Thomas Mathiesen
Perché il carcere?

Capitolo 3.
La prevenzione generale

- La prevenzione generale come paradigma
Le teorie della prevenzione generale si basano sull'idea di impedire, punendo l'autore di un reato, che altri intraprendano azioni criminose: si ritiene che ciò si ottenga mediante la deterrenza, la moralizzazione e il condizionamento che in tal modo si operano nei confronti della popolazione in generale. Va sottolineato prima di tutto che, nella nostra società, l'effetto di prevenzione generale della pena è largamente dato per scontato: è un'idea talmente parte del senso comune che sovente non nasce alcun problema sulla sua realtà. Si tratta di un paradigma socialmente prevalente.
«Paradigma» significa «modello» e, nelle scienze, è un modello di pensiero fondamentale e complessivo, che influenza l'attività di ricerca sia selezionando certi suoi ambiti come fruttuosi e interessanti, sia offrendo uno schema teorico per interpretare i dati empirici. Il marxismo può essere considerato un paradigma nelle scienze sociali, il funzionalismo strutturale un altro (confer Kuhn 1970 e Johnsen 1979). Ma possiamo dire che anche nella società in generale o nei suoi sottogruppi vi sono paradigmi, i quali si contendono in grado maggiore o minore la nostra attenzione e adesione; esistono diversi modelli che offrono schemi per la comprensione della società, indirizzano il pensiero e regolano la prospettiva secondo cui interpretare il mondo. Le grandi istituzioni sociali come la Chiesa, il sistema giudiziario, la scuola e, al giorno d'oggi, i mass media, producono e trasmettono questi modelli. Per essere qualificato come paradigma, un modello di pensiero deve sempre essere in qualche misura dato per scontato, benché al suo interno si possano sollevare questioni e problemi (proprio come nel contesto scientifico). Naturalmente non si può dire che un modello di pensiero messo in dubbio da gruppi forti o dominanti sia un paradigma: o è sul punto di perderne il carattere o è semplicemente un non-paradigma. D'altra parte è chiaro che più è dato per scontato da chi lo trasmette, dalla popolazione che lo riceve, o da entrambi, più diventa «paradigmatico». Per brevità non approfondiamo questa problematica (cenni in Mathiesen 1984, p.p. 18-122, e nel cap. 6 di Mathiesen 1986), ma notiamo soltanto che nella nostra società l'idea che la pena abbia un effetto di prevenzione generale agisce in larga misura come un paradigma: essa offre innanzitutto un modello di pensiero complessivo; ha un carattere fondamentale, nel senso che è vista come una specie di pietra angolare dell'ordine sociale; infine, sia da chi trasmette l'idea sia da chi la riceve è dato per scontato che la pena abbia in realtà un tale effetto. Questo stato di cose ha almeno tre importanti conseguenze.
Innanzitutto la paradigmaticità sociale dell'idea della prevenzione generale è tale che ogni sorta di eventi ed azioni può essere interpretata alla sua luce. Se la criminalità diminuisce, si dirà che è tenuta sotto controllo dalla prevenzione generale esercitata dalla pena. Quando poi la criminalità cresce, anche questo dimostra che la pena ha un effetto di prevenzione generale, soltanto la reazione alla delinquenza non è stata abbastanza energica e occorrono pene più rigide per tenerla sotto controllo. Un altro esempio: se diminuiscono i reati connessi al consumo di stupefacenti, ecco dimostrato quanto fosse giusto punirli severamente; ma quando aumentano, si sostiene che bisogna inasprire ancor più le condanne. Si possono riferire anche altri esempi di come, ad eventi del tutto contraddittori, sia attribuito esattamente lo stesso significato (esempi relativi a casi di presunto spionaggio in Mathiesen e Hjemdal 1986). Ebbene, eventi contraddittori possono avere alla base uguali motivazioni, ma non necessariamente deve accadere così, e se non altro quest'ultima ipotesi non andrebbe presa in seria considerazione; invece ogni nuovo evento è automaticamente interpretato a favore della teoria «paradigmatica». A causa di questo carattere paradigmatico, inoltre, l'onere della prova tocca a coloro che sollevano dei dubbi contro la teoria, e non a coloro che su di essa si fondano e che ne danno per scontata la validità. Anche in questo caso il principio generale si applica nei diversi ambiti.
Infine i sostenitori della teoria, tra i loro presupposti fondamentali, possono introdurre presunte esperienze di vita quotidiana, presentate con poca o nulla verifica. Il penalista norvegese Johs Andenæs formula così quelli che egli stesso considera i capisaldi della teoria:
«La più forte ragione per credere nella prevenzione generale è la ben nota esperienza che il timore di conseguenze sgradevoli, nella maggior parte delle circostanze della vita, agisce come una motivazione tanto più forte quanto più grave è la conseguenza temuta. È quasi assurdo pensare che questo meccanismo ben noto debba perdere di significato quando si tratti di compiere o non compiere un'azione perseguibile» (Andenæs 1977, p. 229).
Tale energica affermazione suggella una rassegna dettagliata dei risultati della ricerca scientifica, che per ammissione dell'autore non hanno portato ad alcun «risultato importante per la conoscenza» (ivi, p. 228). Va detto che negli ultimi anni Andenæs è stato tra coloro che hanno preso sul serio il problema di dare un fondamento empirico alle tesi sull'effetto di prevenzione generale della pena; ne parleremo più avanti. Ciò nonostante, la testimonianza del buon senso sul timore delle conseguenze sgradevoli resta la sua «ragione più forte per credere nella prevenzione generale». Nel dare questo peso al "common sense" egli non si trova solo: molti sono meno empiristi e l'adducono non solo come ragione principale, ma come unica ragione.
Non è dunque facile porre la questione fondamentale di questo capitolo: «si può difendere il carcere con la prevenzione generale?», perché la domanda stessa si trova su una rotta di collisione con il paradigma. Tanto più è importante porla.

- I risultati delle ricerche
La prima questione da affrontare più specificamente è quali indicazioni offrano le ricerche in questo campo, che hanno recentemente conosciuto un notevole impulso. Andenæs ne ha seguito da vicino lo sviluppo, riassumendone le fasi in diversi lavori (Andenæs 1977, 1975, 1982), e poiché egli è uno dei più importanti sostenitori della teoria della prevenzione generale vale la pena di esaminare più da vicino il suo contributo.
Andenæs si occupa prima di tutto dell'approccio degli economisti, il cui punto di partenza è a suo parere diverso da quello dei sociologi: essi studiano il reato inteso come il prodotto di una scelta razionale, applicando nuovi metodi statistici sviluppati nell'ambito dell'economia; egli esamina poi ricerche sulla pena di morte e sugli effetti dei mutamenti della legislazione o delle sue applicazioni, studi comparativi su diverse regioni geografiche, ricerche basate su interviste - specialmente a proposito della conoscenza delle norme di legge o delle loro modifiche - e ricerche sperimentali. La questione diventa allora: a che punto siamo?
«Nelle prime discussioni sulla prevenzione generale si era costretti a basarsi su esperienze non sistematizzate, su generici ragionamenti psicologici, sull'introspezione, sul materiale storico. Si può dire che negli ultimi dieci anni la ricerca abbia portato qualche mutamento radicale nella situazione? Non è facile dare una risposta chiara» (ivi, p. 227).
Andenæs prosegue sostenendo che il livello scientifico della discussione è migliorato. È diventato più difficile attestarsi su posizioni estreme: da un lato non si può negare disinvoltamente che la pena determini un effetto di prevenzione generale, o sostenere che tali effetti siano indipendenti da un'applicazione efficace; d'altro canto si dimostra palesemente irrealistico credere che inasprendo le pene o aumentando le azioni di polizia si riesca automaticamente a ridurre la criminalità. Ma, conclude, «non si è fatto alcun passo avanti nella conoscenza, come invece nella ricerca sugli effetti di prevenzione individuale delle diverse reazioni al crimine. La ricerca ha prodotto briciole di conoscenza, che possono servire sia come controllo sia come complemento dei ragionamenti di buon senso sui quali ancora ci appoggiamo. Manca ancora molto, se mai ci si arriverà, prima che la ricerca possa dare risultati quantificabili intorno a quali effetti sulla criminalità si possano attendere in conseguenza di previste modifiche del sistema» (ivi, p. 228).
Il rendiconto è significativo. Si dovrebbe aggiungere che una conclusione assai simile a quella di Andenæs è stata raggiunta dal tedesco Jürgen Frank, in una rassegna complessiva del più attivo indirizzo moderno di ricerca negli studi sulla prevenzione generale: quello economico, cui abbiamo già accennato. La rassegna considera le ricerche americane che applicano il modello di razionalità economica «costi-benefici». In generale le indagini sembrano mostrare un certo limitato effetto deterrente prodotto dalla pena (Frank 1986, partic. p. 6). I modelli economici posti alla loro base comportano comunque una serie di premesse che nella vita pratica sono problematici od opinabili (ivi, p.p. 15-22). Molto sobrio nei suoi giudizi, Frank conclude che questo filone di ricerca è interessante nella misura in cui costituisce una sfida per altri indirizzi che non partono dal medesimo presupposto di razionalità economica; il carattere stringente delle sue argomentazioni formali lo rende chiaro e conciso nei suoi enunciati centrali e, benché non possa informare con precisione sugli effetti della legisl azione penale e delle sue alternative legali nei confronti della criminalità, offre però un quadro di riferimento per la ricerca empirica. «La questione se gli approcci non economici siano superiori in potere esplicativo e in certezza empirica», scrive Frank, «resta aperta» (ivi, p. 23).
Si può anche aggiungere che risultati ottenuti in ambiti più ristretti, come la guida in stato di ebbrezza, dove le ricerche sono state più intense, risultano altrettanto incerti e, nel migliore dei casi, divergenti (Klette 1982; anche Ross et al. 1984). Scendiamo nel dettaglio su un punto. In alcune di queste ricerche si sostiene una distinzione tra il cosiddetto "livello della pena" e quel che possiamo sintetizzare come "probabilità della sanzione". Ma il livello della pena sembra avere un effetto minimo di prevenzione generale, mentre l'aumento della probabilità di andare incontro a una sanzione ha in ogni caso un certo effetto. Nel suo libro "Thinking about Crime" (Riflettendo sul crimine), il criminologo americano James Q. Wilson sostiene in realtà questo principio (confer Wilson 1983). Il suo punto di partenza è la difesa del sistema penale e della carcerazione. Egli discute, secondo il modello costi-benefici e in termini complessivi, l'effetto di prevenzione generale delle pene, in particolare di quelle detentive, e indica alcune ricerche che mettono in luce un tale effetto - invero marginale (ivi, p. 143). Ma se si considera attentamente il suo discorso, si trova comunque che questo effetto marginale è imputabile alla probabilità della sanzione. Egli parla della «prontezza» ("swiftness") e della «certezza» ("certainty") della pena, ma raramente della sua entità.
La distinzione tra il livello della pena e la probabilità della sanzione è ben chiarita, per esempio, nell'ampia ricerca empirica sulla delinquenza minorile in Germania Occidentale svolta da Schumann e da vari collaboratori, dalla quale è emerso che la severità (ossia la durata) della pena non aveva "alcun effetto" sul comportamento criminale giovanile. Neppure, va aggiunto, è servita l'introduzione dei carceri minorili. I dati negativi costituiscono uno dei maggiori risultati di questo studio. Si è cioè scoperto che l'esperienza soggettiva del rischio di cattura aveva un certo effetto, ma "non" sulla messa in atto di crimini gravi quali rapine, aggressioni, frodi e crimini legati agli stupefacenti, come si sarebbe potuto sperare dal punto di vista della deterrenza generale. E "non" per i reati di poco conto (nota 1), quali sono vari tipi di furto, in particolare i furti d'auto commessi allo scopo di guidarle per breve tempo e presto abbandonarle. L'effetto poteva essere dimostrato solo per certi tipi di reati minori, come il taccheggio, le aggressioni minori, il danno a cose, la guida senza patente e l'uso dei mezzi pubblici senza biglietto: ma anche in questi casi si tratta di un influsso «alquanto modesto» (Schumann et al. 1987, p. 152). Per di più i giovani che vengono catturati più facilmente non commettono di regola tali reati, bensì piuttosto reati per i quali non si riscontra alcun effetto di prevenzione generale.
Questo studio è particolarmente importante sia perché riguarda la criminalità giovanile sia perché indaga così a fondo e acutamente l'esperienza soggettiva del rischio di cattura, che può dirsi la misura basilare di probabilità di una sanzione, della quale è la condizione decisiva. Lo studio va oltre e discute questa esperienza soggettiva, in quanto «ponte» tra il rischio oggettivo e il comportamento posto in atto. Il rischio oggettivo ha qualche probabilità di avere effetto solo se è sperimentato come tale. Ma essendo i risultati prodotti da tale esperienza soggettiva parziali e di assai modesto effetto, per non parlare del livello della pena che non ha effetto alcuno, la teoria della prevenzione generale è davvero messa alle corde.
I magri risultati delle ricerche sono però serviti ai sostenitori della prevenzione generale per chiedere l'incremento delle risorse destinate al controllo di polizia, in modo da innalzare il rischio di cattura. Oggi la percentuale di soluzione dei casi di crimini denunciati e, nei paesi industriali, generalmente bassa. Si afferma che un miglioramento di questa percentuale avrà un corrispettivo nella crescita dell'effetto di prevenzione generale e si sostiene che l'aumento nelle risorse e le misure di polizia possano produrlo. Ma qui i teorici della prevenzione generale fanno un passo falso. Un punto mostrato molto chiaramente dallo studio sulla delinquenza minorile in Germania è che per i reati gravi, rispetto ai quali la percentuale di casi risolti è in effetti molto elevata, l'effetto preventivo del rischio soggettivamente sperimentato è inesistente. Ciò suggerisce con forza che siano altri fattori, invece del sistema penale, a determinare l'esistenza e lo sviluppo di tali reati.
Nelle grandi nazioni industrializzate, il tasso infimo di casi risolti per la maggior parte dei tipi di reato è una componente, ormai del tutto integrata, della realtà sociale. In queste società un insieme di fattori sociali opera in direzione di una criminalità sempre più anonima, la cosiddetta «criminalità di massa», come i furti di veicoli e i furti in genere, l'uso di stupefacenti, la più parte delle aggressioni. Il crescente anonimato, con una specie di necessità sociologica, determina un rischio di cattura basso se non irrisorio, che non dipende quindi da una carenza di risorse destinate al controllo di polizia. È possibile aumentare il rischio, ma vi sono solide ragioni perché in una società come la nostra i risultati rimangano scarsi, se non a prezzo di sviluppare un vero e proprio stato di polizia, che per altri motivi troviamo indesiderabile.
Jürgen Frank riassume così il fondamento empirico di questa generalizzazione:
«Molti autori hanno studiato l'influenza dell'attività poliziesca sulla probabilità di essere arrestati e condannati. Non c'è alcuna significatività statistica che consenta di sostenere che un incremento dell'attività poliziesca aumenti il tasso di arresti e condanne» (Frank 1986, p. 11).
Quindi l'effetto preventivo di un aumento delle misure di polizia, portino esse a un maggiore rischio di cattura o a una maggiore probabilità di una pronta e certa sanzione, rimane al più «marginale» (come dice Wilson, il campione della prevenzione generale; confer sopra). Il criminologo danese Flemming Balvig ha espresso questo punto così:
«Non ho dubbi che con mezzi polizieschi si possa accrescere grandemente la percentuale di casi risolti. Resto comunque scettico che si possa farlo senza grandi costi sociali, non solo di tipo economico. Tanto più che un aumento percentuale sarebbe di scarso interesse, considerando che il livello resterebbe molto basso da qualsiasi punto di vista» (Balvig 1980, p. 63; confer anche Balvig 1984b).
In tal modo, sostiene Balvig, si risolve una classica controversia circa l'efficacia preventiva di un'alta percentuale di casi risolti: «È indifferente chi abbia ragione in questo caso, visto che raggiungere alte percentuali è impossibile» (Balvig 1980, p. 66).
Possiamo ora tornare alla rassegna di Andenæs. A quale conclusione pratica giunge? Egli ribadisce l'importanza del "common sense":
«La più forte ragione per credere nella prevenzione generale è ancora la ben nota esperienza che il timore di conseguenze indesiderabili è un forte fattore motivante nella maggior parte delle circostanze della vita».
Nonostante la somma di risultati incerti e controversi prodotti dalle ricerche sulla prevenzione, si continua a «credere nella prevenzione generale» , con scarsa o minima coerenza, grazie alla «ben nota esperienza» del timore di spiacevoli conseguenze. Per quel che riguarda la politica criminale, l'articolo conclude che i fattori d'incertezza relativi ai risultati della ricerca sono irrilevanti:
«Ritengo per parte mia che sia il trattamento sia la neutralizzazione abbiano un posto legittimo nel sistema del diritto penale, ma il suo scopo primario deve essere la prevenzione generale, fondata su una combinazione di deterrenza e di influsso morale, ovviamente entro i limiti imposti da giustizia e umanità. Il punto fondamentale delle tecniche di controllo nell'ambito del diritto penale è che la legge stabilisce una norma e minaccia con la forza della punizione i trasgressori per motivare il rispetto della norma stessa. Le sanzioni, nei casi concreti, hanno prima di tutto il compito di caricare di gravità la minaccia» (Andenæs 1977, p. 230).
A differenza di Andenæs, noi prenderemo questa situazione d'incertezza come punto di partenza. Prima di tutto cercheremo di chiarire perché i risultati sono incerti e controversi, riferendoci alla sociologia della comunicazione. In seguito discuteremo i problemi morali sollevati dalla prevenzione generale, che non comporta soltanto questioni di praticabilità ma anche di ordine morale. In particolare sottolineeremo il problema di sottoporre a speciali sofferenze individui poveri e sconfitti in partenza, allo scopo di impedire mediante ciò che persone affatto diverse commettano i loro stessi reati. Vedremo anche come i sostenitori della prevenzione generale facciano uso degli stessi argomenti sollevati contro di loro in questo capitolo, quando possono servire al loro interesse. Nella parte finale trarremo delle conclusioni di principio sulla politica criminale.
Abbiamo in precedenza discusso dell'effetto di prevenzione generale senza occuparci in modo particolare della pena carceraria; faremo così anche nel seguito, perché la questione fondamentale non si riduce al carcere, ma nella conclusione del capitolo vi torneremo specificamente.

- La prevenzione generale come comunicazione
Dal punto di vista della prevenzione generale la pena può essere considerata come un "messaggio" da parte dello stato, che significa: tu non devi commettere determinate azioni, innanzitutto perché non ne vale la pena (deterrenza); in secondo luogo, perché è moralmente ingiusto (ammaestramento morale), e infine perché devi semplicemente abituarti a non commetterle (induzione di abitudini). Il sistema del diritto penale - che comprende pubblica accusa, polizia, giudici, e il complesso delle sanzioni, incluso il sistema carcerario - può essere visto in questa luce come un grande meccanismo il cui scopo è trasmettere alla popolazione questi messaggi e che forma uno dei principali meccanismi statali per «parlare» alla gente di come essa deve regolare le sue attività.
Che la pena sia un tentativo di comunicare un messaggio, è riconosciuto dagli studiosi e dai sostenitori della prevenzione generale. Per esempio, Andenæs osserva: «Il processo di comunicazione tra i legislatori e le autorità poste a tutela della legge da una parte e il pubblico dall'altra è perciò un elemento centrale del modo in cui la prevenzione generale opera» (Andenæs 1977, p.p. 216-217). Egli puntualizza anche che nella «vecchia teoria del diritto penale non si poneva l'accento su ciò. Sembra che si deducesse tacitamente una rispondenza tra la realtà oggettiva e la comprensione dell'individuo» (ivi).
Ma anche se il processo di comunicazione è visto come «un elemento centrale», non gli si attribuisce una rilevanza particolare. Si concede eventualmente rilievo alla questione, in sé e per sé semplice, se la gente conosca le disposizioni di legge, ad esempio riguardo ai massimi di pena. La comunicazione è peraltro un complesso processo di interazione tra chi emette e chi riceve il messaggio, che solleva, a proposito della conoscenza delle disposizioni di legge, questioni ben più ampie e complicate. Le teorie della prevenzione generale ispirate al diritto penale sfiorano appena questi argomenti.

"La politica della significazione"
Che cosa intendiamo per comunicazione? È una nozione articolata: molto in breve, la comunicazione è una "trasmissione di significato" tra parti diverse in interazione. La trasmissione di significati può avvenire tra individui, istituzioni, gruppi, classi, o nell'intera società, oppure tra lo stato e i membri della società. In quest'ultimo caso, che è richiesto dalla teoria della prevenzione generale, ci sono determinate istituzioni statali preposte alla trasmissione e questa si svolge per lo più unidirezionalmente, dall'istituzione alla gente.
Ma la trasmissione non può essere diretta. Nella formulazione di Hjemdal e Risan, per effettuare la trasmissione occorrono quelli che si possono chiamare «portatori di significato» (Hjemdal - Risan 1985), ossia mezzi che simbolizzano il significato. Possono essere parole, immagini, mimiche corporee e facciali, eccetera; il linguaggio è naturalmente un essenziale portatore di significato. Dunque sono i portatori di significato ad essere trasmessi. Chi riceve deve egli stesso ricreare il significato dei portatori di significato che ha ricevuto. Questo è importantissimo: la ricostruzione del significato, ricavato dal suo portatore, presuppone un contesto o un nesso condiviso di comprensione dei simboli. Quando il contesto manca, o è difettoso, la ricostruzione dei significati è proporzionalmente manchevole o alterata.
La funzione dei portatori di significato nel processo di comunicazione può essere approfondita. Innanzitutto il significato attribuito ad eventi e oggetti non dipende solo da come si presentano: il significato di eventi come una modifica del diritto penale o una sentenza emessa da un tribunale, oggetti come l'uniforme della polizia o un posto di blocco, non dipende da come questi «sono» esteriormente. Senza segni che li caratterizzino, eventi e oggetti in sé sarebbero privi di significato. «Segno» è impiegato qui come sinonimo di «portatore di significato»: i segni «portano» i significati. Un linguaggio è un insieme molto importante di tali segni, che creano, che formano il significato. Altre espressioni sensibili, materiali, possono anche fungere da segni creatori di significato. Anche oggetti come le uniformi della polizia o i posti di blocco sono un buon esempio di segni che creano il significato.
I segni, sia nel linguaggio sia in altre forme di espressione, diventano creatori di significato quando operano all'interno di un quadro di interpretazione già dato, in relazione quindi a uno sfondo di altri segni che offrono una precomprensione. Il significato si presenta e si comprende mettendo il segno in relazione con il sistema di segni del quale entra a far parte. Questa precomprensione, questa struttura segnica devono essere comuni a chi trasmette e a chi riceve, perché il significato ricostruito da chi riceve sia comune a entrambi. Molto in breve si può dire che il significato si produce mediante la relazione tra realtà esterna (quelli che abbiamo chiamato «oggetti» ed «eventi» ), segno (linguistico o appartenente ad altre forme di espressione sensibile) e interpretazione (cioè il fatto che il segno sia visto in relazione a una struttura di segni della quale entra a far parte) (nota 2).
In generale si può dunque dire che la comunicazione da parte dello stato con i membri della società, la sua trasmissione di significato verso di essi, costituisce una "politica della significazione" (come in Hall et al. 1978), che si effettua in diversi contesti istituzionali come ad esempio la scuola, la Chiesa, l'apparato giuridico-penale. In altre parole, la scuola non è solo un'istituzione per la trasmissione di conoscenza, ma anche un'istituzione che di generazione in generazione, in modo decisivo, applica alla realtà il processo di significazione: «compito», «lezione», «giudizio» ed «esame» sono alcuni dei numerosissimi esempi che appartengono a una struttura di significazioni scolastiche ed evocano determinate, ampie associazioni indirizzate al dovere ascetico e alla disciplina. La Chiesa non è solo un'istituzione che soddisfa le credenze e i bisogni religiosi del popolo: con maggiore o minore forza che la scuola, a seconda del periodo storico, essa ha prodotto per il popolo significati da applicare alla realtà. «Peccato», «dannazione», «fede», «grazia», appartengono con molti altri a una struttura di significazioni ecclesiastiche, ed evocano associazioni orientate verso l'onnipotenza divina e la saggezza della Chiesa. Lo stesso accade con l'apparato giuridico-penale: non si tratta solo di un'istituzione che persegue e condanna quanti trasgrediscono la legge, ma anche di un'istituzio ne che per i membri della società, proprio attraverso la sua prassi corrente, applica un insieme essenziale di significazioni alla realtà. «Colpa», «pena», «procedimento», «diritto penale» e molti altri, entrano a far parte di una struttura di significazioni giuridiche ed evocano associazioni rivolte al trattamento esaustivo, meditato e ragionevole della devianza.
Il punto di vista fondamentale, in questa parte, sarà che nella prassi le punizioni comminate dallo stato, in quanto mezzi di prevenzione generale, incappano in difficoltà relative ai tre elementi della produzione del significato: realtà esterna, segno, interpretazione. Più precisamente, in questi termini, la pena fallisce nei suoi effetti di prevenzione nella misura in cui dagli oggetti e dagli eventi relativi (misure legislative, sentenze, eccetera.) non conseguono conseguenze di prevenzione generale, e lo stesso accade per la significazione e le strutture di segni che permettono di interpretarle. Il grado di fallimento della pena, in quanto strumento della prassi comunicativa dello stato, contribuisce a chiarire le manchevolezze dei risultati prodotti dal carcere in termini di prevenzione generale.

"I fatti: leggi, sentenze e rischio di cattura"
Alcuni esempi clamorosi sono spesso riportati per sostenere l'effetto di prevenzione generale della pena. Due di essi appaiono in un articolo di Andenæs pubblicato nel 1950:
«Come esempio di regole che raggiungono quasi il 100% di successo, perché il soggetto deve calcolare che ogni violazione sarà scoperta e non sarà priva di conseguenze, posso citare le regole sull'oscuramento in tempo di guerra. Il puro effetto deterrente basta in questo caso, anche senza alcun sostegno dell'autorità morale normalmente conferita alla legge» (Andenæs 1950, p.p. 116-117).
Poco oltre egli ricorda il periodo di assenza della polizia a Copenhagen, sempre durante la seconda guerra mondiale:
«In Danimarca, nel settembre 1944, i tedeschi arrestarono l'intero corpo di polizia. Per tutto il resto dell'occupazione, le funzioni di polizia furono svolte da un corpo di guardia improvvisato e disarmato, che in pratica non era in grado di fare pressoché nulla, a meno di non cogliere sul fatto il delinquente. [...] La criminalità aumentò sensibilmente» (ivi, p. 121).
È molto probabile che l'alto rischio di cattura e il rigore delle pene per un oscuramento insufficiente inducessero conformità alle regole e che la scomparsa totale e palese delle forze di polizia incrementasse la criminalità (benché in guerra l'oscuramento sia anche del massimo interesse individuale, e benché siano stati sollevati dubbi sull'effetto dell'assenza di polizia in Danimarca, sottolineando che il tasso di criminalità in quel periodo poteva essere previsto anche estrapolando semplicemente la tendenza dei dati relativi agli anni precedenti, confer Wolf 1967 e Balvig 1984a). Come ha però suggerito Nils Christie in un importante articolo, simili cambiamenti radicali e improvvisi nel panorama delle sanzioni non sono cosa di tutti i giorni; sono al contrario eventi assolutamente particolari, atipici ed estremi nella politica criminale:
«La situazione è che quasi tutti gli esempi clamorosi degli effetti di prevenzione generale valgono "in situazioni del tutto diverse da quelle che il giudice si trova a fronteggiare" quando deve scegliere la sanzione concreta. Egli deve scegliere tra sanzioni che non sono molto diverse tra loro - tre o sei mesi di carcere, con la condizionale o senza - mentre gli esempi di prevenzione generale riguardano enormi differenze nelle sollecitazioni, come la presenza del controllo di polizia rispetto alla sua assenza» (Christie 1971, p. 55).
Questo punto è molto importante anche dal punto di vista dell'attività legislativa. Poiché questa è un processo lento e complesso, che coinvolge interessi diversi e conflittuali, i legislatori modificano le leggi perlopiù gradualmente e/o affrontandone piuttosto i dettagli: così avviene, ad esempio, per il quadro delle pene. In certe situazioni in cui moralmente e socialmente prevale la paura, accade in effetti che i cambiamenti siano rapidi e ingenti (confer oltre, cap. 5). Ma nonostante la facilità a trovare simili esempi, che dicono molto sulla labilità degli standard morali nella società, essi non appartengono fortunatamente al quotidiano lavoro dei legislatori. Inoltre non vi sono ragioni, né teoriche né empiriche, per supporre che quando sopravvengono mutamenti di legge dettati da una reazione di paura, essi abbiano speciali effetti di prevenzione generale. L'irrazionalità, la dissennatezza e la mortificazione di ogni garanzia giuridica che caratterizzano simili circostanze hanno per lo meno effetti contrari all'intento di prevenzione generale, all'interno dei gruppi investiti dalla reazione di paura.
Questo è rilevante dal punto di vista della sociologia della comunicazione. Non bisogna aspettarsi che le scelte tra sanzioni consimili, che costituiscono l'ordinaria politica criminale, siano ricevute e comprese con il medesimo significato che attribuisce loro chi le emette. Tralasciando la questione dei mezzi di comunicazione, che la rendono selettiva e sui quali torneremo, sono dunque gli elementi stessi della "realtà esterna" nella struttura del messaggio che rendono scarsa la comprensione: le sfumature relativamente sofisticate della prassi giudiziaria hanno per sfondo le condizioni complesse proprie dell'individuo particolare che è posto sotto processo, condizioni che in parte sono uniche, in parte intervengono con una frequenza difficilmente determinabile. Altrettanto vale per l'attività legislativa, forse in grado un po' minore: per il legislatore, ragionamenti complessi intorno al rispetto delle leggi e agli effetti della legislazione costituiscono lo sfondo dei piccoli, graduali mutamenti che avvengono nel sistema penale.
Bisogna chiarire che piccoli mutamenti nella prassi giudiziaria e legislativa, sommandosi, producono nel tempo grandi mutamenti della politica criminale, come quelli di cui abbiamo parlato nel capitolo l. Si tratta di piccoli mutamenti che avvengono in momenti determinati e hanno motivazioni complesse. Questa prospettiva può essere estesa a settori diversi della politica criminale, pur se non è sempre valida: in genere, per esempio, l'armamento in dotazione alla polizia non è incrementato secondo un piano di riorganizzazione globale, ma introducendo anno per anno stanziamenti e nuove disposizioni in merito, che non provochino una reazione (nota 3).
Vorrei ancora sottolineare che il basso rischio di cattura è anch'esso una componente ordinaria della realtà esterna, integrata nella struttura del messaggio. In una società industrializzata, urbanizzata, anonima, un incremento delle risorse destinate alla polizia modifica il rischio di cattura in grado appena marginale. Questo fa parte della realtà della società moderna e in quanto tale entra a far parte della struttura del messaggio. Il caso di Copenhagen è in questo senso del tutto particolare e atipico.
"Il significato: filtraggio e focalizzazione".
Gli elementi della realtà (eventi e oggetti) non possono dunque essere separati dalle loro significazioni: essi costituiscono di per sé dei simboli (adeguati o meno), cui si associa un significato che si cerca di trasmettere al ricevente. Ebbene, come abbiamo accennato, alle condizioni considerate dal tribunale a proposito dell'individuo portato in giudizio e ai complessi ragionamenti svolti dal legislatore non corrispondono significazioni adeguate nell'aspetto fattuale della prassi giudiziaria e dell'attività legislativa.
Ma possiamo considerare la questione anche sotto un altro aspetto. Attraverso quali mezzi avviene la comunicazione sui contenuti delle leggi nella società odierna? In primo luogo attraverso i mezzi di comunicazione di massa, che sono organizzazioni complesse e che rappresentano soprattutto ben altri interessi rispetto alla comunicazione dei contenuti di legge: li muove una combinazione di interesse per le notizie e interesse per le vendite, ossia una combinazione di notizie sensazionali e di notizie che producano un guadagno. Ciò comporta una distorsione radicale nel trasmettere le informazioni, che non risparmia le notizie sul crimine, in cui si enfatizzano gli aspetti relativi alla devianza, alla violenza e al sesso (Aarsnes et al. 1974, Simonsen 1976, From 1976, Hjemdal 1987; riassunto in Mathiesen 1986, p.p. 154 s.). E i dettagli più o meno raffinati dell'operato di legislatori e giudici trovano molte difficoltà ad essere veicolati e compresi.
Vi sono due aspetti in questo processo. Il primo si può chiamare " filtraggio", e consiste nel fatto che i dettagli, le minime scelte che formano la prassi quotidiana della politica criminale sono sistematicamente o totalmente trascurati. Il filtraggio avviene concretamente in una serie di punti nodali dell'organizzazione dei media: nella relazione tra i giornalisti e le loro fonti, nelle riunioni di redazione in cui si stabiliscono quotidianamente le priorità, dietro le scrivanie di chi sulle priorità prende le decisioni improvvise.
Possiamo chiamare il secondo aspetto "focalizzazione": filtrata che sia l'informazione, si concentra l'attenzione mettendo sotto una «dente di ingrandimento» il cuore della notizia. Comprende la scelta della notizia di apertura, la sua collocazione, le immagini che l'accompagnano, le tecniche impiegate per metterla in evidenza, così come l'enfatizzazione drammatica del tema mediante servizi a puntate, la costruzione di uno sfondo alla notizia con materiale accessorio, eccetera. (confer Hernes 1984; Mathiesen - Hjemdal 1986). Mediante il filtraggio si lascia in ombra tutto ciò che non è sensazionale e drammatico; attraverso la focalizzazione, ciò che è drammatico e sensazionale viene posto in luce. La focalizzazione avviene sullo sfondo del filtraggio, della prima sgrossatura delle notizie. Il materiale non sensazionale e non drammatico che sopravvive al filtraggio vi rimane, senza subire ulteriori filtri. Ma la focalizzazione fa sì che riceva scarso rilievo.
Ciò avviene in grado diverso a seconda del mezzo di comunicazione, per esempio la radio, la televisione o le diverse pubblicazioni periodiche. Le ricerche di sociologia dei media danno motivo di sostenere che entrambi i processi si esasperano nei media odierni e che è in atto una tendenza all'omologazione tra i diversi media per quanto riguarda il contenuto dei messaggi trasmessi. Cercare le ragioni di questa tendenza ci porterebbe troppo lontano (ma si può consultare Mathiesen 1986, capp. 4 e 6, che ne discute in altro contesto). Il punto è che l'esasperazione dei processi e l'omologazione tra i media rendono possibili le considerazioni generali sull'insieme dei media. E a causa delle modalità con cui sono trasmesse, filtrandole e focalizzandole, le notizie di argomento giuridico e penale, è soprattutto il materiale sensazionale e drammatico - rivolgimenti improvvisi delle leggi, scabrose vicende giuridiche - a raggiungere gli strati più ampi della popolazione. Le piccole scelte, le decisioni dell'apparato giuridico sulla criminalità comune, che costituiscono il grigio insieme dei tentativi quotidiani di lanciare messaggi di prevenzione generale, si trasmettono in parte men che minima e la comunicazione che le riguarda è fondamentalmente distorta.

"Struttura di segni e contesto d'interpretazione"
Iniziamo con un passo del già citato articolo di Andenæs: «Credo che davvero molti possano testimoniare, sulla base della propria esperienza, che il rischio di cattura e di sanzioni negative gioca un ruolo nel caso di violazioni della legge come evasione fiscale, contrabbando, guida in stato di ebbrezza e violazioni del codice della strada» (Andenæs 1977, p. 229). Il punto di partenza è dunque la «propria esperienza». Andenæs evidentemente limita i generi di infrazione sui quali la sua «propria esperienza» getta in questo caso una luce. Egli sottolinea inoltre che «c'è naturalmente qualche rischio nel generalizzare a partire da se stessi. È importante conoscere altri gruppi e il loro atteggiamento» (ivi). La «propria esperienza» rimane comunque fondamentale:
«C'è stata, secondo me, una sottovalutazione da parte dei criminologi del significato dei ragionamenti intorno alla prevenzione generale basati sul "common sense", sul fondamento di usuali fatti psicologici e dell'esperienza di ogni giorno» (ivi).
La questione è quanto sia davvero valida la «propria esperienza» come punto di partenza. La sociologia fenomenologica ci suggerisce che il "common sense" è il mondo della vita (nota 4) delle esperienze quotidiane, che sono talmente correnti da essere date per scontate. Si tratta di ragionamenti fondati su quella conoscenza così universalmente accettata che nessuno la mette in discussione (confer Mathiesen 1977, p.p. 3344). Quel che specialmente si tende a non mettere in discussione "è proprio la generalizzazione della propria esperienza agli altri". Si dà per scontato che gli altri esperiscano il mondo esattamente allo stesso modo. Non si riesce a togliersi da questa precomprensione e porsi genuinamente nella prospettiva che il punto di vista dell'altro offre.
Ma proprio chiarire questo è determinante, se intendiamo affrontare l'effetto di prevenzione generale della pena, o meglio la sua assenza. I giuristi non sono solitamente così abili a chiarirlo, perché i loro ragionamenti sulle situazioni di fatto sono basati così poco sui dati empirici, e così tanto sul "common sense" (Graver 1986). Sembrano esservi ragionevoli motivi per generalizzare così: quanto più si ha a che fare con gruppi sociali che, per svariati motivi, presentano un alto tasso di criminalità, tanto meno la pena è efficace dal punto di vista della prevenzione generale. Ma potremmo anche dirla così: riguardo a coloro che per svariati motivi si trovano al sicuro, dalla parte «giusta», il pensiero della punizione opera forse come un efficace ostacolo aggiuntivo. Ma più ci si avvicina al confine della trasgressione, più è neutralizzato l'effetto di prevenzione generale della pena. È una generalizzazione sostenuta da una buona quantità di materiale empirico, anche se questo probabilmente richiede di essere differenziato e sostanziato ulteriormente.
Sappiamo che una gran parte della popolazione media norvegese ha commesso azioni criminali, nemmeno trascurabili. La criminalità è in tal senso un fenomeno quotidiano (Stangeland - Hauge 1974). Sappiamo comunque anche che chi intraprende una «carriera» criminale, chi ha forte recidività e finisce per scontare lunghe condanne nei nostri carceri, accumula su di sé le stigme di problemi sociali e personali - alcolismo, bassa istruzione, ambiente familiare difficile, eccetera (Bödal 1962, 1969; Christie 1975). Sappiamo anche che un gruppo relativamente ristretto di giovani, carichi di problemi, è responsabile di una gran parte dei reati gravi commessi in tale fascia d'età (Balvig 1984c). Il punto è che di fronte a individui con tali problemi, in un ambiente problematico che innalza le probabilità di comportamento criminale, resta neutralizzato anche l'effetto di prevenzione generale della pena. Insomma, la prevenzione generale funziona per quelli che non ne hanno bisogno, ma per quelli che ne hanno bisogno non funziona.
Questo concetto fondamentale può integrarsi nel nostro quadro di sociologia della comunicazione. La struttura di segni nella quale giunge il messaggio della prevenzione generale e all'interno della quale è interpretato, il quadro interpretativo nel quale il messaggio è captato e compreso, sono tali che il segnale è inefficace e il messaggio non viene ricevuto come l'ha inteso chi lo trasmette: sullo sfondo dei problemi di alcolismo, famiglia, lavoro e istruzione, che costituiscono la struttura di segni e il quadro interpretativo reali, il segnale non è interpretato come (la minaccia di) una sanzione deterrente o come un messaggio di moralizzazione. È interpretato piuttosto, per esempio, come un messaggio di repressione, moralismo e rifiuto sociale.
Abbiamo discusso fin qui di quanto si può grossolanamente chiamare «criminalità tradizionale» - reati contro la proprietà, rapine e scippi, piccoli reati connessi con l'uso di stupefacenti. Si può ragionare analogamente nel caso della moderna criminalità economica. Quella parte degli operatori economici che si tiene lontana da attività irregolari o illegali grazie ai legami normativi, vive in una struttura di segni normativa o in un quadro interpretativo morale che fa della pena una minacciosa sanzione (deterrente) o un ragionevole messaggio moralizzatore. Coloro che non sono trattenuti dalle norme si muovono in una struttura di segni che neutralizza l'effetto deterrente delle pene. Insomma, come abbiamo già osservato, la prevenzione generale funziona per quelli che non ne hanno bisogno, ma per quelli che ne hanno bisogno non funziona.
Se ora si studia una situazione nella quale l'aspetto fattuale del messaggio trasmesso è tale che il messaggio stesso rimane oscuro, una situazione nella quale la significazione data aumenta considerevolmente quest'oscurità, una situazione infine nella quale la struttura di segni e il quadro interpretativo, "tra coloro che si comportano in maniera criminale", è tale che l'effetto deterrente, moralizzatore o condizionante viene neutralizzato, bisogna aspettarsi un alto grado di incertezza e oscurità - e incoerenza - nei risultati della ricerca: circostanza generalmente trascurata e considerata invece una proprietà deplorevole della situazione di ricerca, proprietà che potrebbe essere annullata da metodi migliori o da ricerche più ampie e approfondite. In tal modo, la ricerca in questo ambito si adegua ad un atteggiamento comune alla ricerca in generale, secondo cui sono gli strumenti di ricerca manchevoli che rendono la conoscenza incerta e oscura, mentre la realtà è in effetti certa e chiara.
L'aspettativa di risultati finali certi e chiari è profondamente radicata nella ricerca ed è ben rispecchiata dall'uso di analisi statistiche nelle indagini sociologiche per ottenere risultati chiari e sicuri. Il processo di comunicazione nell'ambito della prevenzione generale rende necessariamente i risultati incerti e controversi e le loro connessioni, nel migliore dei casi, deboli. Ricerche diverse si elidono a vicenda, solidi risultati si sgretolano col tempo, e questo perché la realtà stessa è cosi. Il processo di comunicazione in se stesso e perciò un importantissimo motivo per sollevare dubbi sull'effetto di prevenzione generale della pena assai più forti di quanto non si faccia solitamente.

- Il problema morale
La prevenzione generale non solleva soltanto una questione di efficacia della pena, ma anche un problema morale, che ha due aspetti. In primo luogo, qual è il fondamento morale per punire qualcuno, magari duramente, allo scopo di impedire a una persona affatto differente di compiere azioni analoghe alle sue? Questa formulazione è universale e non tiene conto di chi sia punito, se sia ricco o povero, forte o debole; in assoluto, si può sacrificare qualcuno affinché qualcun altro sia libero? La questione viene sì sollevata nella teoria del diritto penale, ma è sovente attenuata mettendo l'accento su diverse altre considerazioni: si sostiene che differenti condizioni - la gravità dell'azione che si cerca di prevenire, l'importanza della retribuzione nei confronti di colui che viene punito - entrano insieme in una «valutazione complessiva», in cui si cerca di salvare il risultato finale: la prevenzione generale. Ma il problema morale rimane ugualmente, spinoso e irrisolto, anche se dissimulato.
In secondo luogo, portiamo il primo aspetto all'estremo: quale fondamento morale abbiamo per punire qualcuno, magari duramente, allo scopo d'impedire a una persona del tutto differente di commettere azioni equivalenti, quando chi è punito è perlopiù una persona povera e emarginata, bisognosa più di assistenza che di punizione? Vi sono buone ragioni empiriche per sollevare la questione morale in questa forma, più radicale. Sappiamo al giorno d'oggi che il sistema penale grava particolarmente su quelli che stanno «in basso»: in genere, quanto più è pesante la pena applicata, tanto più poveri ed emarginati sono coloro cui viene applicata. Questo ha a che fare con una circostanza menzionata nel paragrafo precedente, ossia che i più esposti a commettere azioni criminali e finire con lunghe condanne detentive hanno un cumulo di gravi problemi sociali e personali (confer Balvig 1984c). Ma in aggiunta vi è anche un altro motivo, più legato alla struttura del sistema: la caratteristica tendenza del sistema penale a ricalcare lo squilibrio sociale.
Il carcere è soprattutto pieno di detenuti appartenenti agli strati inferiori della classe lavoratrice, che hanno commesso piccoli furti e altri reati comuni. L'evidente connotazione di classe del sistema penale può essere spiegata come risultato di un processo in cui l'eguaglianza formale posta dal diritto penale e l'eliminazione di ogni riferimento alla classe sociale d'appartenenza non servono in realtà a frenare davvero l'ineguaglianza.
Il primo stadio del processo è la "definizione giuridica del comportamento criminale". La legge è uguale per tutti, ma «nella misura in cui la nostra è una società di classe, anche la legge sarà caratterizzata in tal modo. La legge non minaccia né il capitale privato né lo sfruttamento internazionale delle nazioni deboli» (Christie 1975, p. 118). La legge, al contrario, colpisce il furto e i reati connessi, tipici degli strati inferiori della classe lavoratrice.
«Mentre le azioni antisociali commesse da un armatore, in accordo con il diritto vigente, sono solitamente legali, azioni equivalenti commesse da un vagabondo solitamente non lo sono affatto» (Mathiesen 1979, p. 108).
L'altro elemento del processo riguarda il "rischio di cattura". Anche se il diritto penale è organizzato come abbiamo descritto sopra, chiaramente anche persone degli strati abbienti commettono azioni sanzionate penalmente. Ma le loro illegalità sono solitamente «meno visibili, perché avvengono in un quadro organizzativo complesso e con tecniche estremamente difficili da osservare. Il furto con scasso avviene in forma assolutamente elementare. Che un'azienda riceva denaro o altri compensi - che non compaiono nel bilancio - per affidare alla ditta A invece che alla ditta B una commessa, avviene più silenziosamente e in un'incerta zona di confine tra il regalo e la corruzione» (Christie 1975, p.p. 118-119). Lo stesso vale nel caso di frodi sulle concessioni, operazioni su conti bancari fittizi, bancarotta fraudolenta, frode in bilancio, appropriazione indebita, crimini valutari, danni ambientali, eccetera.
Il terzo elemento riguarda la "diversa capacità di badare a se stessi" e aggiustare la situazione in caso di sospetti. Chi evade l'imposta sui redditi o quella sul valore aggiunto, anche se scoperto, ha migliori probabilità di cavarsela che un ladro o un barbone. Tali diversità permeano ogni piega del sistema di stratificazione sociale e di classe. Una ricerca norvegese mostra che i casi di evasione dell'IVA denunciati dalle autorità fiscali riguardano prevalentemente piccole aziende e operatori privati; non c'è ragione di credere che le grandi aziende non commettano analoghi reati, ma le piccole compagnie hanno minori risorse disponibili e quindi minore possibilità di patteggiare con le autorità fiscali (Hedlund 1982).
Il quarto elemento consiste in una serie di diversi "ulteriori meccanismi selettivi" riscontrabili nel modo di operare della polizia e dell'apparato giudiziario. Per esempio, la maggior parte delle risorse e dell'attività di polizia sono indirizzate a contrastare la criminalità comune, mentre solo una piccola parte di esse è impegnata a perseguire i reati di chi sta «in alto». E quando incappano nella rete della polizia, i membri delle classi superiori hanno migliori probabilità che un ladruncolo o un vagabondo di procurarsi dei buoni legali. Infine, che accade in tribunale? C'è anche qui diversità di giudizio? La questione non è facile da affrontare perché ben di rado ci troviamo di fronte a casi consimili. E quando si cerca di costruire un campo di casi confrontabili, con alcune caratteristiche costanti, se ne possono raccogliere un numero talmente piccolo da non avere significatività statistica. Una ricerca di Vilhelm Aubert (1972, cap. 8) mostrava che, per i medesimi reati, persone di bassa estrazione sociale ricevevano con maggior frequenza dure condanne rispetto a persone di estrazione elevata, anche quando si tenesse conto di diversi altri fattori. Ma il numero dei casi restava scarso e una difficoltà della ricerca era che gli imputati erano classificati a seconda delle figure di reato, il che può occultare importanti differenze. Non è dunque semplice valutare se i giudici si comportino diversamente in casi consimili a seconda della condizione sociale degli imputati. Ma non sono sicuro che quest'ultima sia la questione principale. Il punto centrale è che i giudici si trovano raramente di fronte a casi di questo genere. Attraverso il processo che abbiamo delineato, in sostanza, coloro che vengono portati in tribunale provengono già in anticipo perlopiù dagli strati sociali inferiori. Sono perciò costoro che vanno a finire in prigione, siano i giudici equanimi oppure no.
Questo ci riporta al problema morale da cui eravamo partiti. Il processo, interno al sistema, che fa sì che l'eguaglianza giuridica formale non riesca a contrastare efficacemente l'ineguaglianza (ma piuttosto a nascondere l'ineguaglianza reale) enfatizza il problema morale: se noi irroghiamo le pene per motivi di prevenzione generale, sacrifichiamo persone in massimo grado povere ed emarginate per mantenerne altre sulla retta via.
I legislatori e i giudici sostengono che l'argomento in favore della prevenzione generale è giustificato, in parte, perché si applica ad altre persone della medesima estrazione sociale di coloro che vengono condannati. Come esempio si porta quello dell'uso di stupefacenti: si sacrificano alcuni poveracci per tenere in riga altri poveracci. Si potrebbe agire in modo più radicale per modificare la situazione complessiva delle classi non abbienti, in modo che il reato non costituisca la soluzione più a portata di mano, e invece si tenta di disciplinare la maggioranza dei non abbienti sanzionandone alcuni. In parte, però, l'argomentazione in favore della prevenzione generale ha anche un orizzonte più ampio - l'intenzione generale è di migliorare quello che viene chiamato «il rispetto delle leggi da parte di tutti». Ciò significa che anche tutt'altre categorie, chiaramente benestanti, sono incluse nei gruppi cui si indirizza il messaggio della prevenzione generale, e si cerca di tenere a bada gli strati sociali superiori esponendo a sofferenze la popolazione meno abbiente. Di entrambe queste tendenze, non so quale sia più problematica dal punto di vista morale. https://krootez.com/

- Quando anche i suoi sostenitori sono contrari
A questo punto, può essere interessante approfondire il fatto che gli stessi sostenitori della prevenzione generale sottolineano gli argomenti ad essa contrari quando è nel loro interesse. Benché usino una terminologia diversa dalla nostra, i concetti sono i medesimi. Ad esempio, si sottolineano volentieri i limiti delle ricerche empiriche: J. Andenæs, in un importante e ampio articolo sulle pene per guida in stato di ebbrezza scritto quando la normativa prevedeva una pena minima di ventun giorni di carcere per un tasso ematico dello 0,5%, di alcool, si esprimeva in favore di un minor automatismo nell'infliggere pene detentive e un maggior uso di sanzioni non detentive nei casi meno gravi (Andenæs 1982). Nell'articolo egli si interrogava su quali sanzioni alternative proporre: «"Come in tutte le questioni relative alla prevenzione generale", anche in questo caso si è indirizzati verso ragionamenti generali, con una buona dose di congetture» (ivi, p. 129; corsivo mio). Torneremo a parlare del suo punto di vista sulla questione. Per ora vogliamo sottolineare soltanto l'" incertezza" che Andenæs mette in risalto a proposito delle nostre conoscenze sugli effetti di prevenzione generale della pena, e che vale «in tutte le questioni relative alla prevenzione generale». Sono espressioni forti, impiegate in un contesto nel quale Andenæs ha appunto delle ragioni per sminuire l'effetto di prevenzione generale della pena.
Inoltre i tre principali argomenti discussi in precedenza a proposito della comunicazione sono toccati da Andenæs nel medesimo articolo, anche se non sono messi in relazione con gli aspetti incerti e oscuri dei risultati empirici, come abbiamo fatto noi. Come primo punto abbiamo l'argomento secondo il quale bisogna distinguere tra i bruschi cambiamenti generali nel quadro delle sanzioni rivolte a crimini particolari e atipici e le piccole differenze introdotte in sanzioni di applicazione quotidiana, discusso nel paragrafo sul versante fattuale del messaggio:
«Bisogna distinguere tra l'"effetto totale" dell'insieme delle pene per la guida in stato di ebbrezza e l'"effetto marginale" che è legato ad ogni particolare sanzione. Non ho dubbi sul fatto che nell'insieme sortiscano un notevole effetto, ossia che vi sarebbero molti più automobilisti in stato di ebbrezza se decidessimo di abolirle tutte insieme. Tutt'altra questione è quale risultato produrrebbe sostituire la detenzione con ammende molto elevate» (ivi, p. 129).
Quanto al fatto che il messaggio è necessariamente recepito in modo diverso da quello in cui era inteso da chi lo trasmette, analizzato da noi - benché diversamente -nel paragrafo sul filtraggio e la focalizzazione, leggiamo nell'articolo di Andenæs:
«Sono convinto che un tale cambiamento avrebbe un effetto non trascurabile sulla sicurezza del traffico. La pena minacciata sarà ancor più percepibile. Bratholm e Hauge hanno condotto poco tempo fa un'indagine con interviste, per stabilire soltanto quale ammenda la gente fosse disposta a pagare per evitare il carcere in caso di guida in stato di ebbrezza. Le cifre ricavate erano stupefacentemente basse: pare che una percentuale rilevante ritenesse che un'ammenda pari a un mese di stipendio fosse una punizione maggiore che tre settimane di carcere. Resta da chiedersi se in realtà, davanti a una simile scelta, sarebbero in molti a preferire una forte ammenda al carcere. Ma per quanto riguarda la prevenzione generale, la questione è come la gente valuti la minaccia della pena» (ivi, p.p. 129-130)
Il terzo punto consiste nei problemi relativi alla generalizzazione dell'esperienza personale. Andenæs, che è solito a tali generalizzazioni, sostiene tra l'altro:
«C'è un immediato pericolo di sovrastimare il valore di prevenzione generale delle nostre rigide norme sulla guida in stato di ebbrezza, perché chi interviene abitualmente nel dibattito pubblico tende a generalizzare dalla propria esperienza e da quella della cerchia delle proprie conoscenze immediate. Politici, giudici, poliziotti, professori, esperti di problemi del traffico - questi sono gruppi che considererebbero una condanna per guida in stato d'ebbrezza una catastrofe sociale e che hanno inoltre una notevole capacità di controllare gli impulsi del momento. Ma ciò che vale per questi gruppi, non è detto che valga per gli appartenenti ad altri gruppi, per esempio i giovani, o persone prive di controllo sul proprio consumo di alcool» (ivi, p. 133).
Si possono nutrire dei dubbi sul fatto che solo i professori e gli esperti del traffico temano una condanna come una «catastrofe sociale». Perché mai i giovani, ad esempio, che hanno di fronte a sé una carriera e ai quali sarebbe forse ritirata a lungo la patente, non dovrebbero pensarla allo stesso modo, resta inspiegato: la descrizione è assai condiscendente verso gli altri gruppi.
Ma il punto principale è che il pericolo è connesso con la generalizzazione «dalla propria esperienza o da quella della cerchia delle immediate conoscenze», questione discussa a proposito delle strutture di segni e del quadro di interpretazione. Poiché manca l'inquadramento comunicativo della prevenzione generale, le asserzioni sui pericoli della generalizzazione rimangono qui campate in aria. Sono però le medesime. Andenæs lo rende quanto possibile esplicito:
«La nostre rigide norme circa la guida in stato d'ebbrezza hanno prodotto un buon effetto di prevenzione generale sulla maggior parte degli automobilisti. Perciò il numero dei guidatori sotto l'effetto dell'alcool è basso. Ma si tratta perlopiù di persone che anche senza le rigide norme di legge avrebbero moderato il proprio consumo di alcoolici, anche se avrebbero forse superato il tasso ematico del 0,5 per mille, e che nonostante gli effetti dell'alcool avrebbero mantenuto il proprio senso di responsabilità e forse avrebbero cercato di compensare evitando situazioni di traffico difficile. Negli incidenti sono in genere coinvolti guidatori che hanno fatto un grave abuso di alcool, e sono persone con gravi problemi di alcoolismo o serie difficoltà di adattamento sociale. Si tratta di gruppi che sono quotidianamente oggetto dell'azione deterrente e moralizzatrice della legge. In breve: è ragionevole credere che l'effetto di motivazione indotto dalla legge sia più forte verso coloro che avrebbero causato comunque un modesto rischio di incidenti stradali anche se avessero superato il tasso alcoolico consentito» (ivi, p. 132).
Andenæs si avvicina molto al punto di vista che abbiamo illustrato: la prevenzione generale serve a chi non ne ha bisogno.
In conclusione notiamo che, oltre all'incertezza dei risultati della ricerca e alle difficoltà del processo di comunicazione, i sostenitori della prevenzione generale affrontano il problema morale. In effetti Andenæs è vago in proposito, coerentemente con la propria visione generale, ma in ogni caso giunge ad affermare - dopo aver sostenuto che l'effetto di prevenzione generale della pena resta per lui il motivo principale per conservare il sistema penale - che «non desideriamo il rispetto delle leggi "ad ogni costo". Il riguardo per la prevenzione generale deve essere bilanciato dal riguardo per la giustizia e l'umanità» (ivi, p. 129). In altre parti del testo egli affronta anche l'estrema irragionevolezza di fondare sulla prevenzione generale l'uso della pena detentiva per la guida in stato di ebbrezza.
Mi domando allora: perché Andenæs e gli altri che la pensano come lui non impiegano i medesimi argomenti nel caso di altri gruppi ai quali non si applicano certo peggio? Prendiamo i giovani tossicodipendenti, i vagabondi che commettono piccoli furti, la criminalità giovanile in genere: si può dire riguardo a questi gruppi, altrettanto bene dei guidatori sotto l'effetto dell'alcool, che i risultati della prevenzione generale sono tali per cui «anche qui ci si trova indirizzati verso ragionamenti generali, con una buona dose di congetture» (ivi). Si può dire altrettanto bene che bisogna «distinguere tra l'"effetto totale" dell'insieme delle pene e l'"effetto marginale" che è legato ad ogni particolare sanzione» (ivi). Si può ancora dire che «per quanto riguarda la prevenzione generale, la questione è come la gente valuti la "minaccia" della pena» (ivi, p. 130). Si può infine dire altrettanto bene che c'è «un immediato pericolo di sovrastimare il valore di prevenzione generale [...] perché chi interviene abitualmente nel dibattito pubblico tende a generalizzare dalla propria esperienza e da quella della cerchia delle proprie conoscenze immediate» (ivi, p. 133) e che «non desideriamo il rispetto delle leggi "ad ogni costo"» (ivi, p. 129). Presi insieme, tali argomenti offrono dei forti motivi in favore di una riduzione delle pene anche per questi altri gruppi.
Altrettanto vale per altri argomenti che compaiono nell'esposizione di Andenæs: confronti internazionali (che mostrano come anche sbalzi rilevanti nel livello della pena per guida in stato di ebbrezza non determinano paragonabili dislivelli nelle violazioni); l'aumentata conoscenza dei vari gradi di influenza dell'alcool assunto (che è analoga alla maggior conoscenza degli effetti dei reati comuni rispetto ad altre minacce sociali come gli incidenti sul lavoro, gli incidenti stradali, l'inquinamento); eccetera. Ma ancora una volta, questi argomenti rimangono inutilizzati e silenti. I sostenitori della prevenzione generale usano questi argomenti solo quando vogliono. È ben difficile capire il principio per cui ci si limita a scrivere in favore dei guidatori in stato di leggera ebbrezza.

- Si può difendere il carcere con la prevenzione generale?
Abbiamo scandagliato via via il problema della prevenzione generale. I risultati della ricerca sono molto incerti e confusi. Il processo di comunicazione è molto difettoso e problematico, il che spiega l'incertezza e la confusione dei risultati della ricerca e permette di affermare che nel campo degli effetti di prevenzione generale è la realtà stessa che è incerta e confusa. Il problema morale è urgente. E gli stessi sostenitori della prevenzione generale ripropongono questi argomenti quando hanno motivo di andar contro la prevenzione generale stessa. Bisogna sottolineare ora altri due punti.
Innanzitutto questi argomenti sono importanti nella loro combinazione. Ognuno di loro può essere di per sé debole; il punto è che tutti e tre i gruppi di argomenti "spingono nella stessa direzione". In molti contesti sociali sorgono conflitti tra il rispetto dell'efficacia e il rispetto delle esigenze morali: l'efficacia spinge in una direzione e la moralità in un'altra. Così non è nel nostro caso, anzi tutt'altro. Ciò significa che tutto il peso degli argomenti suggerisce grande parsimonia nell'uso della pena come mezzo di controllo e dominio da parte dello stato - suggerisce di enfatizzare l'impiego di mezzi alternativi. Inoltre gli argomenti suggeriscono concordemente parsimonia nell'uso delle forme di punizione più dolorose, come la pena carceraria che è oggetto di questo libro. Ed è impossibile, sulla base della prevenzione generale, trovare ragioni in favore dello sviluppo internazionale della carcerazione (confer cap. 1). Neppure i risultati incerti e confusi della ricerca offrono buoni argomenti, e nemmeno ciò che sappiamo del processo di comunicazione, teoricamente ed empiricamente. Non vi sono argomenti buoni dal punto di vista morale.
Si trovano piuttosto dei buoni motivi, considerando la questione dal punto di vista della prevenzione generale, per contrarre il sistema carcerario e restringerne l'uso. I risultati della ricerca, quanto sappiamo del processo di comunicazione, il rispetto della moralità, sono argomenti tanto più importanti quando il discorso riguarda quell'intervento così dannoso e doloroso che è chiudere le persone in carcere. Mentre si può sostenere che la marginalità dei risultati delle ricerche, le manchevolezze del processo di comunicazione, le considerazioni morali, presi insieme non sono così pesanti nei confronti di mezzi di punizione meno dolorosi, sono in ogni caso ben più pesanti - alcuni direbbero che sono decisivi - contro il carcere, dannoso e doloroso.
Insomma, anche sulla base della prevenzione generale il carcere trova una debole difesa. Concludendo il capitolo sulla riabilitazione abbiamo citato un'autorevole fonte governativa svedese che, con espressioni energiche, puntualizzava come il miglioramento del reo mediante la pena sia un'illusione. Il rapporto prosegue con una posizione altrettanto ferma sull'effetto di prevenzione generale della pena detentiva:
«Il punto di partenza deve essere, in analogia con quanto detto sopra [a proposito del fatto che il miglioramento del reo mediante la privazione della libertà sia un'illusione, T. M.], il fatto che si può motivare l'impiego della pena carceraria solo con ciò che solitamente si chiama prevenzione generale e in parte anche nel quadro della difesa sociale. Gli effetti della pena detentiva, in quest'ottica, sono comunque in gran parte incerti. Così tutte le ricerche disponibili e i confronti internazionali mostrano che lo sviluppo del crimine non ha alcuna relazione determinata al livello di privazioni della libertà che si mantiene e alla loro durata. [...] non vi sarebbe alcuna esagerazione nel sostenere che il significato della politica criminale nei confronti dello sviluppo del crimine in quest'ottica è relativamente marginale, se lo si mette in relazione con la politica della famiglia e della scuola, con la politica occupazionale e sociale, con la struttura e la funzione del sistema giudiziario in senso ampio, così come naturalmente con la struttura economica e il ruolo del singolo nella società. Nel complesso, operare per una società solidale, con una migliore e più giusta distribuzione di salari, alloggi, istruzione, condizioni di lavoro e cultura, è un'azione adeguata a prevenire i rischi di disadattamento sociale, il quale spesso produce condizioni favorevoli alla criminalità, e perciò è più significativa della reazione penale a crimini già commessi» ("Regeringens proposition" 1982-83: 85, p. 30).
Il minimo che si può pretendere dalle autorità è che mettano seriamente in pratica tale corretto orientamento.

Note:

1. Con reati di poco conto abbiamo tradotto "bagatell forbrytelsen", che sono indicati nella letteratura criminologica internazionale come " mickey-mouse stuffs" e nei testi specialistici italiani come "reati bagatellari" [N.d.T.].

2. Abbiamo toccato in breve alcuni punti di quel ramo della scienza del linguaggio che si chiama semiologia -etimologicamente «scienza dei segni» -, i cui esponenti principali sono Ferdinand de Saussure, C. S. Peirce, Roland Barthes e Umberto Eco (confer ad esempio Barthes 1975; Fiske 1984).

3. Per esempio la polizia norvegese, il cui riarmo era stato proposto nel 1970 dal comitato competente presieduto da Andreas Aulie (Auliekomitéens instilling 1970) e bloccato con la nomina a ministro della giustizia di Inger Louise Valle, fu riarmata gradualmente e secondo linee analoghe alle proposte del comitato, ma per piccoli passi cumulativi che non sollevassero l'attenzione dei possibili oppositori.

4. Il mondo della vita, secondo la fenomenologia, è il mondo «già dato, del tutto naturalmente e a tutti noi [...] 'il' mondo comune a tutti» (Husserl 1936, trad. it., p. 151) in cui «viviamo intuitivamente» (ivi, p. 183) [N.d.T.].