Thomas Mathiesen
Perché il carcere?
Capitolo 1
Si può difendere il carcere?
- Una breve digressione
Nel 1965 Jens Björneboe scrisse un dramma teatrale intitolato "Cento
di questi giorni" ("Til lykke med dagen", una rielaborazione
di "Den onde hyrde", "Il cattivo pastore", del 1960):
la storia del giovane carcerato Tonnie, rinchiuso «al buco» (nota
1). Dopo molte vicissitudini, Tonnie si suicidava sotto il peso della tensione
e dell'oppressione carceraria. Molti forse credono che queste siano cose del
passato. Certo adesso il «buco» non esisterà più,
si pensa, e dunque le direzioni delle carceri sono considerate più
illuminate di un tempo.
Ma il «buco» esiste ancora, e viene usato. Nella conciliante terminologia
del sistema carcerario, che dà una sensazione tranquillizzante di umanità
e di ordine, in effetti non si chiama «buco» ma «cella di
sicurezza». Si tratta di una cella spoglia, imbottita, con un materasso
duro come unico mobilio. A questo viene legato il prigioniero (nota
2). La «cella di sicurezza», o «buco», non costituisce
formalmente un aggravio della pena: è un cosiddetto «mezzo di
contenzione», che si applica allo scopo «di impedire che si compiano
violenze o che siano poste in atto minacce, di sconfiggere resistenze, di
prevenire fughe, o allo scopo di mantenere l'ordine e la sicurezza nell'istituto
di pena» (come recita il regolamento carcerario norvegese al paragrafo
38, «Mezzi di contenzione»).
Simili espressioni suonano bene e paiono degne di fiducia. Ma tutti i detenuti
"sanno" che la linea di demarcazione tra l'impiego come mezzo di
contenzione in caso di necessità, e l'impiego come punizione, è
sfocata e incerta. Tutti "sanno" che in realtà la «cella
di sicurezza» è usata anche come una punizione.
Per di più l'isolamento può diventare anche una punizione regolamentare,
benché in tal caso non lo si chiami neppure una punizione, ma si preferisca
parlare di dissuasione e di rafforzamento della disciplina L'isolamento è
detto allora «detenzione in cella individuale», applicata per
la durata massima di un mese per ogni volta. Non si è chiusi in una
cella imbottita, ma in una cella normale. Però si è isolati
ugualmente: il prigioniero può, come si legge nel regolamento carcerario,
«venire escluso da ogni forma di contatto sociale» (paragrafo
35.3). Inoltre si può effettuare un «trasferimento in cella individuale»
ogni volta che lo si ritenga necessario per ragioni disciplinari, di sicurezza
o equivalenti; oppure in considerazione di un pericolo per i detenuti stessi,
o per la sicurezza o la salute di altri; o, ancora, in considerazione del
pericolo di «un'influenza negativa sui compagni di cella» (nota
3).
Quanto Jens Björneboe scriveva intorno al 1965 è così,
su questo punto, pienamente attuale. L'amministrazione carceraria, allora,
è o non è più illuminata di un tempo? Una generazione
di direttori è passata, una nuova ne ha preso il posto, e qualche cambiamento
c'è ben stato. Ma per quanto riguarda il reclutamento, l'amministrazione
delle carceri soffre di una stasi perenne, non meno della sanità e
dell'assistenza sociale: fare carriera nell'istituzione carceraria non dà
alcun prestigio e il reclutamento ne patisce le conseguenze.
Tuttavia il fattore più importante è che il "sistema"
carcerario resta il medesimo in tutti i suoi tratti essenziali. Oggi le possibilità
di ottenere permessi sono maggiori, la censura sulle lettere è più
contenuta, in qualche carcere sono state facilitate le visite. Ma contemporaneamente
vi sono notevoli chiusure e restrizioni, anche a causa del diffondersi degli
stupefacenti nelle prigioni. Tra l'altro le restrizioni hanno scarsa efficacia
e accrescono anzi l'oppressività della struttura carceraria, cosicché
il bisogno di droga aumenta.
Nel 1968 descrivevo la situazione di molti detenuti in termini che purtroppo
valgono ancor oggi:
«In primo luogo, il detenuto sperimenta parte del tempo trascorso nell'istituzione
come tempo vissuto nell'impotenza. Dal suo punto di vista, dunque, il sistema
carcerario diventa spesso una grande organizzazione burocratica, che per così
dire procede come un rullo, giorno dopo giorno, mese dopo mese, senza che
egli sia in condizione di reagire, di opporsi o di influenzarla in qualche
modo. La richiesta di libertà condizionale, per esempio, è valutata
da persone che si trovano abbastanza distanti da lui, ed è poi trasmessa
ad altre persone che si trovano ancora più lontano, per un ulteriore
esame seguìto dalla decisione finale. Il detenuto possiede scarsa autonomia
e non ha una posizione da cui trattare che gli permetta di influire in qualche
modo sull'esito della richiesta. È un semplice, piccolo esempio - ma non
privo di significato - di come egli avverte di essere impotente all'interno
dell'istituzione.
In secondo luogo, il detenuto sperimenta parte del proprio tempo come tempo
di "degradazione". È stato anticipatamente condannato dai rappresentanti
di quella società che rispetta le leggi, e l'esperienza della stigmatizzazione
diventa ancora più intensa quando il detenuto si trovi isolato all'interno
del carcere.
In terzo luogo, il detenuto sperimenta parte del proprio tempo come tempo
di "insicurezza". In verità il carcere, con un modello di
vita semplificato e un regime relativamente sistematico, può anche
dare al detenuto l'impressione di trovare un sostegno. Egli è sottratto
alla situazione esterna, complessa e conflittuale, e durante la prigionia
può sentirsi come in una camera di compensazione: sfuggire cioè
ad un ambiente di cui percepisce le minacce. Ma in questa forma il sentimento
di sicurezza è essenzialmente un sentimento di dipendenza - a volte
qualche detenuto se ne rende conto. Nulla è cambiato nella sua situazione
in rapporto alle persone rimaste all'esterno e poco viene fatto perché
questa si chiarisca dopo il rilascio. Inoltre - ed è quanto più
mi preme nel contesto - parallelamente alle false sensazioni di sostegno può
insorgere una sensazione d'insicurezza, specialmente per quanto riguarda il
futuro. Per molti significa soltanto chiedersi quando arriverà la libertà
condizionale, ma per molti altri significa anche chiedersi quali saranno le
future possibilità di lavoro, come sarà il rapporto con la famiglia,
o il rapporto con la propria sessualità, che non può non essere
minacciata dalla permanenza in una società monosessuata, eccetera»
(Mathiesen 1968, p.p. 131-32).
- Un sistema in espansione: prima e seconda fase.
Se potessimo riscontrare una tendenza storica alla scomparsa del carcere,
l'attuale situazione stagnante non sarebbe poi così tragica. Si potrebbe
immaginare che ce la lasceremo presto alle spalle. Al contrario, oggi il carcere,
con tutto ciò che ha di vecchio, "è un sistema in espansione".
Ma per comprenderne le dinamiche attuali bisogna considerare brevemente le
fasi storiche del suo sviluppo in epoca moderna. Se ne possono distinguere
approssimativamente tre.
"Prima fase". La prima fase consiste nello sviluppo delle grandi
«case d'internamento», sorte nel corso del diciassettesimo secolo.
Le pene più diffuse erano allora le punizioni corporali, l'esilio,
la messa al bando. Nel diciassettesimo secolo - in alcune zone anche un po'
prima - entrò in uso l'internamento in un'istituzione, non però
come alternativa alle punizioni, ma come un supplemento. Michel Foucault è
tra gli studiosi che hanno descritto l'improvvisa e massiccia crescita delle
case d'internamento nel diciassettesimo secolo: secondo le sue parole, il
fenomeno ebbe «dimensioni europee» (Foucault 1961, trad. it.,
p. 58). Egli l'ha anche definito «il grande internamento»: nel
corso di pochi decenni migliaia di esseri umani furono rinchiusi in grandi
istituzioni, che in Francia presero il nome di «ospedale» ("hôpital"),
in Germania e in Olanda di «penitenziario» ("Zuchthaus",
"tukthuys") e in Gran Bretagna di «casa di lavoro» e
«casa di correzione» ("workhouse", "correction
house").
Chi fu internato in questa prima fase della moderna storia del carcere? Fonti
storiche relative a diversi paesi d'Europa indicano che si trattava perlopiù
di poveri vagabondi, mendicanti, gente senza lavoro o senza fissa dimora che
commetteva delitti contro la proprietà. Una categoria vasta ed eterogenea,
che prima o poi avrebbe dovuto esser differenziata in qualche misura. D'altronde
la distinzione tra «casa di lavoro» e «casa di correzione»
era, in genere, puramente teorica.
Quali erano poi le modalità dell'internamento? Innanzitutto la certezza
del diritto era ben scarsa, né si andava troppo per il sottile: all'apertura
del grande Hôpital Général di Parigi nel 1657 - che in
effetti era una catena di istituti, in cui nel 1750 si trovavano 12000 internati
- gli arcieri della milizia dell'Ospedale vi trascinarono vagabondi e mendicanti
acciuffati per le strade. Parigi andava ripulita.
In secondo luogo, l'internamento era chiaramente caratterizzato dal lavoro
forzato per i detenuti, benché rimanga incerto se l'attività
lavorativa avesse sempre di mira la remuneratività. In Olanda, i prigionieri
riducevano in schegge una qualità di legno del Brasile e la polvere
grossolana che se ne ricavava era impiegata come materia prima nei colorifici.
Il penitenziario di Amsterdam aveva il monopolio di quest'attività,
assai redditizia (confer oltre, cap. 2, paragrafo 3, e Sellin 1944). Circa
un secolo dopo, in Norvegia (negli anni 1735-1790 furono istituiti quattro
penitenziari nel nostro paese, peraltro in un'epoca in cui erano in rapido
declino sul continente), i penitenziari erano chiamati anche "rasphus",
«rasperie», sebbene in Norvegia non si sia mai prodotta polvere
di legno del Brasile. In molti istituti francesi gli internati stavano seduti
a lavorare ai ferri: producevano cappelli, berretti, calze e altri indumenti
che si dovevano in precedenza importare dalle isole normanne, le britanniche
Jersey e Guersney (Cole 1939; riassunto in Mathiesen 1977, p.p. 76-79). L'addestramento
degli internati aveva uno sfondo drammatico: la direzione si procurava (forse
col rapimento) donne delle isole normanne, abili nella «maglieria fine»,
che insegnassero alle donne degli istituti. Andò a finire che tutti
i poveri avevano l'occasione di imparare il lavoro a maglia. Negli istituti
tedeschi e inglesi, infine, i prigionieri erano impiegati per lo più
in lavori produttivi di diverso genere.
Perché dunque ci fu l'internamento? Un importante contributo alla sua
spiegazione è l'ormai classico studio di Georg Rusche e Otto Kirchheimer
sulla storia della pena dal tredicesimo al diciannovesimo secolo. La loro
tesi fondamentale è che il mercato del lavoro regoli le pene. In periodi
di eccedenza di forza-lavoro le pene sono severe, perché non occorre
costringere i lavoratori a entrare nel processo produttivo ed è invece
importante sottomettere i gruppi disoccupati. In periodi di carenza di forza
lavoro, d'altra parte, le pene diventano miti, perché il bisogno di
manodopera si fa sentire. Il diciassettesimo secolo, in contrapposizione al
quindicesimo e al sedicesimo secolo, secondo Rusche e Kirchheimer è
un periodo di carenza di forza lavoro; è anche l'età del mercantilismo,
che esalta la crescita economica nazionale e lo sviluppo delle industrie mercantiliste
come filande e tessitorie. Proprio allora vagabondi e senzatetto vengono rinchiusi
negli istituti a lavorare.
La tesi di Rusche e Kirchheimer ha stimolato molto il dibattito tra i sociologi
del diritto sulla nascita delle istituzioni di pena. Ma si possono sollevare
alcune obiezioni importanti. La "prima" è che in quel periodo
non vengono abbandonate le punizioni fisiche, come pure sarebbe dovuto avvenire
se la motivazione dell'internamento fosse stata il bisogno di manodopera.
Anche se le fonti sono leggermente discordi, una rilevante diminuzione delle
torture sopraggiunge sensibilmente più tardi (Foucault 1975).
La "seconda" obiezione è che si nutrono dubbi considerevoli
circa la carenza di manodopera in quel periodo (Olaussen 1976): le dinamiche
demografiche e la guerra dei trent'anni avevano certamente ridotto la popolazione,
ma contemporaneamente si riscontra una gran massa di disoccupati.
Quale "terza" obiezione si è sottolineato che, sebbene la
manodopera scarseggiasse davvero in determinati settori, per esempio nell'industria
tessile, non è però affatto scontato che gli internati potessero
essere adibiti a quel genere di lavoro produttivo, e neppure sembra chiaro
che la carenza di forza lavoro fosse stata avvertita prima di decidere la
nascita delle grandi istituzioni (confer ancora Olaussen 1976). Infine gli
istituti risultavano di fatto redditizi solo in casi eccezionali, come il
penitenziario di Amsterdam; ma in Francia, per esempio, furono sin dall'inizio
imprese deficitarie senza speranza, eppure vennero tenuti in funzione.
La mia idea è che si debba allargare l'orizzonte, invece di concentrarsi
semplicemente sulle oscillazioni del mercato del lavoro. Con il crollo della
società feudale e il conseguente abbandono delle campagne da parte
dei servi della gleba, tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo una grande
moltitudine di persone divenne disponibile per l'attività lavorativa.
Nel Seicento le città erano quasi sovraffollate di manodopera (Wilson
1969, p. 125; Cole 1939, vol. 1, p.p. 264 e 270 s.): si comprese perciò
via via che la questione dei mendicanti e dei vagabondi era d'importanza decisiva
per mantenere l'ordine. Ricorre in rapporti, citazioni, regolamenti e provvedimenti
dell'epoca, che il formidabile problema al quale si sarebbe cercato di rispondere
con le nuove istituzioni era proprio il vagabondaggio. I vagabondi creavano
ostacoli sia alla produzione sia al commercio, attività entrambe che
richiedono vie di comunicazione indisturbate, e ponevano perciò, in
generale, un grave problema di tutela dell'ordine sociale. Diventa così
spiegabile che si potesse continuare anche ad usare le punizioni fisiche.
Come Foucault ha chiarito, la casa d'internamento era «l'ultima delle
grandi misure che erano state prese a partire dalla "Renaissance"
per porre fine alla disoccupazione o almeno alla mendicità» (Foucault
1961, trad. it., p. 68). Che poi gli internati fossero messi al lavoro, era
in buona armonia con la filosofia del mercantilismo economico.
"Seconda fase". La seconda fase comprende, grosso modo, gli anni
tra il 1750 e il 1825 (un po' più tardi in regioni periferiche come
la Scandinavia). In quel periodo sorsero in Europa le vere e proprie carceri,
istituzioni organizzate specificamente per i criminali. Al tempo stesso, l'uso
delle punizioni corporali fu progressivamente ridotto: le carceri ne presero
effettivamente il posto e non si affiancarono più, quindi, alle antiche
forme di punizione. Il passaggio avvenne, su scala storica, in modo assai
improvviso, come lo era stato il sorgere delle grandi istituzioni nel diciassettesimo
secolo: richiese all'incirca settantacinque anni. La nascita delle nuove carceri
ha dato materia ad ampie ricerche storiche (Rusche - Kirchheimer 1939, cap.
8; Foucault 1975; Melossi - Pavarini 1981). Benché le interpretazioni
siano differenti, emerge un punto di vista principale, che s'incontra in forma
esplicita perlomeno in Foucault.
I grandi paesi europei erano allora decisamente in cammino verso un nuovo
modo di produzione, quello capitalistico, basato, quantomeno in una descrizione
idealtipica, su un mercato del lavoro in cui le classi lavoratrici fossero
formalmente libere e potessero vendere la propria forza lavoro al miglior
offerente. Nelle città l'industria aveva il sopravvento. Di fronte
a una classe di lavoratori industriali, formalmente libera, le antiche punizioni
- specialmente quelle corporali - non erano adatte. Un nuovo tipo di disciplina,
il germe della «disciplina della catena di montaggio», era ormai
richiesta dalla produzione. Non aveva senso punire con tremende e arbitrarie
mutilazioni fisiche delle persone che avrebbero dovuto adattarsi alla forma
minuziosa e precisa del lavoro disciplinato: era ben più ragionevole
progettare un sistema punitivo che adottasse un genere corrispondente di disciplina
pedantesca, che proprio nelle nuove prigioni poteva essere istituita e praticata.
Le nuove prigioni divennero appunto carceri disciplinari, che imponevano un
ordine meticoloso, i cui regolamenti enfatizzavano il nuovo ritmo giornaliero
regolato e disciplinato con minuzia, ecc.
Se paragoniamo la situazione del Seicento con quanto accadeva nell'Ottocento,
registriamo differenze e somiglianze. Differenti erano soprattutto i compiti
concreti affidati al sistema di istituti pubblici nella prima fase del loro
sviluppo si trattava di gestire la crescente massa di mendicanti e vagabondi;
nell'Ottocento, nella seconda fase, si trattava piuttosto di gestire i devianti
nelle file della manodopera. La più importante somiglianza consiste
invece nel fatto che "in entrambi i casi le forze dell'ordine avevano
sperimentato l'utilità, e anzi l'estrema necessità, di disciplinare
certi gruppi di popolazione". In entrambi i casi, per di più,
questa esperienza si era sviluppata parallelamente ai mutamenti della struttura
economica: nel sedicesimo secolo crollavano le forme feudali di produzione,
nel diciannovesimo secolo ci fu il passaggio definitivo alle forme di produzione
capitalistiche. Benché la composizione dei gruppi sociali interessati,
così come il contenuto concreto della disciplina variassero in modo
pronunciato e producessero anche differenze nell'effettiva struttura degli
istituti, questa comune esigenza delle forze dell'ordine determina una fondamentale
analogia.
- Terza fase: nuova espansione negli anni Duemila?
Nello scenario internazionale degli anni Settanta e specialmente degli
anni Ottanta siamo stati testimoni di grandi cambiamenti nella politica penitenziaria.
Sottolineeremo qui in modo particolare due elementi.
Innanzitutto è rilevabile in molti paesi un crescente ricorso alla
carcerazione, sia come punizione, sia come pura e semplice reclusione. In
certi casi l'incremento è stato drammatico. Contemporaneamente le carceri
sono sovraffollate e compaiono lunghe liste di attesa per i condannati che
non trovano posto nelle prigioni. In base ai dati disponibili, relativi a
quattro grandi nazioni (Stati Uniti, Germania Occidentale, Inghilterra e Galles
insieme, e Italia), e a quattro nazioni minori (Finlandia, Danimarca, Svezia
e Norvegia) - si noti che il materiale relativo ai diversi paesi non è
perfettamente confrontabile, provenendo da fonti di tipo diverso -, osserviamo
di primo acchito due tendenze principali.
Da una parte vediamo un considerevole incremento del numero dei detenuti nelle
cinque nazioni maggiori. Negli Stati Uniti si riscontra la tendenza più
stabile e, se a metà degli anni Settanta vi sono diminuzioni temporanee
in alcuni stati americani, ciò non ha segnato un'inversione di tendenza.
Il fenomeno è accompagnato dal formarsi di liste d'attesa e dal sovraffollamento
delle carceri. L'autorevole rivista «Time» ha descritto nel 1983
le condizioni degli istituti di pena americani, né queste sono migliorate
da allora: l'incremento del numero dei detenuti negli Stati Uniti, scriveva,
ha «prodotto tremende condizioni di vita per molti reclusi, che dormono
nelle palestre, nei locali comuni, nei corridoi, in tende, camion e alloggi
provvisori di altro genere. Fino ai primi di novembre, nel Centralia Correctional
Center dell'Illinois 170 detenuti dormivano sul pavimento di una palestra.
E il Maryland, che ha uno dei sistemi carcerari più tremendamente affollati
del paese, ammassa i prigionieri nelle cantine, nelle sale per il tempo libero,
in edifici provvisori e - come si è espresso un dipendente - "dovunque
possiamo metterli"» («Time», 5.12.1983).
Ma anche nelle altre grandi nazioni da noi considerate l'incremento è
stato considerevolissimo. In Italia è specialmente evidente dopo il
1979. In Inghilterra e nel Galles e nella Germania Occidentale l'incremento
è stato minore, ma ugualmente notevole. Inghilterra e Galles mostrano
una diminuzione di breve durata verso la metà degli anni Settanta.
In Germania le tendenze alla crescita si sono interrotte proprio negli ultimi
anni, ma sull'intero periodo l'incremento è evidente (nota
4). Parallelamente
all'aumento dei detenuti cresce - come già detto per gli Stati Uniti
- il sovraffollamento nelle carceri. Sono problemi che le stesse amministrazioni
carcerarie sottolineano con forza. Le autorità italiane calcolavano,
pressappoco, di avere il doppio di detenuti rispetto ai posti disponibili
(comunicato alla conferenza dell'European Group for the Study of Deviance
and Social Control, Amburgo 1985).
D'altra parte il quadro dei quattro paesi minori è ancora più
incerto. La Finlandia, che ha sempre avuto un alto tasso di detenuti rispetto
agli altri paesi nordici, mostra una considerevole diminuzione tra il 1970
e il 1985, pur con un aumento temporaneo a metà degli anni Settanta.
La Danimarca, un tempo al secondo posto tra i paesi nordici, presenta anch'essa
un ribasso, ma assai debole e irregolare. Tra il 1977 e il 1981 si è
assistito in Danimarca a una crescita considerevole, interrotta tra il 1982
e il 1984. Dopo il 1984 si registra un aumento. La Svezia, che era terza,
presenta a sua volta nell'insieme una diminuzione, ma questa è avvenuta
ancora più irregolarmente, con un considerevole aumento di detenuti
tra il 1976 e il 1982 e una diminuzione nel periodo 1983-84. L'aumento è
particolarmente marcato, se si considera che nel primo periodo è stato
liquidato il sistema delle carceri minorili ed è fortemente diminuito
il ricorso alla detenzione. La Norvegia, infine, presenta un aumento irregolare
sull'intero periodo, ma più evidente dopo il 1979; non vi è
stata alcuna misura che diminuisse il ricorso alla carcerazione e l'affollamento
si è manifestato in un sempre crescente numero di persone che attendono,
a piede libero, di poter scontare la loro pena detentiva.
In Finlandia il decremento sembra causato da due fattori. La novità
più rilevante sono state le modifiche apportate in quel periodo alla
legge sulla guida in stato di ebbrezza: sono cambiati i limiti percentuali
di alcool nel sangue e al tempo stesso è stata introdotta la cosiddetta
«sanzione combinata», cioè la possibilità di associare
una sanzione pecuniaria con una sanzione detentiva condizionale. Inoltre sono
stati modificati i termini di pena per furto e si è introdotto un ordinamento
che punisce con multe i furti comuni; alla lunga ciò ha probabilmente
influenzato anche la prassi giuridica.
In Danimarca il fenomeno è dovuto principalmente ad una maggiore liberalità
nel concedere la grazia - intesa a neutralizzare l'affollamento delle carceri
- e ad un alleggerimento del quadro generale delle sanzioni (nota
5) comminate
per reati minori contro la proprietà, che ha ridotto di un terzo lo
standard di pena. La recente diminuzione in Svezia si deve principalmente
all'introduzione, nel 1983, del rilascio automatico sulla parola ("on
parole") (nota
6) a metà della pena per la grande maggioranza dei detenuti
(ma su questo ritorneremo), di cui però è stata recentemente
proposta l'abrogazione.
Si può quindi osservare che nei paesi nordici esaminati l'andamento
è meno chiaro che nelle nazioni del primo gruppo; si riscontrano un
considerevole decremento nel paese che ha il maggior numero di detenuti, un
andamento particolarmente incerto nei paesi con un numero medio di detenuti,
e un incremento nel paese con il minor numero di detenuti (la Norvegia). Le
diminuzioni sono dovute per lo più a mirate iniziative di politica
criminale, ossia a innovazioni legislative che hanno ripercussioni sulla prassi
giudiziaria, sulla prassi dei rilasci, ecc. In conclusione si può dire:
in una serie di grandi nazioni occidentali si constatano un'evidente tendenza
all'aumento del numero dei detenuti e una conseguente "pressione"
sul sistema carcerario, che sorge dall'esigenza di più numerosi ingressi.
L'aumento si verifica parzialmente anche nei paesi nordici; e persino quando
è assente, in tutti i paesi con l'eccezione della Finlandia si riscontra
una pressione sul sistema carcerario accompagnata dall'affollamento nelle
liste d'attesa. Anche in altre nazioni europee minori osserviamo uno sviluppo
simile.
Prima di concludere va aggiunto che, prendendo un arco di tempo più
ampio del 1970-85, in alcune nazioni l'andamento globale cambia, ma senza
contraddire le conclusioni precedenti. In alcuni paesi la tendenza risale
a molto tempo addietro, come in Inghilterra e nel Galles (nota
7). In altri paesi,
ad esempio in Italia, in Germania Occidentale e in Norvegia (nota
8), si constata
una caduta del numero dei detenuti poco prima del 1970, o in quello stesso
anno. Sono diminuzioni brusche e corrispondono a particolari riforme che,
nel 1970 o immediatamente prima, riducono in quei paesi il numero dei detenuti:
" riforme i cui effetti sono stati neutralizzati dai successivi sviluppi".
In Italia viene proclamata nel 1970 un'amnistia generale, che fa calare il
numero dei detenuti al più basso livello mai avutosi da quando, nel
1860, iniziarono le registrazioni. Se la cifra arriva a ca. 42000 nel 1985,
significa che da questo punto di vista l'amnistia è ormai neutralizzata.
Per la Germania possiamo ricordare che subito prima del 1970 vengono considerevolmente
ridotte le pene detentive di breve durata. Se nel 1985, come si è detto
prima, si giunge a poco più di 53000, ciò indica non solo un
approssimativo ritorno al livello del 1969, ma anche che i reclusi nel 1985
"mediamente restano più a lungo in prigione" dei condannati
per reati equivalenti nel 1969. Per quanto riguarda poi la Norvegia, il primo
luglio 1970 cambia la legge sul vagabondaggio: abbandonata la criminalizzazione
dell'ubriachezza in pubblico, è abolita la condanna al lavoro forzato
per tale reato. Nel corso del 1968-69 e nella prima metà del 1970,
i detenuti sottoposti a lavoro forzato calano considerevolmente, e il primo
luglio 1970 la casa di lavoro di Oppstad è vuota (Mathiesen 1975).
Se nel 1985 si supera la cifra del 1969, allora da questo punto di vista la
riforma è neutralizzata - anche se è di per sé importante
che gli etilisti senza fissa dimora non siano più incarcerati.
Coerentemente con l'affollamento delle carceri esistenti, si manifesta una
crescente tendenza all'espansione fisica del sistema carcerario, con l'edificazione
di nuove carceri. Consideriamo ad esempio gli Stati Uniti, l'Inghilterra e
la Norvegia. Per gli Stati Uniti possiamo rivolgerci di nuovo alla rivista
conservatrice «Time». Nello stesso numero che abbiamo citato in
precedenza si legge, a proposito dell'edilizia carceraria:
«Non si riescono a costruire nuove carceri abbastanza rapidamente perché possano accettare tutti i nuovi reclusi [...] Per quest'unico settore gli stanziamenti sono enormi circa 4,7 miliardi di dollari stanziati per nuovi edifici carcerari m tutto il paese nel prossimo decennio, tra i quali 1,2 miliardi di dollari per 16500 nuove celle in California e 800 milioni di dollari per 8000 nuove celle a New York» (5.12.1983).
Somme ingentissime, dunque, per immani progetti edilizi. A questo si aggiunge,
negli Stati Uniti, il numero crescente di carceri private: prigioni costruite
da imprese private, che le affittano al sistema pubblico o le gestiscono direttamente.
I meccanismi di mercato e la logica del profitto stanno dunque pervadendo
una situazione carceraria già sotto pressione.
Per l'Inghilterra e il Galles, possiamo ricordare che sul finire del 1985
erano in progetto sedici nuove carceri, per uno stanziamento totale di ca.
500 milioni di sterline (alle quotazioni del 1983), da completare nella prima
parte degli anni Novanta. Si trattava di aumentare la capienza di ca. 12000
nuovi posti (Sim 1986, p. 42), un piano descritto come "biggest-ever
jail-building programme" (il più grande programma di edilizia
carceraria di tutti i tempi) in Inghilterra («The Standard», 21.11.1983,
p. 5).
Descrizioni simili non si applicano alla situazione in Norvegia. Ma anche
qui ha avuto luogo un ampliamento del sistema carcerario, con lo scopo di
«ridurre le attese per scontare la pena», come si legge nel budget
per il ministero della giustizia per il 1984-85 ("Statlig proposisjon"
1984-85, n. 1, p. 56). Nel budget per il 1985-86, sempre a proposito delle
cosiddette «code per la pena», si gabellava che «in conseguenza
degli stanziamenti del ministero le code potranno essere eliminate in un periodo
di due anni» ("Statlig proposisjon" 1985-86 n. 1, p. 57) -
eliminazione che avrebbe richiesto, volendo incarcerare tutti, un programma
di edificazione su vasta scala. Al tempo stesso sia il ministero sia l'Associazione
dei funzionari delle carceri, la quale agisce in questa situazione come un
potente gruppo di pressione, hanno sottolineato che molti istituti carcerari
sono antiquati e fatiscenti e vanno quindi rimpiazzati. In altre parole, l'edificazione
è vista in certa misura come un'alternativa ai vecchi istituti di pena
del secolo scorso. Ma si progettano nuove carceri che sono "molto più
grandi" di quelle che si intende abbandonare e l'esperienza di impotenza,
degradazione e insicurezza durante il tempo trascorso nell'istituzione, che
caratterizzava, come abbiamo visto, le vecchie prigioni, sarà in grande
misura presente anche nei nuovi edifici.
Per di più accade sovente che i piani per la sostituzione degli edifici
carcerari siano confusi e oscuri. Esempio di un genere assai diffuso di pianificazione,
che porta a conservare il vecchio in aggiunta al nuovo, sono i piani per il
riadattamento e la riedificazione della casa circondariale di Oslo, elaborati
da una commissione istituita dal ministero della giustizia sullo sfondo della
rivolta del 1984, quando molti detenuti di Oslo distrussero il mobilio delle
celle per protesta contro le condizioni carcerarie. Nel rapporto (Justisdepartementet
1985) si riconosce che le condizioni del carcere di Oslo sono fortemente criticabili
e si propone, in prima istanza, sia una ristrutturazione materiale sia una
riorganizzazione interna (una più chiara divisione tra sezione penale
e sezione di custodia (nota
9), un miglioramento nelle condizioni di studio e lavoro
ecc.). La capienza del carcere dovrebbe essere gradualmente ridotta e si propone
di recuperare i posti che vanno perduti con trasferimenti e con sistemazioni
temporanee in custodia nelle camere di sicurezza dei posti di polizia di Oslo,
e con la costruzione di un nuovo carcere presso Bredtveit, dove già
si trovano una prigione e un istituto di sicurezza per detenute. Detta in
breve, la proposta suona così: si restaura il vecchio carcere fatiscente,
ma parallelamente si costruisce un nuovo carcere, in modo che il vecchio carcere
possa essere abbandonato. Non si potrebbe trovare un solo esempio in cui qualcosa
di simile sia mai accaduto: è più che probabile che il vecchio
carcere sia conservato a fianco del nuovo carcere, perché chi vorrebbe
abbattere qualcosa che ormai è stato restaurato e ristrutturato? Una
pianificazione del genere offre le migliori opportunità per l'ampliamento
complessivo del sistema carcerario.
Piani edilizi analoghi, con le medesime finalità, li troviamo in altre
grandi nazioni come la Germania Occidentale e l'Italia, e in paesi minori
come Svezia e Olanda. In Scandinavia, la sola Danimarca non ha aperto nuovi
carceri nell'ultimo decennio, ma la capienza è stata aumentata mediante
strutture provvisorie. Che vi siano piani per costruire nuove carceri in Olanda
(de Haan 1986) allo scopo di alleviare un pressante problema di capienza,
è un fatto particolarmente interessante: come già detto, è
tradizionalmente la nazione con il più basso numero proporzionale di
carcerati in Occidente. L'espansione è evidentemente sul punto di investire
anche l'Olanda.
- Le cause dell'espansione
Possiamo ormai affermare che il carcere, verso la fine del ventesimo
secolo "è un sistema in espansione", come già lo era
200 anni fa, verso la fine dei diciottesimo secolo e durante il diciannovesimo,
e come lo era 200 anni ancor prima, nel diciassettesimo secolo. Si tratta
di un segnale politico molto allarmante. Nel periodo tra la fine degli Sessanta
e la prima metà degli anni Settanta era diffusa la sensazione che le
ideologie autoritarie e l'ordinamento repressivo statale fossero in posizione
molto debole di fronte alle critiche. Oggi la tendenza si è invertita,
se non altro in questo ambito. Cercheremo di analizzare l'attuale situazione
dal punto di vista delle statistiche carcerarie e dal punto di vista sociologico.
Una conferenza internazionale organizzata dal European Group for the Study
of Deviance and Social Control, tenutasi ad Amburgo nell'autunno del 1985,
ha esaminato l'espansione del sistema carcerario nei vari stati (i principali
interventi si trovano in Rolston - Tomlinson 1986). Considerando le statistiche
carcerarie, i partecipanti dei diversi paesi si sono trovati d'accordo sul
fatto che il fenomeno trovi due spiegazioni: i lunghi tempi di detenzione
preventiva e di carcerazione, che diminuiscono la rotazione nelle carceri
e fanno quindi crescere il numero medio di detenuti; e la tendenza ad aumentare
il numero delle condanne a pene detentive, che ha in ultimo lo stesso effetto.
Per alcuni paesi si possono avanzare entrambe le ipotesi, per altri valgono
soprattutto i lunghi tempi di detenzione. In Olanda vanno considerate in particolare
le lunghe pene detentive per le violazioni della legge sugli stupefacenti.
Anche i dati relativi alla situazione norvegese rendono probabile, nel complesso,
che i lunghi periodi di detenzione e di custodia siano una spiegazione dell'espansione
carceraria. Essi hanno anche un'altra importante conseguenza, ossia che cambia
la composizione della popolazione carceraria: aumentano i detenuti di lungo
periodo, con tutte le conseguenze psicologiche e ambientali che ciò
comporta per la comunità dei reclusi. La pressione psicologica diventa
estrema e le difficoltà di adattamento aumentano di conseguenza (Cohen
- Taylor 1981). Il carcere non si espande soltanto, ma cambia - e in peggio.
La situazione norvegese mostra che l'aumento dei tempi di carcerazione è
un'importantissima spiegazione parziale, che se di per sé non è
sufficiente, si associa ad una crescita analoga delle pene non condizionali.
L'ammontare delle pene non condizionali «semplici» cresce d'un
balzo tra il 1977 e il 1978; ma da allora varia di poco, senza mostrare alcuna
chiara tendenza. Una tendenza chiara si riscontra invece nelle cosiddette
«condanne combinate», ossia che combinano una pena detentiva non
condizionale con altre misure: un genere di condanne divenute del tutto usuali
in Norvegia. L'aumento su tutto il periodo 1977-85 è considerevolissimo,
e può aver contribuito sia alla tendenza all'espansione del sistema
sia alla crescente pressione su di esso (Bödal 1984; " Kriminalstatistikken"
1983-84; informazioni dall'Ufficio centrale di statistica, per il 1985; sono
valori approssimativi, perché i dati relativi ad anni diversi non si
ritengono confrontabili). Bisogna notare che anche per questo genere di condanne
entrano in gioco i lunghi tempi di carcerazione: per le condanne «combinate»
le pene superiori a 90 giorni si considerano di lunga durata e la quota percentuale
di queste ultime è cresciuta dal 7-8% di tutte le condanne «combinate»
nel 1977, fino al 14% nel 1985 (medesime fonti).
Ora, come si giustificano a loro volta le numerose carcerazioni di lunga durata?
Si delineano nuovamente due spiegazioni principali: da un lato si può
ritenere che siano originate dall'aumento di determinate forme dl criminalità
d'altro canto si può pensare che siano il prodotto di un mutamento
di valutazione da parte della polizia, dei legislatori e dei giudici, che
si riflette anche nel livello delle condanne.
La maggiore diffusione di forme di criminalità alle quali tradizionalmente
corrispondono lunghe pene detentive può indurre un aumento dei tempi
medi di detenzione, particolarmente quando la percentuale di casi risolti
sia alta. Può anche causare il proliferare delle pene non condizionali,
e di nuovo specialmente quando la percentuale di casi risolti è alta.
Al tempo stesso è altamente probabile che quando muta la valutazione
di determinate forme di criminalità, ritenute più gravi che
in precedenza, ciò si rifletta sia in lunghi tempi di carcerazione
sia in un crescente numero di pene non condizionali. Negli ultimi anni i mass
media, gli uffici della pubblica accusa e i legislatori hanno puntato il dito
sulla criminalità più o meno violenta. Si è creata l'immagine
di una criminalità sempre più brutale. Sul modo in cui i mass
media focalizzano le notizie dovremo tornare più avanti, in un contesto
differente (cap. 3). Qui il punto è soltanto che quest'enfatizzazione
generalizzata si riflette molto facilmente sia in lunghi tempi di carcerazione
sia in un aumento delle pene non condizionali. Penso specialmente all'effetto
esercitato sui tribunali: sostenere che restino impassibili di fronte a simili
segnali esterni e una clamorosa sopravvalutazione (o, a seconda delle prospettive,
una sottovalutazione). I tribunali operano in un contesto, in una situazione
alla quale si rapportano. Gli effetti dei messaggi esterni si trasmettono
benissimo, nel senso che incitano a comminare pene detentive più lunghe
e a moltiplicare le pene non condizionali («combinate») anche
per crimini meno gravi.
Prendendo ad esempio il caso norvegese, notiamo che le condanne per crimini
legati agli stupefacenti sono cresciute negli ultimi 10-15 anni molto più
delle condanne per crimini violenti. E nel caso dei crimini legati agli
stupefacenti il livello delle pene, un tempo contenuto, ha subito negli ultimi
anni ingenti variazioni sul piano legislativo e su quello della prassi poliziesca
e della prassi penale. Da problema trascurato sul piano giuridico, quale era
alcuni anni fa, oggi è stato posto al centro dell'attenzione e ne é
conseguito un inasprimento del quadro delle pene (nota
10).
C'è un legame tra il numero d'indagini svolte sui reati legati agli
stupefacenti negli ultimi anni e quello delle condanne non condizionali per
tali reati. Ma bisogna subito aggiungere che le statistiche sulle indagini
offrono un'immagine assai povera, se paragonata allo sviluppo di fatto dell'uso
di stupefacenti nella società. In prima istanza tali statistiche riflettono
soprattutto i mutamenti nella prassi poliziesca e legislativa. Per esempio:
durante il 1982, nella prassi poliziesca norvegese, si è spostato il
confine tra trasgressione e reato per quanto riguarda gli stupefacenti. La
regola pratica, secondo la quale il possesso di cannabis fino a 5 g era da
considerarsi «uso personale» e quindi una semplice trasgressione,
è cambiata e il limite è sceso a 1-2 g. Ogni possesso di quantità
superiori a 2 g è stato considerato «detenzione», quindi
un reato. Nel giugno del 1984 è stata riformata la legge norvegese
sugli stupefacenti, in modo che anche l'uso personale diventasse reato. Ogni
violazione della legge sugli stupefacenti è diventata così un
reato, un cambiamento che naturalmente ha prodotto effetti notevoli sul numero
delle inchieste per violazioni della legge sugli stupefacenti che vengono
registrate (si veda più precisamente in Falck 1987).
Per rendere palpabile il fatto che l'incremento dei livelli di pena è
la motivazione essenziale, se non risolutiva, della moltiplicazione dei detenuti,
ricordiamo che in molti paesi in cui il fenomeno si presenta (e di conseguenza
si pianifica l'ampliamento del sistema carcerario) la criminalità registrata
(cioè la criminalità su cui la polizia svolge inchieste) mostra
invece una stagnazione. Questo vale per esempio negli Stati Uniti (Moerings
1986); o per la Norvegia, in ogni caso nel periodo 1983-85 (Falck 1987), anche
se i dati degli ultimi anni indicano una ripresa. Non mancano del resto esempi
storici del fatto che le statistiche sulla criminalità e la quantità
di detenuti non sono necessariamente connesse. Questo significa che, a monte
del problema, stanno le scelte su quale politica seguire di fronte alle diverse
forme di criminalità. Ciò detto, si dovrebbe aggiungere che
il ripercuotersi o meno, sul numero delle detenzioni, di un aumento statistico
delle forme di criminalità i cui livelli di pena non sono soggetti
a variazioni, è determinato da scelte compiute dalle autorità
centrali: perché queste potrebbero trovare altre soluzioni ai problemi,
invece di lasciare che la barca continui a navigare sempre sulla stessa rotta.
Riprenderemo il discorso più avanti.
Come si spiega a sua volta l'aumento nel livello delle pene, dal punto di
vista sociologico? Partiamo dal fatto che i legislatori e i giudici possono
essere considerati un «barometro della paura», ossia delle istituzioni
che attraverso le proprie decisioni riflettono le paure della società.
L'espressione «barometri della paura» è stata coniata dai
sociologi americani Steven Box e Chris Hale (Box - Hale 1982; confer anche
Box - Hale 1985).
I tempi abbondano di segni allarmanti. Alcuni di questi sono vicini e osservabili,
come, in molti paesi occidentali, le ribellioni giovanili, i conflitti tra
immigrati e altri gruppi di popolazione, il degrado o, nel peggiore dei casi,
lo smantellamento dei servizi sociali e delle strutture assistenziali (in
Norvegia, addirittura, fino al punto di avere problemi per la pulizia delle
strade, il cui costo è accollato ad amministrazioni cittadine già
cariche di debiti). Altri evidenti segni di allarme sono trasmessi dai mass
media: la crescente violenza (benché i reati contro la persona aumentino
nel complesso piuttosto lentamente, e malgrado siano perlopiù aggressioni
di poco conto), l'aumento nell'abuso di stupefacenti (benché anch'esso,
almeno nel contesto norvegese, sia rimasto stabile e le forme estreme di tossicodipendenza
riguardino pochi individui; Hauge 1982, Christie - Bruun 1985) e così
via. I media, con la loro tendenza a presentare i problemi generali drammatizzando
casi individuali, amplificano terribilmente i fatti. I conflitti reali, sommandosi
con gli enfatici allarmi dei mass media, creano complessivamente un riflusso
verso quella che può essere chiamata una «crisi di legittimità»,
cioè un crollo, più o meno rovinoso, della fiducia che gli individui
normalmente ripongono nell'efficacia dell'azione dello stato per risolvere
i problemi esistenti. Alla base della crisi di legittimità sta nuovamente
una crisi economica: la stagnazione economica del capitalismo maturo alle
soglie del ventunesimo secolo, accompagnata in diversi paesi da una crescita
persistente e spesso considerevole della disoccupazione. Ma nella coscienza
popolare le crisi si presentano come un problema di fiducia, in senso ampio,
verso le strutture statali preposte alla soluzione dei diversi problemi. Presumibilmente
esiste un grande divario, tra i diversi paesi occidentali, nell'intensità
della crisi: estremamente grave in una società come quella inglese
(confer Hall et al. 1978), è senza dubbio attenuata nel caso norvegese,
dove si concede maggior credito agli interventi statali e persiste la convinzione
che siano «fatti per tutti noi» e per «il bene comune»;
ma anche in Norvegia si manifesta la stessa tendenza.
La crisi si riflette negli organi legislativi e giudiziari, due importanti
istituzioni all'interno delle quali le crisi di legittimità sono intese,
a ben vedere, come "una nuova e più forte esigenza di disciplinare
determinati gruppi di popolazione". Se la fiducia verso gli organi pubblici
e le autorità comincia a sgretolarsi, agli occhi dei legislatori e
dei giudici una tale frattura appare sotto le sembianze della necessità
di maggior disciplina. Concretamente, per quanto riguarda gli organi legislativi,
ci si orienta a rivolgere dei messaggi generali all'opinione pubblica per
avere più «legge e ordine» e a rendere più severe
le sanzioni penali. Nei tribunali si applicherà questo eventuale
nuovo quadro delle pene, ma si giungerà anche ad infliggere sistematicamente
punizioni più dure. Così si dà vita al ciclo di pressione
dall'esterno sul sistema carcerario, da una parte, e di conseguente espansione
del carcere dall'altra, che abbiamo già delineato. Punto di partenza
sono dunque i mutamenti nel quadro sociale; e l'idea che legislatori e giudici
se ne fanno stabilisce un nesso tra gli influssi esterni e l'espansione del
sistema carcerario: quando legislatori e giudici sperimentano la situazione
in un certo modo, la loro percezione non è priva di conseguenze sulla
prassi (confer Box - Hale 1982).
Possiamo quindi riannodare i fili all'indietro, fino a giungere alle precedenti
epoche di crescita del carcere nel diciassettesimo e diciannovesimo secolo,
entrambe scaturite da una nuova esigenza di ordine sociale. La terza fase
di crescita, quella attuale, può essere spiegata nello stesso modo:
le forze dell'ordine interpretano la nostra situazione nei termini di un bisogno
crescente di disciplinare certi gruppi di popolazione. Vedremo più
avanti che si potrebbe interpretare la situazione individuando un tipo ben
diverso di bisogni: una nuova politica per i giovani, un attacco frontale
alla disoccupazione, e così via. Ma si è scelto di fare altrimenti.
- Possiamo contrastare questa tendenza?
Molti fattori suggeriscono che ci troviamo, a livello internazionale,
nella terza fase di sviluppo dell'istituzione carceraria. Benché tra
l'Ottocento e lo sviluppo odierno si osservi, tra l'altro, un forte calo del
numero dei detenuti, in molte nazioni si può vedere come il carcere
contribuisca a costituire il nucleo di uno «stato forte», cioè
uno stato che su un fronte ampio - anche, per esempio, attraverso la polizia
e altre agenzie di controllo - si attrezza per affrontare problemi di disciplina
nella società. Questo apparato totale è dispiegato complessivamente
per rispondere alla nuova, crescente esigenza di disciplinare i gruppi marginali:
disoccupati, neri, giovani. Gli eventi ai quali assistiamo sollevano un'importante
questione di valore: intendiamo davvero assecondare questa tendenza? Possiamo
accettare che il carcere diventi il nucleo di uno stato forte, o ancora più
forte?
È una domanda tra le più importanti. In primo luogo, il problema è
decisivo per quegli esseri umani che finiscono in prigione e che devono sottostare
al tipo di sistema di cui abbiamo dato un quadro fugace nell'introduzione
a questo capitolo. Ne va del destino di esseri umani.
In secondo luogo, è in gioco il clima della nostra vita politica, perché
se il carcere veramente si estende e diventa anche il nucleo di uno stato
forte, ciò comporta una trasformazione evidente degli strumenti tradizionali
della politica. Significa che la coercizione diventa il principale mezzo di
disciplinamento nei confronti dell'intera popolazione o di sue parti.
In terzo luogo, la questione è importantissima in un contesto culturale
più ampio. L'impiego della coercizione fisica come mezzo di disciplinamento
segnala che la violenza è una forma adeguata di controllo sociale.
Un aumento significativo dell'uso della coercizione fisica potenzia appunto
questo segnale e modifica così sia le nostre norme, sia il modo in
cui ci rappresentiamo i nostri simili, aprendo la strada all'accettazione
della violenza come strumento generale nei rapporti tra persone.
Io non so quale sia la migliore tra queste motivazioni. Probabilmente non
dovremmo sforzarci di scegliere, perché tutte quante sono decisive.
Tutte insieme ci avvertono che una fase di espansione carceraria contribuisce,
a livello internazionale, a rimodellare la società dal punto di vista
umano, politico e culturale. Questo libro vuole essere un contributo per non
scegliere di moltiplicare il numero delle prigioni, per compiere una scelta
differente da quella di entrare nella terza fase - finché siamo ancora
in tempo.
Non considererò questa evoluzione come se fosse ormai determinata o
predestinata. Come ho indicato, essa si alimenta senza dubbio di potenti forze
materiali e sociali di natura superindividuale: in tutte le fasi precedenti,
lo sviluppo è stato avviato da mutamenti nelle forme sociali di produzione,
che hanno creato nell'apparato statale una nuova ed impellente esigenza di
disciplinamento. Ma nello "stadio primario" di questa fase, di fronte
al nuovo bisogno che era stato sperimentato, si potevano compiere altre scelte
e prendere altre decisioni politiche. Si potevano, per esempio, sviluppare
analisi differenti di quel bisogno, considerare il disagio sociale che si
manifestava come motivazione per ampie iniziative sociopolitiche. Può
sembrare ingenuo formulare a posteriori simili pretese verso uomini politici
del passato, ma il punto è che anche costoro potevano "in linea
di principio" decidere o scegliere altrimenti, al primo gradino dello
sviluppo. È importante il concetto di stadio primario. Più si va avanti,
più si è gravati delle condizioni che lo sviluppo stesso ha
creato, e più ci si trova impotenti nei confronti della propria creatura.
Il mio contributo è modesto: consiste nel raccogliere argomentazioni.
Nei capitoli che seguono discuto gli argomenti addotti usualmente a sostegno
del carcere, e per ciascuno di loro sollevo il problema: "si può
difendere il carcere su questa base?" A mio modo di vedere, tra gli argomenti
tradizionalmente impiegati in favore del carcere non ne trovo nessuno accettabile.
Questo significa che il carcere come istituzione e come forma di reazione
sociale (nota
11) è, secondo il mio parere, semplicemente insostenibile.
E ciò significa, in ogni caso, che è del tutto insostenibile
l'idea di dilatare questo sistema.
La gestione corrente e la nuova costruzione delle carceri sono molto costose
e ogni tanto qualcuno sostiene che, in un modo o nell'altro, l'enorme livello
di spesa porrà fine al carcere, o farà sì che non si
possa nemmeno parlare di una sua espansione. In un periodo di povertà
pubblica nel mondo capitalistico occidentale, si dice, possiamo perlomeno
confidare in un influsso positivo della scarsità di risorse. Il noto
criminologo Andrew Scull, in un libro del 1977 intitolato "Decarceration"
(Scull 1977), sviluppava questo ragionamento in una prospettiva più
ampia e proponeva in Occidente uno smantellamento generale delle istituzioni,
si trattasse di ospedali e case di cura psichiatriche, o delle carceri. Ma
per queste ultime il ragionamento non ha funzionato: la scarsità di
risorse pubbliche ha determinato lo smantellamento delle istituzioni in altri
settori, "ma non in quello carcerario", come è stato anche
sottolineato energicamente dallo stesso Andrew Scull in un'appendice alla
nuova edizione del suo libro (Scull 1984). I fattori economici sono stati
minuziosamente studiati, tra gli altri, dai canadesi Chan e Ericson, mostrando
con chiarezza che il sistema carcerario continua a crescere nonostante il
deficit pubblico (Chan Ericson 1981). Insomma, mentre in molti paesi gli ospedali,
le case di cura, le università e altre istituzioni che offrono "servizi"
vengono smantellate, si potenziano le istituzioni carcerarie, che esercitano
" coercizione".
Le carceri si sviluppano dunque secondo una dinamica che è del tutto
indipendente dalla congiuntura economica. Perciò è ancora più
importante lavorare per evitarne lo sviluppo.
- Finalità della pena e struttura del libro.
Le motivazioni sollevate in favore del carcere sono perlopiù argomenti
generali, nel senso che non si limitano soltanto a giustificare il carcere,
ma sono applicati alla pena in generale e si raggruppano quindi secondo le
diverse teorie della finalità della pena. Nella teoria classica della
pena, le finalità di questa sono divise abitualmente in due grandi
sottogruppi: difesa sociale e retribuzione.
Secondo le teorie della "difesa sociale", la pena non ha alcun valore
in sé: serve unicamente come un mezzo per proteggere la società
dalla delinquenza. Nella loro formulazione più ampia queste teorie
possono essere nettamente distinte l'una dall'altra, ma hanno la protezione
della società quale scopo comune. Perciò in questa prospettiva
la pena ha valore solo in relazione alla difesa della società, sua
finalità ultima; le teorie della difesa sociale sono anche dette teorie
«relative» della pena. Si dividono in due sottogruppi: teorie
della prevenzione individuale (impedire che il condannato commetta nuovamente
azioni criminose) e teorie della prevenzione generale (impedire che altre
persone commettano azioni criminose): si ritiene che la prima si raggiunga
migliorando il criminale, o intimidendolo, o neutralizzandolo, e che invece
la seconda si ottenga attraverso l'effetto deterrente, moralizzatore o di
condizionamento che la punizione produce negli altri.
Secondo le teorie della "retribuzione", «scopo della pena
è innanzitutto soddisfare un'esigenza di giustizia» (Andenæs
1974, p. 72). Le finalità di utilità pratiche restano in secondo
piano. Come prosegue Andenæs (ivi):
«Questa posizione è stata classicamente formulata da Kant: la giustizia deve, secondo il suo punto di vista, essere applicata soltanto perché è stato commesso un delitto, in quanto "se la giustizia scompare, non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra"» ("Principi metafisici della dottrina del diritto", paragrafo 49, E).
Una coerente teoria della retribuzione è in grado di precisare sia
quali azioni debbano essere punibili, sia l'entità della pena richiesta
affinché si realizzi la giusta retribuzione. Poiché la pena,
in questa prospettiva, ha in ultimo un valore suo proprio, le teorie della
retribuzione sono dette anche teorie «assolute» della pena.
Anch'esse si possono dividere in due sottogruppi: in un caso la proporzione
tra reato e pena è fondata in quella «tra il danno manifesto
che consegue e la pena considerata» (Andenæs 1974, p. 73). È
come dire «occhio per occhio, dente per dente»: il principio del
taglione. Nell'altro caso si prende di mira la colpa morale piuttosto che
il danno manifesto, nella misura in cui sono stati inflitti danni accidentali.
«La pena viene in tal modo stabilita quale manifestazione di un più
complessivo principio morale, che fa sì che ognuno dovrebbe ricevere
quanto si merita» (ivi, p. 74). Questo assomiglia a «chi semina
vento raccoglie tempesta»: è il principio di colpa.
Naturalmente, poiché questo libro tratta del carcere, saranno discusse
le motivazioni specifiche per la pena carceraria. Ma in qualche misura è
necessario e logico discuterne in relazione alla pena in generale. Come abbiamo
già detto, il gruppo di teorie della "difesa sociale" prende
le mosse dalla prevenzione individuale, che deve impedire che il condannato
commetta nuove azioni criminose. Si ritiene che la prevenzione individuale
si ottenga migliorando, intimorendo o neutralizzando il criminale. Nel secondo
capitolo esamineremo in dettaglio l'idea della pena detentiva come un processo
di miglioramento in vista della prevenzione individuale. Impiegheremo il termine
«riabilitazione», che significa mettere nuovamente la persona
in stato di funzionalità, perché è il termine prevalente
nella prassi carceraria (compare sovente «risocializzazione»,
pressoché come sinonimo). Diverso materiale empirico, sia storico sia
attuale, illustrerà quanto la pena detentiva possa avere una funzione
riabilitante.
Seguirebbero naturalmente la deterrenza e la neutralizzazione, per completare
la trattazione della prevenzione individuale. Non procederemo però
in quest'ordine. Le teorie della prevenzione individuale mediante la riabilitazione
in carcere ebbero poco credito nei decenni successivi alla seconda guerra
mondiale. Parallelamente si svilupparono le teorie della difesa sociale, soprattutto
partendo dalla prevenzione generale della violenza. Nel terzo capitolo discuteremo
pertanto le teorie che sostengono l'effetto di prevenzione generale della
pena detentiva. Le teorie della prevenzione generale - secondo cui la pena
produce negli altri, piuttosto che nel reo, effetti di deterrenza, moralizzazione
e condizionamento - presuppongono la comunicazione alla società del
messaggio che la pena deve trasmettere. La prevenzione generale sarà
tra l'altro analizzata in rapporto con le moderne teorie della comunicazione
Ma saranno discussi anche altri problemi sollevati da queste teorie.
Nel quarto capitolo ritorneremo sulla prevenzione individuale e affronteremo
da questo punto di vista la neutralizzazione e la deterrenza. Avendo prima
discusso e criticato le teorie della prevenzione generale, questi aspetti
della prevenzione individuale saranno stati in buona misura già trattati.
Esamineremo le ricerche empiriche e le relative discussioni sulla neutralizzazione
prodotta dalla pena detentiva ed equivalenti ricerche ed esperienze che chiariscono
se la pena detentiva abbia un effetto deterrente verso chi è detenuto.
Il quarto capitolo conclude l'analisi della pena detentiva come difesa sociale.
Nel quinto capitolo vaglieremo le teorie della pena detentiva come giusta
retribuzione, in relazione tra l'altro ad esperienze e materiali su come è
sperimentato lo stare in carcere.
In tal modo avremo passato in rassegna le più importanti motivazioni
teoriche in favore della pena detentiva. Per ognuna ci si chiederà:
si può difendere il carcere su questa base? Posso anticipare che la
risposta sarà negativa in tutti i casi. Il carcere è un fiasco,
e non lo si può difendere con queste motivazioni.
Nel sesto capitolo si discuterà, su questa base, della battaglia per
smascherare il fiasco del carcere rispetto ai propri fini e ai fini della
società, che assomiglia a una specie di «segreto pubblico»,
un segreto di Pulcinella, qualcosa che preferibilmente non deve «venir
fuori» ed essere argomento di dibattito. Cercare di smascherarlo è
considerato una minaccia, rivolta contro le funzioni specifiche e meno accettabili
che il carcere ricopre nella società: perciò la battaglia è
difficile, m ancora più importante. Il libro si conclude con un piano,
concreto globale, per liquidare questo fiasco.
Note:
1. Nel gergo carcerario italiano, «stare al buco» significa essere in cella d'isolamento. Abbiamo ripreso il termine per tradurre il norvegese "lem", «botola» [N.d.T.].
2. Tra il 1975 e il 1979 la «cella di sicurezza» è stata usata da 25 a 55 volte l'anno nel carcere rurale di Ullersmo, da 20 a 36 volte l'anno nel carcere rurale ed istituto di sicurezza di Ila e da 90 a 129 volte l'anno nella casa circondariale di Oslo; qui, nei primi nove mesi del 1981, si sono verificati 62 trasferimenti in «cella di sicurezza», per una durata variabile da sei ore a otto giorni, inflitti perlopiù a condannati di lungo periodo (tratto da Bödal 1983).
3. La «detenzione in cella singola» è stata inflitta, nel periodo 1975-79, da 29 a 55 volte l'anno nel carcere rurale di Ullersmo e da 17 a 42 volte nell'istituto di detenzione preventiva di Ila. Il totale nazionale oscillava tra 200 e 251 volte l'anno. La maggior parte dei «detenuti in cella singola» vi restano per due settimane, ma molti anche tre o quattro settimane. Nel corso del 1981 si sono avuti 19 trasferimenti in siffatte «celle singole» ripartiti su 14 persone, per una durata variabile da cinque giorni a sei mesi (Bödal 1983).
4. La rappresentazione è migliore considerando la cifra assoluta e calcolando l'incremento percentuale dei detenuti rispetto all'anno di partenza. Negli Stati Uniti il numero totale dei detenuti nel 1970 era di 357.304. Nel 1985 era di 736.000, il che significa, dal 1970, un aumento del 105,9%. Per le sole carceri pubbliche la tendenza è ancor più marcata: 156% in più (in base a Rutherford 1986, p. 49). In Italia il numero totale dei detenuti era nel 1970 di 21.379. Nel 1985 il dato era di 41.854, che significa un aumento complessivo dal 1970 del 95,7% (dunque prossimo al raddoppio). Per Inghilterra e Galles il numero totale dei detenuti era, nel 1970, di 38.040. Nel 1985 era salito a 48.165, con un aumento del 26,6%. In Germania Occidentale il numero totale era, nel 1970, di 46.426 e nel 1985 era 53.166, con una crescita del 14,5%. La tendenza in Germania è meno evidente ma ugualmente chiara in proposito, criminologi tedeschi hanno ipotizzato un fattore demografico, ossia una contrazione numerica delle giovani generazioni. Confer oltre, cap. 6, n. 6.
5. L'espressione «il quadro delle pene» ("sfrafferammet") è usata sovente dall'autore per indicare l'insieme dei valori minimi e massimi di pena detentiva previsti per certi reati o gruppi di reati [N.d.T.].
6. Il rilascio sulla parola (si usa tradurre così l'espressione inglese "on parole") è una misura alternativa alla pena detentiva, di tipo amministrativo (cioè di pertinenza dell'amministrazione carceraria e, in alcuni paesi, di altri organismi esterni: Parole Board) e non giurisdizionale (sistema penale), in uso in molti paesi scandinavi e anglosassoni. In tali paesi esiste un'ampia discrezionalità in ambito penale, sia per quanto riguarda l'obbligatorietà dell'iniziativa penale, in particolar modo nei confronti dei minori, sia per quel che attiene al garantismo (certezza e proporzionalità della pena). Il rilascio "on parole" è concesso in base alla buona condotta, in momenti diversi dell'espiazione della pena (un terzo, metà pena, eccetera) a seconda dei diversi sistemi penali vigenti, con meccanismi che richiamano in parte la misura italiana della libertà condizionale. La "parole" prevede una supervisione del trattamento, senza che l'esito di quest'ultima possa condurre alla riapertura del procedimento penale archiviato; esiste anche una forma di rilascio senza ulteriori interventi di controllo o di vigilanza, detta "remission". Altra misura alternativa alla pena detentiva è quella della "probation", che consiste nella sospensione della pena (il tribunale rinuncia a pronunciare la sentenza) e nell'affidamento del reo ad un'agenzia sociale (Probation Office) diversa dagli organi giurisdizionali, che lo assoggetterà a una serie di prescrizioni, regole di condotta, supervisioni. Se la «prova» risulta insoddisfacente il procedimento penale riprende il corso consueto [N.d.T.].
7. Come già detto, nel 1970 i detenuti erano ca. 38.000. Risalendo al 1967, il dato è ca. 34 mila, in precedenza ancora più basso. Negli anni Trenta il numero dei detenuti era di 32/100 mila abitanti, a fronte del già citato 96/100 mila per il 1985.
8. Dal 1969 al 1970 si registra in Italia un improvviso calo dei reclusi: da ca. 33 mila nel 1969 a poco meno di 21 mila nel 1970 (cifra già crollata da ca. 66 mila nel 1948, cioè nel dopoguerra, fino a poco meno di 33 mila nel 1954, e in seguito piuttosto stabile fino al 1969). Un calo equivalente ha frattanto luogo in Germania Occidentale, da poco meno di 54 mila nel 1969 a poco più di 46 mila nel 1970 (per tutti gli anni Sessanta il numero dei detenuti si mantiene piuttosto stabile, intorno a 55 mila). Altrettanto avviene in Norvegia, da ca. 1900 detenuti nel 1968-69 a ca. 1700 detenuti nel 1970 (con l'eccezione del 1961-62 il numero dei prigionieri resta pressoché invariato fino al 1968, oscillando tra 1800 e 1900).
9. Abbiamo tradotto "varetekt" con misure di custodia cautelare (un tempo detta in Italia carcerazione preventiva) che vengono eseguite in istituti "ad hoc" o in apposite sezioni presso altri istituti di detenzione. Queste misure sono eseguite nel nostro paese nei confronti di persone fermate o arrestate, quindi imputati non definitivi, e di detenuti definitivi ma in transito da un istituto all'altro. Le sezioni di custodia sono quindi distinte da quelle penali. Altra cosa sono le misure di sicurezza (corrispondenti nella traduzione a "sikring") che rispondono a criteri di difesa sociale. Esse in Italia sono riferite alla pericolosità sociale dell'autore di reato e costituiscono uno dei due binari del sistema penale, l'altro essendo quello della pena [N.d.T.].
10. Il totale delle condanne a pene non condizionali per violazioni della legge sugli stupefacenti subisce tra il 1978 e il 1985 un aumento rilevante, particolarmente evidente nel 1982-84. Inoltre l'aumento è chiaramente più marcato per le pene di lunga durata, ossia da uno a tre anni e superiori a tre anni. Per queste ultime, anche la diminuzione che nel 1985 interrompe la tendenza globale è minima. Nel periodo 1978-85 le pene inferiori a un anno aumentano dell'87%, ma quelle da uno a tre anni del 118% e quelle superiori del 147%.
11. Di fronte ad un atto illecito, così come nei confronti di atti che si discostino dalla norma statistica o valoriale, la società mette in atto una serie di reazioni. Nel caso di atti illeciti, cioè di reati, la reazione sociale comprende anche l'applicazione di sanzioni previste in ambito civile o penale. Abbiamo reso l'insieme delle reazioni sociali prevalentemente con «reazione sociale» e l'azione del sistema penal-giudiziario con «sanzione», «pena» eccetera., benché il testo abbia sovente "reaksjon" per entrambe le accezioni [N.d.T.].