Introduzione
di Agostino Manni
al libro "Se i giorni erano muri" di Michele De Sabato
Edizioni Senzapatria, 1990
Ci sono attualmente 8 carceri militari, in Italia.
8 lager, 8 infami recinti nei quali ogni anno lo Stato rinchiude migliaia di
giovani vite.
Roma, Cagliari, Sora, Palermo, S. Maria Capua Vetere, Bari, Gaeta e Peschiera
del Garda sono i punti cardinali di questa "speciale" geografia della
repressione, di cui gran parte della gente ignora perfino l'esistenza.
A questa mappa della violenza di Stato si aggiunge infine una piccola sezione
all'interno della caserma "Montegrappa" di Torino, destinata però
perlopiù ad ospitare detenuti in attesa di giudizio.
Chi sono gli "abitanti" di questi luoghi?
Quanti giovani vengono sequestrati dietro queste mura? E perché vi vengono
rinchiusi?
Quali violenze, quali umiliazioni sono costretti a subire? E con quale rabbia,
con quale orgoglio difendono - anche dietro le sbarre - le proprie convinzioni,
la propria voglia di vivere, la propria dignità?
Quante persone saprebbero rispondere a queste domande?
Poche; sicuramente troppo poche. Una spessa cortina di silenzio avvolge questa
incredibile realtà, questo mondo dove spesso non valgono neppure le ipocrite
norme e i partigiani decreti della giustizia borghese. Un solido muro di indifferenza
cammina parallelo al cemento di questi alti recinti, e impedisce che ogni sguardo
solidale o curioso vi scorga la vita (che pure si agita), le paure e la rabbia,
le attese e la noia, le voglie ed i sogni di chi spesso può appellarsi
soltanto al buon senso dei suoi stessi aguzzini.
Indifferenza e silenzio, complici quanto le sbarre di questo sopruso, di questa
ingiustizia perpetrata e nascosta. Indifferenza e silenzio, contro i quali rimbalza
qualsiasi denuncia, contro i quali si spegne ogni appello fuggiasco, contro
i quali si spezza ogni grido ribelle.
Ma chi urla, dall'altra parte del muro?
Chi "abita" questi luoghi impuniti? Chi vi è sequestrato?
Se si escludono alcuni militari di mestiere - perlopiù poliziotti e carabinieri
- rinchiusi per aver commesso dei reati durante il servizio (furto, spaccio,
omicidio), la popolazione di un carcere militare è composta interamente
da giovani in età di leva.
Gli ufficiali detenuti sono una esigua minoranza, che vive alle volte in reparti
speciali, lontano dalle celle degli altri prigionieri.
Questi ultimi, la cui età raramente supera i 25 anni, vengono divisi
dalle stesse autorità carcerarie in due grandi categorie: gli obiettori
di coscienza e i "comuni".
Dei primi, la stragrande maggioranza è costituita dagli obiettori religiosi,
tutti o quasi appartenenti alla setta dei Testimoni di Geova; cui si aggiungono
alcuni anarchici, qualche comunista, qualche non-violento e altri privi di un'ideologia
definita.
Questi giovani rifiutano di svolgere sia il servizio militare che quello civile
sostitutivo, adducendo motivazioni di carattere diverso (e spesso anche inconciliabili
tra loro): per questo vengono condannati da un tribunale militare ad una pena
detentiva che solitamente non supera i 12/15 mesi.
"Uguali" di fronte all'autorità carceraria - che si ostina
a trattarli come soldati in galera -, questi individui in realtà sono
molto diversi tra loro: l'atteggiamento sommesso del testimone di Geova, infatti,
contrasta con quello del giovane anarchico che estende ad ogni obbligo la sua
ribellione, anche dietro le sbarre, e spesso per questo subisce ulteriori denunce
(che alle volte significano altre condanne, e quindi altra galera).
Solitamente, però, prima o poi l'obiettore da quel carcere esce, per
non tornarci mai più.
Non così si può dire di quanti appartengono all'altra categoria,
quella di quanti - non so bene il perché - le autorità carcerarie
si ostinano a chiamare i "comuni".
Non riesco a pensare a questi ragazzi senza un moto di rabbia: li chiamavo "compagni",
quando stavo in galera, ma solo perché non riuscivo a chiamarli "fratelli".
Ma li amavo così, come si ama chi ha un sangue non diverso dal tuo, come
si soffre per uno che è figlio della tua stessa madre, e per il quale
daresti la vita.
Non riesco a spiegare il perché. A parte le sbarre, a parte la gabbia
non avevo molte cose in comune con loro: non la miseria, che io ho scoperto
solo a vent'anni; non l'istruzione, non la cultura, che è un privilegio
che loro non hanno mai avuto; non la solitudine, che oltretutto è soltanto
uno stato interiore; e neanche la fede in una grande utopia, che alle volte
riusciva difficile persino chiamare per nome.
Non avevo molte cose in comune con loro; a parte le sbarre, a parte la rabbia
per la mia condizione, a parte il disprezzo per chi ci stava rubando la vita,
a parte una massa incredibile d'odio che sentivo crescermi dentro e che capivo
non essere di altra natura da ciò che li faceva continuamente fumare,
e stringere i pugni, e alzare la voce, e non trovare mai pace, alle volte, nemmeno
nel sonno.
Ma, chi sono i "comuni"?
Il più delle volte finiscono in carcere per aver disertato; poco dopo
ne escono, in libertà provvisoria, ma sempre con l'obbligo di ripresentarsi
in caserma.
Per la legge italiana (per il codice militare di pace), un giovane può
essere condannato più volte per questo stesso reato fino all'età
di 45 anni, o fino a che non completi il servizio.
Quando ciò non succede, quando cioè il giovane continua a disertare,
si accumulano sul suo capo continue condanne (ognuna delle quali può
essere anche una pena di 6/8 mesi di reclusione): le prime volte i tribunali
concedono la "sospensione condizionale della pena" (laddove il giovane
non abbia già dei precedenti penali "civili"), ma presto anche
questo beneficio viene meno, la condanna diventa definitiva, e le porte del
carcere si rinchiudono alle sue spalle per riaprirsi dopo anni.
Chi non è in carcere per diserzione vi è comunque finito per aver
infranto qualche articolo del codice penale militare.
Il più delle volte si tratta di giovani poco disposti a subire il cinismo
dei "nonni", o l'arbitrio e la superbia dei loro ufficiali: ,una parola
di troppo, una lite, un accenno violento, o magari davvero una rissa e qualche
testa "spaccata", e finiscono "dentro" per insubordinazione,
per ingiuria, o per qualche grave violata consegna.
Per lo più sono figli di povera gente, di quelli che un tempo si usava
chiamare "proletari"; tra loro non si trovano i figli di qualche avvocato,
di un medico, un geometra, o di un ingegnere; non ci sono rampolli di buona
famiglia in galera.
Qualcuno di loro magari aveva anche un mestiere, prima che gli ordinassero di
partire soldato: qualcuno di loro era cuoco, o faceva il carrozziere; qualcuno
faceva il meccanico, il pizzaiolo, il contadino o il muratore. Qualcuno era
disoccupato; qualcuno rubava, invece di farsi sfruttare, invece che sudare come
una bestia nei campi, per qualche schifoso migliaio di lire.
Sono pochi, tra loro, quelli che hanno studiato; qualcuno addirittura non ha
mai frequentato una scuola.
Per la legge, sono solo asociali che bisogna punire, delinquenti refrattari
alle regole; per gli psicologi e i preti del carcere, disadattati che bisogna
educare, che bisogna "inserire" nella vita sociale.
Michele De Sabato è uno di loro.
Comincia a svolgere il servizio di leva il 21 agosto dell'84; anzi, come dice
lui stesso, quel giorno viene "sequestrato da un brigante che si fa chiamare
PATRIA".
Nel marzo del 1985 viene processato dal Tribunale Militare di Bari per 4 diserzioni
e un allontanamento illecito e condannato alla pena totale di 40 mesi di reclusione.
Detenuto nel carcere militare di Bari-Palese, subisce continue violenze morali
e un pestaggio.
Nel settembre del 1986 la sua pena viene aumentata di 16 mesi, in seguito all'accusa
di aver praticato insieme ad altri compagni un foro nel muro, dal quale sarebbero
evasi.
Il 5 giugno dell'8l, infine, in seguito ad una protesta collettiva, causata
dal malessere di un compagno e dal rifiuto dell'ufficiale di guardia di chiamare
un medico, viene condannato ad altri 29 mesi di reclusione per il reato di "rivolta".
Michele De Sabato è attualmente rinchiuso nel carcere militare di Peschiera
del Garda.
Partito a 18 anni per "servire la patria", si è visto rubare
dai burattini in divisa 7 lunghi anni della sua gioventù.
Questo libro per far sì che non siano del tutto perduti.
Questo libro per lui, e per quelli che non sanno parlare, ma che hanno ingoiato
una rabbia uguale alla sua, dietro le sbarre della stessa prigione.
Questo libro per quelli che non hanno mai frequentato una scuola, che non hanno
imparato mai a scrivere, e che sono costretti a dettare ai compagni di cella
le parole d'amore.
Questo libro per parlare dei tribunali militari e del carcere, per rompere l'indifferenza
che li circonda, per spezzare le complicità e la superbia, la follia
e l'arroganza di chi si sente padrone delle nostre giovani vite soltanto perché
indossa buffi stracci da parata e si appunta medagliette sul petto.
Questo libro contro i generali, contro l'obbligo del servizio di leva, contro
le guerre e la sottomissione, contro il cinismo e la rassegnazione.
Questo libro per chi ancora crede in un mondo migliore, e non ha smesso di lottare
per la sua dignità.