Durante la Comune, nel 1871, la pétroleuse - l'incendiaria
- Louise Michel propose di eliminare la prostituzione. "L'amore, almeno,
è idiota", diceva schierandosi contro il misero buon senso degli
amori interessati o mercenari. Nella Settimana di Sangue, mentre girava sotto
le pallottole, un obice aveva colpito un ciliegio e si era ritrovata tutta
ricoperta di fiori.
Coll'abito nero e la carabina Remington, aveva conosciuto anche in quei giorni
momenti di ripiegamento. Nell'ultima veglia di libertà, cioè nella
notte in cui i comunardi organizzarono l'estrema difesa del cimitero di Montmartre,
era andata tra le tombe con la scusa di verificare che non ci fossero brecce
indifese; e seguendo i viali profondi, aveva ritrovato la sepoltura di un'amica,
una donna "di gran cuore", come lei istitutrice dei poveri a Montmartre,
e era rimasta ferma tra i colpi di mortaio a godersi "la quiete della morte".
Georges Clemenceau, nazionalista jusqu'auboutiste e "primo poliziotto
di Francia", che aveva concepito un singolare sentimento di stima per
la pasionaria, che aveva chiesto e ottenuto aiuto dallo statista per
i suoi poveri, ammirò per un'ora la calma di Louise in battaglia e
non capì mai come non la avessero uccisa cento volte sotto i suoi occhi.
Credo che meno si fa caso alla vita, più vi resta, scriveva Louise;
e questo valeva "per ben altre cose". Non erano riusciti a prenderla.
Aveva tenuto, sola con due uomini, una barricata. A destra aveva un capitano
dei federati, impassibile, profilo da medaglia romana; tirava senza mai fermarsi;
quando il fucile era caldo, passava alla pistola. Era stupido, era venuto
ad aiutarla a far riparare un ferito, ma era stato necessario, sotto una pioggia
di proiettili, chiederglielo dieci volte. Pover'uomo, chissà che fine
aveva fatto, si chiedeva ogni tanto Louise in prigione; dove parlava d'avvenire,
giurando che era dei vinti, ma pensava spesso al passato. A un certo punto
infatti erano venuti verso la barricata dei comunardi e loro li avevano accolti;
per scoprire troppo tardi che erano nemici travestiti. Ma era difficile agguantare
Louise. Sgusciò, si procurò un cappellino e una gonna, la sua
era crivellata di pallottole; e nella Parigi riconquistata dalla truppe governative
corse a cercare la madre. La porta dell'appartamento era aperta, il cortile
della scuola deserto. Si precipitò al primo posto di guardia dell'esercito
vittorioso: "Dov'è mia madre? Sono Louise Michel", si era
consegnata. "Portatela al bastione 37, senza perderla di vista",
avevano ordinato, ma lei era partita come il vento, seguita a fatica dai soldati,
e aveva effettuato lo scambio con la madre.
Non era stata una prigioniera disciplinata. Aveva tirato in testa a una guardia
una bottiglia di caffè che tentavano di ritirarle ancora davanti alla
visitatrice che gliela aveva portata, senza aspettare almeno che si allontanasse;
poi si era scusata di aver colpito un pover'uomo, "ma non c'erano ufficiali
a tiro". A volte, rideva. "Ci credereste? La parola d'ordine, qui,
è quella di Cambronne". E quando nel campo dei prigionieri era comparso
a cavallo il generale marchese de Galliffet, il repressore della Comune, gridando:
"Sono io, Galliffet", Louise Michel si era messa a cantare una canzoncina:
"Sono io, Lindor, / pastore di questo gregge"; Galliffet aveva ordinato
di fare fuoco. Soprattutto, Louise aveva sorriso al processo: "Visto che
a quanto sembra ogni cuore che batte per la libertà ha diritto a un po'
di piombo", aveva sfidato i giudici, "ne reclamo una parte per me".
Alla fine degli interrogatori un giudice, con stupore di entrambi, la riaccompagnava
alla porta con una specie di considerazione.
La prigione è facile, come sempre per tutte le istitutrici, scrive
Louise Michel nei Mémoires. Finalmente si è liberi del
proprio tempo e dei propri pensieri. La solitudine riposa. All'ultima lezione,
ci si sente bestie sovraccaricate; con un colpo di reni di fierezza si arriva
alla fine senza cedere. Ma un'ora di silenzio la si ottiene solo la notte.
In carcere, si è liberi. La notte, poi, ci si sente vivere, si può
scrivere. "Le poche ore di riposo le ho trovate in prigione, ecco tutto".
Lei chiede libri, Tucidide, i Commentari di Cesare, le memorie della
bellicosa madame Roland e le Massime di La Rochefoucauld - chi ha detto
che sono "desolate"?, si stupisce; anzi, in quella situazione sono
tonificanti; e poi dizionari, per imparare ancora e lavorare sulle parole.
"Vi scrivo dalla mia notte; a voi evocare le stelle", propone Louise
a Victor Hugo, inviandogli dalle sue carceri, come al solito, poesie di gusto
romantico. Louise gli aveva scritto, senza conoscerlo, quando ancora viveva
al castello di Vraucourt, piccola bastarda di una serva e del patriarca - o
del figlio? non lo sa, confessa solo al suo idolo; allevata ai valori più
reazionari dalla madre e a leggere i filosofi dai padroni, liberali. Tutta la
vita invierà il cuore e le sue poesie al poeta che, al culmine della
fama, risponde, e anche la riceve. Nel diario di Hugo, alla data del 13 settembre
1870, la nota: "Vista L. M. n." va intesa: "Vista Louise Michel,
nuda". Sospetta - perché il poeta è sempre meticoloso ragioniere
delle piccole spese di amori venali o clandestini - anche l'annotazione del
18 settembre: "Vista L. M. (un 'ora di vettura pubblica 2F, 50)".
Accanto a Hugo, Louise scrive a Clemenceau, Sarah Bernhardt, Jules Guesde,
letterati della cerchia di Dumas e Verlaine, grandi anarchici come Rochefort
o il principe di Kropotkine. Oppure si rivolge ai diseredati, a illetterati,
a certi che "non hanno disimparato il mestiere di servire". E sono
sempre lettere di una qualità letteraria incredibile, una sfida continua
alle condizioni in cui sono scritte. Alcune si indovinano scarabocchiate sulle
ginocchia, a terra, nel "nido di gazze" delle compagne di pena che
non si zittiscono un momento: "sono donne piene di coraggio, ma noiose",
si lamenta Louise; nella lotta evitava di stare con le donne, confessa la
presidentessa di tanti comitati femminili. Si occupava certo della corrispondenza
delle illetterate, ma si rimproverava di non avere la pazienza di stare a
sentire le compagne di pena; una prigioniera era venuta con un pezzo di benda,
conservato come una reliquia, con cui Louise aveva fasciato suo marito ferito.
Ma lei accumulava febbrilmente missive per salvare l'amore - chiuso e inconfessato
- della sua vita, l'impassibile comunardo Ferré che andrà alla
fucilazione con pince-nez e sigaro. Altre lettere risentono degli spazi
aperti, quando la deportazione in Nuova Caledonia la espone, lei che non ha
mai visto che la Marna e Parigi, ai venti dell'Oceano. Ma per anni, dopo l'esecuzione
di Ferré, le accade per i paesaggi "come nell'ordine morale: tutto
le sembra di una piccolezza inaudita"; vive "completamente nella
morte"; e questo non le impedisce, in condizioni di carcerazione immonde,
di persuadere a vite più grame le prostitute o di pubblicare racconti
d'infanzia.
"Mi chiedete come sto: perfettamente", dichiara dalla Nuova Caledonia,
dove gli insetti proliferano a quaranta gradi o il campo diventa, sotto la
pioggia incessante, un nauseabondo acquitrino di sabbie mobili; e piove anche
all'interno delle baracche assemblate con materiali di recupero dai deportati.
Il 20 maggio, cinque donne, le più pericolose, vengono trasferite dalla
penisola Ducos alla Baia dell'Est; Louise Michel protesta vigorosamente e
anche l'amica Nathalie Lemel, un'altra pétroleuse che aveva
edificato due pollai. Ma le nuove capanne si trovano vicino alla foresta e
per andare alla posta si deve affrontare una corroborante passeggiata in riva
all'Oceano; Louise protesta solo se le scrivono parole gentili, è così
abituata a essere insultata che le cortesie la feriscono come se offrissero
dolciumi a una belva.
Le lettere impiegavano, andata e ritorno, sei, otto mesi; e un deportato,
l'istitutore Verdure, era morto di crepacuore per un pacchetto di corrispondenza
arrivato troppo tardi. Da Parigi, gli amici comunardi hanno pensato di inviarle
toniche letture femministe; lei chiede piuttosto una Chimica agricola
con cui intende indottrinare i canachi, la razza che si sta spegnendo. Appena
trascorsi i cinque anni di pena, chiede di aprire una scuola in una tribù
canaca; intende risiedere tra quei feroci antropofagi per almeno un anno,
per impararne la lingua e le cerimonie. "Non si fanno seimila leghe per
non vedere niente, e senza rendersi utili". Nel gennaio 1879 si installa
presso una tribù; la partenza è delle più pittoresche:
un forzato la accompagnò fino alla barca dondolando in testa l'immensa
scatola dei gatti di Louise, un altro si era incaricato dei suoi cani. Ma
Louise sfoggiava autentiche scarpe europee; un regalo, purché buttasse
gli scarponi fuori misura dalle suole staccate con cui girava dall'inizio.
Ma anche lei aveva cucito e lavorato a maglia per i compagni del bagno.
Mentre per la Società geografica inglese continua a studiare la flora
e la fauna del luogo, Louise Michel raccoglie le leggende e le chansons
de geste canache, lavori più duraturi dei romanzi e del suo teatro,
e affascinanti quanto le memorie. Quando i canachi si rivoltano, solo Louise
si schiera alloro fianco. È veramente felice che la "razza avvilita"
degli Europei, con la loro superiorità che si manifesta essenzialmente
nella distruzione, la abbia mandata via. Una sera divide in due la sua celeberrima
sciarpa rossa, da cui in carcere aveva ritagliato la sagoma di un fiore da
fare avere a Ferré, e la offre a due canachi - vestiti completamente
a loro modo, e cioè senza nulla - che, partendo per l'insurrezione,
sono venuti a prendere da lei il coraggio. "Ne ho sempre più del
bisogno", aveva scritto una volta Louise alla madre, per rassicurarla;
e per lo più era vero.
Alla fine della vita, la veneravano; le baciavano l'orlo della gonna, ma anche
le spararono due colpi di rivoltella alla testa perché, nelle conferenze
che le costavano indefettibilmente la prigione, era unica per rianimare il senso
della parola rivolta. "Alzatevi, cacciatori di stelle", diceva, come
se niente fosse, alle "folle ingrate" di Olanda, Inghilterra, Belgio,
Algeria: "non discutiamo, ciechi che siamo", i tempi buoni in agguato.
Più che altro, si trattava di essere un po' come don Chisciotte, uno
contro tutti piuttosto che tutti contro uno.
Fonte: Daria Galateria, Scritti galeotti, Letterati in carcere. Rai Eri, 2000.