Mammagialla
Diario di una carcerazione

di Claudio Dionesalvi
Frammenti scelti dall'autore

Prefazione di Giuseppe Mazzotta

Introduzione

Venerdì 15 novembre 2002, Cosenza, via Miceli n° 5, ore 0,30

Venerdì 15 novembre 2002, Questura di Cosenza, ore 3,30

Venerdì 15 novembre 2002, Questura di Cosenza, ore 6

Venerdì 15 novembre 2002, sulla strada verso Trani, ore 11

Sabato 16 novembre 2002, carcere di Trani

Lunedì 18 novembre 2002, Mammagialla, Viterbo

Martedì 19 novembre 2002, Mammagialla, Viterbo

Fonte: Claudio Dionesalvi, Mammagialla, diario di una carcerazione. Edizioni Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2003


***


A mia madre Irene
A mia zia Maria
per avermi fatto crescere
nell'amore.

…Ara facc'i chini mi vò mali.

Nei tre mesi successivi all'arresto, il mio computer è stato posto sotto sequestro dall'autorità giudiziaria. Per scrivere questo libro, ho dovuto lavorare sui Pc messi a disposizione da parenti ed amici. A loro ed a quelli che mi hanno aiutato ad addolcire la consueta virulenza del mio linguaggio, va un particolare ringraziamento.
A Loredana, che ha avuto la pazienza di sopportare i miei sbalzi d'umore, il più tenero di tutti i baci.


***


Prefazione
"La giustizia non può sopportare l'ingiustizia" scrive Seneca né "la fermezza del saggio": partire da questo può aiutare a meglio comprendere il problema della carcerazione e come e quanto sia sempre più urgente ed importante aprire un dialogo ed un confronto proprio sulla necessità che esista il carcere prima e più ancora che sulla adeguatezza delle attuali strutture.
Certo è difficile sperare di trovare, specie di questi tempi, molte persone disponibili ad unirsi sotto lo slogan "aboliamo la carcerazione"; e sarebbe assai facile per tutti i tanti altri rimproverare a pochi assertori di così folle progetto la incapacità di offrire una soluzione diversa dalla privazione della libertà quale sistema di controllo e poi di pena.
Ma il non essere capaci di offrire una soluzione alternativa non può impedire di denunciare come la carcerazione ed il carcere siano strumenti di oppressione e tortura non certo accettabili da una società moderna e civile.
Il carcere è una patologia per la civiltà degli uomini ed ancora più facilmente ciò si comprende quando si è costretti, per i più vari motivi, ad avvicinarsi a tale realtà.
Ciò che immediatamente colpisce è il constatare come l'arresto debba subire la perdita assoluta della propria dignità e della propria identità.
Nel momento in cui le manette scattano attorno ai polsi di un cittadino questi perde il proprio titolo (avvocato, dottore, ingegnere, professore, signore), la propria etica (sei un probabile colpevole reo), la propria intimità (tutti devono sapere di te).
È difficile capire cosa c'entri tutto questo con la necessità di punire chi ha violato le leggi o anche solo le convenzioni sociali: è diverso l'effetto di punizione se il secondino ti si rivolge a te detenuto dandoti del lei e riconoscendoti il titolo che ti spetta e che, la maggior parte delle volte, non hai perso? Perché mai si deve pensare all'arrestato sempre più avendo in mente che sia un probabile colpevole e non un probabile innocente? Perché i giornali devono poter a tutti far conoscere della tua vicenda senza che questa pubblicità sia finalizzata ad evitare possibili pericoli agli altri cittadini?
Accanto a queste, tante altre mortificazioni e violenze, tutte altrettanto inutili: perché le fotografie segnaletiche e le impronte digitali se non sono necessarie per il prosieguo delle indagini? Perché la privazione dei propri oggetti personali o di valore o di svago se la custodia cautelare ha solo finalità di prevenzione e non di pena e la carcerazione deve avere finalità di rieducazione e recupero e non deve imporre afflizioni suppletive alla privazione della libertà? Perché celle con tante, quasi sempre troppe, persone che mai avresti voluto conoscere e o frequentare? Perché non puoi avere una tua cucina, un tuo frigorifero, un tuo bagno, una tua doccia?
Tanti altri perché potrebbero seguire; la lista è infinita.
Ma il carcere non può essere un albergo a cinque stelle, e nemmeno a quattro, e nemmeno ad una. Il carcere è luogo di pena ove scontare la sanzione che la società, tramite i "suoi" giudici, ti ha irrogata: ma questo quando vi è una sentenza che riconosca la tua colpevolezza. In presenza di una misura cautelare e dinanzi, quindi, ad un probabile innocente il carcere invece dovrebbe essere solo luogo nel quale si viene sorvegliati per evitare che si inquinino prove, che si commettano nuovi reati, che si fugga.
Cosa osta, allora, acchè il probabile innocente conservi tutti i suoi diritti ed anche le sue quotidiane abitudini? Acchè abbia un proprio bagno tra quattro pareti, una propria doccia, epperchenò?, il proprio dopo barba? Quale pericolo alla genuinità della prova se il probabile innocente è messo in condizione di non dover sentire i rumori intestinali del suo vicino di cella? Quale possibilità di commettere reati se al probabile innocente si consente, al mattino, di dormire fino a quando ne abbia voglia? Quale pericolo possibile di fuga se al probabile innocente si consente di utilizzare proprie lenzuola o proprie posate?
Ma il carcere non è un albergo neanche per chi è probabile innocente e molte volte (il più delle volte) poi riconosciuto certo innocente.
Tanti oggetti non possono entrare nella cella, e quindi restare nella vita del detenuto, perché potrebbero essere (sono) pericolosi per la incolumità del detenuto stesso e degli altri colleghi di sventura.
È doveroso, allora, chiedersi se sia costituzionalmente e moralmente accettabile questa così evidente e profonda diversità di trattamento tra i cittadini che formano la collettività che si vuole difendere attraverso l'arresto di quel probabile innocente e quei cittadini cui non viene nemmeno garantito di essere custoditi in un ambiente che non costituisca un pericolo anche alla propria incolumità personale.
La sperequazione è evidente e non trova alcuna possibile spiegazione e giustificazione.
Sono in galera perché devi indagare su possibili mie responsabilità, vige il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva epperò io devo essere privato di tutti i miei minimi diritti, di tutte le mie abitudini, di tutti i miei confort perché tu Stato non sei capace di offrirmi alcuna garanzia circa la mia incolumità fisica tanto che io debbo temere o che la mia mente mi abbandoni ed io mi suicidi o che altro detenuto possa uccidermi e dunque, per questo, devo essere privato anche di tutti i miei oggetti di conforto.
Tutto questo è palese, evidente ingiustizia: può la giustizia sopportarlo? Seneca diceva no!
Il libro di Claudio Dionesalvi, ma, prima ancora, quanto a lui è accaduto offre momenti ed immagini che impongono di rispondere come rispondeva Seneca.
Arrivare all'alba a casa di un giovane alle forze dell'ordine noto come certamente non pericoloso, certamente non violento, certamente non in possesso di arsenali; arrivare con i nuclei speciali composti da persone travisate ed armate; disporre che lui come tutti gli altri ragazze e ragazzi vengono tradotti presso la casa circondariale di Trani; pubblicizzare con risalto nazionale da prima pagina l'arresto di queste donne e di questi uomini quasi fossero certi terroristi, certi eversori, certi colpevoli; l'aver fatto tutto questo è conforme alla giustizia comunque intesa? No!
Epperò tutto questo è necessario perché la carcerazione serve ad indebolire i soggetti che qualcuno già vede o vuole colpevoli; perché la mente quando il giudice arriva ad interrogarti deve essere piena di paure e priva di serenità; perché l'animo deve cedere per farti confessare ciò che non è.
Solo se questa finalità sappiamo vedere nella custodia cautelare all'interno dell'attuale sistema carcerario riusciamo a comprendere - senza mai apprezzarle e condividerle però - quelle abnormi distonie tra i principi legislativi che regolano la materia e le mortificanti privazioni cui vengono costretti gli incarcerati.
Carcere come strumento di tortura, dunque, come la garrota e la ruota, come i carboni ardenti e le fruste, come i cubicoli e le luci accese per tutta la notte.
Alla tortura abbiamo già detto no, e certamente anche oggi quasi tutti si è ancora contro quei sistemi. Ma il carcere altro non è che la nuova tortura, quella che ha sostituito l'olio bollente e la pece: ed anche ad esso bisogna dire no.
Non siamo, però, capaci di offrire una alternativa; la nostra anima, il nostro cuore aborrono la tortura ma la nostra mente, la nostra intelligenza, la nostra cultura non sono capaci di indicare una strada diversa.
Ed allora tortura, ed allora carcere.
No, questa logica non mi convince, qualcosa non va, non può essere così. Giustificare ciò che giusto non è, sol perché non si trova niente di meglio, non può appartenere alla morale, all'etica dell'uomo civile e democratico, non può essere la linea guida di una comunità.
Il carcere, questo carcere, è un problema del nostro tempo e non dobbiamo evitare di affrontarlo per evitare che accada ciò che si legge in una splendida, significativa poesia: "vennero a prendere gli ebrei, ed io non parlai: non sono ebreo; vennero a prendere i comunisti, ed io non parlai: non sono comunista; vennero a prendere i sindacalisti; ed io non parlai: non sono sindacalista; vennero a prendere me, e non c'era più nessuno che potesse parlare".

Giuseppe Mazzotta


***


"Gian Luigi Pascale, la Santa Romana Chiesa ci ha dato il triste incarico di decidere della tua sorte. Tu sei accusato di eresia, di bestemmia, di corruzione del popolo. Che hai da dire in tua discolpa?

Soltanto chi è colpevole si discolpa. Io non ho mai commesso alcun delitto,
e pertanto non devo chiedere a voi né grazia né perdono".
Franco Dionesalvi, "La Casa del Mago"

Quel maledetto dente del giudizio non voleva venire via. Era talmente aggrappato all'osso, che ad ogni tentativo, sembrava mi staccassero l'anima.
Avevo la sensazione che la mandibola stesse per cedere.
- Tira, Tira. Afferra. Blocca la lingua. Ecco, ci siamo quasi. Hop, hop. Macché. Niente da fare. Asciugagli le labbra và. Anna, ti dispiace per favore aspirargli un po' di sangue? Adesso riproviamo, però devi aprire bene la bocca. Uno due tre, via. Niente. Aspetta, dobbiamo segarlo ancora un pochettino.
Il dottore Lofeudo è un dentista esperto. Cinquantamila ore di aggiornamento. Riceve da anni nel suo studio di Guardia Piemontese, un piccolo centro sulla costa tirrenica cosentina. È un uomo di cultura, uno di quelli che esercitano la professione con grande serietà e prendono pure la politica sul serio, ma talmente sul serio da non riuscire a sopravvivere più di cinque minuti in un partito.
Ha un'unica piccolissima deformazione professionale.
Se scopre che te ne intendi, è capace di parlare di politica pure mentre ti sta lavorando in bocca. Non importa se si tratti di una banale carie, o di un delicato intervento.
E siccome è un sincero democratico, chiede sempre cosa ne pensi.
- Il problema della Calabria è nella classe dirigente che esprimiamo. Sono uomini vuoti. Non hanno ideali né valori. Se dovesse passare la devolution, le altre regioni sarebbero capaci di governarsi, ma per noi sarebbe la fine. Sei d'accordo?
- Aghh. Ghhh. Effeccivamence shi, sh'è un poblema cutturale. Ahi.
Lofeudo è una figura molto dolce, ma pur sempre un dentista. Parole di incoraggiamento, tono distensivo. Però al momento giusto, quando meno te lo aspetti, zac! Senza pietà. Ad ogni tentativo di cavare quel fottutissimo dente, Anna, la storica assistente, mi guardava con aria compassionevole. I suoi occhi parlavano l'antico linguaggio delle donne, che soltanto noi orfani riusciamo a captare al volo:
- Povero ragazzo, non gli bastava la batosta del carcere. Mò pure sto supplizio gli tocca subire.
Lofeudo era affiancato da un illustre dentista professore specialista napoletano. Un altro che modestamente se la sente. L'unico inconveniente è che anche lui si intendeva di politica e, purtroppo, di movimenti.
Non capita tutti i giorni di ritrovarsi un sovversivo sotto i ferri.
- Oé guagliò, chelle ca nun capisco è pecché v'avit'a truvà sempre rint'e guaie. Vuie noglobàl me parite persone intelligenti, però quand'iate 'ncoppa a televisione, diventate nu terremote. Ata' cuntrullà nu poche u linguaggio, altrimenti poi nun v' putite lamentà si state tutt' nguiate.
- Shi dottò, anzi professò, effeccivamence… Ahi.
Lofeudo insisteva. Eravamo ormai al settimo tentativo. Il giudizio non mi voleva lasciare. Di tutti i dolori patiti nella vita, questo qua è il peggiore. Ti fa rasentare la follia. Tocca il cervello. La sofferenza da mal di denti ha un qualche cosa di medievale. Vengono in mente i vattienti di Nocera Terinese, i flagellanti. Sul lettino del dentista, tra uno schizzo di saliva e l'odore dolciastro del sangue, la fantasia comincia a galoppare. Le modificazioni di coscienza si impadroniscono del cervello.
Ed appaiono immagini, frammenti di un tempo perduto, attualizzato dalla voglia di sfuggire anche per un istante al dolore. Qualsiasi stronzata è buona per distrarsi.
Nel medioevo era diffusa la consuetudine di torturare i detenuti accusati di delitti efferati, nella segreta speranza che un miracolo, un prodigio qualsiasi, intervenisse a dimostrarne l'innocenza. Una società che inseguiva forsennatamente il paranormale, nell'esercizio della giustizia, usava l'oltretomba persino come cartina di tornasole del crimine. Il verdetto finale, qualcosa di simile all'odierna Cassazione, era affidato alla dimensione divina. I poveracci sospettati di aver commesso un reato, venivano accalappiati e sottoposti al pubblico ludibrio. Poi si vedeva se era il caso di giustiziarli o lasciarli liberi.
Tanto per cominciare, li si incatenava, nell'attesa che accadesse qualcosa.
Nello studio del dottore Lofeudo, si materializza nella mia fantasia la scena di un probabile dialogo tra due boia medievali:
- E' lui che ha ucciso quell'uomo. Cosa ne dite?
- Sì, potrebbe anche essere. Ma solo il Signore altissimo può dirlo, carezzando i nostri putridi corpi con l'alone della sua immensa grazia. Orsù arrostiamo, con la lama arroventata, i palmi delle mani del peccatore e fasciamole con del fresco fieno. Incateniamolo ad un pesante fardello, simbolo della gravità del delitto. Lasciamo che vaghi ramingo per la contea. Al sorgere della terza luna, s'egli avrà ricevuto il divino spirito del perdono, le sue mani saranno guarite e potrà tornare libero. Ma in caso contrario, il fio delle sue colpe sarà espiabile con lo squartamento delle membra. Il sacrificio restituirà luce a quest'anima dannata.
- Ma non sarebbe meglio cavargli tutti i denti? Se in tre giorni ricresceranno, il miracolo sarà inoppugnabile e il peccatore verrà scagionato.
- E sia, strappiamo codeste zanne dalle gengive. Una prova vale l'altra.
I denti, all'epoca, venivano via al primo colpo, sospinti da urla bestiali. Ovviamente si trattava di una pratica di tortura, non di un intervento terapeutico.
Improvvisati dentisti ci saranno pure stati ma, a differenza di Lofeudo, non dovevano andare molto per il sottile.
La mia zanna, invece, continuava a restare ancorata alle gengive, come il Sindaco di un paesino di provincia, perennemente avvinghiato alla sua poltrona.
Quel molare aveva una minuscola gobba incastrata nell'osso. Strapparlo senza frantumarla, sembrava impossibile. Ad ogni strattone, la mascella si ribellava e pareva sul punto di crollare. Ma l'anestesia fortunatamente reggeva, a testimoniare la sicurezza della modernità. È bello sapere che qualcuno ha inventato per te un presidio contro la sofferenza.
Nel medioevo non l'avevano ancora scoperto. Però un modo per scovare streghe, sovversivi e delinquenti era stato già escogitato. Intanto ti acciuffavano.
Poi, si vedeva. Se accadeva qualcosa, potevi sempre tornare in libertà.
Più o meno quello che succede oggi, quando ti applicano la custodia cautelare.


***


Venerdì 15 novembre 2002, Cosenza, via Miceli n° 5, ore 0,30
"Canta la gallina Canta il gallo
ecco Mussolini che monta a cavallo
canta il gallo canta la gallina
sicuro che a ogni notte segue una mattina"
Giovanni Lindo Ferretti, "Settanta"

Driin
- Oi mamma, chi cavolo sarà a quest'ora?! Loredà, forse è Giucas che s'è scordato qualcosa!?
Driin. Il campanello di casa mia è una tromba del giudizio, sparata ad un metro e mezzo dalle orecchie. Il letto fluttua alla stessa altezza della soneria. Non c'è bisogno di alzarsi, per mandare a quel paese chi ti sveglia nel primissimo sonno:
- Ma chi cavolo è? Chin'è…ncul'a Satana!?
- Aprite, polizia!
L'ultima volta che me li ero ritrovati in camera, saranno state le 6 di un mattino d'estate e li aveva introdotti mia madre:
- Clà, vedi che c'è l'ispettore. Dice che deve parlarti.
In quel caso, dormivo nel lettone matrimoniale. Ero appena uscito dalla sala operatoria. Una gamba spezzata in due, e diversi ematomi, dopo le cariche della polizia in curva al termine di Cosenza-Brescia. Comunque, erano venuti solo per perquisire. Mi estirparono agende, fotografie, il computer e via. Li aveva mandati un Pubblico ministero intrippato. S'era fissato con me. Voleva a tutti i costi che gli rivelassi le fonti di alcuni miei articoli. E visto che continuavo a dirgli elegantemente di andare a quel paese, aveva deciso di fregarsi momentaneamente le mie carte per frugarci dentro.
- Driin, Driin
Stavolta, invece, alla porta devo presentarmi per forza io, insieme a Loredana.
Non c'è mia madre a chiedere: "Volete il caffè?"
I poliziotti, d'altronde, non hanno l'aria di chi vuol fare colazione, e magari togliere subito il disturbo. La porta si schiude ed appaiono due facce nostrane. Digos. Gente vista e rivista in quindici anni di stadio, cortei e marciapiede. Ma ad un certo punto la curiosità prende il sopravvento e lo sguardo si spinge sul pianerottolo. Hiii. È lì che capisco per la prima volta che mi sta accadendo qualcosa di assolutamente eccezionale.
Non le avevo mai viste prima da vicino. Solo in televisione, o sui libri che parlano degli anni settanta. Incredibile, sono venute a prelevarmi le guardie imperiali, in persona! Due sbirroni alti e grossi da fare paura, con il passamontagna del Ku klux Klan e i mitra spianati.
Porco Giuda, questi mi sequestrano. Non è la solita perquisizione. Lì per lì, ad uno sbirro più umano glielo chiedo pure:
- E' successo un colpo di Stato? Mi state portando via?
Quello risponde come da copione.
- Piano con le parole. Si segga che ho una cosa da leggerle. E poi si prepari, ché deve venire con noi.
Addio. Fine della storia. Te ne stavi dormendo tranquillamente. Domani è il compleanno di Loredana. Il vino per la festa è arrivato apposta da Segesta.
E mò che vogliono questi? Io devo fare quattro ore di lezione a Lauropoli, domani.
Ho già preparato i video per i ragazzi.
I ragazzi. Chi glielo spiega perché sono finito in galera?! Aspetta un momento, ma non lo so nemmeno io. Le gambe si fanno morbide, il respiro aumenta. Sudo. Un amico dottore mi ha detto che in questi casi, quando il sistema nervoso si scuote troppo, bisogna sedersi comodi, stendere le zampe e respirare a fondo. Devo farlo subito. Non voglio stare male davanti a questi. Anzi, sai che ti dico. Non voglio stare male per niente. Ritorno sui poliziotti:
- Insomma, si può sapere perché mi state arrestando?
Sul tavolo c'è un malloppone di fotocopie rilegate da una fibbia di plastica rossa. Quasi un sigillo! Il tipo mi fa segno di dare un'occhiata. Metto a fuoco la prima pagina. Zummo sui nomi degli altri compagni di sventura. I primi non mi dicono niente.
- Ma io a questi neanche li conosco…no, aspetta, porco Giuda, avete arrestato anche Annetta e Gianfranco…o mio Dio, Antonino, Michele, Giancarlo, Cirillo e Lidia.
L'elenco si chiude, e finalmente appare l'accusa: "Associazione sovversiva, Cospirazione politica".
Droghe lisergiche, nella giornata precedente, non ne ho assunto. Però la sensazione di fluttuare, di non essere mai sceso dal letto, si fa sempre più avvolgente. Ad ogni sforzo d'usare la ragione, mi gira la testa. Ripenso a quel Pubblico Ministero che m'aveva fatto perquisire la casa in una mattina d'estate. Era arrivato al punto di far interrogare mia madre e mia zia. Aveva pure mandato il Ros ad infilarmi una mostruosa cimice in macchina. Altro che "micro"spia! Quella cosa sembrava un baracchino. Ovviamente, la scoprii e gliela spiattellai in conferenza stampa. Non fu difficile trovarla, nel doppiofondo del tettuccio. In fondo, quelli che l'avevano piazzata, sempre carabinieri erano. Lui, comunque, non me l'aveva detto chiaramente, ma s'era fatto capire: se becco chi a Cosenza metteva i tric trac di notte davanti a caserme e luoghi emblematici del Potere, ti trascino nell'inchiesta con l'accusa di favoreggiamento.
I tric trac sono giochi pirotecnici: esplodono tre petardi seguiti da una botta più forte.
Però adesso, nel novembre del 2002, non mi stanno arrestando per quella storia. L'ipotesi di reato è diversa. Guardo e riguardo il fascicolo marchiato di rosso.
A me Cospiratore? È un titolo di riconoscimento elevatissimo. Ricorda Mazzini, Gramsci. Io al fianco di questi. Mia nonna me lo aveva detto che sarei arrivato lontano. Se fosse stato vivo suo marito, nonno Dionigi, avrebbe toccato il cielo con un dito. Antifascista, anticlericale, ribelle. Per lui un nipote in carcere con una simile accusa, sarebbe stato l'orgoglio della famiglia.
Sì, ma mò questi mi stanno portando via, lontano da Loredana e mio fratello, e non so nemmeno dove. Vabbé, nel carcere di via Popilia, certamente. Lì qualche amico ce l'ho. Non mi tratteranno male.
Gli sbirri, intanto, continuano a farmi firmare carte. Tanto, ci sono abituato. A scuola, con 'sta maledetta autonomia, ti fanno firmare ogni sei secondi. Alzo lo sguardo dalla montagna di carte e nella stanza si è già materializzato Maurizio, che impugna il faldone. Maurizio è il mio avvocato. Dodici anni fa, abbiamo fatto insieme le lotte per conquistare il centro sociale. All'epoca, non era neanche laureato. Però si vedeva che la sapeva lunga. Nelle assemblee, non facevi in tempo ad articolare una proposta, che lui aveva già in mano una soluzione più avanzata e razionale. Noi eravamo un branco di diciottenni incazzati. Avremmo occupato qualsiasi cosa, ad oltranza.
Lui proveniva dai collettivi e dall'area di piazza Loreto. Creativi, ma molto concreti. È grazie anche alla sua perspicacia che alla fine ci decidemmo ad accettare l'offerta dell'ex "Villaggio del fanciullo" come sede per il Gramna.
Negli anni successivi, proprio Maurizio ha dovuto difendere me e tanti altri dalla solita valanga di denunce che ronzano intorno alle esistenze di chi milita nei centri sociali. E l'avvocato non si è mai perso d'animo. "Radunata sediziosa, oltraggio, manifestazione non autorizzata, vilipendio, istigazione alla diserzione, occupazione di suolo pubblico ed edificio privato"…
- Statti tranquillo Clà, sono tutte stronzate.
E poi, emettendo l'immancabile sbuffata di fumo, accompagnava il ritornello rassicurante con una risatina.
Ma quando Maurizio finisce di leggere il fascicolo, per la prima volta mi guarda in paranoia. È preoccupato. Prova a non lasciarlo trasparire, però è in tensione. Con una manovra diversiva, cerca di distendere il clima che si fa sempre più pesante. E quando meno me lo aspetto, anche lui, come il dentista, è costretto a sparare la peggiore di tutte le verità della nottata:
- Ah, prima di uscire, dimenticavo di dirti una cosa. Ti portano a Trani, in un carcere di massima sicurezza.
Tombola. Mi sento sprofondare. Poi capisco che non me lo posso permettere. Ogni segnale di debolezza getta nello sconforto Maurizio, Loredana e mio fratello. Persino gli sbirri, sotto sotto, capiscono che la stanno facendo grossa. Uno di loro ha gli occhi gonfi di lacrime. Se finge, è un bravo attore, perché la parte gli riesce proprio bene. Chiedo se posso portare con me qualche libro. E perché no? Prendo i canti di Leopardi, un testo di Eraclito e Luther Blissett: "Q". Dopo avere effettuato la prima di tante pisciate in pubblico, visto che da quel momento in poi per una lunghissima settimana non riuscirò più ad avvicinarmi al water senza spettatori, esco di casa a pugno chiuso, e squarcio con un sorriso tirato, il buio che prova a rattristarmi.
Ormai sono sul palcoscenico. Tanto vale mantenersi allegri.


***


Venerdì 15 novembre 2002, Questura di Cosenza, ore 3,30
"Mi muovo nella notte piena
in faccia al cielo
dove nessuno mi conosce per davvero
e imparo a essere cattivo
perché devo
la meschinità mi accerchia
e io spingo col pensiero
va bene che non vado a mettere le bombe
va bene che non sputo sulle vostre tombe
lotto con me per primo
ogni uomo ha un motivo
per svegliarsi il mattino
e mettersi in cammino"
Militant A, "Banditi"

Qui l'ispettore con gli occhiali scuri ha preso a schiaffi il mio amico Rafele, appositamente convocato. Laggiù forse avevano piazzato le microcamere per incastrare i compagni in attesa di quello strano interrogatorio di gruppo, quando indagavano sui tric trac. Qui fanno la fila gli immigrati per il permesso di soggiorno.
Quello deve essere l'ufficio dello sceriffo che m'ha fatto spezzare la gamba. Neanche i suoi colleghi lo possono sopportare. Me lo hanno segretamente confidato. Mamma mia come deve essere mortificante prendere ordini da uno che ti sta pure sulle scatole!
Gli uffici della Questura sono una galleria dei ricordi. Al mio ingresso, vengo trattato come un vecchio amico reduce da una disavventura amorosa. Provano a consolarmi:
- Vedrai che si risolve tutto in pochi giorni. Lo sappiamo che sei un bravo ragazzo.
C'è uno sbirro più delicato degli altri. Giubbotto di pelle, modi gentili e capelli a spazzola. Lo scambieresti tranquillamente per un pusherino di provincia, se non fosse per quello sguardo inconfondibile, da segugio. Non è colpa sua.
Ma in generale, nessuno di loro ha grandi colpe. Anche i poliziotti, un tempo, erano sensibili come chiunque altro. Poi sono stati sottoposti ad un trattamento. L'educazione all'ubbidienza diseduca l'intelligenza. A furia di dire sì, e ancora sì, e poi signorsì, una parte del cervello si disattiva. La regione cranica riservata alle potenzialità critiche, si atrofizza. E si sviluppa lo spirito guardone, che in fondo alberga in ognuno di noi.
Gli sbirri mi trattano bene. Forse hanno ricevuto ordini precisi. Cosenza è un paesino stretto stretto. Ci conosciamo tutti. Sulle scale, incontro nuovamente le guardie imperiali al servizio dell'Inquisizione. Non hanno più il cappuccio. Una della due, scendendo, mi lancia un'occhiata. È sconvolgente: sembra un bambino cresciuto a dismisura, gonfiato con una di quelle macchine che si vedono nei film di fantascienza. Non dico che mi ispiri tenerezza, però, senza quel passamontagna, fa una strana sensazione. Ricorda Frankenstein junior. Nell'aria aleggia un'atmosfera Kubrickiana. Nei corridoi, ogni tanto, si levano zaffate di merda fresca. Gli sbirri sono in piedi da diverse ore e da qualche parte devono pure liberarli, quei gas immagazzinati. Continueranno a scoreggiare anche dopo, in macchina, nel tragitto fino a Trani. Ma lo faranno con grande discrezione, senza farlo pesare.
Fuori, intanto, soffia uno strano vento caldo ed umido. Alberi rossicci si agitano, quasi a voler salutare stizziti i corpi imprigionati dietro gelide vetrate.
Uno dei poliziotti più anziani si improvvisa Virgilio:
- Ecco qua Clà, mettiti in questa stanza e non ti muovere fino a quando non ti chiamiamo. Se ci riesci, prova a riposare. Ah, dimenticavo, lo sai che abbiamo arrestato pure Giovannino!? Eravamo andati solo per perquisire, e invece gli abbiamo trovato le piante. Avresti dovuto vedere. Cose da pazzi. La casa sembrava una piantagione. Lui ne parlava come se niente fosse: Con questa ci facevo gli innesti, quest'altra l'ho ricavata incrociando la calabrese e l'afghana…
- E lo avete arrestato! Invece di dargli la medaglia, lo private della libertà. Guardate che Giovannino non la vendeva mica, l'erba. Se la fumava tutta lui. Uno che si fa le piante in casa, meriterebbe un premio dalle istituzioni. È il peggiore nemico della malavita. Lo sapete meglio di me che a Cosenza le bande fanno girare esclusivamente un fumo puzzone che sembra catrame. E guai a chi non si rifornisce da loro. Per poche lire di fumo, si rischia una pallottola. Ma devo dirvele io queste cose? E poi Giovannino stava partendo per il Centrafrica. Si è appena laureato, e voleva andare a scavare pozzi d'acqua. Insomma, mi sa che avete rovinato più lui, che me e gli altri…
- Sì sì, il vizio di fare politica non lo vuoi perdere. Vabbé và, stattene buono qua, che poi ti veniamo a chiamare. Il collega ti terrà d'occhio. Non gli creare problemi, e lui non te ne creerà.
E chi si muove. Al solo pensiero che il giorno dopo entrerò ammanettato nell'inferno di Trani, la Questura di Cosenza mi sembra un ricovero accogliente. C'è una scrivania a due passi dalla finestra. Non è proprio un giaciglio ideale, però da qualche parte la testa devo pure poggiarla. Ho sonno. Crollo come una pera su quella superficie di alluminio.


***


Venerdì 15 novembre 2002, Questura di Cosenza, ore 6
"Tutti questi giovani fotografi che si agitano nel mondo,
consacrandosi alla cattura dell'attualità,
non sanno di essere degli agenti della Morte"
Roland Barthes, "La camera chiara"

Il risveglio è apocalittico. I ricordi recenti si risollevano tutti insieme, disegnano un vortice e riprendono forma sulla porta d'uscita della stanza dove, ad attendermi, c'è un'altra vecchia conoscenza. È il fotografo della polizia scientifica.
Bassino, tarchiato, sguardo da malandrino. Da anni colleziona immagini di movimento.
Ha una predilezione, ovviamente, per i primi piani delle compagne. Sono scatti rubati a tradimento, e mai più restituiti. Le foto fatte di sorpresa riescono meglio, perché riproducono l'immagine dell'anima. Nei confronti delle donne, questo piccolo miracolo si compie alla perfezione.
Ma lo sbirro fotografo, quando viene a prelevarmi per l'istantanea da dare in pasto ai quotidiani, non è in vena di trovate artistiche. Nel corridoio c'è già un giornalista preventivamente allertato, che aspetta il cadaverino da schiaffare il giorno dopo in prima pagina. È il mio turno. Il primo piano del sovversivo-ultrà-giornalista-insegnante, riscuoterà grande successo nelle edicole. Una volta, tanto tempo fa, il mio amico Rafele, che di foto segnaletiche se ne intende, mi ha detto:
- Tu forse in carcere non ci finirai mai, ma se un giorno ti dovesse succedere una disgrazia simile, ricordati di sorridere quando ti faranno la foto.
Sorrido per davvero. Forse sarà proprio quel risolino idiota stampato sotto le occhiaie, che renderà indigesta il giorno dopo la mia faccia.
I giornali, anche i più destrorsi, preferiranno ripescare vecchie foto.
Verso le 7, finalmente si parte. Davanti alla Questura ci sono già amici e parenti disperati. Anche verso di loro, pugno chiuso e via. Scorrono sotto gli occhi le strade della città sopita, che mai come in questo momento m'appare cara. All'imbocco dell'autostrada, intravedo nelle macchine della digos gli altri compagni arrestati.
Con Annetta, c'è un saluto strappato alle rigide regole dei controllori. Poi, si riparte. Faccio appena in tempo a distendermi sul sedile posteriore, che i ricordi galoppano. Riecco le ombre di Genova. Al ritorno dal G8, avevo scritto una lettera aperta, il cui contenuto finirà nel fascicolo processuale come elemento indiziario.
Mia madre, che all'epoca era ancora in vita, presagì i guai futuri:
- Se continui a scrivere cose di questo tipo, prima o poi ti arresteranno.
Cercai di sminuire il rischio, con un pizzico di presuntuosa superiorità:
- Stai tranquilla, per le opinioni non potranno mai incarcerarmi.
Quella mail, intitolata "Dietro le barricate c'ero anch'io", inviata ad un attento ed esperto giornalista di Repubblica, non apparì mai sulle sue pagine.
In compenso, però, fu intercettata dagli zerozerosette. Anch'essi seppero che volevo a tutti i costi dire la mia. Il testo della lettera aperta me lo ricordo tutto.

Me lo ricordo bene: "Finalmente dalle pagine di Repubblica affiora un'analisi realistica del comportamento della polizia e dei carabinieri nei giorni del G8. Anche se non credo che in circostanze diverse, i mass media avrebbero parlato in modo così dettagliato delle violenze perpetrate dagli uomini in divisa ai danni di manifestanti inermi. La differenza consiste tutta nelle botte prese dai giornalisti.
Calci in testa e manganellate, hanno reso sensibili gli operatori dell'informazione.
E il fatto che al governo non ci sia il centrosinistra, ha agevolato il lavoro di tanti pubblicisti che solo qualche mese fa, in occasione degli scontri a Napoli, si erano rivelati miopi di fronte alla cruda realtà di una brutale repressione. Finalmente, dopo i fatti di Genova, nell'osservare usi e costumi delle forze dell'ordine, ci lasciamo alle spalle la visione pasoliniana, impregnata di patetismo demagogico, e decisamente anacronistica. Non più "celerini proletari", bensì "ceto medio in crisi". Addio alla pregiudiziale solidarietà verso presunti individui passivi, la cui unica colpa sarebbe quella di aver scelto un mestiere sbagliato. Al contrario, si può e si deve operare una lucida disamina di un contesto sociale e lavorativo, quello delle forze dell'ordine, in cui operano persone che hanno liberamente scelto di prestare un servizio regolarmente retribuito.
Ero dietro le barricate in via Tolemaide, il 20 luglio scorso. A Genova, come su Giove nel film "2001, Odissea nello spazio", ho ritrovato la parte più profonda di me stesso. Ero partito alla ricerca di verità. Sono tornato pieno di incubi. Il sangue non è mai una piacevole visione. In quell'imbuto di strada, eravamo un'armata di carne viva e cartone pressato, contro un esercito di plastica dura e metalli pesanti. I siti ospitati possono integrare l'agenda nel loro spazio web rentgirls.ch escorts geneve e creare filtri.
Quando i carabinieri hanno caricato con mezzi cingolati e lacrimogeni, ho avuto paura di morire soffocato. Eppure, mi è capitato più volte di ritrovarmi in una folla rapita dal panico. A Genova, come frequentemente accade intorno a molti stadi di calcio, chi ha impugnato un sasso lo ha fatto per difendere se stesso e tutti gli altri.
Sono un ultrà del Cosenza Calcio. Seguo la mia squadra ovunque. Ogni domenica, negli stadi, assisto a scene analoghe a quelle che ho visto nei drammatici giorni del G8. I lacrimogeni ad altezza d'uomo, il pestaggio indiscriminato di semplici tifosi da parte degli uomini in divisa, il fermo senza garanzie, sono comportamenti di routine, abituali. Inoltre, qualsiasi attento osservatore della realtà, sarà perfettamente a conoscenza del fatto che in Italia le persone arrestate per reati come le rapine, lo spaccio o il semplice furto, sono sottoposte in caserma a vessazioni e piccole o grandi torture, nonostante mi pare che tutto ciò non sia previsto dall'ordinamento vigente. Dunque, Genova non è l'eccezione, bensì la regola. Non dobbiamo commettere l'errore di criminalizzare pochi uomini, pur di vaccinare il restante apparato dell'ordine pubblico. Il male è più radicato e virulento di quanto si possa pensare. Affonda le radici nella cultura fascista che storicamente ha caratterizzato la cosiddetta forza pubblica. Dalla mia postazione in curva sud, ho visto e vissuto episodi brutali almeno quanto quelli del luglio scorso. Voglio raccontarle un aneddoto. Nel giugno del 2000, durante una carica a freddo della celere nello stadio di Cosenza, al termine di una domenica calcistica in cui non si erano verificati particolari momenti di tensione, ho riportato la frattura esposta della tibia e diverse contusioni sul corpo. I lividi sono stati provocati da massicce dosi di manganellate, quando mi trovavo già in terra, sanguinante. Insieme a me, sono state pestate decine di altre persone inermi. Tre interrogazioni parlamentari presentate da altrettanti deputati, hanno chiesto al governo spiegazioni sul comportamento della polizia in quella circostanza. La cittadinanza ha espresso tutta la sua indignazione, invocando con ottocento firme la rimozione del vice questore. Persino gli alti vertici locali dell'Arma dei carabinieri presero le distanze dalla polizia. Lo sa qual è il risultato? Sarò processato per resistenza con l'aggravante della violenza a pubblico ufficiale, e il funzionario che guidò le cariche, oggi, è regolarmente in servizio. Per qualcuno, si è trattato forse di un banale episodio isolato. Ma dal mio punto di vista, era una delle tante piccole prove generali alla vigilia di eventi politici rilevanti come, per esempio, quello di Genova. Proprio nel capoluogo ligure, prima di un'altra partita di calcio, sono stato testimone di una scena terrificante. Uomini in divisa che picchiavano un mio amico disabile, perché era reo insieme ad altri giovani di non aver pagato un cappuccino. Per questi, e per mille diversi motivi, affermare che "i poliziotti si sono incattiviti nel tempo, stando a contatto con gli ultras", sarebbe una semplificazione inverosimile e fuorviante. Piuttosto, è il contrario. Le curve del tifo organizzato si sono imbarbarite dopo decenni di militarizzazione: inferriate alte come palazzi e camionette blindate ovunque. Allo stesso modo, appare decisamente ipocrita chi afferma che bisognerebbe adottare misure straordinarie, "in previsione di possibili tensioni dopo il G8, che potrebbero riflettersi nel calcio". Il nuovo decreto antiviolenza negli stadi diventa, ai miei occhi, un esperimento di strategia repressiva, in vista di nuove e future "Genove". Lo stesso concetto di "quasi flagranza" è una delle acrobazie più insidiose che il legislatore abbia mai concepito. Ben presto, sarà utilizzato contro i movimenti che si battono per una società più giusta e libera. Altro che "modello inglese nella prevenzione del teppismo nel football". La verità è un'altra: in terra anglosassone sono state adottate due misure che non saranno mai importate in Italia. Anzitutto, l'alleggerimento della presenza dei poliziotti negli stadi; e poi l'onere per la gestione dell'ordine pubblico grava sui bilanci delle società sportive. Provate a proporre simili provvedimenti nel nostro paese. Presidenti e sindacati di polizia dissotterrerebbero subito le asce di guerra. Cadrebbero i governi. Perché sono molto più comode la demagogia e la retorica. Guai a chi tocca i privilegi ed i sacrari di certe corporazioni. Oggi, tanti sindacalisti in divisa agitano il medagliere dei "servitori dello Stato" che hanno perso la vita sulla strada, difendendo la legalità. Ma chi parlerà mai delle 625 persone innocenti o disarmate, ferite ed uccise nelle strade del Paese, volontariamente o per sbaglio, dalle armi impugnate da poliziotti e carabinieri? Seicentoventicinque vittime delle divise blu e nere, dal 1975 al '90. Delitti impuniti. Morti bianche, sangue rosso. Come quello versato a Genova".


***


Venerdì 15 novembre 2002, sulla strada verso Trani, ore 11
"Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude".
Giacomo Leopardi, "L'Infinito"

Negli ultimi chilometri, i poliziotti che mi conducono in carcere, parlano un linguaggio sempre più caldo. Uno di loro lo conosco da anni. Faceva l'ultrà. Dopo essere passato dall'altra parte, è stato diverse volte in servizio nelle scorte domenicali delle trasferte:
- Quelli erano tempi diversi, Clà. La partita ce la vivevamo in un altro modo. Si viaggiava per il gusto di stare assieme. Mò invece i treni sono pieni di ragazzini che fanno danni. E così ci andate di mezzo tu e quelli dell'età tua, che siete i più in vista.
Il pallone è l'unico argomento che riesce a distogliermi dal pensiero dell'incubo che sto per vivere. Gli sbirri hanno capito che sono in paranoia. Uno di loro, qualche ora prima, mi ha detto chiaramente:
- Il fatto stesso che in questo momento ti sto arrestando, mi fa venire da vomitare. Vuol dire che siamo arrivati alla frutta…
Ci fermiamo in un bar e mi offrono il cappuccino. Le manette non me le mettono. Insomma, fino a quando quella mostruosa architettura non si profila all'orizzonte, sembra quasi di vivere una rimpatriata. In macchina c'è pure Pinotto, il poliziotto che mi sverginò la carta d'identità, richiedendomela a 16 anni davanti la scuola occupata. L'angoscia però si fa viva dopo aver svoltato una curva. Appaiono i cancelli, proiettati in alto come le guglie di una chiesa gotica, ricurvi verso l'interno. Paiono serpenti marini, vorticosi e viscidi, verminosi nelle nervature. C'è odore di mare nell'aria, eppure la spiaggia si sottrae alla vista. Poi il senso di restringimento dello spazio evoca apparecchiature diagnostiche. Sembra di essere in prossimità di una macchina per la risonanza magnetica. Soltanto che, a differenza di quel grosso cilindro metallico in cui gli specialisti infilano i potenziali malati, il carcere non ha mai salvato nessuno.
Lo scatolone di cemento è presidiatissimo anche all'esterno. Non è un fatto ordinario. Davanti ai cancelli ci sono già i compagni pugliesi che, striscione in mano e slogan a tavoletta, inneggiano alla libertà. Rappresentano una folata di ossigeno nel bel mezzo di una camera a gas. Per la terza volta in poche ore, agito il pugno sinistro e ci rendiamo conto, sia io che gli sbirri, che una fetta consistente d'Italia si sta preparando a scendere in piazza.
All'ingresso, è stridulo il rumore dei cancelli chiusi alle mie spalle. L'accoglienza non è delle migliori. Le guardie ti sbirciano male. Bisogna consegnare tutto, ma proprio tutto. Poi ci si spoglia nudi. La flessione è obbligatoria, per verificare che nel buco del culo non ci siano droghe. Ed è lì che si capisce quanto sia mutata la percezione del tempo. Tra un'operazione e l'altra, passano sempre fiumi di minuti. L'attesa è attanagliante. Scatta una molla naturale: è come se fossi abituato a ragionarti dentro, a restare solo e riflessivo, senza avere più la necessità di rapportarti agli altri. Basti a te stesso. Sei costretto a farlo. Qualsiasi sensazione di solitudine viene a mancare. Perché l'isolamento diventa la norma.
- Dopo aver lasciato le impronte, il collega ti accompagnerà in quella stanza, quindi non fare un passo se prima non te lo dice lui.
L'agente di custodia cautelare sa di avere a che fare con un novellino. Non infierisce. O forse, più probabilmente, ha ricevuto ordini precisi in merito al comportamento da tenere con i "no global".
In cella di sicurezza, entro con il capo chino e quando alzo lo sguardo ho la prima piacevole sorpresa della giornata. Ci sono i compagni. Li abbraccio. Sopra le nostre teste, i giudici avranno probabilmente infilato una bella cimice, per studiare i rapporti di conoscenza reciproca. I detenuti politici sono stati storicamente trattati come cavie. Perché non dovrebbero farlo anche con noi? È qui che vedo per la prima volta Caruso dal vivo e stringo la mano ad altri due compagni tarantini. Francesco è un tipo simpatico. In televisione è serio e può apparire irraggiungibile. In carne ed ossa, invece, è il classico "guagliuni togo". Se ne sta rannicchiato in un angolo della cella piccola vuota e nuda. Muore dal sonno e giustamente usa il fascicolo come un cuscino per poggiare la testa. Peccato, io il faldone l'ho lasciato a Maurizio, non prima di aver dato una sbirciata a tutte le pagine in cui sono riuscito a captare il mio cognome.
Una guardia apre la porta e ci chiede se vogliamo avere un colloquio con i parlamentari. Ecco Nichi Vendola: bravo compagno, persona molto dolce. A lui chiedo la cortesia di tranquillizzare i miei alunni. È strano, ma in quei momenti, a parte l'assenza delle persone più care, avverto un senso di vuoto ed una corrosiva nostalgia dei ragazzi. Ma non c'è tempo per soffermarsi a pensare. Nessuna scelta dipende dalla propria volontà.
Sono l'ultimo ad uscire dalla cella di sicurezza. Fuori s'è alzato il vento, che sibila nelle fessure della finestra sbarrata ma sigillata male. Proprio mentre m'assale il sospetto che si siano dimenticati di me, il clang clang delle chiavi accompagna l'apertura del portoncino in ferro. Quel frastuono sarà la colonna sonora dell'intera permanenza. Camminando su e giù nei corridoi, le guardie sferragliano di chiavi. Ting ting. Il cancello sbatte. Clang. La ronda controlla che le sbarre non siano segate. Tong tong. Un altro cancello si apre laggiù in fondo. Clang. È un valzer triste, che si arresta per un momento nella stanza della matricola, dove ti invitano a prelevare le cose indispensabili per portartele in cella. Nessuno ti spiega niente. Afferro il piatto e le posate in plastica, il dentifricio ed un bicchiere ingiallito. Dimentico di prendere il cuscino e porto con me solo una coperta logora e scucita. Mi costerà caro, perché per due notti conoscerò il freddo, quello vero.
In fondo al corridoio c'è un gruppetto di quattro celle. Una m'è stata riservata. Entro sfinito e Michele, da dietro le sue sbarre, mi dà indicazioni utilissime sulle regole informali del carcere. Nel resto della sezione, vivono permanentemente persone private della libertà, con l'accusa di associazione mafiosa. Il mio timore reverenziale nei loro confronti è più che giustificato. Qualsiasi gesto o parola fuori dalle righe, può urtare la suscettibilità di uomini imbevuti di una subcultura che non è certo la mia, e derubati, da tanti anni, di ogni possibile contatto con l'esterno.
Mentre rifletto sull'effettivo grado di pericolosità di quei soggetti, un rumore di plastica che sbatte sul pavimento, spazza via ogni preoccupazione. Una bottiglia verde riempita di nero, rotola e si ferma davanti ai piedi di Michele con una precisione millimetrica. Sembra trascinata da una mano invisibile. La accompagna un vocione dall'accento pugliese:
- Ragazzi, vi abbiamo fatto il caffè. Fatelo girare tra di voi.
Dalle celle del corridoio vicino, ci mandano un segnale di amicizia! Tiro su un sospiro di sollievo: siamo in mezzo a gente di tutto rispetto.
Un detenuto lavorante, testa bassa e volto scavato, ci porta il vitto. Ho fame. Farfalline alla panna e pollo arrosto con verdura. La pasta è incollata alla teiera. Più che altro, sembra stucco. Ed infatti, per versarla nel piatto che gli porgo, il lavorante compie un gesto che ricorda la mimica dei muratori. Tende i nervi della mandibola, flette le gambe ed impugna energicamente il mestolo come una cazzuola. Quindi, libera nel piatto le farfalline con un sospiro di soddisfazione. Mi tuffo su quell'indistinta e gommosa massa biancastra. Mangerei qualunque cosa. Gli chiedo se poi cortesemente può farmi arrivare una penna. Risponde con gli occhi, e me la porge subito. Una guardia osserva il gesto senza frapporre ostacoli.
La mia cella è l'unica priva di televisore. Cosa volete che me ne importi? La sfortuna, i giudici, il Ros, insomma chiunque sia stato a sbattermi qui dentro, m'ha offerto la possibilità di osservare il mostro dall'interno delle sue fauci. Altro che Tv! L'occasione è da non perdere. Spero solo di non essere digerito, come Pinocchio e Geppetto.
Nel corso della giornata, ho dormicchiato qua e là. Sonno non ne ho. Le guardie m'hanno sequestrato il pantalone nero. Sostenevano che dentro i bottoni si potessero celare sostanze stupefacenti. Nel jeans chiaro che indosso e porterò per tutta la settimana, è rimasto un fazzolettino di carta. Il naso fortunatamente non gocciola e quindi posso usare quello scottex per prendere appunti. Acchiappo la penna sdraiandomi sul letto. Il piatto di plastica fa da supporto. Prendo appunti.
E mentre me ne sto con il naso conficcato nel ventre del soffitto, provando a riposare, un ragnetto penzolante mi sfiora le labbra. Ha la zampetta più robusta aggrappata ad un filo. Il resto del corpo ciondola. Gli dico:
- E' facile per te andartene a spasso nella mia cella. Non conosci sbarre.
Il ragno ruota le zampe, allarga le pinze che racchiudono la lingua e mi risponde:
- Parla, parla pure. Ma che ne sai tu dei guai miei? Vedi quella ragnatela sopra la mia testa? L'ho costruita nodo dopo nodo, usando filo brillante. Alla fine del lavoro, mi son reso conto che era troppo bella la mia casa. Una ragnatela così lucida e soffice me la invidiavano tutti. Non provai mai ad usarla a mò di trappola. Ma ci cascò dentro una formica dalla testa grossa. La guardai affamato. L'istinto naturale mi diceva di mangiarla, succhiarle il sangue. Fui preso da un sussulto. Sapevo che una volta assassinata, di quella formicona sarebbe rimasta solo una carcassa imputridita. Allora la lasciai cascare giù. Si ruppe un'antenna, ma fu subito in piedi e sgattaiolò via. Restavo io solo con la mia ragnatela ed una fame da lupo, cioè da ragno.
Pochi centimetri dietro di me, tra un albero d'ulivo ed una siepe, fioriva una pianta aromatica. Ne assaporai il profumato polline. Era prelibato, il mio cibo preferito. Mai amai la carne.
Una mattina, coperta dalla brina, la ragnatela era stata incipriata da un soffio di polvere. Pareva candida come lana. Una giovane cavalletta verde, macchiata di grigio, decise di farne il proprio giaciglio. La coccinella Sonny si adagiò sui fili più alti. Un millepiedi la percorse come se fosse un'autostrada. Capii allora che quella ragnatela non era più solo mia. M'affascinava il vederla scuotere sotto i passi degli altri animali. Sembrava viva. Decisi che non sarebbe stata mai più strumento di morte, invisibile esca. E così per un po' di tempo quella rete diventò una sinfonia.
Purtroppo, una sera arrivarono le lucertole. Con due colpi di coda, tranciarono i tiranti. La ragnatela si accartocciò sul ramo. Io fui costretto a rifugiarmi in un buco lì vicino, immobile per due mesi, durante i quali le lucertole fecero da carcerieri. Appena provavo ad uscire, tendevano la lingua biforcuta.
Ma una mattina l'aria gelida congelò la matassa di ragnatela. Un colpo di vento la fece rotolare e cadde sulle lucertole. Morirono senza accorgersene, assiderate dal freddo, impigliate nella trappola mostruosa che loro stesse avevano creato.


***


Sabato 16 novembre 2002, carcere di Trani
"Io sono stato in un carcere speciale come Fossombrone,
in epoca in cui erano in funzione carceri del genere e ho avuto l'articolo 90 per diversi mesi e so cosa vuol dire: perquisizione ogni mattina, nudi e così via, decine di guardie davanti la porta ogni mattina, e tutto il resto".
Alfredo M. Bonanno, "Chiusi a chiave"

Ero già stato in carcere. Cioè, in realtà, mi è capitato di vivere da spettatore brevissime esperienze all'interno delle Istituzioni Totali.
Quando accompagnavo mia madre a chemioterapia, nel vecchio reparto dell'ospedale cosentino dell'Annunziata, il senso di soffocamento s'avvinghiava al cervello.
C'era un corridoio strettissimo che conduceva all'ambulatorio. Il pensiero di dover consegnare agli infermieri quella donna forte, che vedevo appassire giorno dopo giorno, mi consumava l'anima. E poi vedevo belle ragazze con la cuffia in testa che mascherava la calvizie della chemio, bambini dai capelli rasati, medici arroganti, vecchietti soli, che ti chiedono una mano per salire le scale. Quello è il carcere. Nessuno può uscire, in quei momenti.
Ero già stato in carcere, quando andavo a trovare la mia amica Amelia in ospizio.
Gli assistenti non la trattavano male. Però sarà stato quel suo parlare in italiano perfetto, o quel continuo interrogarmi su quanto accadesse all'esterno, fatto sta che mentre me ne tornavo a casa, ogni volta, mi sentivo un mascalzone. Amelia non m'era parente. Non avevo doveri morali nei suoi confronti. Eppure, non riuscivo a rassegnarmi al fatto che una persona anziana dovesse essere parcheggiata lì dentro, in attesa che morte la visitasse.
Ero già stato in carcere, quando andavo a trovare Carmen, in clinica psichiatrica.
Un tempo li chiamavano manicomi. Forse, era un titolo più onesto. Perché Carmen sembrava una mongolfiera, gonfia di farmaci, intontita; passeggiava all'aria cercando qualcuno disposto a prendere sul serio le sue rivendicazioni anarchiche.
Gli infermieri la tenevano d'occhio, marcandola stretta. Guai a perdere di vista una ragazza dolce come lei. Tutte le volte che stralunava lo sguardo, avvertivo un capogiro. In fondo, anch'io provavo le sue stesse pulsioni. Anche a me sarebbe sempre piaciuto mollare un bel calcio nel sedere alle signore che passeggiano tronfie ed impellicciate su corso Mazzini, oppure urlare e buttare all'aria le panche di una chiesa decorata d'oro, o dare un secco cazzotto in testa ad un poliziotto ferroviario. Se non lo faccio, è perché temo di finire in manicomio. Ho dentro un freno, che Carmen ha già provveduto a spezzare.
Sono già stato in carcere. A scuola, per esempio. Ci sono professori che fanno 'sto lavoro con grande serenità. Ad Aiello Calabro e Lauropoli di Cassano Ionio, i paesi in cui ho lavorato negli ultimi anni, ho incontrato quasi esclusivamente insegnanti umani e professionali. Sono entrambi istituti comprensivi, nei quali regna un'aria tranquilla ed accogliente. Ma in generale, nel mondo della scuola, operano pure colleghi che pretendono di applicare assurdi regolamenti, mortificando i ragazzi che ingiustamente soffrono in aride aule. Neanche da lì si può uscire. Le scuole sono carceri sorridenti. Corpi freschi imprigionati dentro lugubri stanze, per otto lunghissime ore, fino alle cinque e mezza del pomeriggio, sorvegliati da noi "educatori" che confezioniamo progetti e compiliamo carte su carte da sbandierare in giro, pur di riuscire a convincere la gente che tutti siamo protesi a costruire l'alunno "prodotto finito".
Se non fosse per i ragazzi e l'energia benefica che ci trasmettono, diventeremmo tutti bavosi burocrati, così come previsto dalle riforme degli ultimi anni, che mirano a trasformare gli alunni in merce di scambio e i professori in carabinieri ed affaristi.
Ero già stato in carcere, quando sono finito in sala rianimazione con una grave intossicazione al sangue, perché il calzolaio aveva verniciato le mie scarpe chiare con anilina nera e me le aveva consegnate senza farle asciugare. Le avevo calzate ed ero diventato cianotico. Stavo per finire al creatore, per un paio di stupidissime scarpe! Mi salvò una dottoressa molto sveglia, sottoponendomi tempestivamente ad una terapia anti-veleno. Entrai con le mie gambe in rianimazione. In un certo senso, fu un privilegio: a quel reparto accedono solitamente i moribondi. Per una notte, ascoltai i lamenti di persone che giocavano a scacchi con la morte.
Nessuno poteva uscire di lì.
Ero già stato in carcere. Ma una galera vera non l'avevo mai vista.
Trani non è un sogno ad occhi aperti. Cruda materia solida. All'interno: esseri umani. I giudici cosentini hanno assegnato me ed i miei compagni al braccio di Alta Sicurezza, nella sezione denominata "Elevato Indice di Vigilanza". Le nostre celle sono abitualmente riservate ai detenuti che transitano in regime di quarantuno bis.
È l'inferno sulla terra. Concepito da lì dentro, lo stesso pensiero della morte incute meno sgomento. Bene hanno fatto, i procuratori, a scrivere il verbo "catturateli" al termine del fascicolo con cui disponevano il nostro arresto. Il termine "cattura", effettivamente, si addice alle bestie feroci ed a coloro i quali, nel perenne sforzo di acciuffarle, ne assumono sembianze e stili di vita.
Nella cella, lunga circa sei metri e non più larga di due, il termosifone è guasto.
C'è un cesso in mezzo alla stanza. Se devi andare di corpo, abituati a farlo in modo plateale! Nessuna tendina nasconde la tazza del Wc alla vista delle guardie che vengono ogni mezzora a verificare che tu sia presente e non abbia magari trovato qualche sistema originale per suicidarti. Ogni notte, la luce si accende ad intervalli di mezzora. I corridoi esterni non sono mai più lunghi di trenta metri. La vista non deve superare quel limite, in modo che in casi di lunga detenzione, gradualmente sopraggiunga la miopia dovuta alla mancanza di esercizio del nervo ottico.
Sul muro destro, appare un piccolo graffito, quasi certamente disegnato da uno scafista. È un barcone di quelli usati per scaricare i profughi e i migranti sulle coste pugliesi. Sulla prua, è tracciata una data, che forse risale al giorno dell'arresto.
La sera, per accendere la luce, bisogna ruotare verso l'esterno il portoncino in ferro ed allungare una mano, in modo da raggiungere l'interruttore che si trova ad una distanza tale, da costringerti a farti male ad una spalla. Il sacrificio, comunque, è indispensabile se si vuole evitare di rimanere al buio.
Qualcuno, nella sterminata letteratura sul carcere, ha detto che una giornata da detenuto, tutto sommato, vale la pena di farla. No. Non è un'opinione condivisibile. Questa esperienza, semmai, dovrebbero farla i giudici ed i pubblici ministeri.
Si parla spesso dei rumori della galera. Ma in mente, dopo averli respirati, rimangono gli odori. Non è la puzza di sudore, perché lì dentro la gente ha premura di lavarsi in continuazione. Stai sempre sotto la doccia, quando negli orari prestabiliti ti si offre la possibilità di farlo. Il problema vero è l'odore del gas, che non serve solo a cucinare.
I detenuti lo usano per sballarsi, come i bambini di Rio de Janeiro, che sniffano la colla. È una scena costante. Quando arrivano in cella le ventate di gas, subito accorre una guardia:
- Che cosa stai facendo? Molla quella bomboletta. Adesso ti faccio un rapporto, così la pianterai una volta per tutte di rompere le scatole.
- No appuntato, nessuno mi può impedire di fare il caffè. È un mio diritto. E poi io sto male. Ho chiesto la visita tre giorni fa.
Un altro odore che rimane in mente è quello della merda. Perché le celle sono l'una vicina all'altra. Quando qualcuno va a cacare, l'aroma si sparge nella sezione.
Questa è Trani e queste sono le carceri. Non c'è nulla di sicuro, tranne la disperazione. Nel pomeriggio hanno detto che m'avrebbero portato all'aria. Sì, in effetti mi hanno infilato in una gabbia all'aperto, chiusa su tutti e sei i lati. Ho sentito dire che in alcune carceri, al di sopra del soffitto, una guardia fa la guardia passeggiandoti sospesa a pochi metri dalla testa. Da sotto la griglia, puoi osservarne le suole degli anfibi, mentre ti volteggia sulla punta del naso. A Trani, nelle gabbie vicine alla mia, i detenuti non sono in isolamento e passeggiano nervosamente su e giù. Camminano formando piccoli gruppi che si spostano a schiera. Una squadra cede il passo all'altra. Guai ad incrociarsi. È un passo nervoso, frenetico, ossessivo. Lo sguardo rimane rivolto verso i piedi.
E parlano, si scambiano opinioni mormorando, liberando nell'aria pensieri cupi.
Anche Padre Raffaele, il cappellano del carcere, parla a bassa voce, quando viene a farmi visita, da dietro le sbarre della mia cella. Sussurra:
- Che carognata che vi hanno fatto! Ma dovete stare tranquilli, perché presto sarete fuori. Mi ha chiamato Padre Fedele. È molto adirato. Dice che voi siete ragazzi eccezionali e ribelli. Ma anche lui si sente tale. Ho cercato di calmarlo, perché al telefono continuava ad urlare. Dice che vi considera figli suoi e non permetterà a nessuno di farvi del male.
Il frate si congeda ed arriva una guardia che porge qualche telegramma. Ce n'è uno inviato da un carissimo collega, Gaetano, e firmato dal preside e dagli altri insegnanti. Ma il messaggio più tenero strappa le lacrime:
- Siamo tutti con voi e aspettiamo il vostro ritorno e il vostro sorriso. Vi vogliamo bene, forza Cosenza. Gli alunni della classe IIA (...)


***


(...)
Lunedì 18 novembre 2002, Mammagialla, Viterbo
"E non faccia tutto questo baccano col suo sentirsi innocente,
così non fa altro che rovinare l'impressione non del tutto negativa
che lei ci ha fatto finora".
Franz Kafka, "Il processo"

Saranno le tre del mattino, quando due urla schiaffeggiano il silenzio. Ho la testa raggomitolata nel buio, a pochi centimetri da un finestrone quadrato, che dà su un cortile angusto, metallico, bianco e allagato da pozzanghere stagnanti. Dietro la lastra d'acciaio, stazionano sbarre rafforzate da cubi incastonati all'intersezione dei ferri.
Non ci si può affacciare per cercare sollievo e magari sprigionare, con una boccata d'aria, quelle due urla che sicuramente venivano dall'interno.
AAAGHH. Un'altra volta?! Allora non le ho sognate.
- Assistenteee, appuntatooo.
C'è un uomo che grida, nella cella accanto. Tutto rimane impassibile. Persino l'oscurità non si lascia turbare da eventuali riflessi luminosi, che pure ci si attenderebbe di vedere in presenza di una richiesta d'aiuto. Un detenuto sta male.
Gli fa eco una voce diversa. Un'altra persona che non si sente bene. Vabbé, arriverà un infermiere, insomma qualcuno darà una parola di conforto a questi poveracci. Niente. Il lamento corale va avanti per almeno un'oretta. Il carcere è pieno di gente sofferente, che nessuno soccorrerà mai. Tossicodipendenti, malati di mente, vecchi rimbambiti. I gemiti ricordano il lazzaretto nei sotterranei dei palazzi medievali. Gente che aspetta la morte. AAAGHH. È un lamento continuo, incessante.
Una volta, tanto tempo fa, quando facevo il servizio civile, abbiamo allestito un campo estivo in un convento sui monti della Sila. Eravamo tre obiettori e una trentina di ospiti: vecchi abbandonati, senza fissa dimora e disagiati psichici. Alla comitiva si aggregò un uomo anziano, anch'egli giramondo, di nome Salvatore. I silani lo chiamavano "Saaturi". Non si separava mai dalla sua combriccola di cani.
Parlava pochissimo, fumava tanto.
Era emigrato in gioventù. Destinazione: l'Australia. E laggiù aveva trovato lavoro, mettendo su famiglia. M'aveva mostrato le foto che ritraevano lui, la moglie e due figli massicci. Ma qualcosa deve essere andato storto. Perché Saaturi ad un certo punto ha abbandonato tutti e se ne è tornato in Sila, a girovagare, vivendo come un orso sui monti che abbracciano il paese di San Giovanni in Fiore. Quando con gli altri obiettori lo avvicinammo, quel signore che sembrava il nonno di Heidi, si rivelò diffidente. Nel giro di poco tempo, tuttavia, diventammo amici. Di giorno stava con noi e giocava a carte con i poveri dell'Oasi francescana. La sera se ne andava.
Si unì alla nostra comitiva pure Alessandro, un fraticello uscito fresco fresco dal noviziato. Essendo originario di quelle zone, ci rivelò aspetti della vita di Saaturi che non conoscevamo, raccontando che la notte dormiva in un pollaio, almeno da quando un "Don", che vive su quelle montagne, lo aveva scacciato da una catapecchia in cui aveva ricavato un rifugio. Saaturi soggiornava nel pollaio persino d'inverno, quando in Sila le temperature più basse si spingono fino a meno quindici. Restammo indignati, e decidemmo di effettuare nottetempo una perlustrazione. Ci recammo in quattro nella terra del "Don". Io, un altro obiettore, il frate ed Arturo, una delle tante creature allevate da Padre Fedele. Giunti a destinazione, fummo circondati da un branco di cani arrabbiati, forse posti a guardia delle terre su cui pascolavano pecore e vacche. Arturo riuscì a tenerli a bada roteando minaccioso un bastone. Dal pollaio, uscì Saaturi, silenzioso come sempre. Incredibile: come faceva quel povero vecchio a sopravvivere lì dentro?! Neanche il tempo di commuoverci, che sbucarono alle nostre spalle i due fari abbaglianti di una macchina sgommante. Ne uscirono quattro giovani; due di loro erano armati di fucile:
- Che cazzo fate qua?
Ci puntarono le armi addosso. Erano gli sgherri del "Don". Si fece avanti Fra Alessandro. Fu forse lui a salvarci la vita. E pensare che noi non ce lo volevamo nemmeno portare dietro. Quel saio e i sandali, tutto sommato, la dicevano lunga sulle nostre intenzioni. I fucili rimasero silenziosi. Il frate parlò:
- Siamo venuti a vedere in quali condizioni vive il nostro fratello Saaturi. Il Signore nostro Dio non sarà contento sapendo che uno dei suoi figli dorme in un pollaio.
Gli scherani ascoltavano senza emozioni, tenendo sempre ben tese le canne dei fucili. Da una casa distante una trentina di metri, uscì finalmente il "Don".
Improvvisò un breve comizio:
- Quest'uomo ha dormito nella baracca fino a quando non sono rientrato a vivere nella mia terra. All'inizio l'ho sopportato. Poi ho notato che dava fastidio agli animali e quindi è meglio che se ne stia lontano.
Con la rabbia dell'impotenza in corpo, e le lacrime agli occhi, stavamo per togliere il disturbo, vista anche l'arroganza dell'interlocutore, quando Saaturi, inatteso, cominciò ad emettere dei rumori con la bocca. Sembravano i vagiti di un bambino, lo sfogo di un sordomuto. Non una sola parola chiara uscì dalle sue corde vocali.
Solo gemiti. In quelle urla strozzate, indirizzate al "Don", c'era tutto un discorso, che purtroppo non eravamo in grado di comprendere nelle sue argomentazioni. Eppure, il senso del messaggio era chiaro. Saaturi stava rivendicando un qualche diritto su quelle terre e lo faceva eleggendoci testimoni della sua protesta. Frate Alessandro mi fece cenno che era arrivato il momento di andarcene, per evitare complicazioni.
Il povero Salvatore, dal canto suo, tornò nel pollaio. Ma quelle urla mi si sono conficcate nel cervello e non le ho dimenticate più.
A Viterbo, nel silenzio rotto dai lamenti, ho la sensazione di riascoltare Saaturi. Ce ne sono tanti che, come lui, chiedono una mano ed urlano una storia. Ripensando alla notte sulla Sila, cedo al sonno. Forse è vero che il carcere indurisce i nervi e ammorbidisce la sensibilità.
Il risveglio è allietato da un'altra raffica di telegrammi. Saluti dai compagni romani, fiorentini e veneti. Abbracci appassionati da Cosenza.
La colazione è un bicchiere di latte. Al mattino si deve fare in fretta, perché quando passa la guardia, devi chiederle tutto ciò di cui si ha bisogno. Nel mio caso, qualsiasi richiesta è bocciata in partenza. Sono in isolamento fino a domani.
Stasera arriva il Giudice per l'interrogatorio. Trascorro una giornata in attesa dell'evento. Non vedo l'ora di rivedere Maurizio e gli altri compagni avvocati.
Nel primo pomeriggio, proprio quando sto per assopirmi di nuovo:
- Dionesalvi, si prepari. La vuole vedere il Giudice.
Chiamo Gianfranco, ma da laggiù non risponde. L'hanno già portato via. Percorro il corridoio che conduce all'ala opposta del carcere. È tutta un'altra dimensione. Mi stanno accompagnando in una zona che dell'istituzione totale ha soltanto le celle di sicurezza in cui sono stipati i detenuti in attesa di interrogatorio. Per il resto, potrebbe tranquillamente somigliare ad un collegio o ad un oratorio.
C'è una guardia femmina a guidarmi. Ha i capelli rossi e il viso di porcellana. Non è molto loquace. Alza un dito e dirotta i miei movimenti, emettendo sillabe tronche. Osserva algida tutto ciò che faccio e poi, giunti in fondo ad un corridoio tipo Shining, esclama:
- Qui
Fa segno di entrare in un'altra stanza vuota, arredata con un tavolo e due sedie.
Nella mimica cibernetica, quella donna in divisa rievoca certi robot usati nei film di fantascienza. Fuori, intanto, piove. Non so perché, ma qualcosa mi lascia pensare che all'esterno delle mura ci siano Loredana, i miei fratelli ed i compagni che circondano il carcere. Mentre rifletto su quest'eventualità, il portoncino si apre ed entra Sergio, giovane avvocato che collabora con Peppino Mazzotta: il miglior difensore di Cosenza e dintorni. Peppino è un compagno rifondarolo, figlio d'arte, dai modi gentili, molto amato dalle donne e da noialtri, eterni indagati del movimento antagonista, che ad ogni denuncia andiamo a bussare alla porta del suo studio. Mazzotta non è potuto venire a Viterbo, ma ha affidato l'incarico a Sergio, un altro giovane e valido penalista. Insomma, a Cosenza di guai ne abbiamo tanti, ma in compenso circolano ottimi difensori. Meno male.
Sergio mi spiega che in pratica non esiste una linea difensiva unitaria.
Alcuni compagni stanno rispondendo alle domande della Gip, altri no:
- La situazione non è tranquilla. Se hai voglia di parlare, fallo pure, ma stai attento che se ti lasci fraintendere, ciò che dirai potrà essere usato contro di te. Comunque, se sei sereno, rispondi. Tieni presente che al novanta per cento, al di là di ciò che decidi di fare, qui starai almeno altre due settimane. Uscirai quasi certamente con l'udienza del Tribunale della Libertà.
Bene bene. Facciamo un breve riepilogo. Sono venuti a prendermi nel cuore della notte, con un'accusa demenziale, trascinandomi in un carcere che sembra Alcatraz. Poi sono stato frullato in un furgone da incubo e la mia corsa è finita in quest'altro manicomio. E adesso mi stanno dicendo che qualsiasi difesa sarà inutile:
dovrò restare qui almeno per quindici giorni. Pare che chi ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare non abbia la minima disponibilità a rimettere in discussione le proprie convinzioni.
Una disavventura simile, l'avevo letta su un romanzo di un tale che si chiamava Kafka. Credevo che quel signore si drogasse, tanto era assurda la storia che ha scritto. Invece, ancora una volta, devo constatare, fuori da ogni possibile retorica, che mamma Realtà supera sempre sorella Fantasia.
- Lo sai che ti dico Sergiù. Io di qua non mi muovo se prima non arriva Maurizio. Voglio sentire cosa ne pensa lui.
Maurizio era rimasto bloccato sull'autostrada. Per un detenuto subire l'attesa di un avvocato che arriva in ritardo, è come ritrovarsi sordo, quando suonano le trombe nel Giorno del giudizio. Vedi tutto che va a pezzi e la gente che si dirige verso il cielo, mentre tu sei impotente ed inconsapevole di ciò che stia accadendo veramente.
Sergio chiede alla Gip se posso essere sentito per ultimo. Lei accoglie la richiesta, ci concede di scalare alla fine dell'elenco, e per un paio d'ore rimango nella cella, infilando il naso e gli occhi nello spioncino rettangolare che dà sul corridoio.
Lì davanti, è tutto un viavai d'avvocati. Alcuni li conosco. Da come si scambiano opinioni ed orientamenti, mi pare che effettivamente la situazione non sia proprio tranquilla. Il caso presenta un pizzico di eccezionalità anche per difensori come questi, abituati a ben altri processi. Tutti passano dalla cella e mi stringono al volo la mano, infilandola nello sportellino.
Finalmente, in tarda serata, arriva Maurizio:
- Cum'è Clà!? Fatti abbrazzà.
- Maurì, ci sono i compagni qua fuori a fare casino?
- Sì, e sono pure tanti. Tu piuttosto, come stai?
- Bene, il peggio è passato. Adesso vorrei andare a dirne quattro ai giudici.
- No, se ti poni in questi termini, è meglio che ci avvaliamo della facoltà di non rispondere. Ci manca solo che oltraggi il Gip. Se invece hai voglia di interloquire serenamente, possiamo pure provarci. Ma non farti illusioni. Guarda che l'ipotesi di reato è pesante. Ammesso che il giudice abbia capito di aver preso un abbaglio, non è facile per lei fare un passo indietro. È ovvio che si tratta di un'accusa folle e priva di fondamento, ma se per assurdo riuscissero a dimostrare che è tutto vero, vi potreste fare una dozzina d'anni di carcere. In pratica, sostengono che tu e gli altri avreste formato, all'interno della rete del Sud Ribelle, un gruppo segreto che avrebbe indotto la rete ad agire in modo violento a Genova ed in altre manifestazioni. Te la senti di rispondere ad eventuali domande su una cosa del genere?
In quel momento, recupero frettolosamente la memoria di anni ed anni di letture sugli anni settanta e sul movimento rivoluzionario. Che fare? Se volessi tradurre il mio stato d'animo in un comportamento politico, non avrei dubbi: il silenzio totale.
Che cosa dovrei andare a dire ai giudici? Non riconoscerei le leggi di questo Stato e quindi, coerentemente con una linea di rifiuto viscerale del sistema, manderei tutto e tutti al diavolo. E però dovrei farlo anche dopo, all'infinito. Perché non possono esistere giudici buoni e giudici cattivi, ma semplicemente giudici al servizio del Potere. Allora, stando così le cose, tenetemi pure in galera. Cosa volete che me ne importi della libertà perduta?
C'è un particolare, però, da non trascurare: in quest'ottica, forse non avrei dovuto neanche nominare un avvocato, né firmare tutte le carte che m'è toccato sottoscrivere nella notte dell'arresto. Quello, in fondo, ha rappresentato il primo vero atto di legittimazione. La scelta di un difensore di fiducia, è già una sottomissione all'ordine borghese, perché di fatto comporta l'accettazione del gioco processuale.
Mentre mi sequestravano materiali, computer ed agende, hanno tirato fuori montagne di verbali: "In nome di questo, in nome di quest'altro…". Li ho firmati.
Il proprio cognome in calce, apposto sotto la sigla "Procura della Repubblica", non rappresenta un segnale forzato del riconoscimento di un'entità che decide su di te?
Ci sarebbe poi un altro valido e condivisibile motivo per restare in silenzio davanti al Gip. Ed è basato su un sentimento, a metà strada tra la sfiducia e la giusta indignazione: voi, giudice e Pm, siete quelli che m'avete fatto ammanettare ingiustamente. Non ho nulla da dirvi. Con voi non ci parlo, tanto avete già deciso tutto, e sono certo che da qui non mi tirerete fuori. Pure la soddisfazione di darvi sta' confidenza? No, parlerò davanti ai magistrati del riesame, sperando che almeno loro siano in buonafede.
Ma contro quest'ultimo ragionamento, subentrano due argomentazioni, che saranno decisive nell'orientare il mio comportamento. La prima è velata da un pizzico di presunzione: non capisco perché dovrei delegare agli avvocati, e solo a loro, il compito di difendermi. Possibile che io sia talmente ignorante e stolto, da non potere articolare un discorso su me stesso?
La seconda argomentazione si concretizza in un dubbio, derivante dalla conoscenza degli attori della scena cosentina: siamo poi così sicuri che quelle pagine deliranti siano interamente frutto delle menti che lavorano nella procura di Cosenza?
E se la Plastina e Fiordalisi fossero solo gli strumenti inconsapevoli di qualcun altro? In fondo, non sono certo loro due ad indagare direttamente sul campo. Qualcuno potrebbe aver intrecciato a modo suo i fili dell'inchiesta, disegnando un quadro apocalittico, che i giudici cosentini hanno ritenuto verosimile. Da questo punto di vista, ingenerare nella mente della Gip qualche dubbio, potrebbe rivelarsi utile. Possibile che i magistrati siano così granitici come li dipingono?
Nella procedura penale, infatti, il Gip ed il Pm hanno ruoli equiparabili rispettivamente al chirurgo ed allo specialista. Un esempio?
Hai una brutta tosse, vai dal medico di famiglia e lui ti manda dallo specialista, il quale ti sottopone ad accertamenti, diagnosticando un tumore maligno ai polmoni.
A quel punto, vai dal chirurgo, che apre il tuo torace. Ma quando infila i ferri per tagliare il tumore, s'accorge che è solo una piaga causata da una bronchite curata male. Insomma, ti sei preso una bella paura, sottoponendoti ad un rischioso intervento; ed alla fine era solo una malattia curabilissima. Di chi è la colpa?
Della macchina per la radiografia, dello specialista, o del chirurgo? È sicuramente quest'ultimo ad avere il livello più basso di responsabilità, avendo agito su segnalazione di un altro, ed essendosi fidato di un lavoro svolto da una macchina.
Per questi motivi, scelgo di presentarmi davanti al Gip. In una gerarchia di responsabilità, lei è la meno colpevole.
Nadia Plastina, una donna tutto sommato carina, di statura non troppo alta, già verso la metà degli anni novanta mi aveva condannato per l'occupazione del centro sociale autogestito. Suo padre è stato il mio preside ed era molto amico della buon'anima di mio padre, pure lui preside. Quando ero studente, occupai la scuola un paio di volte.
Il papà della Plastina non fu contento quando bloccammo le lezioni, ma reagì sempre con grande tolleranza, comportandosi da uomo di sinistra. Non chiamò la polizia e alla fine tutto si risolse a tarallucci e vino. Avevo un buon rapporto con lui.
Non credo sia rimasto soddisfatto, adesso che ha saputo che sono finito in carcere per le mie idee.
Nella saletta dell'interrogatorio siamo in cinque: io, due avvocati, la Gip ed un assistente, anch'egli rigorosamente cosentino. Insomma, mi sembra di vivere un derby in campo neutro. Non so perché, eppure prima di iniziare a parlare in quello strano microfono che mi mettono sotto il naso, rivedo una sequenza del film "Il nome della rosa". Forse è la luce giallastra che buca la finestra, o più semplicemente l'idea che da quella manciata di minuti e dalle emissioni sonore della bocca, dipenderà il mio futuro. Di certo, per un individuo abituato a sperperare le giornate vivendole in maniera ripetitiva e superficiale, la sensazione di dover impiegare il tempo in modo minuzioso e determinante, getta sulla scena una sinistra luce medievale.
Un interrogatorio è come un esame universitario alla rovescia.
Lì devi confermare; qui: smentire. All'università, hai davanti un manichino che ti chiede di ripetere pappagallescamente le quattro fesserie scritte su una dispensa e su qualche libro. Non conta che tu abbia capito o meno ciò che stai dicendo. Per il professore, è importante che tu faccia finta di condividere quanto sta impresso su quei fogli, perché lui è depositario di quelle informazioni e vuole essere certo che tu le abbia assimilate.
Nell'interrogatorio, invece, hai sotto gli occhi un malloppo cartaceo: il fascicolo che ha portato al tuo arresto; e davanti a te c'è una persona che non sa assolutamente nulla del tuo mondo, dei tuoi linguaggi, né tanto meno ha prodotto di suo pugno quell'inchiesta. Tutt'al più, l'ha sottoscritta. Scopo del gioco è confutare le tesi costruite contro di te. Se ci riesci, sei libero.
Avevo già visto da vicino un magistrato, quando mi convocavano per quella storia dei tric trac notturni. All'epoca ero senza avvocato, in quanto le "persone informate sui fatti" non hanno facoltà di convocarlo. Quando ti risucchiano in un'inchiesta senza iscriverti nel registro degli indagati, le garanzie dello Stato di diritto vanno a farsi fottere.
In quel caso l'interrogatorio funziona così: loro fanno domande apparentemente stupide, ma talmente stupide che rifiutarti di rispondere sembra un'offesa all'intelligenza umana. In ogni caso, sei obbligato a parlare: la legge te lo impone, pur essendo privo di un difensore. Poi però, in realtà, le risposte vere le darai più tardi, quando entrando in macchina, dove hanno piazzato la cimice, o parlando al telefono sotto controllo, ti verrà spontaneo raccontare a qualcuno di quelle domande, commentandole a voce alta. Ed è lì che loro ti ascoltano, verificando la tua sincerità. Se hai mentito, sarai nuovamente convocato e ti saranno chieste spiegazioni sul senso delle frasi intercettate in macchina o al telefono. Insomma, più che un interrogatorio, diventa una seduta psicoanalitica, o se preferite: uno psicodramma.
Se sei un po' fragile, crolli di fronte a particolari che riguardano il tuo pensiero e la vita privata, che ti vengono puntualmente rinfacciati dal Pm.
A Viterbo, si gioca a carte scoperte. Osservo Nadia Plastina, penetro gli occhiali velati di scuro e finalmente riesco a guardarla negli occhi. Lei sorride.
Comprendo che nei tre giorni precedenti, a Cosenza, deve essersi avverata una Zona Temporaneamente Autonoma, una vera e propria situazione rivoluzionaria.
Effettivamente, in città nel frattempo era accaduto di tutto: il consiglio comunale invaso da una folla infuriata, che chiedeva ai consiglieri di fare una cosa mai fatta prima: un dibattito politico su un argomento concreto! Un'assemblea abituata da decenni a discutere sul nulla, si è vista costretta ad affrontare i temi della giustizia e della libertà d'opinione.
I nostri arresti hanno provocato l'indignazione generale tra i cittadini, che in massa sono scesi in piazza per imporre ai partiti una presa di posizione. E così i consiglieri, vistisi costretti ad interrompere la rituale discussione astratta, pur di non farsi linciare dalla folla inferocita, hanno proclamato a turno la loro ferma condanna dei giudici.
Monsignor Agostino, l'arcivescovo che usa la parola come il subcomandante Marcos, ha dichiarato apertamente il suo dissenso rispetto all'operazione orchestrata dalla Procura, proclamando una veglia in segno di protesta. Le dichiarazioni di Monsignore hanno costretto anche gli indecisi a prendere posizione.
Sabato, a due giorni dal blitz, il tribunale è stato paralizzato per un'intera mattinata da una folla che ne ha occupato la scalinata, costringendo gli agenti dell'Inquisizione accorsi sul posto nella speranza di fotografare altri potenziali sovversivi, ad utilizzare un obiettivo grandangolare, tanto era massiccia la partecipazione al sit in.
Il Sindaco, Eva Catizone, insieme ovviamente ai compagni mobilitatisi dal primo minuto, ha avuto l'intuizione di aprire le porte della città alla manifestazione programmata per il sabato successivo, rompendo gli indugi di chi credeva che Cosenza non fosse matura per un evento di tale portata.
Padre Fedele Bisceglia ha convocato tutti i giornalisti d'Italia, sensibilizzando l'opinione pubblica ma soprattutto la sua gente, che poi è quella che conta: poveri, migranti, ex prostitute, operatori sociali, ex detenuti, diseredati e missionari:
- Giudici, state perseguitando i miei fratelli No Global come i romani fecero con Cristo. Liberateli subito, oppure l'ira divina si abbatterà su di voi.
Il sottosegretario alla Giustizia, Jole Santelli, ha chiesto costantemente informazioni sull'andamento della vicenda. Pare che si sia anche rassicurata che all'interno delle carceri ci fosse garantito un trattamento dignitoso.
A quel punto, il Procuratore capo lo ha detto sommessamente: "Mi sento isolato".
Ed è qui che si è compresa tutta la portata del miracolo avvenuto: la città s'è spaccata. Ma la spaccatura non ha dilaniato i quartieri, le parrocchie, i luoghi naturali del movimento, i posti di lavoro, dove uomini e donne si sono schierati compatti e solidali dalla parte degli arrestati.
Il miracolo vero è avvenuto nel Palazzo di giustizia. Per una volta, nella storia della città, la corporazione s'è sfilacciata. Giudici toglievano il saluto ad altri giudici. Avvocati che non andavano in pizzeria con i procuratori. Giornalisti che non facevano le fusa agli sbirri. Cancellieri, uscieri, assistenti, che glielo dicevano chiaramente ai magistrati: secondo me state sbagliando.
Una cosa del genere non era mai accaduta prima.
Davanti al Gip, avverto che l'aria è agitata da qualcosa di travolgente. Un vento che parte dal basso e scuote tutta la società, in maniera trasversale. Lo leggo negli occhi della donna che ho davanti.
E parlo con franchezza. Affermo serenamente che l'accusa nei miei confronti è troppo folle. Secondo loro, avrei fatto parte di una setta segreta, una specie di superclan, organizzato e coperto, pronto a far scattare chissà quali piani diabolici contro il governo italiano e la globalizzazione. Che un simile reato abbia un carattere demenziale ed inconsistente, si deduce già dall'oggettiva impossibilità di capovolgere un fenomeno avvolgente come la globalizzazione dei mercati. Inoltre il fascicolo, viziato da tanti significativi errori di grammatica, si basa su un falso sillogismo, che in estrema sintesi è il seguente: se nel Sud Ribelle esisteva una struttura associativa occulta e violenta, e se Dionesalvi è tra i promotori del Sud Ribelle, allora Dionesalvi è occulto, violento e cospiratore. Lui e gli altri hanno partecipato agli scontri di Genova, ubbidendo ad un piano premeditato.
A dispetto di quanto scriverà in seguito, in realtà alla Plastina non rilascio "dichiarazioni", bensì difendo la mia persona, e provo a smontare un castello accusatorio - il classico impianto logico-deduttivo - partendo da considerazioni empiriche ed induttive. Dico sostanzialmente due cose: mi sembra paradossale l'ipotesi che io abbia fatto parte di presunti gruppi e gruppuscoli, perché, al contrario, da tanti anni mi riconosco in tutto il movimento dei movimenti e nella sua complessità. Lo sanno i compagni, ma pure quelli della digos, che io rifiuto, almeno dalla metà del decennio scorso, la logica delle fazioni. Non capisco perché adesso debba lasciare che il Ros dei carabinieri riscriva la mia storia personale, accreditandomi come un gruppettaro.
Considero l'esperienza del Sud Ribelle una realtà democratica, aperta ed inoffensiva, che ha agito alla luce del sole. Peraltro, non ho neanche partecipato alla pubblica assemblea in cui è stata fondata la rete, in quanto mi trovavo fuori Cosenza, ma se fossi stato in città, sicuramente vi avrei preso parte.
La seconda cosa che dico al giudice è di una semplicità impressionante: a Genova ho manifestato in un corteo, quello della disobbedienza sociale, che bandiva l'uso di strumenti atti ad offendere, e che è stato attaccato dai carabinieri quando nessuno se lo aspettava. La violenza l'abbiamo subita. E adesso mi trovo imputato per un'accusa paradossale, secondo la quale io ed i miei compagni l'avremmo pianificata.
Per il resto, nel corso dell'interrogatorio parlo solo io, cercando di demistificare il significato che è stato dato dagli inquirenti ad alcune mie frasi intercettate.
Rispondo negativamente ad una sola domanda:
- Conosce quelli di Taranto?
- No!
È un vero peccato che il Gip interpreterà queste mie parole in maniera del tutto fuorviante. Nell'ordinanza di scarcerazione, scriverà che io avrei "abiurato la violenza" e dichiarato di non voler "mai più" fare parte di gruppi ed organizzazioni. Nadia Plastina avrebbe potuto semplicemente ammettere il proprio ripensamento, invece lo ha attribuito a me. Sulle reali motivazioni del suo atteggiamento, ognuno può formulare un'opinione. Di fatto, pochi giorni dopo, a Cosenza, sarebbero scese in piazza cinquantamila persone.
Per una settimana, tra la liberazione mia e quella degli altri compagni, si è rischiato che potesse affiorare un'odiosa separazione tra "buoni" e "cattivi". A fare veramente giustizia, comunque, provvederanno i giudici del Tribunale del Riesame che, nelle motivazioni con cui scarcereranno tutti gli altri, scriveranno:
"In definitiva, sia l'analisi che la sintesi di tutte le emergenze indiziarie fin qui esaminate, inducono ad escludere che il "Sud Ribelle", come tale, abbia fornito un apporto violento agli scontri di Genova. Solo due dei suoi associati (Cirillo Francesco e Dionesalvi Claudio), fra i tanti che hanno preso parte alla manifestazione, possono ritenersi coinvolti nei violenti disordini e non è dimostrato, neppure a livello indiziario, che le loro azioni siano espressione di una strategia associativa".
In sostanza, grazie al Tribunale della libertà cadranno l'ipotesi cospirativa, la presunta associazione e la storiella della violenza. Cose che io, dal basso della mia ignoranza giuridica, provo a far capire al Gip, pur avendo letto solo superficialmente il fascicolo.
Al termine dell'interrogatorio, comunque, interviene anche Maurizio, che mi lancia un'occhiata soddisfatta. Indipendentemente dalla professione che esercita, Maurizio non è uno che racconta fesserie. Parla per una decina di minuti, e ce ne andiamo tutti a casa. Cioè, loro se ne vanno a casa ed io vengo riaccompagnato in cella. Mentre la guardia mi scorta, osservo attentamente per la prima volta il mio passo. Non è più quello di prima. Già nel pomeriggio avevo avuto questa sensazione, ma credevo si trattasse di suggestione. In verità, è cambiato il ritmo con cui le braccia s'affiancano alle gambe. Sono più geometriche nel movimento, quasi marziali. I piedi filano dritti. Mamma mia, sto diventando un automa. Ora capisco cosa provano i ragazzi, quando a scuola suona la campana e li facciamo uscire in fila per due. E comprendo come possano sentirsi i militari quando marciano. Non è più camminare, bensì procedere.
Alla paranoia sulla metamorfosi della gestualità, si aggiunge un'altra esperienza inedita. In fondo alla bocca, la lingua sta lavorando per alleviare una sofferenza.
Mi sta spuntando il dente del giudizio. Un dolore nuovo.


***


Martedì 19 novembre 2002, Mammagialla, Viterbo
"I giudici, gli sbirri, il boia sono i nemici peggiori dei poveracci che hanno combattuto con noi. Quel figlio di cane parla del Dio della feccia.
Ma chi è il suo Dio?
Ancora un giudice, uno sbirro, un boia".
Luther Blissett, "Q"

Ho passato una notte infame, senza riuscire a chiudere occhio. Il dente mi tormenta.
E non ho neanche minimamente provato a chiedere alle guardie che mi procurassero un antidolorifico. Con tutta quella gente che soffre come cani, perché mai dovrebbero prestare attenzione al molare capriccioso di uno di quegli scemetti No Global arrivati da Trani?
La sera prima, gli amici detenuti hanno messo a dura prova la mia ferma volontà di non commuovermi. Essendo rientrato tardi in cella dopo l'interrogatorio, ho perso la cena, perché il carrello del vitto era già passato.
Dieci minuti dopo il rientro, Beniamino mi recapita un piatto di pasta e patate preparato da Michele, un signore recluso nella cella di fronte. Non assaporavo una delizia simile dal tempo in cui viveva Zia Maria, che con i fornelli modestamente faceva cose da pazzi. Anche Michele se la cava da maestro.
Il sugo era talmente delicato, che per qualche minuto ho dimenticato l'infiammazione alla bocca. Dopo avere ringraziato mille volte coloro i quali sono ormai per me i fratelli carcerati, ha vinto per mezzoretta il sonno, prima che il dente ricominciasse a mordermi.
La mattina di martedì, dopo aver bevuto l'amaro latte offerto da Mammagialla, comincia a rosicchiarmi finalmente un pensiero fisso: ma allora, si può sapere perché ci hanno arrestato? Non è naturale continuare a starsene qui dentro senza chiederselo. In galera, la capacità di analizzare fatti e situazioni è direttamente proporzionale al senso di angoscia. Più soffri per la distanza dal mondo che ti è stato sottratto, più cresce la tua propensione a decodificare gli eventi esterni. Diventiamo tutti analisti politici e commentatori eccellenti, indipendentemente dal livello culturale raggiunto prima di essere sbattuti lì dentro. Gente che non ha studiato, o che è vissuta sempre sballottata da un penitenziario all'altro, raggiunge un grado di consapevolezza stupefacente.
Sospendo per un istante la lettura di "Q", che ormai uso come medicina per lenire il dolore del dente, in assenza di uno specialista che in galera difficilmente potrebbe giungermi in aiuto. Alzo gli occhi, rivedo le scene della sera prima. Galoppo con la fantasia. Qui può esserci una sola spiegazione.
In Italia, negli anni novanta, alcuni giudici rispolveravano il vecchio arnese del reato di associazione sovversiva, per incastrare i compagni anarchici.
A Cosenza, contemporaneamente, avvenivano quei famigerati atti dimostrativi: i tric trac ai danni dell'Assindustria, del Bic Calabria, dell'ufficio Servizi sociali, della caserma dei carabinieri e di altre sedi simboliche. La conseguente inchiesta giudiziaria deve essersi mantenuta su una soglia ordinaria per un po' di tempo, con la prevedibile raffica di interrogatori e pedinamenti nella nostra area, quella della sinistra antagonista. Le attività investigative si sono sviluppate in tono minore, almeno fino a quando in Italia non è accaduto qualcosa di sensazionale.
Gli omicidi di D'Antona prima e Biagi dopo, infatti, hanno innalzato il livello d'allarme, innescando nelle Procure una spirale di pericolosa isteria. A Roma, in qualche ufficio del Ministero o ad esso collaterale, si saranno convinti che bisognasse allargare il raggio delle indagini, scavando nelle zone periferiche del Paese, dove si erano verificati in tempi recenti episodi significativi come, per esempio, quelli accaduti nella mia città. A Cosenza, su questi fatti, gli zerozerosette locali non erano arrivati a nulla. Come si suol dire, brancolavano nel buio.
Di conseguenza, lassù, a Roma, ad un certo punto avranno perso la pazienza:
- È mai possibile che in un territorio così piccolo, ed in tanti anni di indagini, non siate riusciti a mettere le mani su chi se ne va in giro a piazzare i tric trac nottetempo?
Stando alle immancabili indiscrezioni, ispettori esterni e veterani della lotta alla sovversione sarebbero calati ripetutamente in riva al Crati, nel tentativo di spronare l'inchiesta. E infatti, spesso, nelle nostre "parrocchie" è circolata la voce:
- Ci sono quelli di Roma in città.
"Quelli di Roma" erano sbirroni forestieri, piombati giù per dare man forte e qualche tiratina di orecchie ai loro colleghi.
A furia di prendere bacchettate dall'alto, i Derrick ed i Colombo delle Calabrie si sono messi in testa che fosse necessario escogitare un teoremino di quelli facili facili, pur di salvare la faccia e la carriera. Qualcosa del tipo:
- A Cosenza e nel resto della regione, agisce una cellula eversiva che dialoga a distanza con la sovversione armata nazionale, a colpi di attentati e piccoli gesti dimostrativi.
Di fronte ad un castello di siffatta architettura fantapolitica, dallo Stato sono piovuti altri soldi e strumenti tecnologici, pur di chiudere il cerchio intorno ai "pericolosi cospiratori" operanti su Cosenza. Digos e Ros alzavano il tiro. Il risultato dell'inasprimento investigativo era l'interrogatorio di mia madre e zia Maria, due povere vecchie pensionate, nonché la convocazione in tribunale di alcuni noti spinellomani locali, probabilmente ritenuti gravitanti nell'area eversiva.
Nel 2000, avveniva un fatto del tutto estraneo al territorio nostro, ma risultava decisivo, come il pepe nero sulla pasta alla carbonara. Una vera manna dal cielo per gli instancabili omini che, nelle stanze delle varie polizie, cercavano prove tangibili a riscontro delle proprie fantasie investigative. Si verificava un primo salto di qualità sul versante inquirente, in seguito al rinvenimento, nello stabilimento "Zanussi" di Rende, di un documento che rivendicava l'attentato realizzato il 10 aprile dello stesso anno alla sede dell'Istituto per gli Affari Internazionali di Roma. Qualcuno, da un posto molto lontano, aveva spedito il volantino ai dipendenti della Zanussi, ritenendoli forse possibili partner di un progetto rivoluzionario!
Nell'apprendere la notizia, mi ci feci su una bella risata.
I giornali locali, ovviamente, si fiondarono sull'evento. Il mio amico Arancino, valido cronista del Quotidiano, scrisse un articolo in cui, dopo avere raccontato il fatto accaduto alla Zanussi con una certa incredulità, elencava la sequenza dei tric trac notturni esplosi, in circostanze diverse, negli anni novanta. Aveva inconsapevolmente istituito un insidioso collegamento tra la cronaca cittadina del decennio scorso ed un episodio che aveva origini e motivazioni remote, slegate dalla realtà cosentina.
In quel periodo, facevo un programma mattutino su Radio Ciroma. Nel leggere il "pezzo" di Arancino, fui travolto da un sussulto di ironia e telefonai a casa sua per ricavarne una pepata intervistina.
In sostanza, gli chiesi se quell'articolo glielo avessero dettato in Procura. Nello stile, infatti, somigliava molto ad un altro noto cronista locale, da sempre vicinissimo agli ambienti dell'Inquisizione. La nostra fu una conversazione pungente ma cordiale, al termine della quale Arancino riconobbe che quanto aveva scritto, non si basava su elementi concreti.
Il volantino alla Zanussi era una cosa, i tric trac un'altra. Lo avrebbe capito pure un bambino. Gli unici a prendere sul serio l'avvenimento, ideando un nesso perverso tra il recente passato cittadino e quel gesto isolato, furono gli inquirenti locali. Ai loro occhi, un fatto apparentemente insignificante rappresentava il collante ideale per congiungere finalmente i diversi pezzi del puzzle.
E mentre i procuratori dell'inchiesta "tric trac" avevano agito in maniera tutto sommato corretta, esplorando nelle nostre vite fino all'inverosimile ma accantonando qualsiasi ipotesi di reati associativi, con il documento alla Zanussi l'iniziativa passa nelle mani di altri magistrati di belle speranze. Aprono un nuovo fascicolo.
Nel ricostruire l'antefatto della presunta associazione sovversiva di cui avrei fatto parte, i redattori del capolavoro indiziario relativo al mio arresto ed a quelli degli altri compagni, lo spiegano bene:
- "Soprattutto, destavano inquietudine negli investigatori tutta una serie di episodi minatori e incendiari, verificatisi nel territorio cosentino tra il 1994 e il 1999, accompagnati da rivendicazioni di stampo eversivo, culminati nel rinvenimento di un ordigno inesploso presso la nuova caserma del comando provinciale dei carabinieri di Cosenza nell'agosto 1999 e per i quali le indagini venivano, nella gran parte dei casi, archiviate a carico di ignoti".
Deve essere nata negli uffici del tribunale una sorta di piccola gara a chi acciuffava i sovversivi; una competizione forse alimentata anche dai veleni che nel decennio precedente avevano caratterizzato in città i rapporti tra polizia e carabinieri.
E così, proprio mentre la prima inchiesta annaspava, la seconda prendeva il sopravvento, in un periodo compreso tra il 2000 ed il 2001.
Intanto, con gli uffici di Roma continuava il gioco di sponda. Da lì premevano, da qui rispondevano che finalmente c'era una pista concreta. Impronte digitali, fotografie e dettagliate informazioni sulle nostre persone, venivano immagazzinate da appositi archivi, e confrontate con le banche dati prodotte nell'ambito di inchieste più grosse. Già prima della Zanussi, nell'estate del 2000, io ed altri sette compagni eravamo stati convocati negli uffici della Digos e schedati, nonostante non ci fossero stati notificati procedimenti o denunce, né tantomeno condanne. La motivazione ufficiale era che siccome l'anno prima, durante la guerra in Kosovo, avevamo occupato la sede dei Ds in segno di protesta, la Procura ci considerava "pericolosi". A nulla servirono le rimostranze degli avvocati. La Questura, codice alla mano, stava eseguendo una procedura regolare. Scoprimmo allora che in Italia puoi essere schedato, anche in assenza di un provvedimento giudiziario che ne fornisca la giusta motivazione.
Insomma, nei nostri confronti proseguono, per tutta la durata del primo semestre 2001, indagini serrate ed iniziative più o meno provocatorie. Un esempio?
In una mattina d'estate mi vedo recapitare una lettera anonima, regolarmente affrancata. Contiene i verbali delle intercettazioni ambientali effettuate dalla digos nella mia macchina. In essi sono riportati i dialoghi tra me ed un compagno. Parlavamo di una storia poco chiara, che ci avevano raccontato alcuni immigrati nordafricani, a proposito delle procedure per la regolarizzazione e l'ottenimento dei permessi di soggiorno. Quei verbali possono essere usciti solo dagli uffici in cui le intercettazioni sono state registrate e trascritte. Erano accompagnati da una lettera scritta con il righello, in cui si lanciavano pesanti accuse ad alti funzionari della Questura. Secondo l'anonimo redattore della missiva, alcuni poliziotti avrebbero effettuato procedure illecite, in cambio di somme in denaro e regalie. Insomma, quasi certamente si trattava di una storia di dispetti e veleni tra gente che lavora nei medesimi uffici, ma non deve nutrire una forte stima nei confronti dei propri colleghi. Accantonai quella lettera per un motivo preciso: avevo altri problemi in testa.
Lo stato di salute di mia madre peggiorava. Eppure, compresi che in qualche modo restavo nel mirino di gente che avrebbe fatto di tutto per incastrarmi, o utilizzarmi in modo strumentale. Come me, ovviamente, tanti compagni e compagne.
La svolta si è avuta tra la primavera e l'estate 2001, con i noti fatti di Napoli e Genova. Carabinieri e poliziotti ascoltano le nostre conversazioni. Il mondo intero è atterrito da ciò che è accaduto durante l'irruzione nella scuola "Diaz" e nel corso degli incidenti nelle strade dei due capoluoghi. E soprattutto, terrorizza il trattamento riservato ai manifestanti nella caserma Bolzaneto. Giornalisti massacrati di botte, pacifisti pestati: sono immagini che lasciano il segno. Alle verità urlate dal movimento e da quanti hanno assistito alla mattanza, deve necessariamente contrapporsi un'altra verità, che restituisca un minimo di credibilità alle istituzioni. Da settembre in poi, inizia a prendere corpo la volontà di saldare immagini, attori, personaggi ed inchieste, incorniciando il tutto nel quadro degli incidenti di Napoli e del G8.
La Procura di Genova lavora sui fatti. Nel sud, invece, storicamente siamo da sempre più bravi con le parole. Al filone tric trac - Zanussi - eversione calabrese, si unisce quello dei compagni tarantini, sui quali gravava una situazione per certi versi analoga a quella cosentina. Anche in Puglia, gli zerozerosette sognavano da tempo di piazzare una bella associazione sovversiva sul tavolo di qualche procuratore. Ed ecco condita la frittata, preparata con ingredienti selezionati nel Mezzogiorno ed amalgamati verosimilmente altrove, come in effetti hanno lasciato intendere dalle pagine de "la Repubblica" i Giornalisti D'Avanzo e Sergi.
Nella cella di Viterbo sto pensando proprio a loro, mentre si affaccia un frate, padre Antonio. Ha un tono di voce dolcissimo. Mi porge una medaglietta di padre Pio. Neanche il tempo di scambiare due chiacchiere, che arriva una guardia:
- Dionesalvi, si prepari. Domani deve trasferirsi nella cella del suo amico Gianfranco Tallarico.
(...)