Thomas Mathiesen
Perché il carcere?

Capitolo 4
Altre teorie della difesa sociale

- La neutralizzazione
In questo capitolo ritorniamo alle teorie che considerano il carcere come un mezzo per la prevenzione individuale, effettuata mediante la neutralizzazione o la deterrenza (cui si aggiunge la riabilitazione, trattata nel secondo capitolo). Come abbiamo già osservato (cap. 1), l'ordine della trattazione non è casuale. Durante gli anni Settanta, le teorie della riabilitazione furono prima combattute e poi messe da parte, mentre le teorie della prevenzione generale guadagnavano importanza. Ma negli anni Ottanta anche queste ultime sono state criticate e ha ripreso quota la prevenzione individuale, intesa ormai come neutralizzazione e in certa misura come deterrenza. È una teoria vecchia, ma ugualmente è tornata in auge: ogni volta che le teorie predominanti sono attaccate o vacillano, il sistema della politica criminale e i criminologi producono sempre nuove varianti delle vecchie teorie della difesa sociale.
Nella letteratura internazionale, il termine che indica la neutralizzazione è l'inglese "incapacitation". Esisterebbe quindi una «capacità» del criminale di commettere nuovi reati, che va ostacolata o diminuita mediante il soggiorno in carcere. L'idea di fondo è che il delinquente venga neutralizzato sottraendolo ai contatti sociali: proprio per questo si ricorre alla carcerazione, anche per lunghi periodi. Anche se accade di trovare associate neutralizzazione e riabilitazione, nella loro forma più pura le teorie della neutralizzazione sono immuni dall'ideale umanitario di aiutare i detenuti. Poiché negli anni Ottanta la riabilitazione è passata di moda, ormai il punto di vista dei fautori della neutralizzazione si incontra sovente espresso nella sua forma nuda e cruda. Affronteremo innanzitutto un problema di efficacia pratica, che concerne la precisione delle previsioni sulle quali la strategia di neutralizzazione è basata, e un problema di principio; entrambi, come vedremo, presentano a loro volta due aspetti. Poi descriveremo più concretamente due forme di neutralizzazione, che chiameremo neutralizzazione collettiva e selettiva. Entrambe saranno esaminate in relazione ai problemi precedenti e, alla fine, trarremo alcune conclusioni.

"La precisione"
Come si può predire nel modo più accurato possibile chi in futuro commetterà reati? Maggiore è la precisione, migliore sarà il risultato prodotto dal soggiorno in carcere, in quanto strumento di neutralizzazione; minore la precisione, peggiore il risultato. Ma quando la prognosi è scarsamente precisa, sorgono due tipi di difficoltà. Da una parte si può sbagliare per difetto, non condannando o condannando a una pena detentiva troppo breve soggetti con un alto rischio di recidiva, i quali presentano cioè un grave pericolo di commettere nuovi reati. Si parla, a questo proposito, di problema del "falso negativo": si prevede che il soggetto non tornerà a delinquere, e invece si verifica la recidiva. D'altra parte si possono condannare, anche a pene di lunga durata, soggetti con basso rischio di recidiva, cioè persone che presentano scarso pericolo di commettere nuovi atti contro la legge: si parla in questo caso di problema del "falso positivo", in quanto si prevede che vi sarà recidiva, e la recidiva non ha di fatto luogo.
Il criminologo norvegese Nils Christie ha prestato particolare attenzione a questi problemi. In una relazione di minoranza sulla proposta di introdurre nuove sanzioni per i criminali psichicamente disturbati, al posto delle attuali misure di sicurezza (nota 1), Christie passava in rassegna i risultati di ricerca disponibili all'epoca, distinguendo nell'ambito delle violazioni della legge tra quelle ordinarie o meno gravi, come i reati comuni contro il patrimonio, e quelle più rare o più gravi, come i crimini violenti o quelli sessuali (NOU 1974: 17, p.p. 126-146). Egli giudicava possibile prevedere con notevole sicurezza che quanti abbiano commesso molti reati contro la proprietà ne commetteranno degli altri, mentre è molto più difficile fare previsioni nel caso di autori di reati che comportino violenza fisica. «Su questa base non abbiamo a tutt'oggi alcun fondamento per prevedere un futuro comportamento pericoloso» (ivi, p. 128). Christie si è occupato specialmente del problema del "falso positivo":
«In particolare non riusciremmo ad evitare di incarcerare un gran numero di individui che di fatto non risulterebbero mai pericolosi [...] Se vogliamo incarcerare i pochi pericolosi, dobbiamo rinchiuderne moltissimi che non commetterebbero mai altre azioni pericolose" (ivi).
Per Christie e molti altri, il rischio del falso positivo costituisce una seria questione di principio: con quale diritto incarceriamo numerosissimi individui, di fatto non pericolosi, allo scopo di metterci al sicuro da pochi pericolosi? Ma indipendentemente da ciò, la neutralizzazione solleva di per sé un problema fondamentale: qual è la ragione di principio per condannare qualcuno a una pena detentiva in vista di azioni che, altrimenti, potrebbero essere o saranno commesse in futuro? Impedire azioni future non è presentato come uno scopo più o meno vago, ma come un'esplicita "motivazione" per condannare. Che ciò ponga un problema reale, risulta evidente considerando l'organizzazione del diritto penale.
Il codice penale definisce quali atti sono da considerare perseguibili nella nostra società. Tale regolamentazione ha due caratteristiche fondamentali. In primo luogo si stabiliscono le azioni da perseguire una volta commesse. Il codice e, più in generale, il sistema penale sono prevalentemente orientati al "passato": la pena è motivata da azioni già commesse. In secondo luogo si stabiliscono " specificamente" le azioni da perseguire, che sono la ragione della condanna a prescindere dalle cosiddette circostanze irrilevanti. Nella prassi giudiziaria si dà rilievo anche alle circostanze attenuanti o aggravanti (l'età è per esempio considerata talvolta un'attenuante), ma il principio fondamentale è chiaro: si deve essere condannati per quella determinata azione in sé. Il problema di principio della teoria della neutralizzazione è che si vuole condannare al carcere a causa di azioni che, altrimenti, potrebbero essere o saranno commesse "in futuro", servendosi di previsioni che si basano su analisi dell'individuo e della sua situazione "in generale". La teoria della neutralizzazione rompe in tal modo con i principi fondamentali del diritto penale: concentra l'attenzione sulle azioni future e sull'analisi degli individui e delle loro situazioni in termini generali, prendendole a motivazione della pena detentiva in generale, mentre dovrebbero esserlo solo in una minoranza di casi davvero particolari (nota 2).
I giuristi, sovente meno ossessionati dall'efficacia pratica di quanto non siano i politici e gli amministratori, chiamano quest'obiezione di principio il «problema della certezza del diritto». A rigore, si dovrebbero criticare nello stesso modo la prevenzione generale e la riabilitazione, perché anch'esse implicano la condanna del reo, o di altri, per azioni future e sulla base di valutazioni generali. Sono convinto che le obiezioni di principio vengono di rado sollevate apertamente in questi contesti perché, rispettivamente, la prevenzione generale poggia su fondamenta ideologiche molto forti, e la riabilitazione presuppone di attribuire al carcere un significato che va ben oltre la semplice e cruda reclusione. Così il loro orientamento al futuro, problematico in linea di principio, è reso meno percepibile; nondimeno esiste.
I principi del sistema penale con cui si scontra la teoria della neutralizzazione sono importanti almeno quanto, ad esempio, la presunzione di innocenza. Non si esagera, allora, se si dice che la neutralizzazione urta contro l'«etica» stessa del diritto penale. Non si può essere puniti per un'azione che non si è commessa, ne per circostanze che esulano dall'azione in sé: per il diritto penale questi sono principi fondamentali.
È opportuno precisare, infine, che il problema della precisione e quello di principio sono entrambi problemi di "grado". La precisione è variabile. Così pure le violazioni dei principi: più unilaterale è la condanna per azioni future, più generiche sono le motivazioni della previsione, tanto più violento è il conflitto con i principi di cui sopra. Il massimo grado di violazione dei principi si avrebbe nel caso in cui un individuo non fosse riconosciuto colpevole di alcun reato effettivamente commesso, ma fosse condannato solo in relazione ad azioni future, e non venisse posta alcuna restrizione per quanto riguarda le circostanze rilevanti, ma fosse preso in esame indiscriminatamente ogni aspetto della sua situazione. Nella nostra società non si è ancora arrivati a questo punto: secondo il nostro diritto penale, oltre alle altre motivazioni, deve sussistere in ogni caso almeno un reato effettivamente commesso perché possa svolgersi un processo. Ma, come vedremo in seguito, si trovano esempi di gravi violazioni dei principi. Forse siamo sulla strada per giungere a quegli estremi.

"Neutralizzazione collettiva"
Come detto in precedenza, possiamo distinguere tra neutralizzazione «collettiva» e «selettiva». La distinzione, una suddivisione grossolana le cui componenti si intersecano, e impiegata tra l'altro nel recente lavoro dell'americano Andrew von Hirsch sulla neutralizzazione e la giustizia nel sistema penale (von Hirsch 1986; confer anche Blumstein et al. 1986). La neutralizzazione collettiva è la più semplice delle due forme. Il punto fondamentale è che la pena detentiva, eventualmente di lungo periodo, viene applicata ad ampie categorie di persone (autori di reati gravi, criminali con elevata recidività, eccetera) senza fare alcun tentativo di previsione su quali tra loro risultino ad alto rischio. Togliendo dalla circolazione tutti i componenti di tali categorie per un determinato periodo di tempo, magari lungo, gli alfieri della neutralizzazione collettiva pretendono che si ottenga un effetto di neutralizzazione.
A metà degli anni Settanta nell'ambiente criminologico si faceva un gran parlare di neutralizzazione collettiva, che veniva in buona misura associata con la prevenzione generale allora in auge. Il criminologo conservatore americano James Q. Wilson era, all'epoca, il principale esponente internazionale di tale punto di vista, con la prima edizione del suo libro "Thinking about crime" (Wilson 1975, p.p. 173-174, 198 s.).
Egli riteneva per esempio che si potesse, concentrandosi sui delinquenti recidivi, far scendere il tasso di rapine di più del 20% (ivi, p. 199). Wilson si esprimeva in forma assolutamente ipotetica, basando le proprie previsioni, con argomenti vaghi, su un modello statistico sviluppato da Reuel e Shlomo Shinnar (Shinnar - Shinnar 1975; Wilson 1975, p.p. 200-202; confer anche von Hirsch 1986, p. 116). Analizziamo qualche dettaglio del modello.
Si presupponeva innanzitutto che la gran massa dei reati, compresi quelli i cui autori restano ignoti, fossero commessi da persone che vengono catturate e condannate almeno una volta. Si presupponeva altresì che questo gruppo fosse responsabile anche del gran numero di reati non attribuibili. Perciò, si diceva, per abbassare il livello sociale di criminalità diventa importante impedire che proprio chi è stato condannato violi nuovamente la legge. Ciò si può ottenere aumentando la probabilità che venga arrestato e incarcerato, oppure prolungando i tempi di detenzione. Che se ne ottenga un vantaggio, sotto forma di un minore tasso di criminalità, dipende in altre parole dall'esistenza di un alto tasso medio di criminalità per i singoli criminali in libertà appartenenti ai gruppi di cui sopra (confer per esempio Shinnar - Shinnar 1975, p.p. 597, 606 s.). In realtà il tasso è "sconosciuto" (ivi, p. 589) e non appena si presuppone un tasso inferiore, il vantaggio conseguibile cade verticalmente. Mancano dati empirici accettabili su questo punto decisivo. «Dopo che è emersa questa difficoltà, è crollato l'entusiasmo per la neutralizzazione collettiva» (von Hirsch 1986, p. 116).
In Svezia si è portato avanti per alcuni anni un esperimento che, pur avendo tutt'altro scopo, di fatto è servito a gettare una luce sui problemi della neutralizzazione collettiva. Il primo luglio 1983 venne introdotto in Svezia un sistema di rilascio automatico sulla parola ("on parole") a metà della pena per la gran parte dei detenuti. La principale eccezione riguardava i condannati a pene superiori a due anni per «crimini particolarmente gravi» (che avessero comportato, intenzionalmente o meno, pericolo per la vita o l'incolumità altrui), quando si potesse presumere un elevato rischio di recidiva specifica (per lo stesso tipo di reato) dopo il rilascio. In tali casi si poteva ottenere il rilascio dopo aver scontato due terzi della pena. Pur con questa eccezione, la riforma era applicabile a chi avesse già commesso reati tali da comportare una condanna penale senza condizionale. Tra i motivi della riforma era l'affollamento delle carceri. Il numero dei detenuti subì considerevoli variazioni: nelle carceri svedesi, durante l'anno giudiziario 1982-83, se ne registravano mediamente 4024 (escludendo quanti si trovassero in detenzione preventiva); nel 1983-84 erano mediamente 3505, con una diminuzione assoluta di 519, ossia il 13%. Confrontando i dati al primo giugno, per gli anni 1983 (un mese prima dell'entrata in vigore della riforma) e 1984, la diminuzione è del 17%.
Naturalmente sorse il problema se la riforma avesse risvolti sulla criminalità in Svezia. Il Consiglio per la prevenzione del crimine (BRÅ) intraprese una ricerca in merito (Ahlberg 1985). La procedura era, in breve, questa: innanzitutto si calcolava il numero di «mesi di libertà» spettanti a ogni detenuto giunto in carcere nella seconda metà del 1983 e lo si paragonava con la situazione che si sarebbe potuta avere senza la riforma; ne risultava che erano stati creati circa 3200 «mesi di libertà» extra. Poi si calcolava, per ogni «mese di libertà», il numero presunto di reati denunciati commessi da ex-detenuti durante il primo anno dopo il rilascio, sulla base di documentazione relativa a un campione di persone rilasciate in un periodo precedente all'entrata in vigore della riforma. Riferendo questo risultato ai 3200 «mesi di libertà» aggiuntivi dovuti alla riforma si otteneva il tasso di criminalità che ci si attendeva nei primi sei mesi dopo la riforma, stimato in poco più di 4000 reati denunciati. Nella seconda metà del 1983, il cosiddetto «furto d'appartamento» (che occupava un posto centrale nella ricerca) risultava incrementato in Svezia di circa 2000 casi denunciati, un aumento dovuto a diverse cause. La quota dovuta alla riforma si poteva calcolare col metodo suddetto in 800 casi, cioè circa il 40% dell'aumento totale: una percentuale non trascurabile.
Che cosa ne ricaviamo sulla neutralizzazione collettiva? In questo caso la durata della pena è diminuita, invece di aumentare come dovrebbe se si trattasse di un tentativo di neutralizzazione. La riforma offre delle indicazioni in negativo, ossia ci informa sull'eventuale carenza di neutralizzazione. A un primo esame sembrerebbe che la carenza fosse grave. Ma il primo esame può essere ingannevole. 14 mila reati aggiuntivi e la quota del 40% di incremento dei furti in appartamenti seguivano il rilascio di un'ingente quantità di detenuti (il 13-17 % della popolazione carceraria) nello stesso momento, immediatamente dopo la riforma: un caso pressoché unico. Gli effetti sulla neutralizzazione si sarebbero dovuti calcolare rispetto al normale aumento di rilasci causato dalla riforma, distribuito nel corso dell'anno. In tal modo si sarebbe visto che l'effetto di neutralizzazione era diminuito "in misura minima". Il rapporto del BRÅ concludeva che non appena il rilascio si fosse normalizzato e distribuito nell'anno, i suoi effetti sarebbero stati talmente lie vi da risultare scarsamente percepibili nelle statistiche. Il tasso di criminalità sarebbe ancora salito a causa della riforma, ma con effetti trascurabili. «Gli effetti sul numero dei crimini denunciati sono dunque un fenomeno che scomparirà relativamente in fretta. Dopo che così tanti detenuti sono stati rilasciati in una volta sola si è verificato per un determinato periodo l'aumento di certi tipi di crimine. Col tempo, poiché i rilasci torneranno alla normalità e saranno distribuiti uniformemente nell'anno, gli effetti verranno ad essere di un ordine di grandezza tale da non comparire quasi nelle statistiche. In quanto esiste un effetto di neutralizzazione (l'effetto sulla criminalità che proviene, per esempio, dall'incarcerazione), il livello futuro sarà, anche se marginalmente, leggermente maggiore che se si lasciassero invariati i termini della detenzione» (Ahlberg 1985, p. 21). In breve, a causa della riforma la pena carceraria è diventata significativamente più breve per la maggior parte dei detenuti, ma anche un accorciamento così evidente della durata della pena ha comunque effetti insignificanti sulla neutralizzazione, quando si sia superato il periodo di transizione.
Si può aggiungere che il materiale relativo agli Stati Uniti mostra risultati simili, dovuti però a un aumento del numero di detenuti invece che a una diminuzione. Il Panel on Research on Criminal Careers, presieduto da Alfred Blumstein e sostenuto dal National Institute of Justice, ha pubblicato un rapporto in due volumi (Blumstein et al. 1986) che presta particolare attenzione alla questione della neutralizzazione. Tra il 1973 e il 1982 il numero di prigionieri nelle carceri statali e federali è quasi raddoppiato: «una specie di esperimento di neutralizzazione collettiva» (Messinger - Berk 1987, p. 774), nonostante il quale il tasso di criminalità è aumentato del 29%. Le stime di cui il Panel dispone suggeriscono che, presa come punto di partenza la frequenza individuale di violazione della legge, senza il raddoppio dei detenuti la crescita del tasso di criminalità sarebbe stata del 10-20% (Blumstein et al. 1987, vol. I, p.p. 124-128). Questo modesto vantaggio, in considerazione dell'aumento drammatico della popolazione carceraria, risulta senza dubbio estremamente costoso. Ulteriori riduzioni «richiederebbero almeno un aumento del 10-20% del numero dei detenuti per ogni riduzione dell'1 % nel tasso di criminalità» (ivi, vol. 1, p. 128).
Ricordo che un ampio studio sui cosiddetti «delinquenti pericolosi» ("dangerous offenders") svolto nel medesimo contesto, a Columbus (USA), ha prodotto un analogo risultato negativo. Sono state confrontate politiche criminali caratterizzate da gradi diversi di severità, prendendo come criterio il vantaggio probabile offerto in termini di neutralizzazione: anche le politiche più severe, i cui costi le rendevano in pratica molto improbabili, presentavano un effetto di neutralizzazione appena marginale e non avrebbero accresciuto in modo significativo la sicurezza dei cittadini (Conrad 1985, cap. 5).
Si può aggiungere ancora che quando si è giunti in Svezia alla proposta di reintrodurre la scarcerazione sulla parola a due terzi di pena (proponendo inoltre, in alternativa al rilascio automatico, di pronunciare sentenze più miti; confer SOU 1986: 13-15, e oltre, cap. 5), le motivazioni erano tratte in gran parte dalla ricerca svedese che abbiamo illustrato. La riforma aveva prodotto un notevole dibattito pubblico, in cui però si prendeva posizione sull'aumento di criminalità in base agli effetti del rilascio massiccio seguito immediatamente alla riforma, senza prendere in esame gli effetti a lungo termine: un buon esempio del caratteristico modo di procedere dei media di cui abbiamo parlato nel terzo capitolo.
Nella neutralizzazione collettiva, in conclusione, vediamo mancare qualsiasi tentativo di predire quali saranno gli individui ad alto rischio all'interno dei gruppi che si intende neutralizzare. Ma si persegue comunque una forma di predizione «collettiva» della recidiva, rendendo perciò rilevanti le questioni di precisione. Abbiamo già constatato, però , che i sostenitori della neutralizzazione collettiva non sono in grado di produrre alcun risultato sicuro circa la frequenza annuale di criminalità individuale; quest'incertezza rende a sua volta aleatorio ogni effetto positivo sulla criminalità e vanifica dunque la precisione della neutralizzazione. S'incorrerà in errori sia di «falso positivo», sia di «falso negativo», e le ricerche analizzate mostrano la marginalità degli effetti che, sul piano sociale, si possono ottenere nel lungo periodo. L'esperimento svedese dimostra concretamente che una grandissima parte della criminalità non è dovuta a coloro che vengono incarcerati, ma ad altri, tanto che persino rilasci molto anticipati non producono che un effetto marginale.
Ma se riuscissimo, per un incantesimo, ad aumentare la precisione «collettiva», definendo per esempio dei criteri per individuare in modo più preciso la natura dei gruppi di individui più frequentemente recidivi? Alcuni criminologi svedesi hanno sostenuto di recente, in forma abbastanza ipotetica, che questo è possibile (confer Persson 1987): basandosi su quelle che chiamano «congetture iniziali» e su stime americane che suggeriscono che la frequenza di criminalità individuale è asimmetrica, per cui una piccola percentuale di individui commetterebbe un gran numero di reati (Blumstein et al. 1986, p. 4), essi sostengono che la proporzione di furti con scasso, furti d'auto e simili reati commessi da un piccolo gruppo di persistenti recidivi è così grande, che chiudere in carcere questo gruppo ridurrebbe effettivamente il tasso di criminalità. Dal 1988-89 la polizia norvegese, ispirandosi a questi nuovi orientamenti, ha iniziato una politica dei «primi della lista», impiegando maggiori risorse per individuare un piccolo ma ben definito gruppo stabile di criminali attivamente recidivi. La polizia sostiene che questa politica diminuirà il tasso di criminalità. E se dovesse aver ragione?
I criminologi svedesi, e ancor più la polizia norvegese, sembrano dimenticare che la generazione attuale di criminali non è l'ultima. Ebbene, gli esperimenti di neutralizzazione collettiva possono naturalmente essere ripetuti per la generazione successiva e anche oltre. Ma poiché si tratta di gruppi stabili, tutte le generazioni dovrebbero essere tenute in carcere per lunghi periodi, pur tenendo conto che l'attività criminale diminuisce con l'età. E non riusciremmo mai a tenere il passo, a causa dell'apporto costante delle nuove generazioni. In effetti ci ritroveremmo con un enorme numero di detenuti, che non sapremmo nemmeno bene quando rilasciare, mentre il tasso di criminalità sarebbe alimentato dalle nuove generazioni. I criminologi svedesi in questione ammettono la circostanza (Persson 1987, p. 25), però non ne tengono conto nel discutere di politica criminale.
Una situazione di questo genere si è verificata in Polonia. Il codice penale polacco è particolarmente severo con i recidivi, ai quali riserva pene di molto superiori. Questo è motivato parzialmente con un'esplicita teoria della neutralizzazione. Peraltro la Polonia ha un enorme problema di criminalità, che non dà segno di voler diminuire, e un'ingentissima popolazione carceraria (ben più di 300 detenuti per 100 mila abitanti; confer i dati sui paesi occidentali riportati nel capitolo 1).
Abbiamo visto inoltre che la neutralizzazione collettiva equivale a condannare senza distinzione intere categorie di autori di reato a severissime pene detentive, sulla base della probabilità che si impediscano così crimini futuri. In tal modo si motiva la condanna in base ad azioni non ancora commesse. Inoltre si sopravvalutano le azioni del passato: anche senza azzardare previsioni individuali su particolari delinquenti ad alto rischio, le persone con elevata recidiva sono considerate un gruppo di cui occuparsi specificamente (Wilson 1975, p.199). Così facendo, l'enfasi è posta sulle azioni criminose del passato in contrapposizione a quelle presenti.
Non è così insolito nei sistemi penali occidentali riferirsi ad azioni criminali del passato, né si può dire che la criminalità passata sia valutata in modo smaccatamente esagerato, anche nel contesto della neutralizzazione: si prendono sempre in considerazione altri fattori (sociali, eccetera) sui quali ritorneremo. Ma si assiste comunque ad uno slittamento rispetto alle specifiche azioni criminali che hanno dato occasione al procedimento. La questione, poi, si può anche rovesciare diametralmente: i precedenti penali e i reati continuati possono ben essere considerati un'attenuante invece che un'aggravante fino a sostenere che i plurirecidivi hanno già scontato molto e quindi la sentenza dovrebbe essere mitigata (Christie 1981). Ma questo ragionamento si sente ben di rado. Se, infine, a tutto ciò aggiungiamo che in base alla neutralizzazione collettiva si condannano perlopiù individui poveri e socialmente disadattati, il problema di principio si esaspera davvero.

"Neutralizzazione selettiva"
Nel caso della neutralizzazione selettiva si cerca di determinare, all'interno dei gruppi considerati, quali siano gli individui ad alto rischio, per incarcerarli selettivamente, anche per lunghi periodi. Si ritiene che sarebbe una politica talmente efficace da consentire persino di ridimensionare l'attuale sistema carcerario (Greenwood 1982, p. XIX). L'idea ha una lunga storia, che risale ai primi tentativi di prevedere la condotta criminale effettuati negli anni Venti e Trenta (Hart 1923, in contrapposizione a Warner 1923; Glueck - Glueck 1937; riassunti in von Hirsch 1986, p.p. 105-107). Questi studi prendevano in genere le mosse da informazioni relative a un campione di autori di reato. Mediante analisi statistiche si indagavano i fattori predisponenti (la carriera criminale, i trascorsi lavorativi, la biografia, eccetera) e la relazione di questi con la recidività. In base a ciò si ricavava un «indice predittivo», costruito con fattori che presentassero un alto grado di correlazione con la recidività. Tale indice poteva essere impiegato anche per nuovi campioni.
Le ricerche tendevano a mostrare che un ridotto numero di fattori (la carriera criminale, i trascorsi lavorativi, problemi psichiatrici) potessero essere combinati e impiegati come strumento di previsione per individuare le persone a rischio. Ma la correlazione era debole e si traduceva in un'alta percentuale di errore nelle previsioni, sia con falsi negativi (previsioni di non recidività smentite dai fatti), sia soprattutto con falsi positivi (individui che non incorrevano nella prognosticata recidiva) (nota 3). Anche se l'eventualità che i crimini compiuti non fossero attribuiti a chi li commetteva poteva spiegare l'incidenza di falsi positivi, la tendenza di fondo non poteva certo spiegarsi così (Monahan 1981, p.p. 82-87). I miseri risultati erano dovuti al fatto che la criminalità violenta è relativamente poco frequente: meno frequente risulta un certo tipo di criminalità, «maggiore è la tendenza a sovrastimare la probabilità di recidiva» (von Hirsch 1986, p.p. 106-107). Per di più i tentativi di diminuire l'incidenza di falsi negativi portavano ad un aumento dei falsi positivi e viceversa (ivi). I falsi negativi, infatti, avrebbero potuto essere ridotti ampliando la definizione dei soggetti a rischio di recidiva: si poteva così essere sicuri che fossero inclusi quanti di fatto sarebbero incorsi in recidive. Ma questo aumentava massicciamente la percentuale, già elevata, di falsi positivi. Il problema dei falsi positivi avrebbe potuto essere ridotto, viceversa, per mezzo di una definizione più restrittiva, ma così facendo molti recidivi sarebbero sfuggiti.
Per farla breve, gli studi dei pionieri della predizione offrono scarsi motivi d'entusiasmo. Nella prima metà degli anni Ottanta, comunque, si è sviluppata una nuova variante degli studi predittivi, indirizzata appunto alla cosiddetta neutralizzazione selettiva. I primi studi erano, con qualche eccezione, rivolti fondamentalmente alla predizione di due tipi di comportamenti - recidiva e non-recidiva - senza riguardo per il numero e il tipo di reati (confer Glueck - Glueck 1937, p.p. 139-142). La neutralizzazione selettiva guarda alla recidiva per reati gravi, come rapine e altri crimini violenti; si cerca inoltre di prevedere chi commetterà un gran numero di tali reati (i cosiddetti "high rate robbers", o "violent predators").
Le più importanti ricerche di questo genere sono state promosse dalla RAND Co., negli Stati Uniti (Greenwood 1982; Chaiken - Chaiken 1982), e avevano per oggetto un campione di detenuti della California, del Michigan e del Texas, intervistati sulla loro carriera criminale, sui trascorsi lavorativi, sull'abuso di stupefacenti, eccetera; inoltre veniva loro chiesto di indicare la frequenza con cui avevano commesso reati gravi quali rapine e crimini violenti. I ricercatori elaboravano così un indice predittivo, basato su elementi della storia passata del detenuto che presentassero una forte correlazione con un'alta frequenza di quel tipo di crimini.
Le ricerche BAND hanno destato attenzione in una parte della criminologia internazionale. Wilson, per esempio, che nella prima edizione del suo libro "Thinking About Crime" si faceva portavoce della neutralizzazione collettiva (Wilson 1975), nella seconda edizione si è spostato verso nuove posizioni (Wilson 1983). Peraltro il problema della precisione sembra persistere. La proporzione di falsi negativi è ancora consistente. Greenwood riporta un tasso inferiore di falsi positivi, meno del 4% (Greenwood 1982, p.p. 59-60); von Hirsch ha però mostrato concretamente che i risultati sono frutto di procedure discutibili:
«[Greenwood] vi giunge considerando falsi positivi solo i casi in cui si sia prognosticata un'alta recidività per individui risultati poi scarsamente recidivi, ossia il caso estremo di falso positivo, mentre rifiuta di considerare tali i casi in cui ad una prognosi di alta recidività sia seguita una recidività media, benché anche costoro, secondo le sue stesse proposte, avrebbero potuto essere sottoposti a lunghi periodi detentivi a scopo di neutralizzazione. Se, su questa base, si calcola l'incidenza di tali erronee previsioni di alta recidività, la percentuale dei falsi positivi lievita [...] L'incidenza dei falsi positivi era del 56%, con scarsi progressi rispetto agli studi precedenti. La quota di falsi negativi era anch'essa rilevante» (von Hirsch 1986, p.p. 110-111).
I risultati di Chaiken e Chaiken sono di questo tenore. Essi riportano, contrapponendosi apertamente a Greenwood, un gravissimo problema di falsi positivi (il 30% dei presunti gravi recidivi per rapina, di fatto, non ne commetteva più) e concludono che «questo margine di errore tiene conto di numerose identificazioni erronee di rapinatori ad alto rischio di recidiva - il che non è soltanto un problema di accuratezza della ricerca, visto che la giustizia penale si basa su tali identificazioni» (Chaiken - Chaiken 1982, p. 23). Benché Chaiken e Chaiken prendano parte alle ricerche RAND, in materia di precisione le loro conclusioni sferrano piuttosto un colpo mortale agli studi predittivi. Dopo aver puntualizzato che i risultati della ricerca «indicano che i rapinatori violenti ("violent predators") sono i migliori candidati per le strategie di neutralizzazione» (ivi, p. 26), perché «la gravità che caratterizza i loro crimini, la frequenza e la violenza con cui li commettono hanno un effetto enorme sul crimine nella nostra società» (ivi), concludono:
«Non possiamo comunque raccomandare di basare la prassi giudiziaria su queste conclusioni. Comminare ad autori di reati meno gravi pene meno severe avrebbe probabilmente un buon rapporto costi-benefici (sulla base dei costi della carcerazione per ogni crimine evitato) e ogni errore nell'identificazione non produrrebbe che un'indulgenza ingiustificata (il che avviene anche ai livelli del sistema della giustizia penale precedenti alla sentenza). L'uso di modelli per identificare i rapinatori violenti - anche se limitato a coloro che sono riconosciuti colpevoli di crimini gravi - potrebbe comunque dare luogo a un'ingiustizia effettiva. Secondo noi i modelli produrrebbero troppe false identificazioni» (ivi, p. 27).
Aggiungo qui che a una conclusione identica è giunta una ricerca danese sulla criminalità giovanile condotta da Balvig. Nel capitolo sulla prevenzione generale citavo uno studio di Balvig che mostra come un gruppo relativamente ristretto di giovani particolarmente svantaggiati socialmente sia responsabile per la maggior parte dei casi gravi di delinquenza giovanile (Balvig 1984c). In un'altra ricerca, egli riscontra una evidente correlazione tra il verificarsi di determinate condizioni materiali durante l'adolescenza e successivi problemi di criminalità (Folmer Andersen - Balvig 1984). Sulla base di semplici informazioni intorno alle condizioni materiali di vita, ritiene Balvig, è possibile delimitare gruppi di giovani che in seguito, con molta probabilità, saranno condannati per aver violato la legge. Ma egli sottolinea che «le correlazioni non sono di una tale forza da rendere possibili prognosi individuali sicure, neppure approssimativamente» (ivi, p. 12). Le correlazioni lo spingono a concludere in favore di una politica di "welfare" piuttosto che di una politica di neutralizzazione: è essenziale modificare e rimuovere le condizioni che mostrano correlazioni con la criminalità.
Torniamo in breve alle ricerche RAND, aggiungendo a quanto già detto una critica metodologica ben fondata (confer von Hirsch 1986, capp. 9-10). Il primo serio problema è che le ricerche RAND si basano su un campione di "detenuti" e perciò, in realtà, quelli per i quali si ritiene di aver trovato uno strumento di predizione sono le rapine o gli altri crimini violenti riferiti dai detenuti. Il punto è che da tutta una serie di ricerche sappiamo che i carcerati non sono rappresentativi dell'insieme dei criminali. I carcerati con un gran numero di rapine (o altri crimini violenti) nella propria carriera criminale, che costituiscono il gruppo a cui applicare i risultati delle ricerche RAND, non sono rappresentativi né dei rapinatori in generale né del gruppo che presenta maggior frequenza del reato. Ciò è confermato dal fatto che la probabilità di essere arrestati e incarcerati per rapina è bassa: Greenwood ne cita una molto bassa per la California (Greenwood 1982, p. XVII) e von Hirsch sostiene che nella maggior parte degli Stati Uniti la situazione è la medesima (von Hirsch 1986, p. 108); in Norvegia la probabilità è più alta ma comunque ridotta. Perciò non è detto che i rapinatori che finiscono in carcere siano rappresentativi della categoria. Von Hirsch precisa:
«Il metodo di Greenwood ricorda dunque quelle ricerche che vantano scoperte sull'impiego di sostanze stupefacenti da parte dei tossicodipendenti in generale, compiute studiando i soggetti che s'incontrano nei centri di trattamento. Simili scoperte hanno valore ugualmente scarso o nullo, perché i tossicodipendenti in trattamento non rappresentano certo un campione rappresentativo, per distribuzione, dei tossicodipendenti in generale» (von Hirsch 1986, p. 118).
È vero che i criminali con un alto tasso di attività criminosa che non vengano catturati e incarcerati non sono poi tanti, ma, come puntualizza von Hirsch (ivi, p. 119), ciò non esaurisce le possibilità di rimettere in questione le affermazioni di Greenwood.
Per esempio, coloro per i quali si sommano numerosi fattori predittivi tra quelli presi in considerazione da Greenwood (disoccupazione, precedenti di tossicodipendenza, eccetera.) presentano anche un alto tasso annuale di rapine; ma, esaminando delinquenti in libertà che presentassero le medesime caratteristiche, sarebbe potuto risultare che «molti individui analoghi non hanno mai avuto alti tassi di rapina o hanno in seguito perso l'iniziativa criminale» (ivi). In altre parole, le alte correlazioni riscontrate potrebbero essere solo l'effetto del tipo di campionatura. Inoltre Greenwood presupponeva una probabilità uniforme di essere arrestati e incarcerati per rapina, mentre in effetti la probabilità varia considerevolmente in funzione di caratteristiche ambientali come la carriera criminale, o la tossicodipendenza, e i delinquenti occasionali possono essere responsabili di una percentuale di rapine più elevata di quella presunta. Se è così, «l'effetto di controllo sul crimine esercitato rinchiudendo i rapinatori che hanno degli indici predittivi sfavorevoli sarebbe ben più esiguo di quanto si pretenda» (ivi, p. 120).
Inoltre le ricerche RAND si occupano, a rigore, non di predire ma di «postdire» il comportamento criminale, perché l'evento che deve essere predetto ha già avuto luogo ed è, appunto, riferito nelle interviste. Che simili interviste possano essere inattendibili è un fatto, ma i dati ufficiali sulla criminalità possono esserlo anche di più. Il problema con la «postdizione» è piuttosto il seguente: nelle ricerche si fa uso di dati emersi nelle interviste per quanto riguarda i trascorsi lavorativi, i precedenti di tossicodipendenza, eccetera, allo scopo di «postdire» le probabilità di comportamento criminale. Ma anche se tutti questi dati mostrassero una grande efficacia nel predire la tendenza a commettere rapine, non necessariamente si sarebbe costruito uno strumento di predizione utilizzabile nella reale prassi giuridica. In quest'ultima ci si dovrebbe basare sulle informazioni fornite dagli accusati, come nelle ricerche RAND, per ricavarne predizioni sulla tendenza alla recidiva ed emettere la sentenza di conseguenza. Ma ognuno può immaginarsi quanto di buon grado l'accusato fornirà informazioni esatte sui propri trascorsi: naturalmente il suo desiderio di collaborare sarà alquanto scarso e lo strumento di predizione risulterà pressoché privo di valore. Oppure, in contrapposizione alle ricerche RAND, ci si dovrà basare sui dati ufficiali; ma sappiamo che i dati ufficiali relativi ai trascorsi degli accusati sono molto poco attendibili e, nuovamente, lo strumento di predizione sarebbe pressoché privo di valore.
La scarsa precisione predittiva è confermata da numerose altre fonti. Christie Visher ha analizzato la ricerca RAND sui detenuti, concludendo che benché «l'uso della tavola di predizione sia meglio che affidarsi al caso [...] c'è da aspettarsi un miglioramento usando una qualsiasi tavola basata sugli stessi indicatori e adattata alle caratteristiche del campione da esaminare. Non c'è alcuna indicazione che la tavola di Greenwood darebbe risultati migliori, persino in California, di ogni altra tavola che sia stata usata» (Visher 1986, p. 205). Visher ha stabilito che impiegando una tavola a sette indicatori, a supporto di una politica penale in cui si raddoppi la durata delle pene inflitte ai soggetti con intensa attività criminosa, il miglioramento è quantificabile nel 13 (effetto che è stato dimostrato per la California). Visher aggiunge che «la tavola utilizzata per individuare i soggetti con intensa attività criminosa è maggiormente sensibile alle caratteristiche di tali criminali in California piuttosto che altrove. Se si applicassero la stessa tavola di predizione e un'identica politica penale in Michigan e in Texas, probabilmente il tasso di criminalità "aumenterebbe", a causa delle differenze nella prassi corrente della giustizia penale e nella popolazione criminale tra i tre stati» (ivi). E persino in California la riduzione della criminalità sarebbe più debole se, per esempio, al posto dei dati raccolti secondo il metodo delle ricerche RAND venissero usati i dati ufficiali, o se il modello fosse applicato a una popolazione di condannati piuttosto che di detenuti (ivi, p.p. 205-206).
La rielaborazione di Visher fa parte del lavoro condotto dal Panel on Research on Criminal Careers, le cui conclusioni sono decisamente sfavorevoli alla neutralizzazione selettiva: nonostante il tasso di prognosi errate varii dall'una all'altra tavola di predizione, i tassi sono sicuramente alti (nota 4). E «con le tavole statistiche disponibili i miglioramenti nell'efficienza del controllo della criminalità mediante la neutralizzazione selettiva sarebbero tutt'al più modesti - una riduzione del 5-10% nelle rapine commesse da adulti, per esempio, mediante un aumento del 10-20% dei rapinatori condannati e incarcerati» (ivi, vol. 1, p.p. 195-196).
Sinora abbiamo privilegiato i problemi di precisione e, in generale, di efficacia, dando per scontato che la neutralizzazione selettiva sia accettabile in linea di principio. Ma non è affatto così. Innanzitutto, si sottolinea di solito che la pena detentiva va comminata in base alla probabilità di impedire crimini futuri: l'orientamento al futuro è dunque preso a fondamento della prassi giuridico-penale. D'altra parte viene altrettanto enfatizzata la valutazione del passato, ben più che per la neutralizzazione collettiva: sulla base di determinate situazioni del passato, situazioni ben al di fuori di quanto è tenuto normalmente in conto nel giudizio penale, si formulano prognosi per speciali gruppi ad alto rischio, che saranno condannati su questa base. Per chiarire i problemi di principio esamineremo specificamente i fattori ambientali studiati nelle ricerche RAND. La tavola di predizione di Greenwood consiste di sette fattori (Greenwood 1982, p. 50):

1) Condanne precedenti per un reato della stessa specie;
2) Aver trascorso in carcere più del 50% dei due anni precedenti;
3) Condanne riportate prima di aver compiuto i sedici anni;
4) Precedenti soggiorni in carcere minorile;
5) Abuso di stupefacenti negli ultimi due anni;
6) Abuso di stupefacenti prima della maggiore età;
7) Aver lavorato per un periodo inferiore al 50% dei due anni precedenti.

I criteri di Chaiken e Chaiken sono leggermente diversi, ma del medesimo tenore. Greenwood distingue con questa tavola tre categorie: gruppi a basso, medio e alto rischio; i gruppi a basso rischio presentano almeno uno di questi fattori, quelli a medio rischio due o tre e gli altri, infine, quattro o più. Qual è il fondamento morale per comminare una pena detentiva sulla base di fattori del genere? Il primo criterio non è così nocivo, in fondo i crimini passati possono essere accostati a quelli presenti. I precedenti soggiorni in carcere, le condanne subite prima dei sedici anni e i trascorsi in carceri minorili sono meno confrontabili e, in ogni caso, andrebbero benissimo come circostanze attenuanti, mentre qui hanno unicamente valore di aggravanti. L'uso di stupefacenti e ancor più la disoccupazione ci portano molto distanti e, tutt'al più, dovrebbero soltanto valere come attenuanti. È ragionevole incarcerare il reo in base al fatto che è disoccupato? Una risposta giudiziale di questo tipo sarebbe, dal punto di vista etico, molto problematica: la disoccupazione e un fenomeno strutturale della società e, in più, è una situazione che segnala uno stato di povertà - nel senso ampio del termine - in cui versa il reo. Prendendo la disoccupazione a motivo della condanna, si incoraggiano fortemente le tendenze della società alla polarizzazione, a gravare cioè di nuova povertà chi già è povero.
Ancora peggio è che, una volta cominciato, è difficile fermarsi. Negli Stati Uniti, sulla base dei soliti fattori predittivi, è possibile immaginare una correlazione tra la recidiva per i reati violenti e l'appartenenza razziale. Quest'ultima dovrebbe forse essere inclusa tra i fattori predittivi in uso nella prassi giudiziaria? I sostenitori della neutralizzazione selettiva lo negano (Wilson 1983, p. 158), anche se sarebbe la logica conseguenza dei loro ragionamenti. Forse il motivo è che sinora gli studi in merito hanno evidenziato soltanto un'efficacia predittiva nei confronti della "partecipazione" ad azioni criminose e non della "frequenza" individuale con cui le si commette (Blumstein et al. 1986, vol. I, p.p. 3-5): dunque, dal punto di vista della neutralizzazione selettiva, non lo si può ancora ritenere un fattore utile. Si può dire però che in pratica oggi c'è una corrispondenza evidente tra la carcerazione e condizioni come l'uso di stupefacenti, la disoccupazione e - negli Stati Uniti - la razza. A trovarsi dietro le sbarre è la parte povera della società. L'esistenza stessa della correlazione costituisce di per sé un grave problema etico; ma se fosse rafforzata dall'uso cosciente e sistematico di quei fattori, il problema etico diverrebbe acutissimo.

"Conclusioni sulla neutralizzazione"
Sia il problema della precisione, sia quello di principio, insidiano entrambe le forme di neutralizzazione. Tanto il falso negativo quanto il falso positivo, ossia le due forme del problema della precisione, si riscontrano in modo equivalente nella neutralizzazione collettiva e in quella selettiva. Altrettanto vale per il fatto che si condanna sulla base di azioni non ancora commesse, ossia la prima forma del problema di principio; la seconda forma del problema di principio, cioè l'ampio uso di fattori predittivi discusso nel precedente paragrafo, è particolarmente connessa alla neutralizzazione selettiva.
In conclusione ci si può ancora chiedere, a proposito della scarsa precisione raggiungibile: perché non riusciamo a predire meglio la pericolosità? (nota 5) Il motivo è verosimilmente che la pericolosità è estremamente influenzata dalla situazione. Le persone, con le loro caratteristiche individuali, commettono azioni pericolose; ma queste azioni hanno luogo oppure no in situazioni determinate, cioè in un contesto. Se la situazione fosse stata diversa, forse, anzi probabilmente, l'azione criminosa non sarebbe avvenuta o si sarebbe configurata diversamente. Il fatto che l'azione pericolosa risulti dall'associazione di un individuo e di una situazione e che le azioni siano perciò influenzate dalla situazione, rende molto più difficile predire sia chi commetterà azioni pericolose sia chi non lo farà. Ciò rende anche molto difficile prevedere la pericolosità all'interno di un campione di soggetti che si trovano in un certa situazione (per esempio rinchiusi in un'istituzione), rispetto al medesimo campione in una situazione diversa (per esempio dopo averli rilasciati; confer Monahan 1981, p.p. 87 s.).
Persone per le quali saremmo portati a credere che commetteranno azioni pericolose risultano poi agire diversamente, mentre altri verranno a trovarsi in situazioni che li rendono pericolosi. A volte questi ultimi formano un gruppo assai numeroso: l'esempio estremo è offerto dalla guerra, durante la quale la maggior parte degli uomini in età di leva diventa pericolosa, almeno potenzialmente. Dovremmo forse «neutralizzare» tutti i giovani, o parte di loro? Ben difficilmente riusciremmo così ad abolire, con o senza precisione, la minaccia della guerra.

- La deterrenza
Prima di concludere il capitolo aggiungeremo ancora qualcosa sul ruolo della deterrenza nella prevenzione individuale, benché essa non abbia nella moderna teoria penale un'importanza paragonabile alla neutralizzazione.
Un paio di argomenti sollevati nel capitolo precedente contro la pena detentiva, intesa come strumento di prevenzione generale, valgono anche quando sia usata come deterrente per gli autori di reato. Ricordiamo particolarmente quanto già detto sulla «struttura di segni» come contesto individuale di interpretazione del messaggio: notavamo come più ci si accosta a gruppi che per altri motivi hanno un alto tasso di criminalità , meno diventa efficace la pena dal punto di vista della prevenzione generale: la struttura di interpretazione fa sì che il messaggio non venga compreso come lo intende chi lo trasmette. Altrettanto si può dire sull'effetto deterrente della pena dal punto di vista della prevenzione individuale.
Anche in questo caso possiamo farci forti di una gran mole di materiale empirico. Gli studi sulla società carceraria citati nel secondo capitolo spiegano non solo come mai fallisca la riabilitazione in carcere, ma indicano anche chiaramente che, tranne casi particolari, non si sortisce nemmeno un effetto deterrente. Le ricerche sociologiche hanno evidenziato processi di prigionizzazione o altre forme di difesa contro il sistema carcerario, ma comunque mostrano tutte che il carcere crea profonda sfiducia e ostilità pronunciata nei confronti del sistema carcerario e dei suoi rappresentanti. Se la cultura carceraria si basa sul principio per cui il detenuto «rifiuta coloro che lo rifiutano», non costituisce di certo un ambiente favorevole alla deterrenza; dal punto di vista psicologico e sociologico ci sono piuttosto buone ragioni per sostenere che si creano soprattutto frustrazione e amarezza, producendo l'effetto opposto. Inoltre, anche nel caso della deterrenza individuale i difensori del carcere si basano sul "common sense", cioè partono dall'esperienza personale. Ma il loro contesto d'interpretazione è completamente diverso da quello di chi sta in carcere.
Certo, a sostegno del fatto che il carcere abbia un effetto deterrente si possono prendere alcuni studi sulla recidiva: penso soprattutto alla ricerca di Murray e Cox su giovani delinquenti di Chicago sottoposti a trattamenti più o meno restrittivi (Murray - Cox 1979, in Wilson 1983, p.p. 171 s.). Il loro lavoro ricorda il modo in cui, nel loro contesto, operavano i sostenitori della neutralizzazione selettiva: invece di considerare la recidiva in contrapposizione alla non-recidiva, Murray e Cox si concentrano sulla "frequenza" della recidiva per unità di tempo, istituendo una connessione tra la restrittività dei trattamenti e la frequenza di arresti successivi, per la quale a una maggiore restrittività corrisponde una minore frequenza. Lo studio è stato fortemente criticato per ragioni metodologiche e lo stesso James Wilson, che vorrebbe comunque servirsene, finisce per dire che «questo studio non può essere considerato risolutivo» (Wilson 1983, p. 175). «Da un lato» sostiene Wilson, «vorremmo sapere che cosa succede a questi delinquenti su un arco di tempo molto più lungo [...] vorremmo anche saperne di più sul genere di reati per cui queste persone sono state arrestate (forse cambiano aspetti rilevanti del loro comportamento criminale). Soprattutto vorremmo vedere un simile studio ripetuto in altri contesti da altri ricercatori» (ivi). Inoltre possiamo contrapporre a Murray e Cox gli studi di Ulla Bondeson sugli interventi destinati ai criminali rilasciati, lavori metodologicamente ben fondati dai quali emerge che meno era stato restrittivo il trattamento, migliore era la condotta dei soggetti indagati, anche prendendo accuratamente in esame le diverse condizioni individuali (Bondeso n 1987; confer Bondeson - Kragh Andersen 1986; Robinson - Smith 1971, p.p. 71-72 e Trasler 1976, p.p. 12-13).
Nel migliore dei casi, per quanto riguarda la deterrenza, i risultati di queste ricerche si elidono a vicenda ed è dunque escluso di poter basare sulla deterrenza la difesa del carcere. Ma giacché la ricerca di Bondeson è stata condotta così validamente, è più ragionevole concludere sulla sua base che, dal punto di vista della deterrenza, una politica criminale restrittiva produce effetti esattamente contrari a quelli desiderati.

- Si può difendere il carcere con la neutralizzazione e la deterrenza?
Abbiamo concluso il secondo e il terzo capitolo citando un'autorevole fonte svedese ("Regeringens proposition" 1982-83); per concludere questo capitolo ci rifacciamo a un recente e importante rapporto della Commissione carceraria svedese, che formula così il proprio giudizio sulla neutralizzazione:
«La "neutralizzazione", come strumento per determinare la durata delle pene, è stata criticata sia per la ragione che sono incerti gli effetti sulla diminuzione della criminalità, sia, e forse soprattutto, dal punto di vista della giustizia [...] Secondo il nostro parere non si può assolutamente pensare di rendere possibile applicare, all'interno della prassi giudiziaria corrente, l'ottica della neutralizzazione ai casi individuali» (SOU 1986: 14, p.p. 71-72).
La Commissione sintetizza così la propria posizione:
«L'interrogativo su quale pena sia richiesta per "ottenere sul condannato un effetto deterrente" che impedisca la recidiva, non dovrebbe, a nostro avviso, influenzare la prassi giudiziaria. La sola situazione in cui ciò potrebbe essere difendibile sono alcuni specifici casi di plurirecidività» (ivi, p. 71).
Per quanto riguarda la determinazione delle sentenze, dunque, la Commissione difende molto tiepidamente la deterrenza e per nulla la neutralizzazione; quanto alla prevenzione individuale nel suo complesso (riabilitazione, neutralizzazione e deterrenza), ecco il suo parere:
«Per riassumere, vediamo dunque che neppure alla prevenzione individuale, ossia alla neutralizzazione, alla deterrenza individuale e alla necessità di cura e trattamento, si dovrebbe attribuire alcun valore autonomo quando si determina la sentenza in un caso individuale» (ivi, p. 72).
Ma, a questo punto, ci si può chiedere: come può una nazione - nel nostro caso la Svezia - perseverare nel fare del carcere lo strumento essenziale della politica criminale, quando tutti gli argomenti fondati sulla prevenzione individuale e, in gran parte, quelli fondati sulla prevenzione generale sono stati respinti dalla sua più alta autorità competente? Ne discuteremo nel prossimo capitolo.

 

Note:

1. Confer cap. 1, n. 9 e cap. 2, n. 2 [N.d.T.].

2. Confer Aubert 1958, Christie 1962, Mathiesen 1965a, Ellingsen 1987, Kongshavn 1987 [confer cap. 1, n. 9 e cap. 2, n. 2, N.d.T.].

3. Una rassegna di cinque importanti studi predittivi (basati su perizie psichiatriche, cioè su dati clinici e non su rilievi statistici, e condotti con periodi di osservazione da tre a cinque anni) relativi al ripetersi di reati violenti, dopo il rilascio, da parte di criminali violenti, mostrava che mentre l'incidenza dei falsi negativi era relativamente bassa in alcune ricerche e superiore in altre (tra 8 e 31%), la percentuale di falsi positivi si manteneva costante, intorno al 60% o più (tra 59 e 86%; confer Monahan 1981, cap. 3).

4. Per esempio con percentuali che vanno da meno del 30% al 40% di falsi positivi in un campione che è allo stesso tempo anche il campione di controllo (la U.S. Parole Commission's Salient Factor Score, che serve a predire i nuovi arresti, invece che i nuovi reati, sulla base di risposte a interviste; confer Blumstein et al. 1986, vol. 1, p. 188). Bisogna ricordare anche altri recenti lavori sulla predizione dei reati violenti, da cui risulta chiaramente che le nostre capacità predittive sono molto ridotte, sia riguardo alla criminalità giovanile (Hopson 1987) sia a quella adulta (Steadman 1987). Peter Greenwood, della RAND Co., sembra sostenere tuttora che i dati disponibili siano sufficienti a guidare la prassi, benché in apparenza egli invochi una riabilitazione precoce piuttosto che una posteriore neutralizzazione (Greenwood 1987).

5. Va precisato che il concetto di pericolosità è quanto mai diverso a seconda dei differenti sistemi penali. Quanto all'Italia, l'art. 203 del codice penale (c.p.) prevede che «agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente (fatto-reato), quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reato. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'art. 133». La pericolosità sembrerebbe dunque la probabilità di commettere nuovi reati, anche a prescindere dalla gravità di quello già commesso; ma nell'art. 133 c.p. troviamo che «il giudice deve tener conto della gravità del reato desunta
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
3) dall'intensità del dolo o dal grado della colpa.
Il giudice deve inoltre tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta
1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo (confer art. 203 c.p.);
2) dai precedenti penali e giudiziari e , in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo (confer art. 203 c.p.)».
La qualità di pericoloso socialmente fa sì che alla pena comminata per il reato commesso venga affiancata una misura di sicurezza (confer cap. 2, n. 3). Il magistrato si pronuncia quindi sulla pericolosità globalmente intesa, facendosi interprete dell'allarme sociale che le azioni del reo suscitano nella comunità civile e della situazione di pericolo che un tale soggetto in libertà verrebbe a costituire. Il perito, incaricato di accertare la pericolosità sociale psichiatrica dell'autore di reato non imputabile, deve invece esprimersi sulla probabilità che questi possa in futuro commettere nuovi reati in ragione di cause psicopatologiche persistenti, a prescindere da aspetti di pericolosità da queste indipendenti, i quali rimangono di pertinenza del giudice [N.d.T.].