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Un mostro per l'estate

Massimo Carlotto

il manifesto, 27 luglio 2004

Quelli come Luciano Liboni li ho sempre definiti gli «insofferenti». Insofferenti a tutto: alla società, alle regole, alle divise e alle logiche della malavita organizzata. Alcuni li ho conosciuti personalmente. Negli anni Settanta soprattutto, oggi sono una razza in via di estinzione. Come il lupo Liboni, appunto. K. si è beccato un proiettile nella schiena mentre fuggiva con un barchino nei canali veneziani. T., stanco di fuggire, decise di affrontare i carabinieri impugnando una mitraglietta. S., ferito dopo l'ennesima rapina terminò le munizioni, anche l'ultima cartuccia che aveva riservato per se stesso, e adesso sul suo fascicolo c'è un timbro rosso con la scritta «fine pena: mai». F., il più fortunato, riuscì ad arrivare in India e di lui sono arrivate solo voci. La più ottimista narra dell'incontro con una ricca americana e di una villa con piscina a Los Angeles. Quella più realista descrive un vicolo e una siringa piantata in un braccio. In comune gli insofferenti hanno il destino fottuto. O morti, o in galera. Per morirci o per uscirne quando ormai è troppo tardi. Anche Liboni, il cinghiale, il lupo, che giornali e televisioni hanno trasformato nel giallo dell'estate, è fottuto. Lui lo sa meglio di tutti. Per questo spara. Ma non da ora. Sono due anni che tira il grilletto per non farsi prendere. Ha deciso che in galera non ci torna più. Meglio la bocca che sa d'asfalto e una pozza di sangue che si allarga sotto il corpo che essere rinchiuso di nuovo. C'è chi accetta il carcere come un incidente di percorso della professione criminale e chi, invece, dice basta. Liboni sa di essere un morto che fugge. La regola numero uno dell'ambiente è mai sparare a uno sbirro. Altrimenti sono dolori. E lui ha sparato per uccidere: due colpi. Tanto per essere sicuri. Se finisce in manette, prima del carcere, rischia di cadere dalle scale e farsi male sul serio. E poi il processo in corte d'assise. Una proforma per pronunciare la parola ergastolo. E alla sua età speranze di uscire non ce ne sono proprio. Se ingaggia un altro conflitto a fuoco ha ben poche possibilità di uscirne vivo. Ormai è un bersaglio. Se venisse ucciso da un geometra-giustiziere voglioso solo di provare sul campo la sua nuova Glock calibro 40, nessuno avrebbe nulla da ridire. Scriverebbero che il lupo o il cinghiale è stato abbattuto.

Il circo mediatico montato su questo caso è pronto a tutto. Già si leggono notizie vergognosamente prive di senso. L'epilogo ne sarà il trionfo. In attesa della parola fine si scandaglia il passato. Ma è inutile cercare spiegazioni psicologiche sull'agire degli «insofferenti». Sono solo scelte solitarie di ribellione votate alla sconfitta. E Liboni è un perdente che non riscuote nessuna simpatia. Nelle redazioni si fanno i salti mortali per costruire un personaggio dalle attitudini criminali di alto profilo. In realtà è lampante che il lupo è solo un balordo specializzato in uffici postali, con qualche conoscenza in quella mala che ha frequentato nelle patrie galere o nei bar di provincia.

Il fatto è che è difficile spiegare agli italiani che nell'era dell'antiterrorismo, degli aeroporti blindati, dei super poliziotti, delle guerre preventive, non si riesca ad arrestare una mezza tacca. E allora si esagera, si vagheggiano rapporti internazionali. E si sprecano fiumi di inchiostro sulla lucidità criminale del latitante. Uno che spara in testa a un benzinaio perché scoperto su un'auto rubata è solo un pericoloso cretino. Da allora Liboni non è migliorato. Ha imboccato la sua strada senza uscita. Corre come un cinghiale nella macchia. Nella prima pianura lo aspettano i cacciatori con i fucili puntati. Vivo o morto sarà il trofeo dell'estate.