Thomas Mathiesen
Perché il carcere?
Capitolo 3.
La prevenzione generale
- La prevenzione generale come paradigma
Le teorie della prevenzione generale si basano sull'idea di impedire,
punendo l'autore di un reato, che altri intraprendano azioni criminose: si
ritiene che ciò si ottenga mediante la deterrenza, la moralizzazione
e il condizionamento che in tal modo si operano nei confronti della popolazione
in generale. Va sottolineato prima di tutto che, nella nostra società,
l'effetto di prevenzione generale della pena è largamente dato per
scontato: è un'idea talmente parte del senso comune che sovente non
nasce alcun problema sulla sua realtà. Si tratta di un paradigma socialmente
prevalente.
«Paradigma» significa «modello» e, nelle scienze,
è un modello di pensiero fondamentale e complessivo, che influenza
l'attività di ricerca sia selezionando certi suoi ambiti come fruttuosi
e interessanti, sia offrendo uno schema teorico per interpretare i dati empirici.
Il marxismo può essere considerato un paradigma nelle scienze sociali,
il funzionalismo strutturale un altro (confer Kuhn 1970 e Johnsen 1979). Ma
possiamo dire che anche nella società in generale o nei suoi sottogruppi
vi sono paradigmi, i quali si contendono in grado maggiore o minore la nostra
attenzione e adesione; esistono diversi modelli che offrono schemi per la
comprensione della società, indirizzano il pensiero e regolano la prospettiva
secondo cui interpretare il mondo. Le grandi istituzioni sociali come la Chiesa,
il sistema giudiziario, la scuola e, al giorno d'oggi, i mass media, producono
e trasmettono questi modelli. Per essere qualificato come paradigma, un modello
di pensiero deve sempre essere in qualche misura dato per scontato, benché
al suo interno si possano sollevare questioni e problemi (proprio come nel
contesto scientifico). Naturalmente non si può dire che un modello
di pensiero messo in dubbio da gruppi forti o dominanti sia un paradigma:
o è sul punto di perderne il carattere o è semplicemente un
non-paradigma. D'altra parte è chiaro che più è dato
per scontato da chi lo trasmette, dalla popolazione che lo riceve, o da entrambi,
più diventa «paradigmatico». Per brevità non approfondiamo
questa problematica (cenni in Mathiesen 1984, p.p. 18-122, e nel cap. 6 di
Mathiesen 1986), ma notiamo soltanto che nella nostra società l'idea
che la pena abbia un effetto di prevenzione generale agisce in larga misura
come un paradigma: essa offre innanzitutto un modello di pensiero complessivo;
ha un carattere fondamentale, nel senso che è vista come una specie
di pietra angolare dell'ordine sociale; infine, sia da chi trasmette l'idea
sia da chi la riceve è dato per scontato che la pena abbia in realtà
un tale effetto. Questo stato di cose ha almeno tre importanti conseguenze.
Innanzitutto la paradigmaticità sociale dell'idea della prevenzione
generale è tale che ogni sorta di eventi ed azioni può essere
interpretata alla sua luce. Se la criminalità diminuisce, si dirà
che è tenuta sotto controllo dalla prevenzione generale esercitata
dalla pena. Quando poi la criminalità cresce, anche questo dimostra
che la pena ha un effetto di prevenzione generale, soltanto la reazione alla
delinquenza non è stata abbastanza energica e occorrono pene più
rigide per tenerla sotto controllo. Un altro esempio: se diminuiscono i reati
connessi al consumo di stupefacenti, ecco dimostrato quanto fosse giusto punirli
severamente; ma quando aumentano, si sostiene che bisogna inasprire ancor
più le condanne. Si possono riferire anche altri esempi di come, ad
eventi del tutto contraddittori, sia attribuito esattamente lo stesso significato
(esempi relativi a casi di presunto spionaggio in Mathiesen e Hjemdal 1986).
Ebbene, eventi contraddittori possono avere alla base uguali motivazioni,
ma non necessariamente deve accadere così, e se non altro quest'ultima
ipotesi non andrebbe presa in seria considerazione; invece ogni nuovo evento
è automaticamente interpretato a favore della teoria «paradigmatica».
A causa di questo carattere paradigmatico, inoltre, l'onere della prova tocca
a coloro che sollevano dei dubbi contro la teoria, e non a coloro che su di
essa si fondano e che ne danno per scontata la validità. Anche in questo
caso il principio generale si applica nei diversi ambiti.
Infine i sostenitori della teoria, tra i loro presupposti fondamentali, possono
introdurre presunte esperienze di vita quotidiana, presentate con poca o nulla
verifica. Il penalista norvegese Johs Andenæs formula così quelli
che egli stesso considera i capisaldi della teoria:
«La più forte ragione per credere nella prevenzione generale
è la ben nota esperienza che il timore di conseguenze sgradevoli, nella
maggior parte delle circostanze della vita, agisce come una motivazione tanto
più forte quanto più grave è la conseguenza temuta. È
quasi assurdo pensare che questo meccanismo ben noto debba perdere di significato
quando si tratti di compiere o non compiere un'azione perseguibile»
(Andenæs 1977, p. 229).
Tale energica affermazione suggella una rassegna dettagliata dei risultati
della ricerca scientifica, che per ammissione dell'autore non hanno portato
ad alcun «risultato importante per la conoscenza» (ivi, p. 228).
Va detto che negli ultimi anni Andenæs è stato tra coloro che
hanno preso sul serio il problema di dare un fondamento empirico alle tesi
sull'effetto di prevenzione generale della pena; ne parleremo più avanti.
Ciò nonostante, la testimonianza del buon senso sul timore delle conseguenze
sgradevoli resta la sua «ragione più forte per credere nella
prevenzione generale». Nel dare questo peso al "common sense"
egli non si trova solo: molti sono meno empiristi e l'adducono non solo come
ragione principale, ma come unica ragione.
Non è dunque facile porre la questione fondamentale di questo capitolo:
«si può difendere il carcere con la prevenzione generale?»,
perché la domanda stessa si trova su una rotta di collisione con il
paradigma. Tanto più è importante porla.
- I risultati delle ricerche
La prima questione da affrontare più specificamente è quali
indicazioni offrano le ricerche in questo campo, che hanno recentemente conosciuto
un notevole impulso. Andenæs ne ha seguito da vicino lo sviluppo, riassumendone
le fasi in diversi lavori (Andenæs 1977, 1975, 1982), e poiché
egli è uno dei più importanti sostenitori della teoria della
prevenzione generale vale la pena di esaminare più da vicino il suo
contributo.
Andenæs si occupa prima di tutto dell'approccio degli economisti, il
cui punto di partenza è a suo parere diverso da quello dei sociologi:
essi studiano il reato inteso come il prodotto di una scelta razionale, applicando
nuovi metodi statistici sviluppati nell'ambito dell'economia; egli esamina
poi ricerche sulla pena di morte e sugli effetti dei mutamenti della legislazione
o delle sue applicazioni, studi comparativi su diverse regioni geografiche,
ricerche basate su interviste - specialmente a proposito della conoscenza
delle norme di legge o delle loro modifiche - e ricerche sperimentali. La
questione diventa allora: a che punto siamo?
«Nelle prime discussioni sulla prevenzione generale si era costretti
a basarsi su esperienze non sistematizzate, su generici ragionamenti psicologici,
sull'introspezione, sul materiale storico. Si può dire che negli ultimi
dieci anni la ricerca abbia portato qualche mutamento radicale nella situazione?
Non è facile dare una risposta chiara» (ivi, p. 227).
Andenæs prosegue sostenendo che il livello scientifico della discussione
è migliorato. È diventato più difficile attestarsi su
posizioni estreme: da un lato non si può negare disinvoltamente che
la pena determini un effetto di prevenzione generale, o sostenere che tali
effetti siano indipendenti da un'applicazione efficace; d'altro canto si dimostra
palesemente irrealistico credere che inasprendo le pene o aumentando le azioni
di polizia si riesca automaticamente a ridurre la criminalità. Ma,
conclude, «non si è fatto alcun passo avanti nella conoscenza,
come invece nella ricerca sugli effetti di prevenzione individuale delle diverse
reazioni al crimine. La ricerca ha prodotto briciole di conoscenza, che possono
servire sia come controllo sia come complemento dei ragionamenti di buon senso
sui quali ancora ci appoggiamo. Manca ancora molto, se mai ci si arriverà,
prima che la ricerca possa dare risultati quantificabili intorno a quali effetti
sulla criminalità si possano attendere in conseguenza di previste modifiche
del sistema» (ivi, p. 228).
Il rendiconto è significativo. Si dovrebbe aggiungere che una conclusione
assai simile a quella di Andenæs è stata raggiunta dal tedesco
Jürgen Frank, in una rassegna complessiva del più attivo indirizzo
moderno di ricerca negli studi sulla prevenzione generale: quello economico,
cui abbiamo già accennato. La rassegna considera le ricerche americane
che applicano il modello di razionalità economica «costi-benefici».
In generale le indagini sembrano mostrare un certo limitato effetto deterrente
prodotto dalla pena (Frank 1986, partic. p. 6). I modelli economici posti
alla loro base comportano comunque una serie di premesse che nella vita pratica
sono problematici od opinabili (ivi, p.p. 15-22). Molto sobrio nei suoi giudizi,
Frank conclude che questo filone di ricerca è interessante nella misura
in cui costituisce una sfida per altri indirizzi che non partono dal medesimo
presupposto di razionalità economica; il carattere stringente delle
sue argomentazioni formali lo rende chiaro e conciso nei suoi enunciati centrali
e, benché non possa informare con precisione sugli effetti della legisl
azione penale e delle sue alternative legali nei confronti della criminalità,
offre però un quadro di riferimento per la ricerca empirica. «La
questione se gli approcci non economici siano superiori in potere esplicativo
e in certezza empirica», scrive Frank, «resta aperta» (ivi,
p. 23).
Si può anche aggiungere che risultati ottenuti in ambiti più
ristretti, come la guida in stato di ebbrezza, dove le ricerche sono state
più intense, risultano altrettanto incerti e, nel migliore dei casi,
divergenti (Klette 1982; anche Ross et al. 1984). Scendiamo nel dettaglio
su un punto. In alcune di queste ricerche si sostiene una distinzione tra
il cosiddetto "livello della pena" e quel che possiamo sintetizzare
come "probabilità della sanzione". Ma il livello della pena
sembra avere un effetto minimo di prevenzione generale, mentre l'aumento della
probabilità di andare incontro a una sanzione ha in ogni caso un certo
effetto. Nel suo libro "Thinking about Crime" (Riflettendo sul crimine),
il criminologo americano James Q. Wilson sostiene in realtà questo
principio (confer Wilson 1983). Il suo punto di partenza è la difesa
del sistema penale e della carcerazione. Egli discute, secondo il modello
costi-benefici e in termini complessivi, l'effetto di prevenzione generale
delle pene, in particolare di quelle detentive, e indica alcune ricerche che
mettono in luce un tale effetto - invero marginale (ivi, p. 143). Ma se si
considera attentamente il suo discorso, si trova comunque che questo effetto
marginale è imputabile alla probabilità della sanzione. Egli
parla della «prontezza» ("swiftness") e della «certezza»
("certainty") della pena, ma raramente della sua entità.
La distinzione tra il livello della pena e la probabilità della sanzione
è ben chiarita, per esempio, nell'ampia ricerca empirica sulla delinquenza
minorile in Germania Occidentale svolta da Schumann e da vari collaboratori,
dalla quale è emerso che la severità (ossia la durata) della
pena non aveva "alcun effetto" sul comportamento criminale giovanile.
Neppure, va aggiunto, è servita l'introduzione dei carceri minorili.
I dati negativi costituiscono uno dei maggiori risultati di questo studio.
Si è cioè scoperto che l'esperienza soggettiva del rischio di
cattura aveva un certo effetto, ma "non" sulla messa in atto di
crimini gravi quali rapine, aggressioni, frodi e crimini legati agli stupefacenti,
come si sarebbe potuto sperare dal punto di vista della deterrenza generale.
E "non" per i reati di poco conto (nota 1), quali sono vari tipi
di furto, in particolare i furti d'auto commessi allo scopo di guidarle per
breve tempo e presto abbandonarle. L'effetto poteva essere dimostrato solo
per certi tipi di reati minori, come il taccheggio, le aggressioni minori,
il danno a cose, la guida senza patente e l'uso dei mezzi pubblici senza biglietto:
ma anche in questi casi si tratta di un influsso «alquanto modesto»
(Schumann et al. 1987, p. 152). Per di più i giovani che vengono catturati
più facilmente non commettono di regola tali reati, bensì piuttosto
reati per i quali non si riscontra alcun effetto di prevenzione generale.
Questo studio è particolarmente importante sia perché riguarda
la criminalità giovanile sia perché indaga così a fondo
e acutamente l'esperienza soggettiva del rischio di cattura, che può
dirsi la misura basilare di probabilità di una sanzione, della quale
è la condizione decisiva. Lo studio va oltre e discute questa esperienza
soggettiva, in quanto «ponte» tra il rischio oggettivo e il comportamento
posto in atto. Il rischio oggettivo ha qualche probabilità di avere
effetto solo se è sperimentato come tale. Ma essendo i risultati prodotti
da tale esperienza soggettiva parziali e di assai modesto effetto, per non
parlare del livello della pena che non ha effetto alcuno, la teoria della
prevenzione generale è davvero messa alle corde.
I magri risultati delle ricerche sono però serviti ai sostenitori della
prevenzione generale per chiedere l'incremento delle risorse destinate al
controllo di polizia, in modo da innalzare il rischio di cattura. Oggi la
percentuale di soluzione dei casi di crimini denunciati e, nei paesi industriali,
generalmente bassa. Si afferma che un miglioramento di questa percentuale
avrà un corrispettivo nella crescita dell'effetto di prevenzione generale
e si sostiene che l'aumento nelle risorse e le misure di polizia possano produrlo.
Ma qui i teorici della prevenzione generale fanno un passo falso. Un punto
mostrato molto chiaramente dallo studio sulla delinquenza minorile in Germania
è che per i reati gravi, rispetto ai quali la percentuale di casi risolti
è in effetti molto elevata, l'effetto preventivo del rischio soggettivamente
sperimentato è inesistente. Ciò suggerisce con forza che siano
altri fattori, invece del sistema penale, a determinare l'esistenza e lo sviluppo
di tali reati.
Nelle grandi nazioni industrializzate, il tasso infimo di casi risolti per
la maggior parte dei tipi di reato è una componente, ormai del tutto
integrata, della realtà sociale. In queste società un insieme
di fattori sociali opera in direzione di una criminalità sempre più
anonima, la cosiddetta «criminalità di massa», come i furti
di veicoli e i furti in genere, l'uso di stupefacenti, la più parte
delle aggressioni. Il crescente anonimato, con una specie di necessità
sociologica, determina un rischio di cattura basso se non irrisorio, che non
dipende quindi da una carenza di risorse destinate al controllo di polizia.
È possibile aumentare il rischio, ma vi sono solide ragioni perché
in una società come la nostra i risultati rimangano scarsi, se non
a prezzo di sviluppare un vero e proprio stato di polizia, che per altri motivi
troviamo indesiderabile.
Jürgen Frank riassume così il fondamento empirico di questa generalizzazione:
«Molti autori hanno studiato l'influenza dell'attività poliziesca
sulla probabilità di essere arrestati e condannati. Non c'è
alcuna significatività statistica che consenta di sostenere che un
incremento dell'attività poliziesca aumenti il tasso di arresti e condanne»
(Frank 1986, p. 11).
Quindi l'effetto preventivo di un aumento delle misure di polizia, portino
esse a un maggiore rischio di cattura o a una maggiore probabilità
di una pronta e certa sanzione, rimane al più «marginale»
(come dice Wilson, il campione della prevenzione generale; confer sopra).
Il criminologo danese Flemming Balvig ha espresso questo punto così:
«Non ho dubbi che con mezzi polizieschi si possa accrescere grandemente
la percentuale di casi risolti. Resto comunque scettico che si possa farlo
senza grandi costi sociali, non solo di tipo economico. Tanto più che
un aumento percentuale sarebbe di scarso interesse, considerando che il livello
resterebbe molto basso da qualsiasi punto di vista» (Balvig 1980, p.
63; confer anche Balvig 1984b).
In tal modo, sostiene Balvig, si risolve una classica controversia circa l'efficacia
preventiva di un'alta percentuale di casi risolti: «È indifferente
chi abbia ragione in questo caso, visto che raggiungere alte percentuali è
impossibile» (Balvig 1980, p. 66).
Possiamo ora tornare alla rassegna di Andenæs. A quale conclusione pratica
giunge? Egli ribadisce l'importanza del "common sense":
«La più forte ragione per credere nella prevenzione generale
è ancora la ben nota esperienza che il timore di conseguenze indesiderabili
è un forte fattore motivante nella maggior parte delle circostanze
della vita».
Nonostante la somma di risultati incerti e controversi prodotti dalle ricerche
sulla prevenzione, si continua a «credere nella prevenzione generale»
, con scarsa o minima coerenza, grazie alla «ben nota esperienza»
del timore di spiacevoli conseguenze. Per quel che riguarda la politica criminale,
l'articolo conclude che i fattori d'incertezza relativi ai risultati della
ricerca sono irrilevanti:
«Ritengo per parte mia che sia il trattamento sia la neutralizzazione
abbiano un posto legittimo nel sistema del diritto penale, ma il suo scopo
primario deve essere la prevenzione generale, fondata su una combinazione
di deterrenza e di influsso morale, ovviamente entro i limiti imposti da giustizia
e umanità. Il punto fondamentale delle tecniche di controllo nell'ambito
del diritto penale è che la legge stabilisce una norma e minaccia con
la forza della punizione i trasgressori per motivare il rispetto della norma
stessa. Le sanzioni, nei casi concreti, hanno prima di tutto il compito di
caricare di gravità la minaccia» (Andenæs 1977, p. 230).
A differenza di Andenæs, noi prenderemo questa situazione d'incertezza
come punto di partenza. Prima di tutto cercheremo di chiarire perché
i risultati sono incerti e controversi, riferendoci alla sociologia della
comunicazione. In seguito discuteremo i problemi morali sollevati dalla prevenzione
generale, che non comporta soltanto questioni di praticabilità ma anche
di ordine morale. In particolare sottolineeremo il problema di sottoporre
a speciali sofferenze individui poveri e sconfitti in partenza, allo scopo
di impedire mediante ciò che persone affatto diverse commettano i loro
stessi reati. Vedremo anche come i sostenitori della prevenzione generale
facciano uso degli stessi argomenti sollevati contro di loro in questo capitolo,
quando possono servire al loro interesse. Nella parte finale trarremo delle
conclusioni di principio sulla politica criminale.
Abbiamo in precedenza discusso dell'effetto di prevenzione generale senza
occuparci in modo particolare della pena carceraria; faremo così anche
nel seguito, perché la questione fondamentale non si riduce al carcere,
ma nella conclusione del capitolo vi torneremo specificamente.
- La prevenzione generale come comunicazione
Dal punto di vista della prevenzione generale la pena può essere
considerata come un "messaggio" da parte dello stato, che significa:
tu non devi commettere determinate azioni, innanzitutto perché non
ne vale la pena (deterrenza); in secondo luogo, perché è moralmente
ingiusto (ammaestramento morale), e infine perché devi semplicemente
abituarti a non commetterle (induzione di abitudini). Il sistema del diritto
penale - che comprende pubblica accusa, polizia, giudici, e il complesso delle
sanzioni, incluso il sistema carcerario - può essere visto in questa
luce come un grande meccanismo il cui scopo è trasmettere alla popolazione
questi messaggi e che forma uno dei principali meccanismi statali per «parlare»
alla gente di come essa deve regolare le sue attività.
Che la pena sia un tentativo di comunicare un messaggio, è riconosciuto
dagli studiosi e dai sostenitori della prevenzione generale. Per esempio,
Andenæs osserva: «Il processo di comunicazione tra i legislatori
e le autorità poste a tutela della legge da una parte e il pubblico
dall'altra è perciò un elemento centrale del modo in cui la
prevenzione generale opera» (Andenæs 1977, p.p. 216-217). Egli
puntualizza anche che nella «vecchia teoria del diritto penale non si
poneva l'accento su ciò. Sembra che si deducesse tacitamente una rispondenza
tra la realtà oggettiva e la comprensione dell'individuo» (ivi).
Ma anche se il processo di comunicazione è visto come «un elemento
centrale», non gli si attribuisce una rilevanza particolare. Si concede
eventualmente rilievo alla questione, in sé e per sé semplice,
se la gente conosca le disposizioni di legge, ad esempio riguardo ai massimi
di pena. La comunicazione è peraltro un complesso processo di interazione
tra chi emette e chi riceve il messaggio, che solleva, a proposito della conoscenza
delle disposizioni di legge, questioni ben più ampie e complicate.
Le teorie della prevenzione generale ispirate al diritto penale sfiorano appena
questi argomenti.
"La politica della significazione"
Che cosa intendiamo per comunicazione? È una nozione articolata: molto
in breve, la comunicazione è una "trasmissione di significato"
tra parti diverse in interazione. La trasmissione di significati può
avvenire tra individui, istituzioni, gruppi, classi, o nell'intera società,
oppure tra lo stato e i membri della società. In quest'ultimo caso,
che è richiesto dalla teoria della prevenzione generale, ci sono determinate
istituzioni statali preposte alla trasmissione e questa si svolge per lo più
unidirezionalmente, dall'istituzione alla gente.
Ma la trasmissione non può essere diretta. Nella formulazione di Hjemdal
e Risan, per effettuare la trasmissione occorrono quelli che si possono chiamare
«portatori di significato» (Hjemdal - Risan 1985), ossia mezzi
che simbolizzano il significato. Possono essere parole, immagini, mimiche
corporee e facciali, eccetera; il linguaggio è naturalmente un essenziale
portatore di significato. Dunque sono i portatori di significato ad essere
trasmessi. Chi riceve deve egli stesso ricreare il significato dei portatori
di significato che ha ricevuto. Questo è importantissimo: la ricostruzione
del significato, ricavato dal suo portatore, presuppone un contesto o un nesso
condiviso di comprensione dei simboli. Quando il contesto manca, o è
difettoso, la ricostruzione dei significati è proporzionalmente manchevole
o alterata.
La funzione dei portatori di significato nel processo di comunicazione può
essere approfondita. Innanzitutto il significato attribuito ad eventi e oggetti
non dipende solo da come si presentano: il significato di eventi come una
modifica del diritto penale o una sentenza emessa da un tribunale, oggetti
come l'uniforme della polizia o un posto di blocco, non dipende da come questi
«sono» esteriormente. Senza segni che li caratterizzino, eventi
e oggetti in sé sarebbero privi di significato. «Segno»
è impiegato qui come sinonimo di «portatore di significato»:
i segni «portano» i significati. Un linguaggio è un insieme
molto importante di tali segni, che creano, che formano il significato. Altre
espressioni sensibili, materiali, possono anche fungere da segni creatori
di significato. Anche oggetti come le uniformi della polizia o i posti di
blocco sono un buon esempio di segni che creano il significato.
I segni, sia nel linguaggio sia in altre forme di espressione, diventano creatori
di significato quando operano all'interno di un quadro di interpretazione
già dato, in relazione quindi a uno sfondo di altri segni che offrono
una precomprensione. Il significato si presenta e si comprende mettendo il
segno in relazione con il sistema di segni del quale entra a far parte. Questa
precomprensione, questa struttura segnica devono essere comuni a chi trasmette
e a chi riceve, perché il significato ricostruito da chi riceve sia
comune a entrambi. Molto in breve si può dire che il significato si
produce mediante la relazione tra realtà esterna (quelli che abbiamo
chiamato «oggetti» ed «eventi» ), segno (linguistico
o appartenente ad altre forme di espressione sensibile) e interpretazione
(cioè il fatto che il segno sia visto in relazione a una struttura
di segni della quale entra a far parte) (nota 2).
In generale si può dunque dire che la comunicazione da parte dello
stato con i membri della società, la sua trasmissione di significato
verso di essi, costituisce una "politica della significazione" (come
in Hall et al. 1978), che si effettua in diversi contesti istituzionali come
ad esempio la scuola, la Chiesa, l'apparato giuridico-penale. In altre parole,
la scuola non è solo un'istituzione per la trasmissione di conoscenza,
ma anche un'istituzione che di generazione in generazione, in modo decisivo,
applica alla realtà il processo di significazione: «compito»,
«lezione», «giudizio» ed «esame» sono
alcuni dei numerosissimi esempi che appartengono a una struttura di significazioni
scolastiche ed evocano determinate, ampie associazioni indirizzate al dovere
ascetico e alla disciplina. La Chiesa non è solo un'istituzione che
soddisfa le credenze e i bisogni religiosi del popolo: con maggiore o minore
forza che la scuola, a seconda del periodo storico, essa ha prodotto per il
popolo significati da applicare alla realtà. «Peccato»,
«dannazione», «fede», «grazia», appartengono
con molti altri a una struttura di significazioni ecclesiastiche, ed evocano
associazioni orientate verso l'onnipotenza divina e la saggezza della Chiesa.
Lo stesso accade con l'apparato giuridico-penale: non si tratta solo di un'istituzione
che persegue e condanna quanti trasgrediscono la legge, ma anche di un'istituzio
ne che per i membri della società, proprio attraverso la sua prassi
corrente, applica un insieme essenziale di significazioni alla realtà.
«Colpa», «pena», «procedimento», «diritto
penale» e molti altri, entrano a far parte di una struttura di significazioni
giuridiche ed evocano associazioni rivolte al trattamento esaustivo, meditato
e ragionevole della devianza.
Il punto di vista fondamentale, in questa parte, sarà che nella prassi
le punizioni comminate dallo stato, in quanto mezzi di prevenzione generale,
incappano in difficoltà relative ai tre elementi della produzione del
significato: realtà esterna, segno, interpretazione. Più precisamente,
in questi termini, la pena fallisce nei suoi effetti di prevenzione nella
misura in cui dagli oggetti e dagli eventi relativi (misure legislative, sentenze,
eccetera.) non conseguono conseguenze di prevenzione generale, e lo stesso
accade per la significazione e le strutture di segni che permettono di interpretarle.
Il grado di fallimento della pena, in quanto strumento della prassi comunicativa
dello stato, contribuisce a chiarire le manchevolezze dei risultati prodotti
dal carcere in termini di prevenzione generale.
"I fatti: leggi, sentenze e rischio di cattura"
Alcuni esempi clamorosi sono spesso riportati per sostenere l'effetto di prevenzione
generale della pena. Due di essi appaiono in un articolo di Andenæs
pubblicato nel 1950:
«Come esempio di regole che raggiungono quasi il 100% di successo, perché
il soggetto deve calcolare che ogni violazione sarà scoperta e non
sarà priva di conseguenze, posso citare le regole sull'oscuramento
in tempo di guerra. Il puro effetto deterrente basta in questo caso, anche
senza alcun sostegno dell'autorità morale normalmente conferita alla
legge» (Andenæs 1950, p.p. 116-117).
Poco oltre egli ricorda il periodo di assenza della polizia a Copenhagen,
sempre durante la seconda guerra mondiale:
«In Danimarca, nel settembre 1944, i tedeschi arrestarono l'intero corpo
di polizia. Per tutto il resto dell'occupazione, le funzioni di polizia furono
svolte da un corpo di guardia improvvisato e disarmato, che in pratica non
era in grado di fare pressoché nulla, a meno di non cogliere sul fatto
il delinquente. [...] La criminalità aumentò sensibilmente»
(ivi, p. 121).
È molto probabile che l'alto rischio di cattura e il rigore delle pene
per un oscuramento insufficiente inducessero conformità alle regole
e che la scomparsa totale e palese delle forze di polizia incrementasse la
criminalità (benché in guerra l'oscuramento sia anche del massimo
interesse individuale, e benché siano stati sollevati dubbi sull'effetto
dell'assenza di polizia in Danimarca, sottolineando che il tasso di criminalità
in quel periodo poteva essere previsto anche estrapolando semplicemente la
tendenza dei dati relativi agli anni precedenti, confer Wolf 1967 e Balvig
1984a). Come ha però suggerito Nils Christie in un importante articolo,
simili cambiamenti radicali e improvvisi nel panorama delle sanzioni non sono
cosa di tutti i giorni; sono al contrario eventi assolutamente particolari,
atipici ed estremi nella politica criminale:
«La situazione è che quasi tutti gli esempi clamorosi degli effetti
di prevenzione generale valgono "in situazioni del tutto diverse da quelle
che il giudice si trova a fronteggiare" quando deve scegliere la sanzione
concreta. Egli deve scegliere tra sanzioni che non sono molto diverse tra
loro - tre o sei mesi di carcere, con la condizionale o senza - mentre gli
esempi di prevenzione generale riguardano enormi differenze nelle sollecitazioni,
come la presenza del controllo di polizia rispetto alla sua assenza»
(Christie 1971, p. 55).
Questo punto è molto importante anche dal punto di vista dell'attività
legislativa. Poiché questa è un processo lento e complesso,
che coinvolge interessi diversi e conflittuali, i legislatori modificano le
leggi perlopiù gradualmente e/o affrontandone piuttosto i dettagli:
così avviene, ad esempio, per il quadro delle pene. In certe situazioni
in cui moralmente e socialmente prevale la paura, accade in effetti che i
cambiamenti siano rapidi e ingenti (confer oltre, cap. 5). Ma nonostante la
facilità a trovare simili esempi, che dicono molto sulla labilità
degli standard morali nella società, essi non appartengono fortunatamente
al quotidiano lavoro dei legislatori. Inoltre non vi sono ragioni, né
teoriche né empiriche, per supporre che quando sopravvengono mutamenti
di legge dettati da una reazione di paura, essi abbiano speciali effetti di
prevenzione generale. L'irrazionalità, la dissennatezza e la mortificazione
di ogni garanzia giuridica che caratterizzano simili circostanze hanno per
lo meno effetti contrari all'intento di prevenzione generale, all'interno
dei gruppi investiti dalla reazione di paura.
Questo è rilevante dal punto di vista della sociologia della comunicazione.
Non bisogna aspettarsi che le scelte tra sanzioni consimili, che costituiscono
l'ordinaria politica criminale, siano ricevute e comprese con il medesimo
significato che attribuisce loro chi le emette. Tralasciando la questione
dei mezzi di comunicazione, che la rendono selettiva e sui quali torneremo,
sono dunque gli elementi stessi della "realtà esterna" nella
struttura del messaggio che rendono scarsa la comprensione: le sfumature relativamente
sofisticate della prassi giudiziaria hanno per sfondo le condizioni complesse
proprie dell'individuo particolare che è posto sotto processo, condizioni
che in parte sono uniche, in parte intervengono con una frequenza difficilmente
determinabile. Altrettanto vale per l'attività legislativa, forse in
grado un po' minore: per il legislatore, ragionamenti complessi intorno al
rispetto delle leggi e agli effetti della legislazione costituiscono lo sfondo
dei piccoli, graduali mutamenti che avvengono nel sistema penale.
Bisogna chiarire che piccoli mutamenti nella prassi giudiziaria e legislativa,
sommandosi, producono nel tempo grandi mutamenti della politica criminale,
come quelli di cui abbiamo parlato nel capitolo l. Si tratta di piccoli mutamenti
che avvengono in momenti determinati e hanno motivazioni complesse. Questa
prospettiva può essere estesa a settori diversi della politica criminale,
pur se non è sempre valida: in genere, per esempio, l'armamento in
dotazione alla polizia non è incrementato secondo un piano di riorganizzazione
globale, ma introducendo anno per anno stanziamenti e nuove disposizioni in
merito, che non provochino una reazione (nota 3).
Vorrei ancora sottolineare che il basso rischio di cattura è anch'esso
una componente ordinaria della realtà esterna, integrata nella struttura
del messaggio. In una società industrializzata, urbanizzata, anonima,
un incremento delle risorse destinate alla polizia modifica il rischio di
cattura in grado appena marginale. Questo fa parte della realtà della
società moderna e in quanto tale entra a far parte della struttura
del messaggio. Il caso di Copenhagen è in questo senso del tutto particolare
e atipico.
"Il significato: filtraggio e focalizzazione".
Gli elementi della realtà (eventi e oggetti) non possono dunque essere
separati dalle loro significazioni: essi costituiscono di per sé dei
simboli (adeguati o meno), cui si associa un significato che si cerca di trasmettere
al ricevente. Ebbene, come abbiamo accennato, alle condizioni considerate
dal tribunale a proposito dell'individuo portato in giudizio e ai complessi
ragionamenti svolti dal legislatore non corrispondono significazioni adeguate
nell'aspetto fattuale della prassi giudiziaria e dell'attività legislativa.
Ma possiamo considerare la questione anche sotto un altro aspetto. Attraverso
quali mezzi avviene la comunicazione sui contenuti delle leggi nella società
odierna? In primo luogo attraverso i mezzi di comunicazione di massa, che
sono organizzazioni complesse e che rappresentano soprattutto ben altri interessi
rispetto alla comunicazione dei contenuti di legge: li muove una combinazione
di interesse per le notizie e interesse per le vendite, ossia una combinazione
di notizie sensazionali e di notizie che producano un guadagno. Ciò
comporta una distorsione radicale nel trasmettere le informazioni, che non
risparmia le notizie sul crimine, in cui si enfatizzano gli aspetti relativi
alla devianza, alla violenza e al sesso (Aarsnes et al. 1974, Simonsen 1976,
From 1976, Hjemdal 1987; riassunto in Mathiesen 1986, p.p. 154 s.). E i dettagli
più o meno raffinati dell'operato di legislatori e giudici trovano
molte difficoltà ad essere veicolati e compresi.
Vi sono due aspetti in questo processo. Il primo si può chiamare "
filtraggio", e consiste nel fatto che i dettagli, le minime scelte che
formano la prassi quotidiana della politica criminale sono sistematicamente
o totalmente trascurati. Il filtraggio avviene concretamente in una serie
di punti nodali dell'organizzazione dei media: nella relazione tra i giornalisti
e le loro fonti, nelle riunioni di redazione in cui si stabiliscono quotidianamente
le priorità, dietro le scrivanie di chi sulle priorità prende
le decisioni improvvise.
Possiamo chiamare il secondo aspetto "focalizzazione": filtrata
che sia l'informazione, si concentra l'attenzione mettendo sotto una «dente
di ingrandimento» il cuore della notizia. Comprende la scelta della
notizia di apertura, la sua collocazione, le immagini che l'accompagnano,
le tecniche impiegate per metterla in evidenza, così come l'enfatizzazione
drammatica del tema mediante servizi a puntate, la costruzione di uno sfondo
alla notizia con materiale accessorio, eccetera. (confer Hernes 1984; Mathiesen
- Hjemdal 1986). Mediante il filtraggio si lascia in ombra tutto ciò
che non è sensazionale e drammatico; attraverso la focalizzazione,
ciò che è drammatico e sensazionale viene posto in luce. La
focalizzazione avviene sullo sfondo del filtraggio, della prima sgrossatura
delle notizie. Il materiale non sensazionale e non drammatico che sopravvive
al filtraggio vi rimane, senza subire ulteriori filtri. Ma la focalizzazione
fa sì che riceva scarso rilievo.
Ciò avviene in grado diverso a seconda del mezzo di comunicazione,
per esempio la radio, la televisione o le diverse pubblicazioni periodiche.
Le ricerche di sociologia dei media danno motivo di sostenere che entrambi
i processi si esasperano nei media odierni e che è in atto una tendenza
all'omologazione tra i diversi media per quanto riguarda il contenuto dei
messaggi trasmessi. Cercare le ragioni di questa tendenza ci porterebbe troppo
lontano (ma si può consultare Mathiesen 1986, capp. 4 e 6, che ne discute
in altro contesto). Il punto è che l'esasperazione dei processi e l'omologazione
tra i media rendono possibili le considerazioni generali sull'insieme dei
media. E a causa delle modalità con cui sono trasmesse, filtrandole
e focalizzandole, le notizie di argomento giuridico e penale, è soprattutto
il materiale sensazionale e drammatico - rivolgimenti improvvisi delle leggi,
scabrose vicende giuridiche - a raggiungere gli strati più ampi della
popolazione. Le piccole scelte, le decisioni dell'apparato giuridico sulla
criminalità comune, che costituiscono il grigio insieme dei tentativi
quotidiani di lanciare messaggi di prevenzione generale, si trasmettono in
parte men che minima e la comunicazione che le riguarda è fondamentalmente
distorta.
"Struttura di segni e contesto d'interpretazione"
Iniziamo con un passo del già citato articolo di Andenæs: «Credo
che davvero molti possano testimoniare, sulla base della propria esperienza,
che il rischio di cattura e di sanzioni negative gioca un ruolo nel caso di
violazioni della legge come evasione fiscale, contrabbando, guida in stato
di ebbrezza e violazioni del codice della strada» (Andenæs 1977,
p. 229). Il punto di partenza è dunque la «propria esperienza».
Andenæs evidentemente limita i generi di infrazione sui quali la sua
«propria esperienza» getta in questo caso una luce. Egli sottolinea
inoltre che «c'è naturalmente qualche rischio nel generalizzare
a partire da se stessi. È importante conoscere altri gruppi e il loro
atteggiamento» (ivi). La «propria esperienza» rimane comunque
fondamentale:
«C'è stata, secondo me, una sottovalutazione da parte dei criminologi
del significato dei ragionamenti intorno alla prevenzione generale basati
sul "common sense", sul fondamento di usuali fatti psicologici e
dell'esperienza di ogni giorno» (ivi).
La questione è quanto sia davvero valida la «propria esperienza»
come punto di partenza. La sociologia fenomenologica ci suggerisce che il
"common sense" è il mondo della vita (nota 4) delle esperienze
quotidiane, che sono talmente correnti da essere date per scontate. Si tratta
di ragionamenti fondati su quella conoscenza così universalmente accettata
che nessuno la mette in discussione (confer Mathiesen 1977, p.p. 3344). Quel
che specialmente si tende a non mettere in discussione "è proprio
la generalizzazione della propria esperienza agli altri". Si dà
per scontato che gli altri esperiscano il mondo esattamente allo stesso modo.
Non si riesce a togliersi da questa precomprensione e porsi genuinamente nella
prospettiva che il punto di vista dell'altro offre.
Ma proprio chiarire questo è determinante, se intendiamo affrontare
l'effetto di prevenzione generale della pena, o meglio la sua assenza. I giuristi
non sono solitamente così abili a chiarirlo, perché i loro ragionamenti
sulle situazioni di fatto sono basati così poco sui dati empirici,
e così tanto sul "common sense" (Graver 1986). Sembrano esservi
ragionevoli motivi per generalizzare così: quanto più si ha
a che fare con gruppi sociali che, per svariati motivi, presentano un alto
tasso di criminalità, tanto meno la pena è efficace dal punto
di vista della prevenzione generale. Ma potremmo anche dirla così:
riguardo a coloro che per svariati motivi si trovano al sicuro, dalla parte
«giusta», il pensiero della punizione opera forse come un efficace
ostacolo aggiuntivo. Ma più ci si avvicina al confine della trasgressione,
più è neutralizzato l'effetto di prevenzione generale della
pena. È una generalizzazione sostenuta da una buona quantità
di materiale empirico, anche se questo probabilmente richiede di essere differenziato
e sostanziato ulteriormente.
Sappiamo che una gran parte della popolazione media norvegese ha commesso
azioni criminali, nemmeno trascurabili. La criminalità è in
tal senso un fenomeno quotidiano (Stangeland - Hauge 1974). Sappiamo comunque
anche che chi intraprende una «carriera» criminale, chi ha forte
recidività e finisce per scontare lunghe condanne nei nostri carceri,
accumula su di sé le stigme di problemi sociali e personali - alcolismo,
bassa istruzione, ambiente familiare difficile, eccetera (Bödal 1962,
1969; Christie 1975). Sappiamo anche che un gruppo relativamente ristretto
di giovani, carichi di problemi, è responsabile di una gran parte dei
reati gravi commessi in tale fascia d'età (Balvig 1984c). Il punto
è che di fronte a individui con tali problemi, in un ambiente problematico
che innalza le probabilità di comportamento criminale, resta neutralizzato
anche l'effetto di prevenzione generale della pena. Insomma, la prevenzione
generale funziona per quelli che non ne hanno bisogno, ma per quelli che ne
hanno bisogno non funziona.
Questo concetto fondamentale può integrarsi nel nostro quadro di sociologia
della comunicazione. La struttura di segni nella quale giunge il messaggio
della prevenzione generale e all'interno della quale è interpretato,
il quadro interpretativo nel quale il messaggio è captato e compreso,
sono tali che il segnale è inefficace e il messaggio non viene ricevuto
come l'ha inteso chi lo trasmette: sullo sfondo dei problemi di alcolismo,
famiglia, lavoro e istruzione, che costituiscono la struttura di segni e il
quadro interpretativo reali, il segnale non è interpretato come (la
minaccia di) una sanzione deterrente o come un messaggio di moralizzazione.
È interpretato piuttosto, per esempio, come un messaggio di repressione,
moralismo e rifiuto sociale.
Abbiamo discusso fin qui di quanto si può grossolanamente chiamare
«criminalità tradizionale» - reati contro la proprietà,
rapine e scippi, piccoli reati connessi con l'uso di stupefacenti. Si può
ragionare analogamente nel caso della moderna criminalità economica.
Quella parte degli operatori economici che si tiene lontana da attività
irregolari o illegali grazie ai legami normativi, vive in una struttura di
segni normativa o in un quadro interpretativo morale che fa della pena una
minacciosa sanzione (deterrente) o un ragionevole messaggio moralizzatore.
Coloro che non sono trattenuti dalle norme si muovono in una struttura di
segni che neutralizza l'effetto deterrente delle pene. Insomma, come abbiamo
già osservato, la prevenzione generale funziona per quelli che non
ne hanno bisogno, ma per quelli che ne hanno bisogno non funziona.
Se ora si studia una situazione nella quale l'aspetto fattuale del messaggio
trasmesso è tale che il messaggio stesso rimane oscuro, una situazione
nella quale la significazione data aumenta considerevolmente quest'oscurità,
una situazione infine nella quale la struttura di segni e il quadro interpretativo,
"tra coloro che si comportano in maniera criminale", è tale
che l'effetto deterrente, moralizzatore o condizionante viene neutralizzato,
bisogna aspettarsi un alto grado di incertezza e oscurità - e incoerenza
- nei risultati della ricerca: circostanza generalmente trascurata e considerata
invece una proprietà deplorevole della situazione di ricerca, proprietà
che potrebbe essere annullata da metodi migliori o da ricerche più
ampie e approfondite. In tal modo, la ricerca in questo ambito si adegua ad
un atteggiamento comune alla ricerca in generale, secondo cui sono gli strumenti
di ricerca manchevoli che rendono la conoscenza incerta e oscura, mentre la
realtà è in effetti certa e chiara.
L'aspettativa di risultati finali certi e chiari è profondamente radicata
nella ricerca ed è ben rispecchiata dall'uso di analisi statistiche
nelle indagini sociologiche per ottenere risultati chiari e sicuri. Il processo
di comunicazione nell'ambito della prevenzione generale rende necessariamente
i risultati incerti e controversi e le loro connessioni, nel migliore dei
casi, deboli. Ricerche diverse si elidono a vicenda, solidi risultati si sgretolano
col tempo, e questo perché la realtà stessa è cosi. Il
processo di comunicazione in se stesso e perciò un importantissimo
motivo per sollevare dubbi sull'effetto di prevenzione generale della pena
assai più forti di quanto non si faccia solitamente.
- Il problema morale
La prevenzione generale non solleva soltanto una questione di efficacia
della pena, ma anche un problema morale, che ha due aspetti. In primo luogo,
qual è il fondamento morale per punire qualcuno, magari duramente,
allo scopo di impedire a una persona affatto differente di compiere azioni
analoghe alle sue? Questa formulazione è universale e non tiene conto
di chi sia punito, se sia ricco o povero, forte o debole; in assoluto, si
può sacrificare qualcuno affinché qualcun altro sia libero?
La questione viene sì sollevata nella teoria del diritto penale, ma
è sovente attenuata mettendo l'accento su diverse altre considerazioni:
si sostiene che differenti condizioni - la gravità dell'azione che
si cerca di prevenire, l'importanza della retribuzione nei confronti di colui
che viene punito - entrano insieme in una «valutazione complessiva»,
in cui si cerca di salvare il risultato finale: la prevenzione generale. Ma
il problema morale rimane ugualmente, spinoso e irrisolto, anche se dissimulato.
In secondo luogo, portiamo il primo aspetto all'estremo: quale fondamento
morale abbiamo per punire qualcuno, magari duramente, allo scopo d'impedire
a una persona del tutto differente di commettere azioni equivalenti, quando
chi è punito è perlopiù una persona povera e emarginata,
bisognosa più di assistenza che di punizione? Vi sono buone ragioni
empiriche per sollevare la questione morale in questa forma, più radicale.
Sappiamo al giorno d'oggi che il sistema penale grava particolarmente su quelli
che stanno «in basso»: in genere, quanto più è pesante
la pena applicata, tanto più poveri ed emarginati sono coloro cui viene
applicata. Questo ha a che fare con una circostanza menzionata nel paragrafo
precedente, ossia che i più esposti a commettere azioni criminali e
finire con lunghe condanne detentive hanno un cumulo di gravi problemi sociali
e personali (confer Balvig 1984c). Ma in aggiunta vi è anche un altro
motivo, più legato alla struttura del sistema: la caratteristica tendenza
del sistema penale a ricalcare lo squilibrio sociale.
Il carcere è soprattutto pieno di detenuti appartenenti agli strati
inferiori della classe lavoratrice, che hanno commesso piccoli furti e altri
reati comuni. L'evidente connotazione di classe del sistema penale può
essere spiegata come risultato di un processo in cui l'eguaglianza formale
posta dal diritto penale e l'eliminazione di ogni riferimento alla classe
sociale d'appartenenza non servono in realtà a frenare davvero l'ineguaglianza.
Il primo stadio del processo è la "definizione giuridica del comportamento
criminale". La legge è uguale per tutti, ma «nella misura
in cui la nostra è una società di classe, anche la legge sarà
caratterizzata in tal modo. La legge non minaccia né il capitale privato
né lo sfruttamento internazionale delle nazioni deboli» (Christie
1975, p. 118). La legge, al contrario, colpisce il furto e i reati connessi,
tipici degli strati inferiori della classe lavoratrice.
«Mentre le azioni antisociali commesse da un armatore, in accordo con
il diritto vigente, sono solitamente legali, azioni equivalenti commesse da
un vagabondo solitamente non lo sono affatto» (Mathiesen 1979, p. 108).
L'altro elemento del processo riguarda il "rischio di cattura".
Anche se il diritto penale è organizzato come abbiamo descritto sopra,
chiaramente anche persone degli strati abbienti commettono azioni sanzionate
penalmente. Ma le loro illegalità sono solitamente «meno visibili,
perché avvengono in un quadro organizzativo complesso e con tecniche
estremamente difficili da osservare. Il furto con scasso avviene in forma
assolutamente elementare. Che un'azienda riceva denaro o altri compensi -
che non compaiono nel bilancio - per affidare alla ditta A invece che alla
ditta B una commessa, avviene più silenziosamente e in un'incerta zona
di confine tra il regalo e la corruzione» (Christie 1975, p.p. 118-119).
Lo stesso vale nel caso di frodi sulle concessioni, operazioni su conti bancari
fittizi, bancarotta fraudolenta, frode in bilancio, appropriazione indebita,
crimini valutari, danni ambientali, eccetera.
Il terzo elemento riguarda la "diversa capacità di badare a se
stessi" e aggiustare la situazione in caso di sospetti. Chi evade l'imposta
sui redditi o quella sul valore aggiunto, anche se scoperto, ha migliori probabilità
di cavarsela che un ladro o un barbone. Tali diversità permeano ogni
piega del sistema di stratificazione sociale e di classe. Una ricerca norvegese
mostra che i casi di evasione dell'IVA denunciati dalle autorità fiscali
riguardano prevalentemente piccole aziende e operatori privati; non c'è
ragione di credere che le grandi aziende non commettano analoghi reati, ma
le piccole compagnie hanno minori risorse disponibili e quindi minore possibilità
di patteggiare con le autorità fiscali (Hedlund 1982).
Il quarto elemento consiste in una serie di diversi "ulteriori meccanismi
selettivi" riscontrabili nel modo di operare della polizia e dell'apparato
giudiziario. Per esempio, la maggior parte delle risorse e dell'attività
di polizia sono indirizzate a contrastare la criminalità comune,
mentre solo una piccola parte di esse è impegnata a perseguire i reati
di chi sta «in alto». E quando incappano nella rete della polizia,
i membri delle classi superiori hanno migliori probabilità che un ladruncolo
o un vagabondo di procurarsi dei buoni legali. Infine, che accade in tribunale?
C'è anche qui diversità di giudizio? La questione non è
facile da affrontare perché ben di rado ci troviamo di fronte a casi
consimili. E quando si cerca di costruire un campo di casi confrontabili,
con alcune caratteristiche costanti, se ne possono raccogliere un numero talmente
piccolo da non avere significatività statistica. Una ricerca di Vilhelm
Aubert (1972, cap. 8) mostrava che, per i medesimi reati, persone di bassa
estrazione sociale ricevevano con maggior frequenza dure condanne rispetto
a persone di estrazione elevata, anche quando si tenesse conto di diversi
altri fattori. Ma il numero dei casi restava scarso e una difficoltà
della ricerca era che gli imputati erano classificati a seconda delle figure
di reato, il che può occultare importanti differenze. Non è
dunque semplice valutare se i giudici si comportino diversamente in casi consimili
a seconda della condizione sociale degli imputati. Ma non sono sicuro che
quest'ultima sia la questione principale. Il punto centrale è che i
giudici si trovano raramente di fronte a casi di questo genere. Attraverso
il processo che abbiamo delineato, in sostanza, coloro che vengono portati
in tribunale provengono già in anticipo perlopiù dagli strati
sociali inferiori. Sono perciò costoro che vanno a finire in prigione,
siano i giudici equanimi oppure no.
Questo ci riporta al problema morale da cui eravamo partiti. Il processo,
interno al sistema, che fa sì che l'eguaglianza giuridica formale non
riesca a contrastare efficacemente l'ineguaglianza (ma piuttosto a nascondere
l'ineguaglianza reale) enfatizza il problema morale: se noi irroghiamo le
pene per motivi di prevenzione generale, sacrifichiamo persone in massimo
grado povere ed emarginate per mantenerne altre sulla retta via.
I legislatori e i giudici sostengono che l'argomento in favore della prevenzione
generale è giustificato, in parte, perché si applica ad altre
persone della medesima estrazione sociale di coloro che vengono condannati.
Come esempio si porta quello dell'uso di stupefacenti: si sacrificano alcuni
poveracci per tenere in riga altri poveracci. Si potrebbe agire in modo più
radicale per modificare la situazione complessiva delle classi non abbienti,
in modo che il reato non costituisca la soluzione più a portata di
mano, e invece si tenta di disciplinare la maggioranza dei non abbienti sanzionandone
alcuni. In parte, però, l'argomentazione in favore della prevenzione
generale ha anche un orizzonte più ampio - l'intenzione generale è
di migliorare quello che viene chiamato «il rispetto delle leggi da
parte di tutti». Ciò significa che anche tutt'altre categorie,
chiaramente benestanti, sono incluse nei gruppi cui si indirizza il messaggio
della prevenzione generale, e si cerca di tenere a bada gli strati sociali
superiori esponendo a sofferenze la popolazione meno abbiente. Di entrambe
queste tendenze, non so quale sia più problematica dal punto di vista
morale. https://krootez.com/
- Quando anche i suoi sostenitori sono contrari
A questo punto, può essere interessante approfondire il fatto
che gli stessi sostenitori della prevenzione generale sottolineano gli argomenti
ad essa contrari quando è nel loro interesse. Benché usino una
terminologia diversa dalla nostra, i concetti sono i medesimi. Ad esempio,
si sottolineano volentieri i limiti delle ricerche empiriche: J. Andenæs,
in un importante e ampio articolo sulle pene per guida in stato di ebbrezza
scritto quando la normativa prevedeva una pena minima di ventun giorni di
carcere per un tasso ematico dello 0,5%, di alcool, si esprimeva in favore
di un minor automatismo nell'infliggere pene detentive e un maggior uso di
sanzioni non detentive nei casi meno gravi (Andenæs 1982). Nell'articolo
egli si interrogava su quali sanzioni alternative proporre: «"Come
in tutte le questioni relative alla prevenzione generale", anche in questo
caso si è indirizzati verso ragionamenti generali, con una buona dose
di congetture» (ivi, p. 129; corsivo mio). Torneremo a parlare del suo
punto di vista sulla questione. Per ora vogliamo sottolineare soltanto l'"
incertezza" che Andenæs mette in risalto a proposito delle nostre
conoscenze sugli effetti di prevenzione generale della pena, e che vale «in
tutte le questioni relative alla prevenzione generale». Sono espressioni
forti, impiegate in un contesto nel quale Andenæs ha appunto delle ragioni
per sminuire l'effetto di prevenzione generale della pena.
Inoltre i tre principali argomenti discussi in precedenza a proposito della
comunicazione sono toccati da Andenæs nel medesimo articolo, anche se
non sono messi in relazione con gli aspetti incerti e oscuri dei risultati
empirici, come abbiamo fatto noi. Come primo punto abbiamo l'argomento secondo
il quale bisogna distinguere tra i bruschi cambiamenti generali nel quadro
delle sanzioni rivolte a crimini particolari e atipici e le piccole differenze
introdotte in sanzioni di applicazione quotidiana, discusso nel paragrafo
sul versante fattuale del messaggio:
«Bisogna distinguere tra l'"effetto totale" dell'insieme delle
pene per la guida in stato di ebbrezza e l'"effetto marginale" che
è legato ad ogni particolare sanzione. Non ho dubbi sul fatto che nell'insieme
sortiscano un notevole effetto, ossia che vi sarebbero molti più automobilisti
in stato di ebbrezza se decidessimo di abolirle tutte insieme. Tutt'altra
questione è quale risultato produrrebbe sostituire la detenzione con
ammende molto elevate» (ivi, p. 129).
Quanto al fatto che il messaggio è necessariamente recepito in modo
diverso da quello in cui era inteso da chi lo trasmette, analizzato da noi
- benché diversamente -nel paragrafo sul filtraggio e la focalizzazione,
leggiamo nell'articolo di Andenæs:
«Sono convinto che un tale cambiamento avrebbe un effetto non trascurabile
sulla sicurezza del traffico. La pena minacciata sarà ancor più
percepibile. Bratholm e Hauge hanno condotto poco tempo fa un'indagine con
interviste, per stabilire soltanto quale ammenda la gente fosse disposta a
pagare per evitare il carcere in caso di guida in stato di ebbrezza. Le cifre
ricavate erano stupefacentemente basse: pare che una percentuale rilevante
ritenesse che un'ammenda pari a un mese di stipendio fosse una punizione maggiore
che tre settimane di carcere. Resta da chiedersi se in realtà, davanti
a una simile scelta, sarebbero in molti a preferire una forte ammenda al carcere.
Ma per quanto riguarda la prevenzione generale, la questione è come
la gente valuti la minaccia della pena» (ivi, p.p. 129-130)
Il terzo punto consiste nei problemi relativi alla generalizzazione dell'esperienza
personale. Andenæs, che è solito a tali generalizzazioni, sostiene
tra l'altro:
«C'è un immediato pericolo di sovrastimare il valore di prevenzione
generale delle nostre rigide norme sulla guida in stato di ebbrezza, perché
chi interviene abitualmente nel dibattito pubblico tende a generalizzare dalla
propria esperienza e da quella della cerchia delle proprie conoscenze immediate.
Politici, giudici, poliziotti, professori, esperti di problemi del traffico
- questi sono gruppi che considererebbero una condanna per guida in stato
d'ebbrezza una catastrofe sociale e che hanno inoltre una notevole capacità
di controllare gli impulsi del momento. Ma ciò che vale per questi
gruppi, non è detto che valga per gli appartenenti ad altri gruppi,
per esempio i giovani, o persone prive di controllo sul proprio consumo di
alcool» (ivi, p. 133).
Si possono nutrire dei dubbi sul fatto che solo i professori e gli esperti
del traffico temano una condanna come una «catastrofe sociale».
Perché mai i giovani, ad esempio, che hanno di fronte a sé una
carriera e ai quali sarebbe forse ritirata a lungo la patente, non dovrebbero
pensarla allo stesso modo, resta inspiegato: la descrizione è assai
condiscendente verso gli altri gruppi.
Ma il punto principale è che il pericolo è connesso con la generalizzazione
«dalla propria esperienza o da quella della cerchia delle immediate
conoscenze», questione discussa a proposito delle strutture di segni
e del quadro di interpretazione. Poiché manca l'inquadramento comunicativo
della prevenzione generale, le asserzioni sui pericoli della generalizzazione
rimangono qui campate in aria. Sono però le medesime. Andenæs
lo rende quanto possibile esplicito:
«La nostre rigide norme circa la guida in stato d'ebbrezza hanno prodotto
un buon effetto di prevenzione generale sulla maggior parte degli automobilisti.
Perciò il numero dei guidatori sotto l'effetto dell'alcool è
basso. Ma si tratta perlopiù di persone che anche senza le rigide norme
di legge avrebbero moderato il proprio consumo di alcoolici, anche se avrebbero
forse superato il tasso ematico del 0,5 per mille, e che nonostante gli effetti
dell'alcool avrebbero mantenuto il proprio senso di responsabilità
e forse avrebbero cercato di compensare evitando situazioni di traffico difficile.
Negli incidenti sono in genere coinvolti guidatori che hanno fatto un grave
abuso di alcool, e sono persone con gravi problemi di alcoolismo o serie difficoltà
di adattamento sociale. Si tratta di gruppi che sono quotidianamente oggetto
dell'azione deterrente e moralizzatrice della legge. In breve: è ragionevole
credere che l'effetto di motivazione indotto dalla legge sia più forte
verso coloro che avrebbero causato comunque un modesto rischio di incidenti
stradali anche se avessero superato il tasso alcoolico consentito» (ivi,
p. 132).
Andenæs si avvicina molto al punto di vista che abbiamo illustrato:
la prevenzione generale serve a chi non ne ha bisogno.
In conclusione notiamo che, oltre all'incertezza dei risultati della ricerca
e alle difficoltà del processo di comunicazione, i sostenitori della
prevenzione generale affrontano il problema morale. In effetti Andenæs
è vago in proposito, coerentemente con la propria visione generale,
ma in ogni caso giunge ad affermare - dopo aver sostenuto che l'effetto di
prevenzione generale della pena resta per lui il motivo principale per conservare
il sistema penale - che «non desideriamo il rispetto delle leggi "ad
ogni costo". Il riguardo per la prevenzione generale deve essere bilanciato
dal riguardo per la giustizia e l'umanità» (ivi, p. 129). In
altre parti del testo egli affronta anche l'estrema irragionevolezza di fondare
sulla prevenzione generale l'uso della pena detentiva per la guida in stato
di ebbrezza.
Mi domando allora: perché Andenæs e gli altri che la pensano
come lui non impiegano i medesimi argomenti nel caso di altri gruppi ai quali
non si applicano certo peggio? Prendiamo i giovani tossicodipendenti, i vagabondi
che commettono piccoli furti, la criminalità giovanile in genere: si
può dire riguardo a questi gruppi, altrettanto bene dei guidatori sotto
l'effetto dell'alcool, che i risultati della prevenzione generale sono tali
per cui «anche qui ci si trova indirizzati verso ragionamenti generali,
con una buona dose di congetture» (ivi). Si può dire altrettanto
bene che bisogna «distinguere tra l'"effetto totale" dell'insieme
delle pene e l'"effetto marginale" che è legato ad ogni particolare
sanzione» (ivi). Si può ancora dire che «per quanto riguarda
la prevenzione generale, la questione è come la gente valuti la "minaccia"
della pena» (ivi, p. 130). Si può infine dire altrettanto bene
che c'è «un immediato pericolo di sovrastimare il valore di prevenzione
generale [...] perché chi interviene abitualmente nel dibattito pubblico
tende a generalizzare dalla propria esperienza e da quella della cerchia delle
proprie conoscenze immediate» (ivi, p. 133) e che «non desideriamo
il rispetto delle leggi "ad ogni costo"» (ivi, p. 129). Presi
insieme, tali argomenti offrono dei forti motivi in favore di una riduzione
delle pene anche per questi altri gruppi.
Altrettanto vale per altri argomenti che compaiono nell'esposizione di Andenæs:
confronti internazionali (che mostrano come anche sbalzi rilevanti nel livello
della pena per guida in stato di ebbrezza non determinano paragonabili dislivelli
nelle violazioni); l'aumentata conoscenza dei vari gradi di influenza dell'alcool
assunto (che è analoga alla maggior conoscenza degli effetti dei reati
comuni rispetto ad altre minacce sociali come gli incidenti sul lavoro, gli
incidenti stradali, l'inquinamento); eccetera. Ma ancora una volta, questi
argomenti rimangono inutilizzati e silenti. I sostenitori della prevenzione
generale usano questi argomenti solo quando vogliono. È ben difficile
capire il principio per cui ci si limita a scrivere in favore dei guidatori
in stato di leggera ebbrezza.
- Si può difendere il carcere con la prevenzione generale?
Abbiamo scandagliato via via il problema della prevenzione generale.
I risultati della ricerca sono molto incerti e confusi. Il processo di comunicazione
è molto difettoso e problematico, il che spiega l'incertezza e la confusione
dei risultati della ricerca e permette di affermare che nel campo degli effetti
di prevenzione generale è la realtà stessa che è incerta
e confusa. Il problema morale è urgente. E gli stessi sostenitori
della prevenzione generale ripropongono questi argomenti quando hanno motivo
di andar contro la prevenzione generale stessa. Bisogna sottolineare ora altri
due punti.
Innanzitutto questi argomenti sono importanti nella loro combinazione. Ognuno
di loro può essere di per sé debole; il punto è che tutti
e tre i gruppi di argomenti "spingono nella stessa direzione". In
molti contesti sociali sorgono conflitti tra il rispetto dell'efficacia e
il rispetto delle esigenze morali: l'efficacia spinge in una direzione e la
moralità in un'altra. Così non è nel nostro caso, anzi
tutt'altro. Ciò significa che tutto il peso degli argomenti suggerisce
grande parsimonia nell'uso della pena come mezzo di controllo e dominio da
parte dello stato - suggerisce di enfatizzare l'impiego di mezzi alternativi.
Inoltre gli argomenti suggeriscono concordemente parsimonia nell'uso delle
forme di punizione più dolorose, come la pena carceraria che è
oggetto di questo libro. Ed è impossibile, sulla base della prevenzione
generale, trovare ragioni in favore dello sviluppo internazionale della carcerazione
(confer cap. 1). Neppure i risultati incerti e confusi della ricerca offrono
buoni argomenti, e nemmeno ciò che sappiamo del processo di comunicazione,
teoricamente ed empiricamente. Non vi sono argomenti buoni dal punto di vista
morale.
Si trovano piuttosto dei buoni motivi, considerando la questione dal punto
di vista della prevenzione generale, per contrarre il sistema carcerario e
restringerne l'uso. I risultati della ricerca, quanto sappiamo del processo
di comunicazione, il rispetto della moralità, sono argomenti tanto
più importanti quando il discorso riguarda quell'intervento così
dannoso e doloroso che è chiudere le persone in carcere. Mentre si
può sostenere che la marginalità dei risultati delle ricerche,
le manchevolezze del processo di comunicazione, le considerazioni morali,
presi insieme non sono così pesanti nei confronti di mezzi di punizione
meno dolorosi, sono in ogni caso ben più pesanti - alcuni direbbero
che sono decisivi - contro il carcere, dannoso e doloroso.
Insomma, anche sulla base della prevenzione generale il carcere trova una
debole difesa. Concludendo il capitolo sulla riabilitazione abbiamo citato
un'autorevole fonte governativa svedese che, con espressioni energiche, puntualizzava
come il miglioramento del reo mediante la pena sia un'illusione. Il rapporto
prosegue con una posizione altrettanto ferma sull'effetto di prevenzione generale
della pena detentiva:
«Il punto di partenza deve essere, in analogia con quanto detto sopra
[a proposito del fatto che il miglioramento del reo mediante la privazione
della libertà sia un'illusione, T. M.], il fatto che si può
motivare l'impiego della pena carceraria solo con ciò che solitamente
si chiama prevenzione generale e in parte anche nel quadro della difesa sociale.
Gli effetti della pena detentiva, in quest'ottica, sono comunque in gran parte
incerti. Così tutte le ricerche disponibili e i confronti internazionali
mostrano che lo sviluppo del crimine non ha alcuna relazione determinata al
livello di privazioni della libertà che si mantiene e alla loro durata.
[...] non vi sarebbe alcuna esagerazione nel sostenere che il significato
della politica criminale nei confronti dello sviluppo del crimine in quest'ottica
è relativamente marginale, se lo si mette in relazione con la politica
della famiglia e della scuola, con la politica occupazionale e sociale, con
la struttura e la funzione del sistema giudiziario in senso ampio, così
come naturalmente con la struttura economica e il ruolo del singolo nella
società. Nel complesso, operare per una società solidale, con
una migliore e più giusta distribuzione di salari, alloggi, istruzione,
condizioni di lavoro e cultura, è un'azione adeguata a prevenire i
rischi di disadattamento sociale, il quale spesso produce condizioni favorevoli
alla criminalità, e perciò è più significativa
della reazione penale a crimini già commessi» ("Regeringens
proposition" 1982-83: 85, p. 30).
Il minimo che si può pretendere dalle autorità è che
mettano seriamente in pratica tale corretto orientamento.
Note:
1. Con reati di poco conto abbiamo tradotto "bagatell forbrytelsen", che sono indicati nella letteratura criminologica internazionale come " mickey-mouse stuffs" e nei testi specialistici italiani come "reati bagatellari" [N.d.T.].
2. Abbiamo toccato in breve alcuni punti di quel ramo della scienza del linguaggio che si chiama semiologia -etimologicamente «scienza dei segni» -, i cui esponenti principali sono Ferdinand de Saussure, C. S. Peirce, Roland Barthes e Umberto Eco (confer ad esempio Barthes 1975; Fiske 1984).
3. Per esempio la polizia norvegese, il cui riarmo era stato proposto nel 1970 dal comitato competente presieduto da Andreas Aulie (Auliekomitéens instilling 1970) e bloccato con la nomina a ministro della giustizia di Inger Louise Valle, fu riarmata gradualmente e secondo linee analoghe alle proposte del comitato, ma per piccoli passi cumulativi che non sollevassero l'attenzione dei possibili oppositori.
4. Il mondo della vita, secondo la fenomenologia, è il mondo «già dato, del tutto naturalmente e a tutti noi [...] 'il' mondo comune a tutti» (Husserl 1936, trad. it., p. 151) in cui «viviamo intuitivamente» (ivi, p. 183) [N.d.T.].