, per l'esercizio dello spirito, gli deriva soltanto
dalla soddisfazione del bisogno primario del cibo. Perché il Lager cancella
l'umanità dell'uomo, riducendo ogni essere umano ad una macchina biologica,
senza interiorità.
Lo spirito e il corpo
Il cosiddetto Muselmann, come nel linguaggio del Lager veniva chiamato il prigioniero che aveva abbandonato ogni speranza ed era stato abbandonato dai compagni, non possedeva più un ambito di consapevolezza in cui bene e male, nobiltà e bassezza, spiritualità e non spiritualità potessero confrontarsi. Era un cadavere ambulante, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia. Dobbiamo, per quanto dolorosa ci appaia la scelta, escluderlo dalle nostre considerazioni. Io non posso che prendere lo spunto dalla mia condizione personale, dalla condizione di un prigioniero che pativa la fame ma non moriva di fame, che veniva percosso ma non ucciso di botte, che era ferito, ma non mortalmente, che quindi oggettivamente ancora possedeva quel sostrato sul quale in linea di principio lo spirito può poggiare e sopravvivere. Poggiava, non vi è dubbio, su fragili basi e sopravviveva malamente: e questa è tutta la triste verità. Ho già accennato al fallimento o meglio al dissolversi di catene associative e reminiscenze estetiche. Nella maggior parte dei casi non rappresentavano una consolazione, talvolta apparivano dolorose e beffarde; il più delle volte si disperdevano in un sentimento di assoluta indifferenza.
Le eccezioni si verificavano in determinati momenti di ebbrezza. Penso a quella volta che un infermiere mi regalò un piatto di semolino dolce che divorai voracemente, raggiungendo uno stato di straordinaria euforia spirituale. Con profonda commozione pensai dapprima al fenomeno della bontà umana, al quale associai l'immagine del probo Joachim Ziemssen, un personaggio della Montagna incantata di Thomas Mann. E improvvisamente la mia coscienza si colmò caoticamente del contenuto di libri, di frammenti musicali, e riflessioni filosofiche che mi apparivano come mia produzione originale. Investito da un impetuoso desiderio di spiritualità e da un penetrante senso di autocompassione, proruppi in lacrime. Uno strato non offuscato della mia coscienza era tuttavia perfettamente consapevole del carattere fallace di questa breve esaltazione spirituale. Si trattava di un vero e proprio stato di ebbrezza, provocato da un fattore fisico. In colloqui avuti successivamente con compagni ho potuto constatare che non fui l'unico a vivere, in situazioni analoghe un breve momento di conforto spirituale. Anche nei miei compagni di sventura si verificarono spesso simili stati di ebbrezza provocati dal cibo o da un'ormai rara sigaretta. Come ogni ebbrezza, lasciavano dietro di sé un desolante sentimento di vuoto e di vergogna.
[Jean Amery, Intellettuale a Auschwitz (1966), Torino, Bollati Boringhieri, 1987]
Spunti per la riflessione
Chi era il "Muselmann" nel Lager?
Perché risulta impossibile all'internato conservare una propria vita
interiore di sentimenti e di valori?
Che significato si deve attribuire al piatto di semolino dolce di cui parla
Améry? Perché è così importante nella sua esperienza?
Il racconto si conclude alludendo ad un sentimento "di vuoto e di vergogna".
Perché?
2. Di fronte alla morte
La realtà del Lager impone una mostruosa deformazione di tutti i valori
rispetto alla vita e alla morte. Costringe l'individuo ad una familiarità
innaturale con la violenza e con l'annientamento. La vita del singolo non vale
più nulla, è appesa ad un filo stretto nelle mani degli aguzzini.
Il cadavere stesso non è più il segno del ricordo, degli affetti,
del dolore, ma è cosa fra le cose, da stivare in un magazzino e da eliminare
nei forni crematori.
Il contatto con tanta disumanità sgomenta i sopravvissuti, resta nella
loro memoria come l'esperienza più difficile e più incredibile
da narrare. Ed infatti le testimonianze diventano più intimamente sofferte
e più coinvolgenti di fronte ai singoli, a quel morente nudo, solo, isolato,
di cui parla Aldo Carpi, a quel padre senza un lenzuolo che ne avvolga il corpo,
a quel ragazzo agonizzante di cui ci narra Wiesel, di fronte al quale i detenuti
sono costretti a sfilare.
Aldo Carpi
Diario di Gusen (1944-1945)
Il Diario di Aldo Carpi nasce direttamente nel Lager di Gusen (che dipendeva
da quello di Mauthausen), entro il quale l'autore era riuscito a ritagliarsi
una piccolissima speranza di sopravvivenza per via delle sue doti di pittore.
In esso Carpi racconta, con la forza dell'immediatezza e l'intensità
di una coscienza ricca di umanità, l'esperienza spaventosa del campo
di concentramento così come egli la vive giorno per giorno, nell'incertezza
d'una precarietà assoluta, costantemente ad un passo dalla morte.
L'autore trova nella fede la forza di resistere a quella terribile condizione,
ed insieme lo stimolo ad andare oltre il dramma, nella direzione di una umanità
umiliata e violentata. Egli vive momento per momento l'angoscia e la disperazione
dell'evento tragico, che mette alla prova anche le più radicate convinzioni
religiose, riuscendo però a trovare quella scintilla, quell'impulso,
quella piccolissima ragione, che spingono l'individuo alla vita, che affermano
anche nella condizione estrema il suo valore di umanità.
Vergasung
Si sentiva l'atmosfera greve, un'agitazione pervadeva il campo: le notizie vere e false correvano come il baleno, si smentivano con la rapidità del baleno: un'ora di speranza e sollievo e dieci, quindici giorni di oppressione al cuore. Ma in quel giorno pareva che tutto fosse carico di elettricità, come l'ora che precede l'uragano.
Andai a letto alla sera che era già scuro, e non potevo dormire. Troppo spesso io non potevo dormire, ma quella sera mi pareva di dover attendere qualcosa. Le luci erano tutte spente, perciò si era in stato di allerta. Si vedeva il basso, perverso faro rosso del reticolato nel grigiore verde della notte lungo il muro di cinta. Passano di là soldati, una piccola pattuglia. Poi ne passa uno solo che grida ripetutamente una frase in tedesco, un segnale, già udito da lontano, mentre una voce dall'altro lato risponde. Si capisce che è un segnale sinistro. Io mi sporgo perché dormo vicino all'ultima finestra della Stube, presso il reticolato, e vedo il soldato che passa, e poi un altro, che lanciano lo stesso segnale. Capisco che succede qualcosa di grave, e mi ritiro perché mi può essere tirato un colpo di fucile. Si sentono delle altre grida, diverse, dolorose, rabbiose, ultima difesa del misero, si ode alto e deciso il segnale, l'avvertimento del soldato, poi tre quattro scariche secche di moschetto, e silenzio. Qualche mormorio, poi più nulla.
Il mattino, domandai. Tutti avevano udito; nessuno allora dormiva nel grande silenzio che ascolta. Due prigionieri con carte geografiche della guerra fucilati per ordine del capo del lager.
C'erano state delle revisioni o perquisizioni, allora, che si susseguivano ora qui ora là, vicine e lontane. Qualche giorno prima c'era stata un'altra fucilazione, quella di un russo, per parole dette sulla guerra: avevano tentato di obbligarlo ad andare verso il reticolato elettrico, così la sentinella avrebbe dovuto sparargli. Il russo gridò alla sentinella alcune frasi nella sua lingua natale. Anche la sentinella oltre la rete era russa, un ucraino al servizio dei tedeschi, lo udì e pare abbia detto al prigioniero di fermarsi perché non avrebbe sparato. Cercarono di obbligarlo ad avanzare facendolo condurre da nuovi gendarmi, prigionieri travestiti; ma questi sentirono la sentinella caricare il fucile e si fermarono. Il russo fu ucciso ugualmente subito dopo e la sentinella fu, col permesso del comandante, linciata dai compagni col metodo di un colpo a testa, in fila, uno dopo l'altro. Questi fatti ci diedero la sensazione che la complessa impalcatura tedesca aveva cominciato a sfasciarsi.
Così si arriva alla notte tra il 21 e il 22 aprile, alla notizia della Vergasung, all'uccisione col gas degli inabili al lavoro e dei malati gravi, al massacro preannunciato per tutti, ai trasporti misteriosi di centinaia di compagni, di cui poi non si sapeva più nulla. Correvano delle voci, ma di coloro che erano partiti non era possibile sapere con certezza se erano ancora vivi o se erano stati uccisi.
Quella notte ero a letto e sentii tutto un sussurrare di ordini nel buio, e poi grida, gemiti, voci lamentose e ordini di muoversi, di far presto. Un piccolo russo mi si avvicina e mi dice: "Massimo auch Vergasung jetzt". [Anche Massimo a gasare]. Il colonnello Massimo, del porto dell'isola d'Elba, è passato anche lui col gruppo dei morituri ed è entrato nel Bahnhof del blocco 31. Al mattino andai alla finestra e vidi tirar fuori dalla porticina della cameretta centinaia di morti che venivano buttati là, l'uno sull'altro. Un grande camion con rimorchio era tutto pieno di cadaveri, e poi non so quanti trasporti han fatto col piccolo carro a mano. Sui corpi nudi si vedeva il segno rosso del gas dove la coperta di lana non li aveva protetti. Molti avevano perso sangue dal naso, dalla bocca e avevano ferite sulla testa: questi ultimi erano quelli che occupavano i letti più elevati, dai quali erano stati fatti precipitare per portarli fuori. Alcuni medici e infermieri erano incaricati di questo lavoro e sul viso dei migliori si leggeva il disgusto e l'orrore. Non potevano far diversamente: dovevano far presto per lasciare il posto ad altri disgraziati nella notte successiva.
Il terrore si diffuse nel campo, specialmente tra gli inabili e tra gli ammalati dell'ospedale. Di qui molti vollero uscire e tornare ai loro blocchi, ossia al lavoro. Molti di questi morirono perché, privi di forze, non poterono sostenere la fatica. La stagione era ancora inclemente e la raccolta delle patate, sotto la pioggia gelata e nel fango, costò molte altre vite.
Si seppe che nella prima notte della Vergasung i prigionieri chiusi avevano tentato di forzare le finestre e le porte. Uno di essi morì con la bocca schiacciata contro i vetri della finestra. La mattina dopo le finestre furono chiuse dall'interno con tavole e la porta rinforzata con traverse di legno. La notte anche le nostre finestre furono tappate con coperte da letto perché non vedessimo: ma sapevamo che non era il caso di tentar di vedere perché la proibizione e il pericolo inerente erano evidenti.
Si sentirono voci d'uomini che comandavano: "Presto, presto" . Se ne riconobbe qualcuna. Si sentì trascinare un corpo già evidentemente morto e cercarne il numero di matricola. Poi voci sussurrate e uno scalpiccio. Un principio di lamenti... un coro di lamenti; e poi urla, proteste con voci di pianto, grida di un ragazzo, acute, poi silenzio. La porta era stata chiusa, sprangata. Il colonnello Scuri Tavazzari, I'avvocato Matteis di Torino, Vergani di Varese e più di cento altri italiani là dentro. Alla mattina non vidi, non andai a vedere. I ragazzi russi mi dissero: "Quasi duecento morti portati via".
Il terrore nel campo si faceva più greve: molti altri che non lavoravano andarono a lavorare, gli inabili si dichiararono abili al lavoro: così altro dolore, altri morti.
Durante la notte seguente un ragazzo russo che venne a chiedermi l'accendisigari mi disse: "Proféssor, senti? Gusen 2 viel Kaputt [tanti morti]; due ore sentire gridare". Mi aprì la finestra e nella notte grigia udii quel lamento diffuso, la voce di spavento dei miseri massacrati a colpi di mazza e di bastone al di là del nostro muro. Richiusi la finestra. Che fare? I miei camerati il giorno dopo videro scaricare, dal grosso carro di Gusen 2, i morti con la testa e il corpo sanguinanti. Io non andai a vedere. Erano cose che avevo già veduto e, pur non volendolo, dovevo vedere ancora in seguito.
Come vidi ieri caricare su un grosso camion con rimorchio dei poveri cadaveri ridotti così male e sporchi che sembravano carogne di topi di chiavica. Erano morti di qui e di Gusen 2, e resti del "transport" da Lipsia a qui. Diciotto giorni di viaggio chiusi in carro bestiame in mezzo a escrementi e a cadaveri già in putrefazione. I pochi residui di esseri viventi, carichi di grossi pidocchi e pulci sulla pelle nuda chiazzata, arrivarono al Bahnhof del blocco 31, ultimo porto.
Ma vidi un morto ieri: lo credetti morto ma era solo un moribondo; arrivato dopo il "transport" da Steyr: tutto attorno a lui, seduti, erano esseri vivi avvolti in coperte e stracci, simili assai ai prigionieri dei serbi ch'io vidi a Valona nel 1915. Visi di dolore, grigi come le coperte, visi sfiniti quasi di dementi, miserabili e sporchi. Quando ripassai da quella camera tutti erano stati portati via tranne il moribondo del centro. Egli era ora solo, nudo, disteso al suolo al centro della stanza, visibile da quattro porte. Agonizzava e aveva il leggero singulto del respiro difficile, quando il cuore rallenta. Le braccia aveva ripiegate sul petto e il viso riteneva ancora un'espressione di vita. Un dolore infinito diffuso sulla faccia di colui che morendo si sente da tutti abbandonato, da nessuno accarezzato. Due occhi piccoli neri guardavano in alto e luccicavano sotto le palpebre: c'era del pianto, sotto, pianto senza lacrime. Una bocca semiaperta nel volto abbronzato, pareva parlare tutto il viso pareva parlasse, non a noi, non a nessuno, a Dio, raccomandando se e qualcuno del suo paese: era una preghiera, una domanda di pietà, di misericordia, di Grazia. Mi venne la voglia di abbassarmi e di fargli il segno della croce sulla fronte. C'erano altri, eravamo nel lager non ebbi il coraggio e ne ho il rimorso. Doveva essere uno di quei semplici contadini russi, semplici come si vedono nei libri di Tolstoj. Era solo, disteso sul pavimento della stanza vuota, e Cristo moriva con lui. E io mi sentii vile nell'anima davanti a lui.
[Aldo Carpi, Diario di Gusen, Torino, Einaudi, 1993]
Spunti per la riflessione
Cosa significa nel linguaggio del campo Vergasung?
Il dramma della morte vissuto e raccontato da Aldo Carpi subisce una svolta
improvvisa di fronte a quel morente nudo, solo, isolato. Perché? Cosa
rappresenta quell'uomo?
Il protagonista legge nello sguardo del morente "una domanda di pietà,
di misericordia, di Grazia". Cosa intende dire?
Perché il protagonista si sente "vile" di fronte al morente?
Jona Oberski
Anni d'infanzia. Un bambino nei lager (1978)
Jona Oberski è un fisico olandese, nato nel 1938, che ha raccontato,
a distanza di molti anni la sua drammatica esperienza di bambino all'interno
del Lager. I trent'anni che separano la narrazione dai fatti contribuiscono,
forse, a rendere più delicato il racconto che si sviluppa secondo la
particolare, e insolita, prospettiva del bimbo che comprende solo in parte ciò
che gli accade, e vive in modo immediato ed ingenuo tutto quel che di assolutamente
disumano vi è nella vita del campo. D'altra parte non si può fare
a meno di notare come la memoria dei fatti sia rimasta viva e bruciante nell'uomo
adulto che da quell'esperienza è rimasto segnato. Ne è buona testimonianza
il brano seguente, che descrive la scoperta terribile del corpo abbandonato
del padre.
L'osservatorio
Il giorno seguente mi fu consentito di andare con i ragazzi più grandi, perché mio padre era morto e io ero stato presente. Ora non ero più un bambino piccolo. Però dovetti promettere di non fare la spia e di sostenere una prova. Non sapevano ancora quale. Correvamo sul terreno del campo. Incontrammo dei bambini più piccoli che mi domandarono se non volevo restare con loro. Ma io dissi che avevo premura e poi ormai non ero più un bambino piccolo e se non sapevano che mio padre era morto.
Proseguimmo la corsa. Due ragazzi più grandi si fermarono accanto a me, uno per parte. E davanti e dietro ne arrivarono degli altri, anche un paio di bambine. Io ero certo il più piccolo, ma questo dipendeva dal fatto che la mia mamma era piuttosto piccola di statura e anche mio padre non era stato molto alto. Arrivammo all'osservatorio. Uno dei ragazzi più grandi mi domandò se me la sentivo di entrare. Mi disse che per la verità era una cosa proibita e anche pericolosa. Domandai perché, ma quello non me lo seppe dire. Un altro ragazzo disse che avevo promesso di sostenere una prova e che la prova era appunto questa. Dovevo entrare lì dentro e restarci fino a quando non mi richiamavano fuori. Dissi che ero disposto a farlo, ma che non sapevo che cosa c'era dentro, nell'osservatorio. Domandai se anche loro c'erano già stati una volta, e quelli risposero: "Si, naturalmente". Dissi che ci sarei stato se veniva anche qualcun altro. E se non l'avessi trovata una cosa così paurosa sarei stato anche disposto a fermarmi e ci sarei rimasto anche da solo, fino a quando loro mi avessero richiamato. Ma nessuno di loro voleva venire. Io allora replicai che se lo conoscevano già non avevano alcun bisogno di avere ancora paura. Un paio di ragazzi bisbigliarono qualcosa fra loro.
Mi era venuto freddo, perché eravamo fermi lì già da un bel po'. Avevo i piedi gelati per esser stato nella neve e adesso il freddo mi saliva su per tutto il corpo. Allargai le braccia e me le battei intorno al corpo per scaldarmi. E intanto battevo i piedi per terra. Uno dei ragazzi più grandi mi imitò. Poi disse: "E va bene, vado dentro anch'io con lui".
Gli altri bambini si allontanarono un po', il ragazzino abbassò cauto la maniglia. Era una porta grigia di ferro, molto pesante da aprire. Dentro era buio. Il ragazzo si strinse il naso con l'indice e il pollice e mi fece cenno di seguirlo. La soglia aveva un gradino molto alto. Lo scavalcai. Dentro non si vedeva nulla, era tutto nero; il ragazzino accostò la porta e si mise a correre davanti a me seguendo la parete con una mano. Aprì una porta di legno e mi disse di entrare. Aveva una voce molto buffa, con il naso stretto fra le dita. Non riuscivo a vedere un gran che. Per terra e ammucchiati contro la parete scura c'erano degli oggetti bianchi. Anche nel mezzo della stanza ce n'era un mucchio e da tutte le parti sbucava fuori qualcosa.
Altri bambini ci avevano seguito. La maggior parte si teneva il naso chiuso. Una bambina mi disse: "Guarda, là c'è il tuo papà, non ha neppure un lenzuolo".
Allora vidi i morti. Erano fagotti fatti di lenzuola. Da alcuni sporgevano gambe e braccia. Certi corpi erano nudi. Altri avevano ancora i calzoni. Giacevano lì, gettati disordinatamente uno sopra l'altro, per verso e per traverso. Uno stava rovesciato all'indietro in cima al mucchio, la testa gli penzolava giù. Lo guardai in faccia. Aveva grandi occhi scuri. Le braccia penzoloni, molto magro. Un altro giaceva con la testa posata su un braccio teso. L'altro braccio non c'era. Sparsi intorno c'erano anche pezzi staccati, braccia, gambe. Udii un clic alle mie spalle. Mi voltai e vidi che i bambini se n'erano andati o si erano nascosti. La porta esterna era chiusa. Mi volsi di nuovo verso i corpi e cercai di scoprire qual era mio padre. Piegai la testa in tutte le possibili direzioni, di lato, mi misi a testa in giù per poter guardare tutti quei volti che stavano sbiechi o rovesciati. Ma erano tutti terribilmente uguali. E c'era anche troppa poca luce. Proprio davanti a me c'era, in cima al mucchio, un fagotto di lenzuola. Dalla forma si vedeva benissimo che c'era dentro un corpo. Che fosse mio padre? Vicinissimo, davanti a me c'era un corpo sul pavimento, nudo, voltato a pancia in giù. La testa era voltata di lato. Che fosse quello mio padre? La testa rasata l'avevano tutti. No, mio padre non c'era. Doveva essere ancora nella baracca dell'infermeria. E poi lo avrebbero sepolto. Guardai ancora tutti i corpi attentamente, a uno a uno. Erano grigi. Le lenzuola sporche spiccavano bianche contro quel grigiore. Corsi indietro e richiusi dietro di me la porta divisoria di legno. Arrivai alla porta esterna. Non c'era maniglia per aprire. Cominciai a battere pugni nella porta, ma non serviva a niente. Udivo i bambini che stavano fuori.
Tornai verso l'altra porta, l'aprii di nuovo. Entrai e scavalcai i corpi che mi stavano davanti. Mi arrampicai sul mucchio e gettai un'occhiata nel fagotto più in alto. Vidi soltanto un braccio. Cominciai a svolgere il lenzuolo Fuori udii che gridavano. Tirai fuori il braccio. La mano somigliava a quella di mio padre Tirai ancora il lenzuolo fino a che riuscii a vedere la testa. Il volto era nero di barba. Scesi giù dal mucchio e guardai il corpo di lato. La luce ci arrivava sopra appena. Cercai di vederlo in volto. Gli occhi erano neri Le guance incavate. La barba corta come quella del mio papà. Anche il naso somigliava al suo. Guardai ancora le mani. Assomigliavano molto a quelle del papà. Ma il corpo non gli somigliava affatto.
Qualcuno mi afferrò e mi trascinò via, "Sei diventato matto? Vuoi morire? È molto pericoloso. Vieni fuori. Sono ore che ti chiamiamo, che ti diciamo di venir fuori". Risposi che cercavo mio padre e che non ero riuscito a riaprire la porta. "Tuo padre non è qui" disse il ragazzo. E mi trascinò con sé, richiuse la porta di colpo e disse che dovevamo correre via.
Più avanti incontrammo gli altri. Una delle bambine disse: "Tuo padre non ha neanche un lenzuolo". Io dissi che lo aveva sì, il lenzuolo addosso, e che lo avevo visto con i miei occhi. Lei disse che lo aveva visto anche lei e che non era vero. Il ragazzo che mi aveva portato fuori con sé disse che mio padre non era lì, ma quando gli altri gridarono "uh-uh" e dissero che lui aveva avuto paura, lui rispose che aveva detto così solo perché io ero ancora piccolo. Ribattei che ero grande e che sapevo benissimo che mio padre era lì e che lo avevo visto in un lenzuolo e che potevo mostrarlo a chiunque lo volesse vedere. Ma nessuno volle.
La bambina replicò: "Ma se tu sai tutto così bene, allora, di', che cosa ne fanno dei cadaveri?". Dissi che lo sapevo benissimo, ma che non lo avrei raccontato, perché avevo fatto quello che dovevo e adesso la prova era finita. E se lei lo voleva proprio sapere, glielo avrei raccontato, soltanto però se lei veniva dentro con me. Ma lei non lo voleva e tutti gli altri bambini si misero a gridarle dietro "uh-uh". Poi corremmo via e io ora potevo restare con quelli più grandi.
La sera la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri e che non aveva neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva si uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un'ultima volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra i cadaveri.
La mamma diceva soltanto: "no", "non è vero", ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine scoppiai in un pianto dirotto, terribile.
[Jona Oberski, Anni d'infanzia. Un bambino nel lager, Firenze, Giuntina, 1989]
Spunti per la riflessione
Rifletti sulla singolare prova di iniziazione cui viene sottoposto il protagonista.
Essa indica chiaramente la deformazione mostruosa dei valori che il lager produce
nella mente di quei poveri bambini.
Il lenzuolo assume un particolare valore simbolico. Quale?
Quali sono gli elementi che distinguono questa testimonianza dalle altre? Da
cosa si può notare che la prospettiva è quella di un bambino?
Come interpreti le accuse che il bambino rivolge alla madre?
Elie Wiesel
La notte (1958)
Il grande scrittore Elie Wiesel (nato a Sighet nei Carpazi nel 1928), ci offre
con quest'opera il racconto della sua esperienza di fanciullo deportato ad Auschwitz
ed a Buchenwald. Dopo la guerra egli visse una decina d'anni in Francia iniziando
una importante attività giornalistica. Dal 1956 si è stabilito
negli Stati Uniti, ed attualmente insegna presso l'Università di Boston.
Nel 1986 gli è stato conferito il premio Nobel per la pace.
La notte scritto in francese e pubblicato nel 1958, è la sua
prima opera. Ma al centro di tutta la sua vasta produzione vi sono sempre
i grandi temi dell'Olocausto e delle sue conseguenze sulla cultura ebraica
e non.
Le qualità evidenti della scrittura, nitida e potente nel descrivere
la drammaticità degli eventi, non prendono mai il sopravvento sulla materia
narrata. Ma lasciano ai fatti nella loro nudità il compito di colpire
il lettore e di costringerlo a riflettere, soprattutto rispetto alle certezze
della fede. Di fronte all'evento del Lager, infatti, s'impone al credente un
nuovo modo di pensare a Dio, visto non più come la Provvidenza che ha
in mano i destini del mondo, ma piuttosto come l'umanità sofferente che
ha bisogno di aiuto, di solidarietà, di un gesto umano di conforto.
Dov'è Dio?
Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime.
Tranne che una volta. L'Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un gigante di più di due metri. Settecento detenuti lavoravano ai suoi ordini e tutti l'amavano come un fratello. Mai nessuno aveva ricevuto uno schiaffo dalla sua mano, un'ingiuria dalla sua bocca.
Aveva al suo servizio un ragazzino un pipel, come lo chiamavamo noi. Un bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo.
(A Buna i pipel erano odiati: spesso si mostravano più crudeli degli adulti. Ho visto un giorno uno di loro, di tredici anni, picchiare il padre perché non aveva fatto bene il letto. Mentre il vecchio piangeva sommessamente l'altro urlava: "Se non smetti subito di piangere non ti porterò più il pane. Capito?". Ma il piccolo servitore dell'olandese era adorato da tutti. Aveva il volto di un angelo infelice).
Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell'Oberkapo olandese. E lì, dopo una perquisizione, fu trovata una notevole quantità di armi.
L'Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome. Venne trsferito ad Auschwitz e di lui non si senti più parlare.
Ma il suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò anche lui muto. Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell'appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l'angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L'ombra della forca lo copriva.
Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.
Tre S.S. lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
- Viva la libertà! - gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
- Dov'è il Buon Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole tramontava.
Scopritevi! - urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.
- Copritevi!
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora...
Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
- Dov'è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
- Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.
[ Elie Wiesel, La notte, Firenze, Giuntina, 1980]
Spunti per la riflessione
Wiesel definisce il ragazzo un "angelo dagli occhi tristi", perché?
I due uomini, giustiziati per il tentativo di rivolta, muoiono gridando "Viva
la libertà", il ragazzo tace. Perché l'autore sottolinea
questo diverso atteggiamento? Cosa rappresenta per lui?
Di fronte al ragazzo che agonizza sulla forca il detenuto si chiede "Dov'è
Dio?", cioè perché Dio consente tanta barbarie? È
possibile rispondere a simile domanda?
Wiesel a suo modo risponde che Dio stesso è appeso a quella forca. Cosa
intende dire?
3. La relazione umana
Il Lager rappresenta il tentativo di realizzare una società modello,
in cui l'uomo sia ridotto ad atomo obbediente, a macchina biologica, separata,
isolata, privata delle sue caratteristiche di umanità, cioè di
libertà e di relazione. Esso immagina e realizza una società di
estranei, accomunati da una silenziosa obbedienza, e da un lavoro senza senso
e senza scopo. Questo progetto sembra affermarsi totalmente nel Lager, ma non
è così. Le testimonianze letterarie del campo ci mostrano infatti
il valore straordinario di un gesto di generosità, di un atto di solidarietà
senza interesse.
L'esperienza del campo ci mostra, cioè, quell'aspetto essenziale della
vita umana che è la relazione fra gli esseri viventi, attraverso la parola
o il gesto. Se da un lato c'è la volontà di cancellare ogni relazione
umana e rendere così l'uomo una macchina servile, obbediente e produttiva,
dall'altra c'è l'incancellabile desiderio umano di conservare una traccia,
un filo, un rapporto, un bottone, una storia, che rappresentano il proprio fondamento
di umanità, il proprio essere vivi, non essere ancora morti, la propria
resistenza alla barbarie.
Primo Levi
Se questo è un uomo (1947)
Per qualità letterarie, per profondità di analisi, per immediatezza
del racconto, l'opera di Primo Levi è ormai universalmente riconosciuta
come il punto di riferimento della memorialistica del Lager. Torinese, sopravvissuto
ad Auschwitz Levi ha raccontato la sua esperienza in Se questo è
un uomo (1947), e poi in La tregua (1963). Per tutta la vita ha
alternato il mestiere del chimico, con quello dello scrittore, cimentandosi
anche in racconti di carattere fantascientifico, e in un romanzo, Se non
ora, quando? (1982) dedicato alle vicende poco note della resistenza ebraica
alla deportazione. Sullo sfondo dell'opera di Levi c'è sempre l'esperienza
del campo di concentramento, il dramma del deportato e quello del sopravvissuto
che non può smettere di chiedersi "perché proprio io?".
In qualche modo il tormento della sua coscienza di fronte all'incredulità,
al tentativo di negare quegli eventi o di ridimensionarli, si lega alla tragica
fine dello scrittore avvenuta, per suicidio, nel 1987.
Nessuno meglio di Primo Levi ha saputo raccontare il dramma del Lager, in tutte
le sue sfumature, attraverso le complicate articolazioni del progetto nazista,
ma insieme alla luce di una realtà umana profonda e drammaticamente vera.
In questo senso egli, tra l'altro, sa mettere in scena anche la straordinaria
realtà del gesto d'intesa, di solidarietà, con cui l'uno si avvicina
all'altro per porgergli aiuto senza nulla pretendere in cambio. È quanto
racconta in queste pagine.
Lorenzo
In questo mondo scosso ogni giorno più profondamente dai fremiti della fine vicina, fra nuovi terrori e speranze e intervalli di schiavitù esacerbata, mi accadde di incontrare Lorenzo.
La storia della mia relazione con Lorenzo è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota.
In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso.
Tutto questo non deve sembrare poco. Il mio caso non è stato il solo; come già si è detto, altri fra noi avevano rapporti di vario genere con civili, e ne traevano di che sopravvivere: ma erano rapporti di diversa natura. I nostri compagni ne parlavano con lo stesso tono ambiguo e pieno di sottintesi con cui gli uomini di mondo parlano delle loro relazioni femminili: e cioè come di avventure di cui si può a buon diritto andare orgogliosi e di cui si desidera essere invidiati, le quali però, anche per le coscienze più pagane, rimangono pur sempre al margine del lecito e dell'onesto; per cui sarebbe scorretto e sconveniente parlarne con troppa compiacenza. Così gli Häftlinge raccontano dei loro "protettori" e "amici" civili: con ostentata discrezione, senza far nomi, per non comprometterli e anche e soprattutto per non crearsi indesiderabili rivali. I più consumati, i seduttori di professione come Henri, non ne parlano affatto; essi circondano i loro successi di un'aura di equivoco mistero, e si limitano agli accenni e alle allusioni, calcolate in modo da suscitare negli ascoltatori la leggenda confusa e inquietante che essi godano delle buone grazie di civili illimitatamente potenti e generosi. Questo in vista di un preciso scopo: la fama di fortuna, come altrove abbiamo detto, si dimostra di fondamentale utilità a chi sa circondarsene.
La fama di seduttore, di "organizzato", suscita insieme invidia, scherno, disprezzo e ammirazione. Chi si lascia vedere in atto di mangiare roba "organizzata" viene giudicato assai severamente; è questa una grave mancanza di pudore e di tatto, oltre che una evidente stoltezza. Altrettanto stolto e impertinente sarebbe domandare "chi te l'ha dato? dove l'hai trovato? come hai fatto?" Solo i Grossi Numeri, sciocchi inutili e indifesi, che nulla sanno delle regole del Lager, fanno di queste domande; a queste domande non si risponde, o si risponde "Verschwinde, Mensch!", "Hau'ab", "Uciekaj", "Schiess' in den Wind", "va chier"; con uno insomma dei moltissimi equivalenti di "Lévati di torno" di cui è ricco il gergo del campo.
C'è anche chi si specializza in complesse e pazienti campagne di spionaggio, per individuare qual è il civile o il gruppo di civili a cui il tale fa capo, e cerca poi in vari modi di soppiantarlo. Ne nascono interminabili controversie di priorità, rese più amare per il perdente dal fatto che un civile già "sgrossato" è quasi sempre più redditizio, e soprattutto più sicuro, di un civile al suo primo contatto con noi. È un civile che vale molto di più, per evidenti ragioni sentimentali e tecniche: conosce già i fondamenti dell'"organizzazione", le sue regole e i suoi pericoli, e inoltre ha dimostrato di essere in grado di superare la barriera di casta.
Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l'effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? per loro noi siamo "Kazett", neutro singolare.
Naturalmente questo non impedisce a molti di loro di gettarci qualche volta un pezzo di pane o una patata, o di affidarci, dopo la distribuzione della "Zivilsuppe" in cantiere, le loro gamelle da raschiare e restituire lavate. Essi vi si inducono per togliersi di torno qualche importuno sguardo famelico, o per un momentaneo impulso di umanità, o per la semplice curiosità di vederci accorrere da ogni parte a contenderci il boccone l'un l'altro, bestialmente e senza ritegno, finché il più forte lo ingozza, e allora tutti gli altri se ne vanno scornati e zoppicanti.
Ora, tra me e Lorenzo non avvenne nulla di tutto questo. Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all'odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l'hanno sepolta, sotto l'offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvagie e stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge indifferenziati e schiavi, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna.
Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.
[Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1947]
Spunti per la riflessione
In che modo i "civili" vedono e giudicano gli internati?
Perché Lorenzo è diverso dagli altri "civili"?
Perché il gesto di Lorenzo aiuterà Levi a sopravvivere?
Cosa distingue e contrappone il mondo del Lager (SS, Kapos, detenuti) dal mondo
di Lorenzo?
Spunti per una riflessione conclusiva