“Dire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto”
(M. Heidegger, 1973)
In nome della tutela sociale
Paradosso beffardo della società di massa, nella quale la dimensione
relazionale, dell’esserci più che dell’essere, domina il
presente di ciascuno, processo nel quale lo “stare con” sembra più
importante dello “stare”, la solitudine, esorcizzata in mille maniere,
ricompare a far compagnia al percorso sociale degli individui. Denunciata quale
sentimento che accompagna come maggioritario la vita dei giovani (i quali più
di ogni altro sembrerebbero lontani da tale condizione), essa si affianca allo
sviluppo esistenziale dei bambini, persone ancora prive di personalità
strutturata, ed esplode nella realtà degli anziani, i quali, consumato
il proprio ruolo sociale, restano travolti dalla inesorabile efficienza sociale.
Esorcizzata più volte, essa sostanzia in realtà l'esistenza dell'individuo
moderno.
Quella solitudine che spinge l'uomo così lontano dalla sua socialità
sembra essere lo stato che più rende vulnerabile il soggetto ai rapporti
esterni: essa frantuma le relazioni sociali, isola, e si presenta con più
forza in ogni momento di crisi dell'individuo, dunque quanto più per
contingenze, necessità, imposizioni, il ruolo sociale dei soggetti viene
meno. Essi restano così disarmati, fino alla dimensione estrema, descritta
da Norbert Elias, della inesorabile "solitudine del morente” (Elias,
1972).
All'interno del binomio ormai inscindibile massa-individuo, il processo del
controllo è divenuto progressivamente centrale nell’organizzazione
sociale contemporanea; esso si è sempre più staccato da una dimensione
nella quale si veniva manifestando come puro dominio per trasformarsi in potere,
riconosciuto e legittimato, costruendo assetti esistenziali ai quali è
sembrato inevitabile che gli individui, di epoca in epoca, aderissero. Sul piano
della regolazione dell’assetto sociale, centrale è stato il passaggio
da regimi nei quali era determinante l’organizzazione delle masse dall’alto,
sottraendo alle medesime ogni autonomia, a fasi storiche, recenti e attuali,
nelle quali il processo di individualizzazione si è venuto esprimendo
attraverso forme di controllo che hanno investito la persona ormai isolata e
articolata secondo status, ruoli, differenze specifiche. Insomma quanto più
il soggetto, sottraendosi alle grandi ideologie, è venuto conquistando
autonomia, differenziandosi nella costruzione della propria identità,
tanto più ha finito per essere oggetto di “attenzione”. Quel
controllo è stato in grado di condizionare (o addirittura strutturare)
il soggetto soprattutto nelle fasi nelle quali il suo distacco comportamentale
dal resto della società poteva non solo manifestare problematicità,
ma finiva per porre problemi tali da far insorgere negli altri la consapevolezza
della necessità di separarsene, di avvertirlo come contrapposto o quanto
meno non vicino.
La riflessione, apparentemente azzardata, sulla quale proviamo a ragionare è
se vi possa essere correlazione, tenendo conto della differenza manifestamente
sostanziale delle situazioni, tra processo di costruzione sociale della devianza,
reazione a un comportamento nel quale determinante è isolare il soggetto,
per poterlo “trattare” adeguatamente, essendo egli portatore in
quanto tale di uno specifico stigma/differenza (Goffman, 1970; Ciacci-Gualandi,
1977), e costruzione sociale della malattia (del malato). Percorso questo di
isolamento sociale nel quale il malato, nel ricercare le attenzioni per la "specificità"
del proprio caso, si consegna, di fatto, nelle mani dello "specialista".
In questo caso a quella "costruzione sociale della devianza" si sostituisce
una "costruzione sociale della malattia": in esso la centralità
della "cura" è interna a quella medicalizzazione che sottrae
l’individuo alla sua dimensione sociale e collettiva, spogliandolo, nella
maggior parte dei casi, delle proprie peculiarità storiche, per farlo
entrare in quelle, individualizzate e destorificate, di malato. Lo stato di
devianza, come quello di malattia, chiudono dunque il rapporto con la società,
con la natura e il sistema sociale nei quali si originano, strappando la manifestazione
comportamentale (individuata come deviante) e lo stato di malattia (diagnosticato
come presente) a ogni loro radice e natura. A essi si contrappone solo il sapere
- potere del trattamento e di chi lo eserciterà: nella capacità
e volontà di quelle competenze scientifiche si racchiude, a giudizio
di tutti coloro che riconoscono e legittimano quelle forme di sapere, la possibilità
della risocializzazione come della guarigione.
Entrambi i processi ai quali facciamo riferimento fondano il proprio successo
su un riconoscimento sociale positivo delle forme di controllo - intervento
- terapia interpretate come positive per la società e meritorie per i
soggetti che, nella loro specifica professione, operano contemporaneamente per
il benessere dell’individuo e della medesima. Di fronte a questo è
riservato, al deviante come al paziente, anche se ovviamente in forme diverse,
il silenzio, contaminato dalla relazione e subordinazione implicita all'estrinsecarsi
del linguaggio scientifico.
Non casualmente, come emerge dalla tradizione di George Mead ed Herbert Blumer,
il parlare è stato ed è accompagnato, nella maggior parte dei
casi, dalla gestualità del corpo, articolazione che ne correda, surroga,
implementa l'espressione e l'interazione. E non casualmente in varie fasi storiche,
il parlare, l’attività del corpo, la stessa autonomia di quest’ultimo,
sono state sottratte ai soggetti, processo di controllo che ne alterava e condizionava
le capacità, sottraeva loro potenzialità, recideva l’esperienza
individuale. Foucault ci ha ricordato come in più occasioni storiche
il corpo sia stato oggetto di interventi da parte del potere che gli si è
relazionato con rapporti che hanno separato, attraverso il controllo, il confine,
positivo e negativo, della sua azione, e Franco Rella ha di recente sottolineato
come la via per "umiliare" un individuo passi inesorabilmente attraverso
un'azione sul suo corpo (Foucault, 2000; Rella, 2000). Un corpo dunque che sembra
mostrare una vocazione ad essere "ordinato", plasmato, prodotto, prezzo
che deve pagare per il suo divenire e mantenersi "sociale", urbano,
contemporaneo (Grosz, 1994; Harvey, 1997). Nella tradizione il paziente non
deve interferire, con domande di "spiegazioni", con il processo di
indagine scientifica del medico.
Ieri (ed oggi), non sfugga, il silenzio è stato ed è in molteplici
casi parte di un processo di sottomissione, più o meno violento, che
riduce l’individuo a una totale disponibilità rispetto all’altro.
Come dimenticare che il processo di accumulazione primitiva si è fondato
su un percorso che ha fatto del carcere (e del silenzio nell’istituzione)
l’elemento principale del proprio successo di "intervento e civilizzazione"
su masse di vagabondi, mendicanti, contadini e sottoproletari vari (Rusche e
Kirckheimer, 1978; Melossi e Pavarini, 1977) o come sorvolare su quel silenzio
divenuto parte fondante la tragica quotidianità dell’intervento
manicomiale (Foucault, cit.; Basaglia, 1982; 2000), in un processo di annullamento
tempo/parola, che nel destrutturare il sé dell’individuo costruiva
(imponeva) una pratica terapeutica a lungo ritenuta l’unica scientificamente
fondata (ad essa, ha ricordato magistralmente Goffman, il malato doveva adeguare
la propria “carriera”, Goffman, 1968).
Dunque l’espressione moderna del corpo si è fondata sull’obiettivo
del potere (e pensiamo a un dominio che può assumere forme e colorazioni
eterogenee, la cui identificazione travalica, ovviamente e nettamente, una qualunque
parte politica ma investe invece la politica) di conquistarne, contenerne, gestirne,
controllarne, il comportamento. Quel soggetto doveva desiderare che il proprio
corpo fosse (storicamente) normale, riconosciuto come tale, dagli esperti prima
ancora che dagli altri individui. Perché questo potesse avvenire, controllo
nella libertà, era necessario che quel corpo, quel soggetto, accettassero,
ricercassero quella forma specifica di comportamento, da sentire come premessa
del proprio essere riconosciuto nella società, della propria normalità.
E ancora una volta la scienza ha sentito il bisogno di fornire una ratifica
al processo: la strada scelta è stata quella della dinamica della individualizzazione,
nella quale la condizione del soggetto avvertisse la propria differenza dagli
altri, massa anonima e clamorosa, nella quale riconoscere sé e il proprio
comportamento. In questa massa doveva e poteva parlare non più il suo
io, storia contraddittoria di una persona, ma il suo corpo, la sua rappresentazione,
fatta premessa, presente e condizione relazionale.
Conseguenza logica (e desiderata) è stata quella di un processo di colonizzazione
del corpo, della sua progressiva modernizzazione e estrinsecazione sociale,
della sua rappresentazione e delle sue forme di relazione nelle quali quel corpo
doveva raggiungere (individualmente) le condizioni che lo avrebbero fatto sociale.
Quando Simmel ricorda il ruolo della moda (Simmel, 1908) o nella società
di massa nasce e si sviluppa impetuosamente l’industria dei cosmetici,
quando il fitness parla a un corpo destorificato e fatto espressione sociale,
il processo si viene compiendo, e toglie a quel soggetto (in forma invisibile)
momenti di interazione parlata. Si è trattato così per il soggetto
di far propri, come normali, elementi che in gran parte non gli appartenevano
e che hanno scandito un suo divenire massa, sottraendolo apparentemente a una
dimensione individuale e isolata.
In nome della ragione tecnica
La normalità, nella società contemporanea, sembra dunque subire
una violenta e de-strutturante torsione semantica: da espressione volta a riconoscere
uno stato di "sanità", di "essere come", a concezione
di perfettibilità e implementazione edonistica. È audace sostenere
che oggi uno di questi momenti si realizza all’interno dell’universo
medico?
La comunità medico-scientifica, pervasa dalla concezione meccanicistica,
riconosce progressivamente negli esperimenti e nello studio razionale dei fenomeni
osservabili le uniche procedure in grado di far conseguire e legittimare conoscenze
sicure. In questo senso la sperimentazione si manifesta, in primo luogo, come
rapporto dialettico tra una esigenza conoscitiva che ripone nella massima oggettivazione
dei dati la propria certezza di verità e l’impossibilità
etica di oggettivare fino in fondo l’uomo, soggetto per eccellenza, in
tutte le sue dimensioni.
Il tentativo di oggettivare l’uomo è stato, d’altronde, un
passo obbligato della medicina occidentale: per essere guardato scientificamente
l'uomo è stato dunque oggettivato e rimosso come soggetto, lungo un percorso
che segna il passaggio dalla medicina come arte alla medicina come scienza.
Il ribaltamento imposto dall'oggettività realizza così un’antinomia
della realtà: rende soggetto un inesistente universale, la malattia,
e oggetto un particolare drammaticamente presente, l'uomo malato. Nella diagnosi
il medico sovrappone la forma del caso clinico del malato a quella delle malattie
conosciute, tentando di trovare la medesima configurazione: la diagnosi si determina
così quando la forma del malato coincide con la concezione scientifica
accreditata della malattia.
La dimensione sociale della medicina
La riduzione scientifica della medicina, ottenuta mediante la reificazione
e la rimozione del soggetto, finisce così per oscurarne ogni dimensione
sociale.
Il sapere medico costituisce dunque più che solo una lettura: esso si
manifesta in molti casi come processo di costruzione della malattia, situazione
sociale contraddistinta dal marchio dell’abbandono della normalità
e di ingresso nella sfera della condizione “diversa” (presupposizione
tacita di una "devianza").
Il medico crea la malattia: l’etichettare uno stato come patologia non
è un processo socialmente neutro e il farsene carico da parte della medicina
è in gran parte caratterizzato dal disconoscere le implicazioni psicologiche
e sociali derivanti. Il fatto di pensarsi malato ha delle conseguenze immediate
per l’identità del soggetto e quella diagnosi della malattia (peraltro
non sempre corretta) è sufficiente, nella gran parte dei casi, a introdurre
l’individuo in uno status (autopercepito) e in una “carriera”
di malato (la dimensione della "devianza" è immanente).
Occupati a chiarire un processo biologico che riguarda il corpo di un individuo,
si è spesso dimenticato l’altro volto della malattia. Essa è
non solo l’insieme dei sintomi che ci spinge dal medico, ma anche l’avvenimento
che minaccia o modifica immediatamente la nostra vita individuale, la percezione
di un mutamento, più o meno irreversibile, più o meno veloce,
del corpo, la ridefinizione per il singolo della gerarchia dell’esistenza,
delle proprie relazioni e, nel complesso, del proprio rapporto con la vita quotidiana.
Sotto questo aspetto la malattia esige sempre un'interpretazione che va al di
là del corpo individuale e dell’eziologia specifica; essa, inoltre,
comporta sempre la formulazione di interrogativi relativi alle sue cause, che
non si riducono, nella coscienza del singolo, a un batterio o a dei fattori
genetici o al carattere della sua manifestazione.
Malattia, corpo, individuo e scienza sono i pilastri della medicina tecnico-scientifica.
È concentrandosi sulle differenti manifestazioni del corpo al fine di
identificarle, organizzarle in insiemi più vasti, reperirne i meccanismi
e svelarne le diverse cause, che la medicina ha costruito il suo oggetto: la
malattia.
Il discorso medico, anche nella riduzione del tempo del rapporto (durante l'anamnesi)
e nella estraneità progressiva verso il soggetto intero che gli sta davanti,
finisce per essere spesso solo un discorso sulla malattia e non sull’uomo,
il rapporto con uno stato, con una condizione e non con un essere: il malato
sembra esserci solo come informatore di una condizione manchevole del corpo.
La medicina tecnico-scientifica, basandosi sulla malattia, ha trascurato l’essere
umano inteso come totalità bio-psichico-sociale. Peraltro quel corpo,
come già ricordato, è sempre più corpo sociale, costruito
e adattato dallo stesso individuo, a tempi, scadenze, rappresentazioni che ne
consentono l’estrinsecazione sociale: è in ragione soprattutto
di questo che avviene la legittimazione del medico.
La malattia, dunque, si è imposta come prodotto naturale, ma essa non
è una categoria obiettiva, è piuttosto un modo particolare di
mostrare la realtà sociale, che traduce i rapporti tra normale e patologico.
Ritorna così la domanda: “... lo stato patologico è soltanto
una modificazione quantitativa dello stato normale?” (G. Canguilhem, 1998).
Dalla biotecnologia alla medicalizzazione
L’era biotecnologica inaugura, nel mondo occidentale, l’epoca delle
infinite possibilità del fare e delle speranze legate all'efficienza
di questo fare: essa, tuttavia, si apre anche con un grande rischio, quello
della trasformazione della tecnica da strumento a fine. La biotecnologia, inoltre,
è strettamente legata all’economia, collegata ed inserita in un
sistema di potere tecnico ed economico, che la condiziona e ne definisce gerarchie
e campi di applicazione. L’autonomia acquisita le ha riconosciuto non
solo un ruolo di scienza tra le altre, ma anche quello di una tecnica con sviluppi
commerciali promettenti, che contribuiscono a determinare e caratterizzare lo
scenario della nostra società: il quadro che incornicia la ricerca e
lo sviluppo delle acquisizioni scientifiche.
La biotecnologia, pertanto, tende a configurare una diadebiotecno-economica
che si muove ed opera sinergicamente: l’economia rende possibile il costoso
sviluppo biotecnologico e, viceversa, l’efficacia produttiva della biotecnologia
incrementa il profitto economico. Quella diade non è moralmente neutra:
essa non fornisce esclusivamente i mezzi che, in relazione al loro uso, possono
fare bene o male, ma crea un mondo (nel quale la medicina "si sente a proprio
agio", Gouldner, 1998), che gli individui non possono fare a meno di abitare,
e nel quale la biotecnologia costituisce il paradigma secondo il quale ogni
opzione è possibile e praticabile.
In altre parole, nell’ambito della medicina tecnologica, ogni fine diagnostico
o terapeutico si svolge in un orizzonte tecnologico nel quale l’acquisizione
del necessario livello tecnico diviene il primo fine a cui aspirare, apriori
necessario per conseguirne ogni altro. La biotecnologia, quindi, rende disponibili
molti mezzi e differenti strade per raggiungere lo stesso fine.
La scelta della strada migliore, se lasciata alla sola impresa biotecnologica,
viene fatta attraverso la ragione strumentale che decide ciò che è
adeguato per raggiungere il fine. Per il conseguimento di questo primo fine,
se necessario, si sacrifica anche la produzione dei beni e la soddisfazione
dei bisogni (ma quali sono i bisogni da soddisfare e quali quelli sacrificabili?).
La risposta a tale domanda indica che la tecnologia preferisce, logicamente,
come propria unica legge oggettiva l’efficacia diagnostico-terapeutica
e l’efficienza della struttura sanitaria, principi regolatori della ragione
strumentale (Galimberti, 1999).
Tutto ciò avviene a scapito dei bisogni assistenziali complessivi, i
quali, personali e soggettivi, sono mal definibili con le categorie d’efficacia
e d’efficienza. Se non si prende in considerazione anche il fattore che
rappresenta l’aspetto propriamente etico della dignità, della salvaguardia
dei diritti e della dimensione spirituale umana, del rispetto di status e ruolo,
storia, relazioni e memoria di soggetti che “incappano” nella tecnologia,
si introduce nell’analisi della ragione strumentale ciò che i biostatistici
chiamano errore sistematico. La smisurata disponibilità biotecnologica
impone la necessità del "fare", che prevale di gran lunga sull’"agire".
La medicina non può così stare senza fare, perché nel momento
in cui dicesse “non c’è più niente da fare”
decreterebbe il proprio fallimento. La tecnologia, con la sua smisurata disponibilità,
appare così senza limiti. Questa condanna all’infallibilità
e all’incomprensione del limite si è configurata definitivamente
nella medicalizzazione della società: ma è proprio la forza delle
biotecnologie a determinare (e/o accelerare) la medicalizzazione della società?
Per enunciare la nostra ipotesi, di una progressiva medicalizzazione della nostra
società, articoliamo qualche esempio, più o meno banale, per tornare
poi alla dimensione centrale del ragionamento.
Un numero crescente di spot pubblicitari (per i quali l’investimento economico
fatto dalle rispettive ditte non è certo indifferente) affida la propria
efficacia al messaggio che il loro prodotto è stato “clinicamente
testato”, processo che non vuol dire sostanzialmente nulla sul piano della
garanzia di rilevanza scientifica di quel prodotto, ma che rinvia all’idea
che il procedere scientifico lo abbia in qualche modo investito, contaminandolo
positivamente e offrendolo così garantito al consumatore.
Il diffondersi in misura senza precedenti delle analisi sanitarie strumentali
svolte dalla popolazione tramite più o meno sofisticate apparecchiature
tecnologiche, non corrisponde in gran parte a un avvento della prevenzione (es.
mammografia), ma dell'incertezza (es. Tomografia Assiale Computerizzata, ecografia,
ecc.). Quelle indagini, spesso inutili, come è pronta, in un discorso
privato, a riconoscere la gran parte dei medici, mostrano un bisogno di rassicurazione
circa la propria salute, lo stato del proprio corpo, che i cittadini ritengono
di poter ottenere attraverso uno strumento tecnico che in qualche modo più
del medico dia loro risposte tranquillizzanti.
Il rapporto con il medico avviene ormai in genere anzitutto con quello che è
chiamato il medico di base. Non sembra interessante riproporre analisi, già
fatte, di questa figura, ma fare riferimento invece a un altro elemento. Quel
medico, per essere efficace ai nostri occhi, deve tradurre la riduzione di tempo
che dedica ai suoi assistiti, il rapporto sempre più fugace con la storia
di un corpo, di tanti corpi, di tante vite, ad un numero di medicine che quel
suo interesse (mancato), quel tempo di relazione e di memoria sociale venuti
meno devono saper ritradurre, riproponendo, farmaco dopo farmaco, il meccanismo
di rassicurazione (e tutela) storicamente affidato a un rapporto sociale. In
tempi apparentemente lontani Giovanni Berlinguer distingueva nel merito del
problema tra atti “terapeutici” esercitati dal medico, e quanto
metteva in realtà in movimento un atto “sanitario”, un qualcosa
cioè che travalicava il caso singolo ponendosi il problema di intervenire
anche sulla realtà complessiva della malattia (Berlinguer, 1973). E Zygmunt
Bauman ricorda i meccanismi complessi che sono dietro la costruzione dell’incertezza
e dell’insicurezza: se la nostra società tende a rassicurare la
dimensione pubblica dei soggetti ma li aggredisce in ogni loro nicchia privata,
quanto si manifesta sul piano della potenziale crisi del soggetto, della erosione
della sicurezza del suo corpo e del suo vivere, assume certo un carattere “eclatante”
per l’individuo (Bauman, 2000).
Per tornare al nostro interrogativo è lecito affermare che il processo
di medicalizzazione è la riduzione a termini medici di fenomeni che non
appartengono necessariamente alla medicina. Esso nasce con la scienza medica
e si compie nel nostro secolo al ritmo delle accelerazioni esistenziali e relazionali
che, lungo il percorso storico, hanno reso l’uomo presente e attivo, ma
anche necessariamente sano, premessa e pena, come malato, di esclusione sociale.
La medicina nel suo processo di medicalizzazione, rispondendo a una sofferenza
del malato la cui origine può' essere individuata in un disagio prodotto
da cause sociali e ambientali, offre o impone un'interpretazione a una sola
via del suo disturbo. In questo senso essa ingloba nel suo terreno settori sempre
più ampi di disagio che, per la sua stessa natura separata, tende a medicalizzare.
Di questo processo di medicalizzazione è fattore primario la traduzione
in termini medici di problemi che dovrebbero essere affrontati con misure sociali.
Infatti mentre il malato resta solo con la sua malattia all'interno del proprio
mondo di bisogni, la conoscenza di quel corpo e di quella patologia lo pone
ai margini della vita relazionale e sociale. Questo processo di esclusione non
è altro, per dirla con Lemert, che il passaggio da una devianza primaria
- etichetta di malato che attribuisce il medico al suo paziente - a devianza
secondaria - l’individuo restituito, all’interno di questo processo,
alla sua quotidianità sociale, finisce per riconoscere ed interiorizzare
il suo nuovo status, con il quale ritorna nel contesto in cui vive (Lemert,
1951; 1964). I bisogni di una persona malata sono segnatamente volti alla soddisfazione
legata al processo patologico che sta esperendo: è solo la malattia che
parla e che si fa ascoltare.
Nel caso dell’intervento medico il progresso scientifico rischia di determinare,
quindi, la reificazione del corpo, l'abolizione di ogni suo legame con il contesto
sociale del quale è prodotto e attore di interazione, insomma una drastica
eliminazione della soggettività.
La medicina deve (vuole) rispondere a ogni disagio dell'uomo che si esprime
attraverso la sofferenza fisica o psichica: nel momento in cui la salute diventa
un valore astratto, necessario, possibile e realizzabile, l'uomo non è
più disposto ad accettare il minimo disagio senza un rimedio.
Il potere della medicina e delle sue articolazioni si estende così a
ogni momento della vita: del resto l'annessione di zone sempre più ampie
di antiche responsabilità umane non sarebbe potuta avvenire senza la
delega, incessante e senza condizioni, che il cittadino ha dato alla medicina
stessa. Così il trionfo della medicina avviene con la resa del singolo
che si illude di alienare il suo soffrire, riponendolo totalmente nelle mani
efficaci e sicure dei camici bianchi. La drammaticità della medicalizzazione
della società è che essa non produce una comunità sana,
ma una società malata. Infatti, quando ogni atto significativo è
iscritto nel dominio della medicina e diviene un atto medico, esso porta dentro
di sé, costitutivamente e irriducibilmente, un’ipotesi di malattia.
La tecnologia e l’etica medica: dal paziente al cittadino
Con l’ingresso della tecnologia nella medicina, il processo di matematizzazione
della realtà annette nuovi regni: anche l’etica medica, una volta
luogo incontrastato della riflessione antropologica, deve fare i conti con le
esigenze economico-scientifiche e il suo linguaggio viene contaminato da nuovi
fonemi: rapporto costi-benefici, standard, indicatori, verifica di qualità;
tutti concetti che si rifanno al computo dei valori relativi, misurabili e confrontabili,
dell’economia, piuttosto che ai luoghi del valore assoluto della vita
e della salute del soggetto, antico insediamento del medico.
Il rapporto fra l’esigenza antropologica e quella scientifica si è
andato evolvendo nel tempo, modificandosi ampiamente negli ultimi trenta-quaranta
anni. Oggi si avverte la sua sproporzione a favore della parte scientifica (apparati
tecnologici della diagnosi e della terapia), rispetto alla componente antropologica
che esigerebbe assistenza e comprensione. Dunque un rapporto distorto che tende
a divenire internamente conflittuale, e così il termine di disumanizzazione
della medicina indica chiaramente la perdita di quell'elemento antropologico
necessario affinché l’azione del medico non sia solo un momento
diagnostico, ma un atto umano tra uomini.
La disumanizzazione ha a che fare con il concetto di dignità umana: indica
insomma un’irruzione distruttiva nel nucleo della dignità dell'uomo.
Dunque l'uomo-paziente: il termine paziente (Cavicchi, 2000) che ha dominato
nei testi di etica medica tradizionale e nei codici deontologici potrebbe perdere
terreno a favore di cittadino. Lungo quale processo? La parola paziente presuppone,
etimologicamente e storicamente, una passività, estrinsecantesi tradizionalmente
nel subire un dolore, nel soffrire una malattia, nell'esserne stato colpito
(la sofferenza è sempre subita). Paqoz, nella sua forma originaria, denota
l'essere colpito dall'esterno, indipendentemente dalla determinazione positiva
o negativa dell'evento che colpisce. Successivamente assume la valenza negativa
di sofferenza, di sciagura che colpiscono il soggetto a cui rimane solo la passività
del subire: da qui la pazienza come capacità di sopportare. Il termine
paziente presenta dunque anche storicamente una passività nel senso di
essere l'oggetto (passivo) della diagnosi e dell'intervento del medico. La malattia,
pertanto, è anzitutto una forma di devianza biologica, determinata dalla
anamnesi-diagnosi-cura del medico al paziente, che ne fa categoria e condizione.
La malattia diviene paradossalmente fatto individuale e sociale: ricorda infatti
Marc Augé, che pensare alla propria malattia significa già fare
riferimento agli altri (Augé, 1986). Definita in un dato contesto clinico,
la malattia non può quindi prescindere da tutte le rappresentazioni sociali
costituenti il “sistema cognitivo” di una data popolazione: la sua
rappresentazione è perciò strettamente correlata con l’immagine
di uomo elaborata all’interno di ogni collettività sociale. Così
la definizione di malattia non può far a meno di una definizione di individuo-
singolo-uomo (Kleinman, 1980).
La malattia, ancora, è un fatto sociale poiché l’infermità
del singolo coinvolge il suo gruppo. Non solo poiché l’evento destrutturante
inibisce gli atti funzionali della quotidianità nel soggetto affetto
da una patologia, fisica o psichica, all’interno della sua comunità,
ma anche perché una condizione di male-essere, attraverso il malato,
viene resa evidente, raffigurata in un soggetto reale, diventa minaccia effettiva
nel contesto in cui un evento di malattia viene a determinarsi.
Dicevamo, quando un ammalato entra nell'orbita delle cure di un medico diviene
un "suo" paziente.
E il medico, in quanto agente morale, doveva regolare i propri rapporti esclusivamente
con il paziente, cosicché il sapere richiesto dall’agire morale,
alimentato nell’etica medica tradizionale, non esigeva particolari competenze
né conoscenze specializzate. Nel regno dell’etica medica tradizionale,
dominato dall’universalità del principio di “beneficialità”,
si realizzava la lezione kantiana relativa al dominio razionale della correttezza
dell’agire morale.
Attualmente la domanda: 'come dovrei orientare le azioni professionali nei confronti
del paziente' non costituisce più il principio dell’azione del
medico, proprio perché l’etica medica tradizionale non è
in grado di contenere in quella risposta l’intero mondo morale.
Oggi perciò è necessario un approfondimento della ricerca relativo
a come dovrebbe rispondere il team di operatori socio-sanitari alle richieste
di salute del cittadino.
Se analizziamo questa seconda parte della riflessione richiesta all’etica,
troviamo termini che illuminano i cambiamenti della medicina. Non soltanto gli
infermieri professionali, ma dai tecnici agli amministratori, ognuno entra a
far parte di un discorso che, fondando le radici nell’etica medica tradizionale,
investe i mutati caratteri del rapporto medico/paziente. Si ripropone così
il concetto di salute: compito del medico non è solo quello di combattere
la malattia, in una lotta nella quale la salute è nascosta o comunque
gioca un ruolo del tutto secondario, perché quella salute diviene organica
al rapporto con tutti i problemi che tale ingresso comporta.
Il termine paziente perde così di significato e ad esso subentra quello
di cittadino. Quindi esso rappresenta un processo che ha al proprio centro il
prendersi cura di un soggetto ammalato, conservando quel tanto di passività
che avevamo indicato precedentemente.
È sempre meno automatico, oggi, che il soggetto si riconosca nello status
di paziente. Il passaggio dal paternalismo medico al riconoscimento dell'autonomia
del paziente esige un soggetto "agente", con un’attività
nei confronti della propria salute che il termine paziente sembra non concedere.
Inoltre, il concetto di medicina preventiva fa sì che il soggetto possa
presentare al medico dei problemi di salute (con risvolti sempre sociali), piuttosto
che di mera malattia. Il soggetto non deve essere per forza già “malato”,
prima di andare dal medico: la malattia non è il suo destino. Con il
termine cittadino si ribadisce così invece il ruolo decisionale sempre
più importante che la persona può assumere nell'ambito del proprio
percorso esistenziale. Il cittadino dunque non è da considerarsi l’ultimo
degli attori sociali nel rapporto con l’universo sanitario. Egli non solo
ha il diritto e la necessità di essere informato, ma ha il dovere di
potere orientare la propria domanda nella consapevolezza di una scelta che segna
una rottura con il canone tradizionale del rapporto medico/paziente, ancora
troppe volte fideistico. Infatti il passaggio da paziente a cittadino si determina
e può determinarsi solo nel momento in cui egli riesce a far sentire
la sua voce, ma soprattutto, le proprie esigenze nel rispetto della dignità
umana emblematizzata dalla non oggettivazione (reificazione) del proprio corpo.
Conclusioni
Obiettivo della nostra riflessione non era di giungere a conclusioni specifiche quanto di evidenziare, attraverso una serie di spunti, la constatazione desolante di processi che continuano a sottrarre umanità ai soggetti, devianti o malati, ad accentuarne il processo di reificazione, allontanando dal rilevabile la sostanza della vita quotidiana (Gouldner, cit.), a individuare, senza falsi esorcismi e nella consapevolezza di un suo ruolo comunque sostanziale, rischi consistenti all'interno dell'uso della scienza.
Riferimenti bibliografici
Augé M., Ordine biologico, ordine sociale. La malattia, forma elementare
dell’avvenimento, in Augé M. e Herzlich C., 1986.
Basaglia F., Conferenze brasiliane, Cortina, Milano, 2000.
Basaglia F., Salute /Malattia, Einaudi, Milano, 1982.
Bauman Z., In Search of Politics, Feltrinelli, Milano, 2000.
Berlinguer G., Medicina e politica, De Donato, Bari, 1973.
Canguilhem G., Le normal et le pathologique, Einaudi, Torino, 1998.
Cavicchi I., L’uomo inguaribile. Il significato della medicina, Editori
Riuniti, Roma, 1998.
Ciacci M. - Gualandi V. (a cura di), La costruzione sociale della devianza,
Il Mulino, Bologna, 1977.
Desowitz R.R., Who gave Pinta to the Santa Maria? Riccardo Fioriti Editore,
Milano, 1999.
Elias N., La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna, 1972.
Eschilo, Prometeo Incatenato, in Idem, Tragedie e Frammenti, UTET, Torino, 1987.
Foucault M., Les anormaux. Cours au college de France. 1974-1975, Feltrinelli,
Milano, 2000.
Galimberti U., Psiche e Tecne. L'uomo nell'età della tecnica, Feltrinelli,
Milano, 1999.
Goffman E., Stigma, Laterza, Bari, 1970.
Goffman E., Asylums: Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other
Inmates, Einaudi, Torino, 1968.
Gouldner A., Sociology and Everyday Life, Armando, Roma, 1998.
Grosz E., Bodies-cities, in Colomina Barbara (a cura di), Sexuality and Space,
Princeton University School of Architecture, Princeton, 1994.
Harvey D., Il corpo come strategia dell'accumulazione, Edizioni Punto Rosso,
Milano, 1997.
Heidegger M. Unterwegs zur Sprache, 1973.
Kant I, Gundlegung zur Metaphysik der Sitten, 1785.
Kleinman A., Patients and Healers in the Context of Culture, University of California
Press, Berkeley, 1980.
Lemert E., Social Pathology, Free Press, New York, 1951.
Lemert E., Anomie and Deviant Behavior, Free Press, New York, 1964.
Melossi D. - Pavarini M., Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario,
Il Mulino, Bologna, 1977.
Rella F., Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano, 2000.
Rusche G. e Kirchheimer O., Punishiment and Social Structure, Il Mulino, Bologna,
1978.
Simmel G., Die Mode, Longanesi, Milano, 1985.
Vineis P., Nel crepuscolo delle probabilità. La medicina tra scienza
ed etica, Einaudi, Torino, 1999.