Thomas Mathiesen
Perché il carcere?

Introduzione
di Vincenzo Ruggiero (Middlesex University, Londra).

"Il regno della libertà non giunge rendendo gradualmente più confortevoli i letti delle prigioni".
(Ernst Bloch)

Thomas Mathiesen è tra i rappresentanti più autorevoli della scuola penologica definita "abolizionista", e il presente volume aggiunge un contributo di spicco alla letteratura sull'argomento che, in verità, è da noi piuttosto esigua (tra i contributi più significativi: Autori vari 1983; Scheerer 1983; Pavarini 1985; Christie 1985; Mendez 1985; Mosconi 1987; Gallo - Ruggiero 1989; Movimento abolizionista 1990).
L'abolizionismo non è dotato di un repertorio rigido e delimitato di teorie, e in una indovinata metafora è stato definito, piuttosto, come «una bandiera sotto la quale navigano battelli di diverse dimensioni che trasportano quantitativi variabili di esplosivo» (De Folter 1986). Questa metafora descrive alla perfezione le attività molteplici di Mathiesen, a cavallo tra la militanza nel KROM (Associazione norvegese per la riforma penale), sorto nel 1968 e formato da detenuti, operatori e accademici, la ricerca scientifica e la saggistica critica (Mathiesen 1974).
Nel senso più ampio del termine, parliamo di abolizionismo quando eleggiamo a imputato non una parte del sistema della giustizia criminale, ma lo stesso sistema della giustizia nel suo complesso. Quando interpretiamo quest'ultimo come fonte di un vero e proprio "problema sociale" e riteniamo la sua abolizione l'unica risposta adeguata al problema medesimo. Abolizionismo è soprattutto una prospettiva, un metodo di indagine e di milizia applicate a un oggetto, il sistema della giustizia criminale, che si intende depotenziare e tendenzialmente abolire.

1. Non esistono in Italia forti tradizioni abolizioniste, o riduzioniste, che non ricadano surrettiziamente in modelli correzionali o redentivi dell'" antisocialità". Neppure il nostro marxismo è stato in grado di elaborare delle modalità di coesistenza tra diversi che non siano fortemente tinteggiate di moralismo. Si può attribuire tale circostanza alla nostra ingombrante eredità ottocentesca, alla confluenza di proposizioni, anche le più spregiudicate, nel «correzionalismo e nelle soluzioni proprie del positivismo criminologico di Ferri» (Marconi 1979). Anche in epoca più recente, e persino in contributi di enorme valore pionieristico, non si può non cogliere una matrice materialista ortodossa che sembra raccogliere, sebbene selettivamente, la suddetta eredità. Se alla genealogia del carcere vengono fatte corrispondere rispettivamente la genealogia del sistema industriale e quella della classe operaia, la soluzione del problema carcere viene, giocoforza, affidata allo stesso movimento operaio organizzato e alla sua lotta «fatale». L'assenza di una forte tradizione libertaria in campo penale, nel nostro paese, ha finito per produrre una polarizzazione verso valori quali produttività, prestazione, sacrificio, merito, utilità e così via. Questi valori, basati sull'equivoco che vede le attività legali come produttive e quelle criminali come parassitarie, impregnano di sé le politiche penali e costituiscono un ostacolo ideologico non secondario all'affermarsi di una cultura abolizionista. Coerentemente ai suddetti valori ortodossi, gli unici conflitti concepibili sono quelli riferiti ai luoghi centrali della produzione e ai tipi «etici» di produttori. Ai «devianti», frattanto, non resta altro che adottare i trucchi dei mendicanti dei secoli passati: costoro, per mostrarsi meritevoli di assistenza e comprensione, si automutilavano perché «la gente detesta le membra sane» (Geremek 1988). A riprova del predominio dell'ortodossia materialista e operaista in Italia, e a rischio di suonare irriverenti a entrambi gli autori, si vedano le analogie politiche nel «discorso penale» rispettivamente di Pietro Ingrao (1975) e di Giovanni Senzani (1979).
Si potrebbe inoltre imputare l'inesistenza di una vera " anticriminologia" italiana alla particolare struttura del nostro apparato accademico e, in particolare, a quella della élite criminologica. Nella criminologia ufficiale, ad esempio, i diversi paradigmi sembrano possedere una grande coesione interna malgrado le aspre controversie tra scuole. Si tratta, a ben vedere, di una coesione di "status" che viene conservata a dispetto dei contrasti dottrinari, come a semplice tutela di una male interpretata identità professionale. Quello che Sergio Piro (1988) ha notato a proposito della psichiatria pre-riforma si può applicare anche alla nostra criminologia ufficiale: è la sua coesione accademica promossa attraverso la riproduzione di ruoli, cattedre, ricerche e ricercatori, che mette in secondo piano, quando non sostituisce, la produzione delle idee. Il predominio medico in criminologia ha fatto il resto, con esperti di ogni sorta di patologia messi in cattedra e costretti, a posteriori, a «pensare sociologicamente».
Va riconosciuto però che anche nel nostro paese le discipline penologiche sono state sottoposte a critiche e destrutturazioni molto salutari. Mi riferisco alla critica-pratica dei movimenti contro il carcere e alla produzione saggistica della criminologia critica, in particolare a quei contributi analitici che hanno radicalmente messo in discussione lo stesso «diritto di punire». E tuttavia, anche questa produzione teorico-pratica non sembra aver germinato una cultura di matrice abolizionista, circostanza che va forse attribuita, sebbene indirettamente, alla debolezza della nostra sociologia della devianza. L'attenzione quasi esclusiva, da noi, rivolta ai processi di criminalizzazione anziché alle dinamiche della devianza, alle risposte istituzionali alla criminalità anziché all'economia della medesima, alla percezione dei criminali anziché alle loro scelte «occupazionali» (ancorché illegali), ha prodotto non poche incongruenze. Tra queste, l'abbandono dell'indagine descrittiva di tipo etnografico e di tutte quelle tecniche di «conoscenza partecipativa» dei fenomeni di devianza che, attraverso forme seppur «deboli» di empatia con i soggetti studiati, possono talvolta contribuire a generare cultura abolizionista.

2. L'impatto dell'edizione italiana di questo libro va misurato sullo sfondo del panorama qui sommariamente descritto. Si può già da ora presumere che le parti analitiche del testo, riguardanti il "fiasco" della giustizia penale e del carcere, presenteranno una certa assonanza con la produzione critica italiana. Le parti propositive, invece, troveranno buona accoglienza solo laddove si sarà disposti a rivedere alcuni assunti e prospettive di quello che rimane della stessa criminologia critica. E' difficile, infatti, condividere soluzioni quando si nega problematicità alle situazioni da risolvere, o quando i contorni di tale problematicità non vengono osservati sistematicamente. Ne è emblema, in Italia, il notevole ritardo riguardante lo studio di nodi tematici quali la vittima e la giustizia informale, alle quali Mathiesen dedica la necessaria attenzione. Ma vediamo separatamente le diverse tematiche affrontate dall'autore.
Quali difese può avere oggi il carcere quando il suo fallimento è visibile a fronte di tutti quei presupposti che pure, ufficialmente, aiutano a tenerlo in vita? Mathiesen prende in esame i propositi conclamati della pena e li confronta con i risultati di corrispondenti indagini empiriche. Così , ad esempio, il carcere si rivela fallimentare nel rispondere a esigenze di difesa sociale e persino catastrofico nel proposito dichiarato della riabilitazione del reo. Analogo fiasco si registra nella prevenzione generale, se con questa davvero si intende una sorta di messaggio dissuasivo rivolto ai cittadini in generale. Richiamandosi alle teorie della comunicazione, Mathiesen decodifica i segni del carcere e rileva quanto questi siano inadatti a trasmettere modelli di comportamento conformi. Identica demolizione ricevono le cosiddette funzioni di incapacitamento e i presupposti del «modello giustizia». Quest'ultimo, come è noto, attribuisce alla pena dei principi di restituzione autoritaria, secondo cui il carcere è un giusto armamentario reattivo indirizzato al comportamento cui viene inflitto. Di qui le idee di chiarezza e proporzionalità della pena, scientificamente commisurata alla gravità dell'offesa. Si tratta, secondo Mathiesen, di un discorso circolare: spesso è proprio la severità della pena a suggerire la presunta gravità del reato, e non viceversa, in un universo simbolico che si ritiene collettivamente condiviso ma che tale non è. I l rapporto reato-pena, infatti, non si presta a criteri di lettura universali, l'atteggiamento nei confronti della «pena giusta» variando col variare della distanza tra gli individui e il mondo della punizione (Gottfredson 1984; Christie 1986).
Come si è accennato, simili analisi sono familiari anche presso la nostra criminologia critica, né poco familiare è lo schema proposto da Mathiesen relativo alle reali funzioni del carcere, vale a dire alle sue funzioni non dichiarate, latenti, sebbene «insostituibili». L'autore individua una "funzione espurgatoria": il carcere estromette dalla società i soggetti improduttivi. Segnala poi una "funzione di annichilimento", mirante a ridurre i suddetti soggetti alla totale impotenza, e messa in campo attraverso lo stigma implicito nella detenzione. Una "funzione di diversione", che si manifesta nel colpire il crimine bagatellare e nel distogliere l'attenzione dai crimini strutturali. Una " funzione simbolica", che si sostanzia nel penalizzare un piccolo gruppo di attori dai quali la società prende le distanze allo scopo di riconfermare il proprio ordine, dato come immutabile. In Italia, l'analisi delle funzioni latenti della punizione, in analogia con i suggerimenti di Mathiesen, ha per altro individuato altri aspetti, che vanno dalla produzione e riproduzione dei delinquenti alla rappresentazione come normalità dei rapporti di disuguaglianza (Baratta 1985). Dalla funzione regolativa del mercato del lavoro parallelo a quella di «cassa integrazione» per la mano d'opera criminale eccedente o di assistenza in condizioni di coazione per gli indigenti (Mosconi 1982; Gallo - Ruggiero 1989; Ruggiero 1991; 1995; 1996).
Se dunque la diagnosi proposta dal pensiero abolizionista trova terreno molto ricettivo, è sul versante della prognosi che la nostra tradizione critica e riformista è chiamata a rispondere con maggiore chiarezza. Come risolvere il paradosso secondo cui la pena viene inflitta affinché il reo non si riproduca, ma svolge nei fatti un ruolo cruciale nella sua riproduzione? Mathiesen va da anni propugnando il riorientamento della giustizia criminale in direzione della vittima. In questo testo, descrive alcuni elementi di riparazione simbolica, esempi di rituali riconciliativi che restaurano l'onore, di risarcimento materiale di chi è vittimizzato, di arbitrato tra vittima e reo, di restituzione e riparazione da parte di quest'ultimo del danno prodotto. Chi scrive è consapevole che il riorientamento della giustizia criminale in direzione della vittima non è una panacea e che, in previsione di una possibile ascesa di modelli ufficiali di riconciliazione, conviene metterne in luce da subito le incongruenze e le ambiguità.

3. Da quando, quasi mezzo secolo fa, è apparso il testo di Von Hentig (1948) hanno anche preso forma delle controversie in tema di "vittima di reato" destinate a trascinarsi fino a noi. Tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta si sono moltiplicate le iniziative a favore delle persone vittimizzate, mentre la saggistica più attenta si è battuta perché venissero riconosciute le responsabilità istituzionali vuoi per quanto riguarda l'insorgere delle situazioni problematiche che creano vittimizzazione, vuoi relativamente alla compensazione delle vittime. Nel 1964 nasce nel Regno Unito il "Criminal Injuries Compensation Board" (C.I.C.B.), che risarcisce, discrezionalmente e non statutariamente, le vittime di reato che riportano danni fisici. Gli osservatori più critici fanno notare che il C.I.C.B. pratica compensazione "ex gratia", a mo' di beneficenza umanitaria occasionale, in quanto gli apparati istituzionali non accettano il principio della propria responsabilità nel prevenire i delitti né nel temperarne gli effetti. Play Pin Up Casino online. Videoslots, pin-up girls in real games.
Questo tipo di vittimologia descrive allo stesso tempo una rottura e una sottile continuità con la vittimologia tradizionale. In quest'ultima, come è noto, il luogo centrale dell'analisi era costituito dallo spazio sociale e psicologico nel quale il reo e la vittima interagiscono. In particolare, lo studio della vittima mirava a svelare i meccanismi che precipitano l'interazione e danno vita al reato. La stessa definizione " vittimologia", in questo contesto, suona però inappropriata, la vittima essendo trascurata a vantaggio dei meccanismi socio-psicologici che permettono il compiersi di un reato. Negli anni Cinquanta e Sessanta, come nell'esempio riportato sopra, la vittima riceve se non altro una ricompensa materiale per l'offesa, ma la selettività con la quale il risarcimento viene elargito riproduce alcuni principi e pratiche che sono proprie della vittimologia tradizionale. Mi riferisco alla circostanza secondo cui il verificarsi di molti reati viene implicitamente attribuito alla negligenza della vittima, incapace, si suggerisce, di adottare le più elementari misure di prevenzione. Per i furti in appartamento, ad esempio, le vittime possono essere accusate di lasciare le finestre aperte, o di non fortificare a dovere le porte di ingresso. Le vittime di violenza sessuale, di aggirarsi per le strade in orari a rischio, abbigliate in maniera da «precipitare» il compiersi della violenza. E' questa enfasi sull'interazione tra rei e vittime a suggerire quanto le prime iniziative di compensazione e risarcimento siano largamente in debito con la vittimologia tradizionale, e a suscitare il bisogno di una cosiddetta "nuova vittimologia".
Nei contributi recentemente apparsi anche da noi, si fa rilevare che per nuova vittimologia vada soltanto intesa una disciplina centrata davvero sui bisogni delle vittime, e non, come quella tradizionale, focalizzata, attraverso l'osservazione delle vittime, sulle dinamiche dei reati (Pepino - Scatolero 1992). Se si adotta questa definizione, però, anche la vittimologia degli anni Settanta e Ottanta può solo parzialmente sottrarsi all'appellativo di «tradizionale». Vale la pena ricordare che le maggiori indagini vittimologiche condotte nel Regno Unito sono ispirate dall'intento di svelare, almeno parzialmente, la cifra oscura della criminalità (Sparks - Genn - Dodd 1977; Gottfredson 1984; Hough - Mayhew 1985; Jones - Maclean - Young 1986; Mayhew Elliott - Dowds 1989). Di nuovo, non è la vittima in sé l'oggetto dello studio, ma la criminalità in quanto fenomeno generale e, nello specifico, la sua dimensione quantitativa. Ma anche quando assume caratteristiche qualitative, lo studio vittimologico sembra rispondere a esigenze diverse da quelle direttamente connesse al benessere delle vittime. Tra gli studi citati, ad esempio, le vittime di reato vengono ascoltate, e si direbbe, prese a pretesto, per individuare delle più appropriate politiche di prevenzione e trattamento dei reati o di risoluzione dei conflitti. La vittima diventa insomma un settore privilegiato dell'opinione pubblica al quale richiamarsi quando si cerca legittimazione per questo o quell'intervento istituzionale.
Occorre riconoscere agli abolizionisti il merito di avere fatto chiarezza su queste questioni (Christie 1986; 1993; Hulsman 1982; 1986; Bianchi - Van Swaaningen 1986; Bianchi 1994; de Haan 1990; Mathiesen 1986; 1990). Il riorientamento della giustizia criminale in direzione della vittima può offrire a una disciplina esausta l'occasione di rivitalizzarsi al suo interno e di restaurare delle relazioni di un qualche senso con l'esterno. In un clima di pessimismo penologico, infatti, tutti sono disposti a cimentarsi in un terreno sicuro, quello della vittima, e sentirsi così finalmente esentati dallo studiare il mondo dei rei (Maguire - Pointing 1988). Il nuovo orientamento, insomma, costituisce una scelta facile, non contestabile, popolare, in un panorama dominato non solo da una profonda crisi eziologica, ma anche da una diffusa sfiducia nei confronti di ogni tipo di ipotesi trattamentale dei rei.
Alla criminologia orientata verso le vittime non sono state risparmiate queste e altre critiche, ampiamente corroborate da risultati di ricerche empiriche (Walklate 1989; Mawby - Walklate 1994). Può accadere ad esempio che i gruppi di sostegno alle vittime di reato siano costituiti da volontari che interpretano con tale zelo il proprio mandato da incrementare anziché temperare il panico già esistente (Mawby - Gill 1987; Fattah 1987; Wright - Galaway 1989). Ferventi moralizzatori, alcuni gruppi di vittime o loro sostenitori volontari possono farsi promotori di campagne favorevoli alla pena capitale (Rock 1990; Davis 1992). Eppure, lo stesso conio della parola «vittimologia» originava da un proposito umanitario, circostanza opportunamente ricordata a più riprese dagli abolizionisti. Nel periodo postbellico, lo statuto di vittima riguardava infatti le vittime di guerra, dell'ignoranza, della violenza, della povertà, dello sfruttamento, della malattia, dell'infelicità, dell'oppressione (Elias 1986). Credo che gli abolizionisti cerchino di ricondurre la questione criminale nel seno dei suddetti gruppi, cioè di ricollocare la vittima nella posizione di oppresso-oppressa sullo sfondo di un processo di deperimento della giustizia formale. E' inutile negare lo slancio utopistico che sottende un simile tentativo, ma si cerchi di comprenderne alcuni elementi concreti.

4. Si parta da un primo dato: la centralità attribuita alle vittime ha messo in luce il concetto di vulnerabilità: il crimine è un conflitto la cui gravità è soggettiva, dipendendo dal rapporto che ognuno stabilisce con i beni di sua proprietà, e dall'autopercezione che ognuno elabora quando posto di fronte a un antagonista. La vittimologia, vecchia o nuova, ha in un certo senso ricollocato le responsabilità individuali nel diagramma dei conflitti svelando, da un lato, la sofferenza soggettivamente avvertita da chi è vittima e, dall'altro, gli effetti concreti prodotti da chi vittimizza (Pitch 1989). In altre parole, ha se non altro chiarito che non esiste vittima di reato in senso ontologico.
Si consideri poi un altro dato: se essere vittimizzati non corrisponde a un fenomeno oggettivo, esiste d'altro canto una "vittima ideale". Si tratta di persone o categorie di persone le quali, una volta colpite dal crimine, vengono rapidamente investite dallo status completo e legittimo di vittima. Si tratta di una proiezione istituzionale che non è priva di conseguenze. Niels Christie (1987) suggerisce il seguente esempio di vittima ideale: una anziana signora di ritorno a casa, in pieno giorno, dopo aver assistito una sorella malata, viene colpita alla testa da un uomo robusto che le strappa la borsetta e spende i soldi sottratti in liquori o droghe. Questa nozione di vittima presuppone una persona incapace di difendersi fisicamente, psicologicamente e socialmente, ed è congrua con chi è privato del potere di farsi riconoscere vuoi come soggetto e vuoi, paradossalmente, come vittima. Lo status di vittima, insieme alla tutela che le è presumibilmente dovuta, viene conferito dall'esterno, in una situazione definita a priori la cui problematicità è autoevidente.
La vittima ideale è insomma un non-soggetto, cui non viene riconosciuto il potere di autodefinirsi. Ora, le pratiche di risoluzione dei conflitti incoraggiate dagli abolizionisti possono produrre in questo contesto delle modifiche di non poco conto. L'attivazione delle vittime può temperare le loro caratteristiche ideali e propiziare le loro capacità di definirsi come "vittime reali". Questo passaggio comporta la percezione di sé non come semplice oggetto di tutela istituzionale, ma come parte di un conflitto, come attore di una negoziazione. L'idea abolizionista, in questa luce, appare tutt'altro che utopistica, in quanto, a ben vedere, ruota intorno a uno dei cardini più concreti del sistema della giustizia criminale. Ruota insomma intorno ai meccanismi che lasciano percepire alcuni atti e individui, e non altri, come dannosi, e da tale percezione lasciano scaturire conseguenze normative. La particolare centralità assunta dalla vittima nel discorso abolizionista può innescare una ridefinizione delle situazioni problematiche, e modificare sensibilmente la stessa percezione dei comportamenti criminalizzati. Le iniziative propugnate dagli abolizionisti possono, per altro, far maturare consapevolezza anche in coloro che «non sanno» di essere vittime, vale a dire le vittime del reato di corporazione, della pubblica amministrazione, del sistema produttivo. In questo senso non solo la nozione di vittima ideale, ma anche quella di "reo ideale" potrebbero venire opportunamente destrutturate. La vittimologia abolizionista, allora, potrebbe contraddire la sua stessa disciplina-madre, la criminologia, la quale di "rei ideali" si è sempre alimentata.

5. Le pratiche di riconciliazione incoraggiate dagli abolizionisti vengono spesso, e forse impropriamente, raccolte sotto la definizione "giustizia informale". In questo modo le si assimila a pratiche ed esperienze analoghe che, dopo gli entusiasmi iniziali, di «informale» hanno conservato solo il nome (Matthews 1988). Chiave di volta di questo processo è la proliferazione di ruoli professionali che tradiscono l'originaria ispirazione di una giustizia definita come «popolare» e «collettiva». In Italia, dove il dibattito sulla giustizia informale muove i primi passi, sembra fortunatamente esservi consapevolezza dei potenziali risvolti di una simile involuzione (Giulini - Ceretti - Garbarino 1995). Le sedute di mediazione tra vittima e reo, inizialmente presiedute da volontari e comuni cittadini, sono ora troppo spesso dominate da persone ritenute «eleggibili» e «affidabili». L'idoneità dei " mediatori" viene stabilita dall'autorità, che finisce così per nominare soggetti non residenti nelle aree nelle quali sono chiamati ad operare, vale a dire soggetti terzi, estranei ai conflitti da arbitrare (Wright - Galaway 1989). Non stupisce, come è stato lamentato, che nelle sedute di riconciliazione il reo venga spesso sottoposto a una pubblica notomizzazione della personalità, delle abitudini e dei pensieri più risposti. Né che alcuni rei, dopo simile esperienza, considerino il carcere meno punitivo della riconciliazione e meno oneroso della riparazione. E' quanto avviene, ad esempio, nel Regno Unito, dove riconciliazione e riparazione sono un supplemento piuttosto che un'alternativa alla pena custodiale. Infine, un mediatore abile è in grado di «smascherare moralmente» il reo, ed esasperare così il conflitto, producendo maggiore risentimento tra reo e vittima.

Le critiche rivolte alla giustizia informale compongono una specifica letteratura. Molti autori vedono nelle pratiche di riconciliazione, quando queste sospendono la pena carceraria, degli espedienti utilizzati da alcuni rei per sottrarsi alla detenzione. Altri intravedono nella riconciliazione e nella mediazione una logica di risparmio economico e un proposito mal celato di decongestionamento dei tribunali (Selva Bohm 1987). Altri ancora si chiedono come sia possibile definire «informali» delle pratiche di giustizia condotte sotto la vigilanza di esperti, a volte poliziotti, il più delle volte più propensi a rapportarsi con le agenzie istituzionali che con le situazioni conflittuali (Davis - Boucherat - Watson 1988). Le pratiche di riparazione e arbitrato vengono poi ritenute tentativi di neutralizzare i conflitti, riducendo i problemi sociali a problemi interpersonali o individuali (Cain 1985).

Credo che il pensiero abolizionista sia particolarmente sensibile a queste questioni, dalle quali ricava una scommessa teorico-pratica, implicita nelle sue formulazioni, che si può così formulare. L'obiettivo abolizionista non è la riduzione dei conflitti, ma la loro selezione, e in alcuni casi la loro radicalizzazione. Molte dispute, infatti, non possono essere «riconciliate», e andrebbero perciò rinviate alle forze sociali che le hanno prodotte. Queste dispute accedono al sistema della giustizia soltanto perché da quest'ultimo vengono «catturate» e selezionate. Altre dispute, al contrario, non si prestano a una facile lettura in relazione alle forze sociali che le hanno prodotte, essendo dispute "intragruppo". Le loro dinamiche sono spesso indecifrabili anche perché chi vi partecipa, pur possedendo un retroterra sociale analogo, trova difficile articolare un vocabolario di valori o un modello di convivenza comuni. Questi conflitti interni ai gruppi possono trovare nelle pratiche di ispirazione abolizionista d ei momenti di risoluzione meno ideologici e a volte delle interpretazioni meno emotive o individualiste. E' il caso, ad esempio, di incontri tra rei e vittime che rivelano una imprevista uniformità di interessi, materiali e psicologici, tra chi vi partecipa, vale a dire tra chi è autore di reato e chi ne è vittima. Nessun abolizionista penserebbe, con questo, di eliminare i conflitti intergruppo, che si giocano altrove. Si tratta piuttosto, ricorrendo all'analisi di Ricoeur (1995), di individuare situazioni nelle quali al vocabolario politico, mutuato dalla guerra e dalla violenza, si sostituisce quello dei diritti, fatto di rappacificazione e parola. Va da sé che nell'individuare simili situazioni non ci si illude di poter contemporaneamente demolire il vocabolario politico nella sua totalità. Insomma, al contrario di quello slogan diffuso qualche anno fa in Italia che, inconsapevolmente sinistro, reclamava «la riappropriazione del diritto di punire», la pratica abolizionista mira ad appropriarsi del diritto di selezionare i conflitti, sottraendolo lentamente alla giustizia ufficiale che di tale diritto è sempre stata titolare.
A Mathiesen va riconosciuto il merito di aver fatto chiarezza, già anni addietro, su molti di questi punti. L'autore non solo si è soffermato criticamente sulla giustizia informale e sulle alternative alla pena custodiale, ma ha anche sottoposto a scrutinio quegli elementi di riforma penale che, sotto altra veste, possono favorire la riformulazione delle consuete pratiche e filosofie punitive (Mathiesen 1980). Di cruciale importanza, a questo proposito, è la sua nozione di riforma negativa che descrive pensieri e azioni in grado di prefigurare un vero depotenziamento del carcere, non la sua ristrutturazione, il suo superamento, non la sua rifondazione in forme «alternative». E' suo merito, inoltre, aver dimostrato come quello abolizionista non sia un semplice "programma", ma un "approccio" che lo informa e ne è a sua volta informato. Entrambi, programma e approccio, implicano una scommessa molto chiara: in una disciplina come quella criminologica, che manca ancora di paradigmi unificanti, occorre impedire a ogni costo che se ne formino, occorre procedere per «rivoluzioni scientifiche» prima ancora che la criminologia diventi «scienza» e malgrado alcuni già la considerino tale.
Certo, vi sono molti argomenti contro l'abolizione del carcere: dove troverebbero rifugio le persone più deboli del mercato del lavoro ufficiale e quelle più vulnerabili del mercato del lavoro criminale? Quanto costerebbe la loro assistenza in libertà? Nell'agenda degli impegni collettivi, qualche anno fa, Mathiesen collocava l'abolizione del carcere nello stesso anno, il 2010, indicato dalle autorità svedesi per lo smantellamento delle centrali nucleari. In un clima di «realismo» imperante, ora l'autore si richiama a un obiettivo di transizione, invocando per la stessa data la riduzione a metà della attuale popolazione detenuta. Si fa in fretta a parlare di utopia. Quest'ultima prefigura un mondo senza conflitti, un assetto "finito" di coesistenza sociale. L'idea che sottende la proposta di Mathiesen, invece, è quella delle riforme non finite. L'abolizione delle pene ha luogo «quando l'ordine prestabilito viene lacerato e allo stesso tempo ci si presenta un nuovo terreno privo di ordine» (Mathiesen 1974). Vi è da augurarsi che movimenti e studiosi italiani accettino anch'essi il rischio di muoversi in terreni non finiti, privi di ordine.