Thomas Mathiesen
Perché il carcere?
Capitolo 2
La radice della parola
La parola «riabilitazione» è usata di frequente nel contesto
carcerario: pare che il soggiorno in carcere dovrebbe riabilitare. «Riabilitazione»
significa, secondo la propria radice, «rendere nuovamente abile».
In pratica vuol dire, oggi, mettere nuovamente in stato di funzionalità
(nota 1). Cercando
in un dizionario, troveremo diversi significati più specifici; possono
esistere inoltre significati di uso comune: in norvegese, per esempio, una
casa è riabilitata ("rehabiliteres") nel senso che è
restaurata, riportata alla sua antica forma. Un personaggio politico vivente
viene riabilitato nel senso che gli sono restituiti la dignità e i
diritti di cui godeva e, se è morto, nel senso che viene reintegrato
nel suo onore. E per il carcere? L'accezione più recente ha a che fare
con entrambi i significati. Il carcere dovrebbe ripristinare la condizione
passata, quella che si presume il detenuto avesse prima del crimine: dovrebbe
rendere la dignità e i diritti precedenti, del tempo prima della «caduta».
E dovrebbe restituirgli il suo onore.
Ma vi sono due differenze essenziali tra il restauro di una casa e la riabilitazione
di un personaggio politico, da una parte, e la riabilitazione dei detenuti
(in grado variabile anche di altri gruppi) dall'altra. Innanzitutto una casa
si restaura in rapporto allo stato di degrado cui è giunta col tempo,
a un danno esteriore accidentale, che peraltro non le si può imputare;
quanto ai politici, questi si riabilitano in relazione a una disistima politica
o sociale che in seguito è considerata erronea e viene emendata. Il
detenuto, invece, è riabilitato in relazione a un danno di cui egli
stesso è il presunto responsabile. La differenza è fondamentale
e significa che noi stessi non prendiamo sul serio la nostra ideologia secondo
cui le condizioni sociali sono causa o concausa del crimine. Prendiamo sul
serio, invece, l'ideologia per la quale solo gli individui sono responsabili
delle loro infrazioni alla legge.
In secondo luogo, il restauro di una casa o la riabilitazione di un politico
avvengono, mediante azioni o risoluzioni, per un atto di volontà delle
autorità responsabili. Ma non è un'autorità a riabilitare
i detenuti. Se sono riabilitati, questo sembra avvenire con un certo contributo
del sistema, ma anche con un elevato apporto del detenuto stesso. Si immagina
un'interazione, della cui riuscita il detenuto stesso porta forse la maggiore
responsabilità.
Sono due differenze legate tra loro. Proprio per il fatto che le accuse mosse
ai detenuti sono intese come un danno di cui essi stessi sono ritenuti responsabili,
non spetta all'autorità di agire o decidere, ma piuttosto, e in misura
preminente, al detenuto stesso. Ecco come mai le autorità non hanno
escogitato delle forme di rilascio in cui da parte loro, con atti espliciti,
sia restituita la passata integrità al detenuto e lo si riconfermi
nell'onore, nel diritto e nella dignità. Eppure non dev'essere necessariamente
così: si potrebbero ideare dei rituali complessivi che, all'atto del
rilascio, restituiscano onore al rilasciato. Potrebbe venirci in mente di
accoglierlo con squilli di tromba e fanfare. Invece soltanto l'ingresso in
carcere è accompagnato da un dettagliato rituale di privazione della
dignità; non abbiamo alcun rituale di ripristino dell'onore alla fine
della reclusione.
- La radice dell'ideologia.
L'idea che la riabilitazione consista nel rimettere il detenuto in condizione
di funzionalità può esser considerata un'ideologia. Con «ideologia»
si intende, detto molto in breve, una rappresentazione generale delle attività
di qualcuno, che conferisce a tali attività un significato e che, nella
misura in cui non viene tradotta nella prassi, ha una funzione mistificatoria.
L'ideologia che illustra quel che si fa nel carcere come se fosse concepito
per riportare il detenuto alla funzionalità, è antica come il
carcere. Con la comparsa delle istituzioni moderne, in cui si era internati
per un certo lasso di tempo, riuscì a prender piede anche l'idea di
contare sul tempo per la riabilitazione.
Troviamo la radice di questa ideologia, perlomeno per quanto ci concerne,
espressa in forma coerente e generale già durante la prima fase dello
sviluppo carcerario, in Europa centrale, durante il diciassettesimo secolo
(confer cap. 1). Foucault la formula così, in relazione alla situazione
francese: le istituzioni e gli ospedali in Francia non hanno «solo l'aspetto
di un laboratorio di lavoro forzato, ma piuttosto di un'istituzione morale
incaricata di punire, di correggere una certa 'vacanza' morale che [...] non
può essere corretta con la sola severità della penitenza»
(Foucault 1961, trad. it., p. 78).
L'ideologia della riabilitazione emerge specialmente in relazione al trattamento
dei giovani. All'interno dell'Hôpital Général di Parigi,
«nell'aprile 1684 un decreto crea all'interno dell'ospedale una sezione
per i ragazzi e le fanciulle al di sotto dei venticinque anni; esso precisa
che il lavoro deve occupare la maggior parte della giornata e accompagnarsi
alla 'lettura di qualche libro di pietà'» (ivi). Un'ideologia
simile aleggia intorno al penitenziario di Amsterdam. Un documento pubblico
del 1602 - sei anni dopo la sua fondazione - notava che nell'istituto, tra
l'altro, si accettavano «giovani che hanno lasciato la retta via per
imboccare quella del patibolo, affinché qui [nel penitenziario] possano
esserne distolti e, nel timor di Dio, dedicarsi a un'onorevole occupazione
e al lavoro manuale» (cit. in Sellin 1944, p. 41).
L'ideologia della riabilitazione è attiva anche nelle case di lavoro
in Norvegia. Come detto nel capitolo precedente, la storia delle nostre istituzioni
carcerarie comincia cent'anni più tardi di quella continentale, con
quattro case di lavoro fondate tra il 1735 e il 1790. In uno studio egregio
sulla nascita dei penitenziari ("tukthuser") nel settentrione della
Norvegia, esaminati in contrapposizione con le prigioni ("slaverier")
delle fortezze, Kjeld Bugge dimostra che i penitenziari erano concepiti come
«istituti di rieducazione», scopo indicato negli statuti, come
pure nelle ordinanze istitutive, eccetera. Allora come oggi si poteva, in
vista di un fine encomiabile, battezzare con gradevoli eufemismi i prigionieri,
detti «membri», e i penitenziari, detti «benigni istituti».
Bugge descrive così il loro intento:
«I membri dovevano essere formati, affinché potessero essere liberati dopo un tempo determinato o indeterminato e, tornati in libertà , sapessero badare a se stessi e affittare una casa o una fattoria. Uomini e ragazzi dovevano essere preparati al lavoro manuale ed erano muniti del certificato di apprendisti. Le donne e le fanciulle dovevano imparare a filare, tessere e lavorare ai ferri, e apprendere l'economia domestica, per poter essere prese a servizio da «gente proba», o sposarsi. In caso di matrimonio potevano persino ricevere una dote» (Bugge 1969, p. 127)
L'autore continua rammaricandosi di non avere purtroppo riscontrato alcun
esempio di «membri» che avessero ricevuto una dote. Forse anche
in Norvegia ci si prendeva cura soprattutto dei giovani. Di un ragazzo condannato
nel 1756 a sei mesi di reclusione perché si era recato ai pascoli estivi
«per dare sollievo alla sua lussuria immorale con una delle donne di
lassù», si diceva che questo era anche un avvertimento «per
i giovani che come lui si danno empiamente a correre per le malghe in caccia
di sgualdrine». L'autorità superiore dichiarò nel 1777
che quando si condannavano i giovani e gli incensurati, era «nella speranza
che sotto disciplina e custodia siano condotti a vivere una vita migliore
di quella trascorsa» (tutte le citazioni in Bugge 1969, p.p. 127-128).
Insomma, anche se le antiche case d'internamento del diciassettesimo secolo
per la maggior parte erano caratterizzate dal lavoro forzato (confer il cap.
1), quest'ultimo implicava a sua volta un'ideologia della riabilitazione,
che era in grado di svilupparsi dal momento in cui la reazione penale cominciasse
ad essere considerata secondo la dimensione temporale.
- Il contenuto dell'ideologia
Anche in questo caso può essere utile procedere storicamente,
paragonando i primordi dell'ideologia con le sue formulazioni attuali. Ho
scelto, per molte ragioni, di esaminare da presso il "penitenziario di
Amsterdam". Innanzitutto fu uno dei primi penitenziari, aperto nel 1596,
agli albori della prima grande fase di sviluppo dell'internamento in Europa.
Inoltre era per molti aspetti un penitenziario modello, che fece scuola per
le istituzioni posteriori. Infine la letteratura secondaria su questo istituto
è particolarmente ricca e ben compendiata nello studio scrupoloso del
criminologo americano Thorsten Sellin (Sellin 1944). Aggiungerò dei
richiami comparativi alle carceri odierne e darò infine una valutazione
globale dell'evoluzione che dal diciassettesimo secolo giunge ai giorni nostri.
Nel prossimo paragrafo cercherò di esporre e chiarire due punti principali.
Il primo è che, dal Seicento ad oggi, le principali componenti dell'ideologia
della riabilitazione sono cambiate ben poco e, in buona misura, le idee sulla
funzione riabilitante del carcere che circolano ai nostri giorni sono le stesse
dell'epoca in cui il carcere fu inventato. Queste componenti possono riassumersi
sommariamente in quattro parole chiave: lavoro, scuola, influsso morale e
disciplina. Il secondo punto è che la riabilitazione perseguita è
stata coronata solo in misura minima dal successo che ci si attendeva: nella
prassi essa non ha avuto luogo.
"Lavoro"
Il penitenziario di Amsterdam non era tra i più grandi d'Europa.
Le celle erano originariamente nove, con posto per quattro-dodici prigionieri.
La porta di ciascuna cella si apriva su un vasto cortile rettangolare, il
pavimento era di assi o di terra battuta e le pareti di assi, e vi era un
gabinetto. I letti avevano un materasso, un saccone riempito di paglia per
coperta e un cuscino di piume. Le condizioni standard di questo primo penitenziario
erano quindi, di fatto, elevate. Certo in ogni letto dormivano due o tre persone,
il che però a quell'epoca non era inusuale tra le classi inferiori
di Amsterdam.
Si accedeva all'edificio attraverso due portoni, separati da un angusto cortile.
Il portone esterno era decorato con un rilievo in cui un uomo guidava un carro
carico di tronchi, trainato da leoni e tigri. Si voleva che l'uomo alla guida
rappresentasse il direttore dell'istituto; il carro simboleggiava l'istituto
e i tronchi la sua più importante attività manifatturiera. Sul
portone interno erano scolpiti due prigionieri seminudi, impegnati nella raspatura
dei medesimi tronchi - motivo per il quale l'istituto era detto anche "rasphuis",
come già abbiamo ricordato. Più precisamente si trattava di
raschiare grossolanamente determinate qualità di legno del Brasile
fino a ricavarne una polvere che veniva utilizzata nei colorifici. Il penitenziario
ne ebbe il monopolio per un certo periodo. Era un lavoro pesante, che i detenuti
svolgevano a coppie con seghe a molte lame: sino a dodici lame per volta.
Si svolgeva nelle celle, che erano attrezzate per la lavorazione, oppure,
quando il tempo lo consentiva, nel cortile interno.
Legata all'attività lavorativa si trova una nuova, elaborata "
ideologia del lavoro". Scopo del penitenziario non doveva essere «la
mera punizione, bensì il miglioramento ("beteringe") e la
disciplina per coloro che non ne comprendono i vantaggi e che cercano di evitarlo».
Il passo è tratto da una "Considerazione sulla fondazione del
penitenziario" ("Bedenking op de grondvesten vant tuichthuis",
1589) di un influente cittadino di nome Jan Laurenszoon Spiegel, favorevole
alla riabilitazione. Già venti anni prima, nel 1567, un riformatore
delle pene di nome Dirck Volckertszoon Coornhert (egli stesso precedentemente
incarcerato per aver pubblicato scritti invisi al governo) aveva pubblicato
un trattato sull'uso della «disciplina» per sconfiggere la piaga
dei «perniciosi vagabondi» ("Boeventucht, ofte middelen tot
mindering der schadelycke ledighgangers"). Coornhert insisteva sulla
questione della remuneratività: egli criticava con forza il trattamento
usuale dei vagabondi e, in alternativa, proponeva il lavoro sulle galere,
in progetti pubblici e nei penitenziari. Poiché persino uno schiavo
inesperto proveniente dalla Spagna, argomentava Coornhert, valeva da 100 a
200 gulden, un vagabondo olandese, che spesso conosceva un mestiere, doveva
valere molto più da vivo che da morto; se aveva commesso un reato bisognava
dunque che fosse messo a lavorare, la nazione ne avrebbe tratto un guadagno.
La "Considerazione" di Spiegel, ancorata concretamente al progetto
per la fondazione dell'istituto, aveva invece toni più morbidi. Sottolineava
che la gestione del penitenziario doveva porsi il fine di fare dei carcerati
degli uomini sani, che si nutrissero con moderazione, fossero usi al lavoro,
desiderosi di una buona occupazione, capaci di contare sulle proprie forze
e timorati di Dio. Uno dei mezzi più importanti per raggiungere questo
obbiettivo era, secondo Spiegel, una diversa organizzazione del lavoro. Egli
immaginava botteghe di calzolaio, laboratori per la fabbricazione di portafogli
e altra pelletteria, officine tessili, falegnamerie, e ancora botteghe di
fabbri, mobilieri, intagliatori in legno, soffiatori di vetro, cestai, calderai,
eccetera, rispecchiando così le diverse attività artigiane
allora fiorenti a Amsterdam (Sellin 1944, p. 28). Solo i più riottosi
dovevano esser destinati a lavori come la raspatura (ivi, p. 26).
Non, fu l'ultima volta, nella storia del carcere, che si lanciò con
fierezza l'idea di un programma di lavoro differenziato: ad esempio, nel 1956
il Comitato norvegese per la riforma delle carceri, il cui lavoro è
rispecchiato nella legge sulle carceri del 1958 tuttora in vigore, sosteneva:
«Le attività lavorative dell'istituto devono esser messe il più
possibile in relazione con la libera vita lavorativa, e il lavoro dovrebbe
svolgersi in condizioni ambientali che stimolino l'abitudine al lavoro e l'interesse
per esso [...] Scegliendo il lavoro per un detenuto si deve aver considerazione
per i suoi desideri e i suoi interessi, oltre che alle sue doti e alla sua
preparazione. Al momento della collocazione lavorativa nell'istituto si devono
anche tener presenti le particolari opportunità che ognuno ha di trovar
lavoro dopo il rilascio [...] Ai minori e a chi dovrà sottostare a
lunghi periodi di privazione della libertà si dovrebbe offrire per
quanto possibile una formazione professionale più o meno compiuta [...]
A fianco di un lavoro di tipo artigianale devono trovarsi anche attività
lavorative più meccanizzate» (" Fengselsreformkomitéens
innstilling" 1956, p.p. 91-92). Spiegel avrebbe potuto sottoscrivere.
Il programma di Spiegel fu ben accetto, ma non fu mai realizzato (Sellin 1944,
p.p. 29 e 59). La raspatura - che doveva essere un mezzo di punizione - rimase
l'attività principale: era quella che fruttava. In più il numero
degli internati era probabilmente troppo esiguo e la loro conoscenza di un
mestiere troppo scarsa per poter realizzare un programma differenziato (ivi).
Segno evidente di come si privilegiassero le considerazioni di remuneratività,
è il fatto che inizialmente si cercò di impiantare nel penitenziario
la tessitura, ma in seguito ci si limitò alla raspatura, perché
questa aveva superato sia le difficoltà del periodo di guerra sia la
concorrenza economica (ivi, p. 53). Delle proposte di Spiegel fu conservata
la remunerazione dei detenuti, un'idea avanzata per l'epoca. Però veniva
loro tolto quasi altrettanto per pagare vitto e alloggio.
La proposta del Comitato norvegese per la riforma carceraria ha subito analoga
sorte. Le attività lavorative non sono «il più possibile
in relazione con la libera vita lavorativa». In qualche carcere moderno
ci si appoggia soprattutto all'industria meccanica (Ullersmo, Ila), senza
chiedersi se questo tipo di lavoro sia adatto ai detenuti. In molte carceri,
specie nelle più antiquate, il lavoro è in gran misura privo
di significato (imbustamento di materiale pubblicitario, confezione di pacchetti
di tabacco) o semplicemente non esiste. Per lo più non esiste retribuzione,
si riceve qualche piccola ricompensa saltuaria al posto del salario.
"Scuola"
Il programma di lavoro non fu comunque l'unico anello dell'ideologia
della riabilitazione nel penitenziario di Amsterdam: vi si aggiunse anche
" l'ideologia della scuola". Molti detenuti erano giovani, riporta
Olfer Dapper in una "Descrizione storica della città di Amsterdam"
("Historiske beschryving der stadt Amsterdam", 1663, cit. in Sellin
1944), e presto si aprì per loro una scuola. Secondo Sellin, che si
rifà a fonti primarie, i detenuti andavano a scuola da quando veniva
buio sino alle diciannove, sette giorni alla settimana. Inoltre la domenica
andavano a scuola anche dalle sei alle otto. All'inizio si usava la chiesa
come locale scolastico e fu assunto un maestro.
Nel penitenziario di Amsterdam si studiavano, secondo Olfer Dapper, «i
passi principali e più edificanti degli Atti degli Apostoli, dei Proverbi
e di libri analoghi» (cit. in Sellin 1944, p. 62). I libri erano stampati
appositamente per il penitenziario. L'apprendimento era, in linea di principio,
in armonia con i contenuti virtuosi del lavoro. Ma naturalmente poteva sorgere
un conflitto tra scuola e sicurezza, che andava a detrimento del programma
scolastico; dopo un certo tempo si decise, per i raspatori, di adibire un
insegnante interno e il sovrintendente della lavorazione dovette assumersi
l'incarico. Dapper racconta come andò a finire: «sarebbe una
faccenda pericolosa per il sovrintendente, trovarsi da solo con una banda
di questi forsennati privi di legge. I libri per la loro edificazione sono
ora distribuiti loro nelle celle e, se sono analfabeti, si fanno leggere i
libri dagli altri ad alta voce» (ivi). In seguito la scuola fu ristabilita,
per scomparire completamente verso la fine del diciassettesimo secolo.
Anche in tempi recenti abbiamo esempi di come la scuola entri in conflitto
con la sicurezza. Nel 1981 Skaalvig e Stenby, due ricercatori che si occupano
dell'argomento, hanno documentato che quando si verifica un conflitto tra
gli interessi del carcere e la scuola, sono gli interessi pedagogici a soccombere
(Skaalvig - Stenby 1981; confer anche Langelid 1986).
«La scuola ha fatto di recente ingresso in un'istituzione ufficiale. Come ci si poteva aspettare, questo è accaduto alle condizioni poste dall'istituzione. Alcune di queste non potranno essere aggirate finché esisteranno le prigioni. Altre condizioni sono esplicitate, ma non le necessarie routine, o le tradizioni. Le routine e le regole nel carcere contribuiscono in parte a ostacolare i detenuti nella frequenza scolastica e in parte a rendere difficile lo svolgimento dei corsi. Abbiamo trovato ripetuti esempi in cui l'interesse pedagogico, dopo essere entrato in conflitto con gli interessi del carcere, ha dovuto capitolare» (Skaalvig - Stenby 1981, p. 380).
Questo è particolarmente grave perché i detenuti considerano l'istruzione come qualcosa di positivo. Langelid (1986, p. 7) richiama l'attenzione sull'insieme dei problemi lamentati dagli insegnanti: il trasferimento del detenuto da un carcere all'altro può avvenire senza particolare considerazione per il suo corso di studi, che può anche essere interrotto in caso di trasferimento da una sezione all'altra nel medesimo carcere; le misure disciplinari prese dalla direzione possono far sì che gli allievi siano scelti per un corso di istruzione di maggiore o minore durata; le attività esterne al carcere, che sono una parte del progetto d'istruzione, sono difficili se non impossibili da ottenere; la pianificazione è ostacolata dai lunghi tempi di custodia, gli angusti e spesso inadeguati locali scolastici possono essere d'ostacolo, e molti insegnanti sentono che la collaborazione con le autorità carcerarie è carente. La sicurezza ha priorità assoluta, la sicurezza «viene al primo posto» (ivi). Oggi come un tempo.
"Influsso morale"
Il terzo elemento fondamentale dell'ideologia della riabilitazione dell'epoca
era l'"influsso morale": l'internamento avrebbe dovuto rafforzare
la moralità del detenuto. Ad Amsterdam il compito era affidato soprattutto
alle pratiche religiose. Il penitenziario era detto a volte anche "godshuis"
(casa di Dio): i detenuti dovevano pregare mattina e sera, nonché prima
e dopo ogni pasto, e la domenica e nelle feste si celebrava il servizio divino
nella cappella. I raspatori avevano, in luogo del normale servizio divino,
un'ora di religione con il sovrintendente, il quale secondo Dapper «doveva
leggere, predicare e ammonire i giovani e cantare inni con zelo, come in tutte
le chiese calviniste». Così l'azione del sovrintendente era ancor
più totalizzante; se poi avesse o no una voce intonata, la storia ne
tace. Benché non risulti esplicitamente dalle fonti, si ha l'impressione
che anche l'influsso morale, come l'articolazione dell'attività lavorativa
e l'approfondimento del programma scolastico, entrasse in conflitto con interessi
più potenti, specialmente con la sicurezza del carcere.
Analogamente, nel dibattito al parlamento norvegese sul bilancio dell'amministrazione
carceraria del 12.11.1970, il relatore affermava:
«Infine voglio [...] dirmi soddisfatto per la deliberazione di uno stanziamento per costruire una chiesa annessa al carcere rurale di Ullersmo. Con una base prevedibile di 205 detenuti e 124 dipendenti [...] la congregazione dell'istituto giungerà ad annoverare un numero considerevolissimo di membri».
La somma era di 700 mila corone e insieme con i precedenti stanziamenti superava il milione: l'offerta religiosa era considerata importante anche negli anni Ottanta. Ma l'idea dell'influsso morale ha oggi altre basi, più generiche: si cerca di «influire» sui detenuti mediante una forma di educazione definita molto vagamente, sovente peraltro autoritaria e a senso unico (il «trattamento»). È comunque difficile sostenere che l'intento educativo, benché in certi periodi storici sia perseguito più intensamente, influisca sistematicamente sulla prassi.
"Disciplina"
Un quarto elemento consisteva infine nell'enfasi posta sulla " disciplina"
e, in contrasto con le altre componenti dell'ideologia, sembra che quest'ultima
fosse tradotta in buona misura nella prassi; se poi avesse davvero un effetto
riabilitante, è un'altra faccenda. La vita nel penitenziario era improntata
all'ordine e all'obbedienza.
Negli archivi di Leiden si è trovata una proposta di regolamento, stesa
senza dubbio da uno dei più importanti membri del comitato direttivo
dell'istituzione, il quale l'aveva formulata affinché gli internati
«non dovessero giammai abbandonare, dopo essere stati rimessi in libertà,
la via della virtù sulla quale erano stati istradati» (cit. in
Sellin 1944, p. 64). Fu inviata a varie autorità e infine al dott.
Sebastian Egbertszon, che il 21.11.1595 presentò un "Saggio sui
modi e le forme della disciplina nel penitenziario" ("Ontwerp vande
wyse ende forme des tuchts in den tuchthuyse"). Nel suo piano il dott.
Egbertszon sosteneva come scopo del penitenziario «l'istruzione nelle
virtù cristiane e sociali». Il trattamento avrebbe dovuto basarsi
sui seguenti elementi (schematizzati dallo storico Hallema nel 1925, cit.
in Sellin 1944, p.p. 64 s.):
Egbertszon non si limitò peraltro alle direttive generali. Presentò altresì una lista dettagliata di regole per i detenuti, insieme con le punizioni da applicare per le violazioni delle varie regole. La lista recitava così (cit. ivi, p.p. 64 s.):
1. per lite e menzogna: un giorno a pane e acqua;
2. per bestemmie, turpiloquio, rifiuto dell'istruzione, per aver procurato
cibo e bevande ai detenuti puniti: tre giorni a pane e acqua;
3. per disobbedienze lievi: otto giorni a pane e acqua;
4. per tentativi di rissa, distruzione intenzionale di proprietà come
abiti e mobili, eccetera, rifiuto del lavoro per la prima volta: quattordici
giorni a pane e acqua;
5. per rissa con ferite: due mesi a pane e acqua;
6. per disobbedienze più gravi, con turpiloquio: un mese di reclusione
nella cantina (una cella di isolamento posta sotto la cappella) a pane e acqua;
7. per rifiuto del lavoro per la seconda volta: frustate e un mese nella cantina
a pane e acqua;
8. per disobbedienza accompagnata da violenza fisica: frustate e sei mesi
nella cantina a pane e acqua;
9. per tentativo di fuga: frustate e sei mesi di reclusione nella cantina,
in catene;
10. per tentativo di fuga accompagnato da violenza: medesima punizione del
caso precedente, raddoppiando il tempo di reclusione;
11. per aiuto ad altri che fuggono: medesima pena;
12. per la fuga dall'istituto solo con l'inganno: ulteriore raddoppio del
tempo da trascorrere nella cantina;
13. per il terzo rifiuto del lavoro: il detenuto viene rimandato davanti al
giudice per rinnovare la condanna.
Entro il 1603 fu stabilito un regolamento per il penitenziario, in gran parte influenzato dal piano del dott. Egbertszon. Con l'ingresso nell'istituto l'internato era posto dapprima in una cella singola, per quanto se ne sa in una delle celle che erano anche usate come celle di punizione. Qui, pressappoco come nelle sezioni di ingresso dei nostri giorni, il detenuto riceveva visite dei responsabili dell'istituto, i quali lo rendevano edotto del regolamento. Qualche esempio può essere ricordato (cit. ivi):
1. In caso di «abuso del nome di Dio, bestemmie, imprecazioni o uso
di parole immorali o indecenti in racconti o canzoni, o uso di quel gergo
di malavita che è detto 'francese dei merciaioli'», allora si
doveva «essere puniti».
2. Libri, lettere, ballate, non si potevano leggere o cantare senza il permesso
della direzione. Se durante le ispezioni venivano trovati materiali non permessi,
erano consegnati ai capi e agli insegnanti. La pena era la perdita della razione
di carne per tre settimane.
3. Le ingiurie, specialmente se rivolte contro il personale, portavano la
prima volta alla perdita della razione di cibo per mezza giornata.
4. Era vietato ai detenuti il possesso di coltelli ed altri oggetti taglienti,
attrezzi per il fuoco e tabacco. Era proibito fumare. Le forbici usate in
tessitura dovevano essere lasciate presso il posto di lavoro.
5. Scommettere, giocare d'azzardo e commerciare tra detenuti era vietato.
Se si trattava di oggetti, i capi potevano confiscarli e tenerli per loro
uso personale; il denaro doveva essere tolto al detenuto e messo nella «cassetta»
(un piccolo contenitore nel cortile dove si tenevano i pedaggi dei visitatori
e altri contributi).
6. Era proibito ai tessitori di alzarsi dal proprio posto di lavoro, correre
o far rumore nei locali di lavoro, o chiedere regali ai visitatori.
7. Se qualcuno non riusciva a raggiungere la quota di produzione stabilita,
era punito e doveva in aggiunta produrre la quota mancante.
Come vediamo dal punto 7, si valutava anche la quantità di lavoro
svolto. In relazione alle regole finali erano previsti mezzi di punizione
relativamente blandi. Non mancavano naturalmente anche mezzi più energici:
per esempio il rifiuto del lavoro portava, come aveva proposto Egbertszon,
alla detenzione a pane e acqua nella cantina. I capi avevano l'autorità
di mandarvi i detenuti ribelli, ma non determinavano essi stessi la durata
della pena: dovevano fare immediatamente rapporto alla direzione, uno dei
membri del comitato direttivo visitava il recluso, stabiliva che cosa fosse
successo e fissava la pena. Per il rifiuto di lavorare le punizioni erano
ancora più severe: il 13.11.1618, 20 detenuti furono frustati per tale
motivo. Anche allora la renitenza collettiva al lavoro era considerata una
mancanza grave. Tra altri mezzi di punizione particolarmente duri vi era una
cella nella quale scorreva dell'acqua, che l'internato ribelle doveva pompare
continuamente fuori per non annegare.
Oggi non si frustano i detenuti e, perlomeno in Norvegia, non si usa più
mettere a pane e acqua. Si consente di imprecare e anche un po' di turpiloquio.
Comunque la proposta del dott. Sebastian Egbertszon del 1595 non è,
in fondo, così distante dalle regole e dai mezzi di punizione dei nostri
giorni. "L'atteggiamento che li pervade è per molti versi il medesimo".
E al giorno d'oggi molte regole sono formulate in modo così generale,
che direttore e personale degli istituti dispongono di un potere fortemente
discrezionale sui detenuti.
- Passato e presente: che cosa non è cambiato.
È tempo di trarre qualche conclusione. Vogliamo sottolineare tre
punti: il ripresentarsi delle medesime componenti, la costante prevalenza
degli interessi del sistema e la neutralizzazione di fatto della riabilitazione.
Tra l'Amsterdam del diciassettesimo secolo e la situazione odierna sono trascorsi
quattro secoli, durante i quali la storia delle istituzioni carcerarie ha
conosciuto importanti sviluppi, come abbiamo visto nel capitolo 1, nondimeno
lavoro, scuola, influsso morale e disciplina ne restano tuttora i capisaldi.
Il loro peso relativo è senza dubbio diverso a seconda dei periodi,
dall'enfasi posta nel penitenziario olandese sul loro insieme, alla preferenza
data nelle nuove carceri del diciannovesimo secolo all'influsso morale e alla
disciplina. Oggi si privilegiano soprattutto disciplina e scuola, mentre il
lavoro e la componente morale hanno perso di forza ideologica.
A sfavore di quest'ultima ha influito soprattutto il declino, negli anni Settanta
e Ottanta, della cosiddetta «ideologia del trattamento», che negli
anni Cinquanta e Sessanta era la principale concretizzazione della giustificazione
morale del carcere e che, per due ragioni principali, si è dovuta accantonare.
Innanzitutto, durante gli anni Sessanta e Settanta molti lavori teorici nel
campo delle scienze sociali hanno dimostrato che l'ideologia del trattamento
in realtà causava tempi di detenzione più lunghi e minor certezza
del diritto rispetto a una pena detentiva del tutto normale. «In nome
del trattamento» il soggiorno in carcere poteva prolungarsi e anche
divenire indefinito. Inoltre, nel medesimo periodo, numerose ricerche empiriche
indicavano che a prescindere dalla forma del trattamento, e persino in esperimenti
di trattamento molto intensivo, i risultati erano largamente gli stessi e
perdipiù alquanto scadenti. Anche in esperimenti con ottime procedure
di controllo si aveva lo stesso deprimente appiattimento dei risultati. Gli
studi teorici avrebbero influenzato ben poco le autorità politiche,
ma acquistavano efficacia con la verifica empirica di risultati negativi a
livello internazionale. Al tempo stesso sono cadute - in Norvegia - anche
un certo numero di «sanzioni particolari» fondate sull'ideologia
del trattamento, sanzioni cioè orientate al trattamento di specifiche
categorie di rei: sono stati aboliti il sistema di carceri giovanili, una
forma di lavoro forzato per gli alcoolisti rei di trasgressioni minori e,
in parte, le misure di sicurezza detentive ("sikring") che erano
applicate ai cosiddetti delinquenti anormali (nota
2) (misure che sono ancora in uso, ma su scala ben minore). Adesso che
l'idea della riabilitazione mediante il lavoro manca di attrattiva, il sistema
carcerario trova il suo più importante fondamento ideologico nella
disciplina tradizionale, insieme con l'utilità di trascorrere il periodo
di detenzione, altrimenti inutile, per migliorare la rudimentale istruzione
dei reclusi.
Ma nonostante le variazioni, il sistema va raramente in cerca di motivazioni
della riabilitazione oltre a quelle che abbiamo discusso. Le fantasie intorno
alla riabilitazione prendono vita proprio in questa cornice molto tradizionale
e incontestabilmente borghese: lavoro alacre, buona scuola, moralità
rispettabile e salda disciplina sono componenti che si trovano, ciascuna per
sé, in molti contesti, ma che insieme esprimono l'etica borghese. Si
può dire che nel loro insieme esprimono addirittura quella che Max
Weber chiamò «l'etica protestante», altrimenti detta etica
capitalista (Weber 1904). Del resto, bisogna aspettarsi che in ogni società
il carcere esprima pienamente la morale della classe dominante.
- Priorità agli interessi del sistema.
È possibile trovare un principio che regoli le variazioni storiche
alle quali abbiamo accennato? Benché la questione sia complessa, vi
sono motivi per sostenere che il fattore dominante sono stati gli interessi
del sistema. Si è privilegiata questa o quella componente a seconda
che realizzarla fosse negli interessi "propri" del carcere, senza
riguardo per la riabilitazione dei detenuti.
L'attività redditizia era l'interesse centrale del sistema ad Amsterdam,
insieme con la disciplina, e questo portava, come abbiamo visto in precedenza,
a una pesante distorsione della componente lavorativa nell'ideologia della
riabilitazione. Fu abbandonata l'idea di un programma differenziato di lavoro
e si speculò su quel che era nato come semplice mezzo di punizione,
la raspatura, in quanto se ne traeva un guadagno. L'interesse per la disciplina,
come abbiamo visto, spinse a trascurare i piani di scolarizzazione e probabilmente
anche la stessa formazione morale. Nell'odierna Norvegia prevale il mantenimento
della disciplina, accanto al desiderio di mostrare un razionale intento di
riabilitare mediante la scuola. Conformemente la scuola e la moralizzazione
devono cedere il passo ogni volta che siano in conflitto con la disciplina
e l'attività lavorativa è realizzata in misura affatto insufficiente.
Gli interessi del sistema (vale a dire le componenti ideologiche, tra quelle
che sono di sostegno al carcere, che in una certa epoca è interesse
del sistema mettere realmente in pratica) sono definiti, formulati e trasmessi
"dall'esterno". Nel diciassettesimo secolo la politica economica
mercantilistica influenzava l'istituzione attraverso la pubblica opinione
dell'epoca. Pietra di paragone per il carcere diventava, nei processi di formazione
dell'opinione pubblica, la capacità di svolgere attività redditizie.
Le medesime esigenze improntavano la disciplina, come mostrano le concrete
formulazioni dei regolamenti.
Un processo analogo avviene oggi in Norvegia, benché il principio di
disciplina, a dispetto dell'espansione del sistema carcerario, sia duplicemente
in crisi. Infatti nell'opinione pubblica, così come si esprime attraverso
i mezzi di comunicazione di massa, è radicata la convinzione che il
carcere non riesca a mantenere la disciplina interna. In molte carceri avvengono
sovente scioperi, sit-in, devastazioni delle celle, e si dice che l'autorità
carceraria non è in grado di arrestare il traffico di droga nelle prigioni:
nell'opinione pubblica questi sono fatti che mettono in dubbio la capacità
del sistema di mantenere l'ordine interno. Inoltre proprio di questi tempi
il sistema carcerario ha perso la più importante forma dell'ideologia
della riabilitazione, ossia l'ideologia del trattamento. In questa situazione,
e visto che in generale l'educazione gode di attenzione crescente da parte
della società, l'ideologia della scuola si è presentata come
un mezzo per giustificare il carcere di fronte all'opinione pubblica.
È dunque nella sfera pubblica che vengono formulate le esigenze nei
confronti del carcere, e di lì sono comunicate al carcere stesso. In
tal modo si formano gli interessi del sistema. La questione diviene così
in che modo si tenga fede al mandato ricevuto, specialmente quando vengono
presentate idee alternative, suggerimenti, esperimenti e iniziative che si
pongono in contrasto con gli interessi predominanti. A tale scopo il personale
carcerario mette in atto varie "tecniche di neutralizzazione", per
bloccare le iniziative che cercano di portare «aria nuova» nel
sistema. Presenterò sei di queste tecniche, che ho osservato all'opera
durante un'indagine svolta all'interno di una prigione norvegese (Mathiesen
1965a, partic. p.p. 77-78, 182 s.). Esse variano dal rifiuto più o
meno esplicito delle idee che sono in conflitto con i prevalenti interessi
del sistema, alla loro impalpabile vanificazione.
"Rimandare" a richieste, ordini, disposizioni, eccetera di un'autorità
responsabile esterna è la prima e più semplice tecnica; essa
richiede che i rappresentanti del carcere vedano l'istituzione come un anello
dipendente in un sistema più ampio che ha un'autorità superiore
e che rifiutino di prendere su di sé la responsabilità di andare
contro le idee che possono introdurre delle novità nella vita dell'istituto.
Bisogna lavarsene le mani e rimandare all'autorità esterna competente.
"Svuotare" le proposte in conflitto con gli interessi predominanti
è una tecnica più complessa, messa in atto soprattutto quando
la precedente non ha più forza di convinzione. Consiste nel definire
le novità come irrilevanti per il carcere. Quando negli anni Sessanta
fu proposta l'idea della terapia di gruppo, questa era frequentemente respinta
perché irrilevante di fronte ai superiori principi della riabilitazione,
che si basava allora, perlomeno nei paesi scandinavi, in gran parte su attività
lavorative industriali.
"Rendere impraticabili" le proposte innovative è una tecnica
cui si ricorre forse soprattutto quando la precedente non funziona, in quanto
la controparte ha dei buoni argomenti, o si rifà a risultati positivi
conseguiti dai nuovi piani in altre sedi, o è sostenuta da forti pressioni
dei tecnici, o a causa di una combinazione di questi fattori. Le nuove idee
sono stimate irrealizzabili - anche se forse sono ottime - a causa di esigenze
esterne, della condizione del carcere, delle risorse o simili. Questa tecnica
è stata impiegata già negli anni Sessanta contro la terapia
di gruppo: si rispondeva che l'idea era davvero interessante, ma semplicemente
non applicabile nelle prigioni.
La "dilazione" è una tecnica con la quale si rinvia «fino
a nuovo ordine» l'attuazione di una proposta, in base al fatto che non
sembra perfettamente affidabile. Anche se ben congegnata, nessun'idea nuova
può essere del tutto a prova d'imbecille: a rigore, dovrebbe essere
prima provata e riprovata. Ma le nuove idee sono nuove proprio nel senso che
non sono ancora state sperimentate. Si possono così quasi sempre posporre
«fino a nuovo ordine», si possono educatamente mettere in ghiaccio:
neutralizzate in quanto idee molto buone e interessanti, che sfortunatamente
non possono ancora essere realizzate perché non ancora sviluppate,
non maturate appieno.
"Sminuire" un'idea o un'iniziativa è una tecnica per cui
si svaluta la sua importanza pratica, ostentando però interesse e persino
entusiasmo. Nessuno ha respinto l'idea, né ha cercato una dilazione,
ma la si è riportata alle sue «ragionevoli» proporzioni.
Si ha «piena comprensione» per una protesta del personale addetto
al trattamento e alla protesta è offerta una giusta collocazione burocratica.
Il consenso con una proposta innovativa, seguìto però da una
cosciente sottovalutazione del suo significato pratico e delle sue conseguenze,
è pratica corrente delle istituzioni totali, carcere incluso.
La sesta tecnica è l'"appropriazione". Una nuova idea, invece
di essere ridimensionata, viene accolta e fatta propria, ma in modo tale che
l'elemento nuovo sia sottilmente e impercettibilmente cambiato, per cui entra
a far parte delle strutture esistenti senza minacciarle; ma se ne conserva,
insieme con il nome, la sensazione di aver iniziato qualcosa di utile e che
rompe con il sistema. Negli anni Sessanta si fronteggiò così
il «programma di "counselling" di gruppo» (nota 3), allora
introdotto in molte prigioni scandinave, che fu apparentemente affrontato
con un atteggiamento molto aperto (quale si voleva dare a vedere). Fu in seguito
gradualmente e impercettibilmente modificato in regolari gruppi di studio,
in scienze sociali, psicologia, eccetera. I gruppi avevano un'evidente struttura
autoritaria, regole relativamente burocratiche e così via, e si adattavano
magnificamente al sistema di controllo del carcere, senza minacciarlo affatto.
Ma il nome e l'apparenza di novità furono entusiasticamente conservati,
almeno sul momento. Trattamento di gruppo, sostegno di gruppo, erano lo slogan
di allora.
Gli interessi del sistema, sorti da esigenze imposte dall'esterno, sono così
difesi e perpetuati al suo interno. Applicando queste tecniche i rappresentanti
del carcere si subordinano ai presupposti della vita carceraria. Il carcere
si caratterizza perciò come un'istituzione essenzialmente conservatrice:
tutti i cambiamenti che contrastino con quei presupposti diventano impossibili.
Il conservatorismo della società carceraria è un tratto fondamentale
del carcere come istituzione.
- La riabilitazione è neutralizzata.
Il terzo punto generale che va sottolineato è che, senza considerare
quale prevalesse tra le sue componenti, l'effettiva riabilitazione è
stata vanificata. Si può dire fondatamente che mai, nel corso della
sua storia, il carcere ha avuto una funzione riabilitante: mai ha ripristinato
la funzionalità del detenuto. Per quanto riguarda il passato, possiamo
ricordare che sia i metodi adoperati nel penitenziario di Amsterdam, sia i
metodi delle prigioni del diciannovesimo secolo, incentrati sull'isolamento
disciplinare e sull'espiazione morale, sono oggi completamente abbandonati.
Quanto al carcere dei nostri giorni, le scienze sociali suffragano questo
giudizio negativo con tre differenti generi di contributi. Come già
si è ricordato, numerose ricerche empiriche mostrano che, a prescindere
dalla forma del trattamento e persino in caso di esperienze di trattamento
intensivo, i risultati restano in gran misura gli stessi e, in genere, sono
molto scadenti. Si tratta per lo più di studi che misurano il risultato
in termini di recidiva. Anche esperimenti con ottime procedure di controllo
mostrano una deprimente uniformità: con questo o quel trattamento i
risultati sono per lo più gli stessi (nota 4). Consideriamo poi quel che
si sa dell'effettivo funzionamento della maggior parte delle prigioni, anche
in ambito internazionale. Abbiamo appena detto che l'attuazione pratica del
trattamento non ha mostrato i risultati desiderati. Ma sappiamo che la realtà
stessa del carcere, in ogni circostanza, è ben lontana da qualsiasi
cosa si possa chiamare «trattamento» in un senso qualificato.
Come già abbiamo osservato (cap. 1) le carceri sono spesso sovraffollate
e cadenti e in genere sono strutture grosse, autoritarie e burocratiche. Questa
è la vita quotidiana nel carcere, ben lungi da qualsivoglia «situazione
riabilitante».
Infine possiamo rivolgerci agli studi sociologici che affrontano la società
carceraria e la sua organizzazione. Già la prima imponente ricerca
sul carcere dell'epoca moderna, svolta negli Stati Uniti poco prima della
seconda guerra mondiale (Clemmer 1940), indicava chiaramente che la riabilitazione
non si promuove mediante la detenzione in carcere. L'autore, il sociologo
Donald Clemmer, all'epoca dipendente della prigione in cui ebbe luogo la ricerca,
analizzava mediante interviste approfondite, questionari e osservazioni, l'atteggiamento
dei prigionieri verso la società rispettosa delle leggi. Tra l'altro
egli sostenne l'ipotesi che i detenuti vengano «prigionizzati»
durante il soggiorno in prigione. Con «prigionizzazione» ("prisonization"),
Clemmer intendeva un processo per cui il detenuto assume e fa proprie le tradizioni
informali, gli usi, le norme e i valori caratteristici della società
carceraria (nota
5). Questa cultura rende il detenuto immune ai tentativi di recuperarlo
alla società. In parole povere, il carcere funge soprattutto da «scuola
del crimine». Secondo Clemmer nessun detenuto può evitare di
essere «prigionizzato» in qualche misura, per il solo fatto di
trovarsi nell'istituzione: più sono radi i contatti con la realtà
esterna; più sono numerosi i contatti ravvicinati nei piccoli gruppi
all'interno; infine, più a lungo si protrae la detenzione, tanto più
il prigioniero viene prigionizzato. Clemmer trovava ragionevole supporre che
la prigionizzazione influenzi negativamente il detenuto anche dopo la scarcerazione.
L'ampia indagine di Clemmer fece sensazione tra gli addetti ai lavori, ma
la guerra mondiale provocò un'interruzione del lavoro di ricerca. Solo
nel dopoguerra questo genere di studi tornò in auge, e specialmente
intorno al 1960 una serie di importanti ricerche confermavano in modi diversi
quel che già Clemmer aveva scoperto. In uno studio raffinato il sociologo
americano Stanton Wheeler sottopose a verifica quei risultati mediante un
questionario predisposto con particolare abilità (Wheeler 1961). Wheeler
divise i detenuti di una grande prigione americana in tre gruppi: quelli che,
indipendentemente dalla durata della condanna, si trovavano all'inizio, a
metà, alla fine del periodo di detenzione. Risultava evidente che la
prigionizzazione cresceva fortemente verso la metà del soggiorno, ma
si indeboliva nuovamente avvicinandosi il momento della scarcerazione, secondo
un andamento rappresentabile con una curva a campana (curva di Gauss). Il
detenuto si preparava al rilascio liberandosi, in certa misura, delle norme
e dei valori che avevano caratterizzato in grado crescente la prima fase della
detenzione. Troviamo un andamento simile nelle varie fasi dell'adattamento
all'ambiente anche in altri contesti, ma, e questo è importante, il
ciclo non è «perfetto»: i detenuti non perdono mai completamente
gli atteggiamenti, gli usi e i valori che condividevano con gli altri reclusi.
E poiché molti vengono incarcerati più volte, si può
forse descrivere la prigionizzazione come una sorta di spirale, seguendo la
quale il detenuto resta sempre più invischiato nella cultura carceraria.
Sempre verso il 1960 apparvero numerose ricerche che non solo evidenziavano
fenomeni di prigionizzazione dei detenuti, ma che soprattutto cercavano di
spiegare come potesse emergere una tale cultura carceraria nel suo insieme
(Sykes 1958, Sykes - Messinger 1960). Il punto principale era che il carcere
sottopone a così tante situazioni di sofferenza ("pains of imprisonment"),
che i detenuti hanno bisogno di una difesa contro il sistema: la privazione
della libertà personale, di beni e servizi usuali, delle relazioni
eterosessuali, dell'autonomia, della sicurezza nei confronti degli altri detenuti,
sono situazioni di tale sofferenza che i detenuti creano la società
carceraria, con le sue norme e valori. Questo non rimuove i tratti dolorosi
del carcere ma, se non altro, li attenua ed allevia: avere una cultura comune
protegge dalle pressioni dell'ambiente. La cultura dei detenuti diventa così
una comprensibile reazione.
Successive ricerche scandinave hanno presentato risultati molto simili alle
inchieste statunitensi. Nel 1959 Johan Galtung intraprese uno studio sociologico
sul carcere circondariale di Oslo, il carcere maggiore della Norvegia (450
detenuti; Galtung 1959). Egli stesso era detenuto in quanto obiettore di coscienza
e si basò sulle proprie osservazioni, nonché su interviste ai
compagni di pena e al personale del carcere. La sua ricerca, in accordo con
i precedenti risultati, confermava sia la dolorosità dell'esperienza
carceraria (benché le condanne siano mediamente assai più brevi
in Norvegia che negli Stati Uniti), sia la presenza di tendenze alla prigionizzazione.
Nel 1965 ho pubblicato a mia volta uno studio sul carcere rurale e sull'istituto
di sicurezza di Ila (Mathiesen 1965a), trascorrendovi due anni come osservatore
autorizzato dalla direzione e basandomi inoltre su questionari somministrati
ai detenuti. Mi concentravo soprattutto sui rapporti di potere nell'istituzione.
Trattandosi di un istituto in cui si applicano misure di sicurezza (confer
cap. 1, n. 3), l'intervento di esperti psichiatri e psicologi era più
consistente del solito e ci si poteva aspettare di conseguenza che la reclusione
fosse alleviata. Ma i risultati erano opposti: i detenuti trovavano la loro
condizione particolarmente dolorosa, perché si sentivano marchiati
come un gruppo di devianti psichici e quindi emarginati (spesso descrivevano
se stessi come la «spazzatura della società»). E percepivano
che psichiatri ed équipe di trattamento avevano su di loro un potere
speciale e pericoloso, che ai loro occhi era legato al ruolo di psichiatri
forensi esercitato da questi durante il giudizio: sottoposti per la maggior
parte a misure di sicurezza che richiedono un accertamento e un parere peritale,
i detenuti consideravano i periti psichiatri come i loro «veri»
giudici. Questo è stato confermato anche da altre ricerche (Kongshavn
1987). Il potere degli psichiatri era anche dovuto all'importanza dei rapporti
e dei pareri psichiatrici per il rilascio con misure di sicurezza non detentive,
mediante i quali essi controllavano un bene essenziale per i detenuti.
Nella mia ricerca non avevo trovato segni così evidenti di quel genere
di prigionizzazione, o di arruolamento in una cultura dei detenuti, che Clemmer
e altri avevano evidenziato. I «miei» detenuti sembravano per
lo più avere norme e valori normali, convenzionali, come la «gente
comune». Risultati simili provengono da almeno un altro gruppo di ricerca
scandinavo (danese, confer Balvig et al. 1969). Avevo identificato peraltro
altre reazioni, almeno altrettanto problematiche, al soggiorno carcerario:
molti carcerati sottolineavano che il potere conferito agli psichiatri rendeva
impossibile stabilire una qualsiasi relazione terapeutica. E molti cercavano
di difendersi sia dalla stigmatizzazione che avvertivano, sia da quello che
percepivano come potere degli psichiatri, esprimendo costantemente ma in modo
indiscriminato una critica nei confronti dell'istituzione e del sistema carcerario
in generale. Le critiche si appuntavano sul funzionamento ingiusto o inefficace
dell'istituzione e del sistema; i detenuti lamentavano che la loro riabilitazione
non era per nulla perseguita, giungendo così a rifiutare il carcere
a partire dai suoi presupposti, cioè per aver disatteso norme e valori
che esso stesso proclamava. Si alimentava dunque un profondo conflitto tra
istituzione e reclusi, anche se non si giungeva a un'incomunicabilità
culturale.
Una ricerca svedese ha però rilevato chiare tendenze alla prigionizzazione
anche nel contesto carcerario scandinavo. Si tratta di uno studio di Ulla
Bondeson (1974) basato soprattutto su questionari ma anche su interviste di
gruppo, svolto in tredici diversi istituti maschili e femminili (istituti
di trattamento per i giovani, carceri minorili, carceri ordinarie e un istituto
di sicurezza). Dalla ricerca risultava che i detenuti erano criminalizzati,
resi farmacodipendenti, nevrotizzati, si sentivano impotenti durante la prigionia.
Ed erano in gran misura prigionizzati. Emergeva inoltre che anche le donne
venivano prigionizzate durante il soggiorno carcerario. Bondeson notava che
i piccoli istituti orientati al trattamento non funzionavano meglio di quelli
di maggiori dimensioni.
Anche altri studi mostrano, pur con alcune variazioni, lo stesso quadro generale
(in Glaser 1964 si offre per gli Stati Uniti un quadro più roseo, ma
la metodologia della ricerca è stata criticata). Verificare se esista
o meno una forma di prigionizzazione nel senso di Clemmer, dipende probabilmente
dai metodi impiegati. Ma, a prescindere dall'interpretazione che ne danno,
le ricerche mostrano come la finalità della riabilitazione sia largamente
disattesa. Questa conclusione generale era stata anticipata, all'inizio degli
anni Cinquanta, da un importante articolo di due sociologi appartenenti all'amministrazione
carceraria: Lloyd W. McCorkle, direttore della prigione di stato del New Jersey
(la stessa nella quale Gresham Sykes aveva condotto lo studio già citato),
e Richard R. Korn, che era direttore del programma di educazione e "counselling"
nello stesso istituto (McCorkle - Korn 1954). I due autori riassumevano il
punto centrale della maggior parte delle ricerche precedenti in un concetto:
la polizia, i tribunali e specialmente il carcere fanno sì che i detenuti
siano brutalmente estromessi dal consorzio umano; la risposta dei detenuti
consiste nel rifiutare coloro che li hanno rifiutati, "reject their rejectors".
«Da molti punti di vista, il sistema sociale dei detenuti può
essere considerato un modo di vita che consente al detenuto di combattere
i devastanti effetti psicologici dell'internamento e della trasformazione
del rifiuto sociale in autorifiuto. In effetti ciò consente al detenuto
di rifiutare coloro che lo rifiutano piuttosto che se stesso» (ivi,
p. 88). In tale situazione, sostengono McCorkle e Korn, ogni trattamento diventa
impossibile, come una lunga serie di studi posteriori ha confermato. Anche
il trattamento «basato sull'addolcimento delle condizioni di vita in
carcere» (ivi, p. 95), pur lodevole dal punto di vista umanitario, risulta
inefficace a impedire il risorgere dell'ostilità.
Non si tratta solo del fatto che il carcere non realizza la propria finalità
riabilitativa. Probabilmente, per il detenuto che assimila le forme di reazione
comprese nella «sindrome di rifiuto» che abbiamo descritto, le
probabilità di riabilitazione sono del tutto compromesse, anche sul
lungo periodo. A questo proposito ricordo che Ulla Bondeson ha indagato gli
effetti a lungo termine della prigionizzazione sulla recidiva. Ha studiato
la recidiva nell'arco di cinque e dieci anni in circa mille casi, ai quali
aveva somministrato un questionario nell'ambito di un'ampia ricerca sugli
istituti di pena da lei pubblicata nel 1974, e mediante varie tecniche statistiche
ha stabilito una connessione tra la prigionizzazione e la successiva recidiva
(Bondeson - Kragh Andersen 1986; confer Bondeson 1986, p.p. 422 s.; Robinson
- Smith 1971, p.p. 7172; Trasler 1976, p.p. 12-13).
- Si può difendere il carcere con la riabilitazione?
Si può difendere il carcere con la riabilitazione? Una mole esorbitante
di materiale storico e sociologico conduce a rispondere con un chiaro ed evidente
no a questa domanda. L'ideologia della riabilitazione è antica come
il carcere. Era ed è costituita da quattro componenti, lavoro, scuola,
influsso morale e disciplina, che sono al tempo stesso il nucleo dell'etica
borghese e protestante. Al di fuori di queste componenti e delle loro varie
manifestazioni concrete, la fantasia riabilitativa non si è spinta.
La scelta di privilegiare l'una o l'altra è stata, in ogni epoca, subordinata
agli interessi del sistema per il carcere piuttosto che ispirata all'interesse
per una reale riabilitazione dei detenuti. Perciò , quando è
sorto un conflitto tra gli interessi del carcere e quelli della riabilitazione,
i primi hanno sistematicamente avuto la meglio. Altrettanto sistematicamente,
inoltre, la riabilitazione non ha prodotto risultati degni di tale nome. La
conclusione è suffragata dal complesso della ricerca sul trattamento
e in una serie di approfondite ricerche sociologiche sul carcere come sistema
sociale.
Non solo si può dire, senza tema di sbagliare, che il carcere non riabilita.
Si può addirittura sostenere che il carcere disabilita del tutto. Oggi,
sovente, lo confermano le stesse autorità. Citiamo un autorevole fonte
governativa svedese: «Ciò che l'odierna criminologia ci ha insegnato
è che l'idea di poter rendere migliore l'individuo punito mediante
una pena che lo privi della libertà è comunque un'illusione.
Al contrario oggi è generalmente riconosciuto che questo tipo di pena
porta ad una scadente riabilitazione e ad un alto tasso di recidiva, come
pure produce una dolorosa distruzione della personalità» ("Regeringens
proposition" 1982-83: 85, p. 29). Il minimo che si può pretendere
dalle autorità è che mettano seriamente in pratica questo corretto
orientamento.
Note:
1. Nell'ottica riabilitativa ha un valore preminente il recupero, da parte dell'autore di reato, di abilità che gli consentano il reinserimento nella società in condizioni di «buon funzionamento». Conseguentemente all'impegno risocializzante, la funzionalità recuperata si misura sull'«adattamento» del reo alle esigenze dell'ordine sociale [N.d.T.].
2. Con il termine di "abnormal offenders" si fa riferimento, nella letteratura criminologica scandinava e anglosassone, alle persone autrici di reato «a-normali». Tali individui rientrano, secondo gli ordinamenti anglosassoni, in una delle tre categorie seguenti: "mentally impaired", ossia chi è debole di mente o insufficiente mentale; "mentally ill", cioè chi è malato di mente; psychopatic, ossia chi è affetto da disordini psicopatici. Il trattamento attuato nei confronti degli "abnormal offenders" è specifico, nel senso che esistono apposite istituzioni ("hospitals") ove sono ricoverate anche persone malate di mente che non hanno commesso reati; tali istituzioni appartengono al circuito sanitario e non tanto a quello giudiziario, benché spesso siano definite «istituti di sicurezza» (confer anche cap. 1, n. 8). Nel sistema penale italiano invece le misure di sicurezza, detentive o non detentive, sono applicabili solo nei confronti di persona autrice di reato della quale si accerti la pericolosità sociale. L'accertamento di pericolosità sociale viene condotto dal giudice stesso per autori di reato sani di mente; l'accertamento della pericolosità sociale psichiatrica di autori di reato infermi di mente spetta a un perito nominato dal giudice. Queste misure vengono eseguite in istituti "ad hoc" o in apposite sezioni di altri istituti: da una parte abbiamo la colonia agricola e la casa di lavoro per autori di reato sani di mente pericolosi socialmente; dall'altra la casa di cura e custodia e l'ospedale psichiatrico giudiziario, per autori di reato prosciolti per vizio di mente e pericolosi socialmente [N.d.T.].
3. Il "counselling" di gruppo è un intervento all'interno del programma di trattamento che comprende attività di «sostegno» rivolte a un gruppo di rei; esiste anche un intervento di sostegno individuale. Prevede l'intervento di operatori (assistenti sociali, medici, psicologi, criminologi eccetera) che mirano a far cambiare l'orientamento antisociale della condotta del reo: viene messa in atto una strategia volta a modificare i meccanismi decisionali del soggetto, sostituendolo quindi nello sforzo di cambiamento il "counselling", benché in situazioni diverse, ad es. nel rapporto medico-paziente, possa dare buoni risultati, in ambito carcerario risulta spesso problematico soprattutto per il fatto che un cambiamento autentico può verificarsi solo a partire da una «libera» adesione dell'individuo al progetto di trasformazione, spesso inficiata dal sistema «premiale» carcerario [N.d.T.].
4. Ampie rassegne dei risultati si trovano in Christie 1961, Robison - Smith 1971, Martinson 1974, Bondeson 1975, Greenberg 1977 (confer inoltre Ward 1972, Cornish - Clarke 1975, Trasler 1976, Brody 1976). Critiche in Palmer 1975; una valutazione più ottimistica delle indagini in Kühlhom 1986; confutati entrambi in Sechrest et al. 1979 e Bondeson 1986. Si può ritenere che in alcuni casi non siano stati studiati programmi pur efficaci e ragionevoli, perché non soddisfacevano le esigenze della metodologia scientifica (Wright 1982, p. 200); inoltre compare qualche discrepanza nei dati, in quanto determinati tipi di assetti istituzionali sembrano più adatti a determinati generi di criminali (Brody 1976, p. 40). Ma la tendenza fondamentale emerge con chiarezza.
5. La prigionizzazione ("prisonization", in altri testi tradotta «prisonizzazione») individuata da Clemmer corrisponde, in ambito carcerario, a quanto in seguito è stato definito il processo di «istituzionalizzazione» che caratterizza le istituzioni totali; «in senso stretto vediamo che il termine 'assimilazione' non è corretto. Perciò, come usiamo il termine 'americanizzazione' per descrivere un grado maggiore o minore di integrazione degli immigrati nello schema della vita americana, possiamo usare il termine "prigionizzazione" per indicare l'assunzione, in maggiore o minor grado, delle tradizioni, costumi e usanze e della cultura generale del penitenziario» (Clemmer 1958, p. 299) [N.d.T.].