Thomas Mathiesen
Perché il carcere?

Capitolo 5.
La giustizia

- Vecchio e nuovo classicismo
A volte si prova la sensazione che le teorie di politica criminale abbiano dei corsi e ricorsi circolari. Le teorie «assolute» della pena, il cui scopo è innanzitutto di soddisfare un'esigenza di giustizia, sono probabilmente le più antiche. Sono state rimpiazzate poi dalle teorie «relative», il cui scopo è innanzitutto la difesa sociale, in parte mediante la prevenzione individuale, in parte mediante quella generale. Man mano che le teorie della difesa sociale sono state confutate o poste in dubbio - prima la prevenzione individuale, poi, un po' per volta, quella generale - si è chiuso il cerchio, tornando alle teorie della giusta pena (nota 1).
Abbiamo concluso il capitolo precedente con una domanda: quando in una nazione come la Svezia l'idea della pena come difesa sociale viene completamente abbandonata, come si può continuare a fare del carcere lo strumento essenziale della politica criminale? Appunto chiudendo il cerchio e ritornando alle teorie della giusta pena. In realtà non si riesce ad abbandonare "completamente" la difesa sociale, di cui restano le tracce sotto forma di prevenzione generale; ma, come mostrerò, non è che una specie di sforzata appendice.
Le radici delle teorie più recenti sulla giustizia come fondamento della pena si possono rintracciare al tempo dell'Illuminismo, risalendo fino a Rousseau e Voltaire. Primeggiavano due esigenze: in primo luogo la condotta umana doveva essere regolamentata "il meno possibile"; in secondo luogo la regolamentazione doveva essere "ben specificata anticipatamente". La relazione tra il reato e la pena andava specificata chiaramente e determinata in base alla gravità del reato stesso. Il pensiero degli Illuministi in materia di diritto penale è stato battezzato «classicismo». Lo sviluppo di questo indirizzo è dovuto alla crescita del ceto borghese, per il quale la difesa contro l'ampia discrezionalità del potere della nobiltà feudale era una questione vitale. Il classicismo penale faceva parte di questa difesa. Il punto era che il cittadino e il nobile, avendo commesso il medesimo reato, dovevano ricevere una pena uguale.
«Per assicurare questa eguaglianza, le pene previste dovevano essere, fin da principio, ancorate nel dettaglio alla gravità del fatto commesso, non alla condizione sociale dell'autore o alla discrezionalità del giudice» (Christie 1980, p. 116).
Ma lo sfondo su cui si stagliano le moderne teorie della giusta pena è il «neoclassicismo» degli anni Settanta, che si richiama peraltro al classicismo illuminista. I quaccheri americani lanciarono il neoclassicismo all'inizio degli anni Settanta, in un importante rapporto dell'American Friends Service Committee (1971). Nel diciannovesimo secolo essi stessi avevano elaborato gran parte dei fondamenti ideologici del penitenziario di Filadelfia, in cui i detenuti venivano isolati per fare penitenza. Il carcere «penitenziale» era, rispetto ai metodi del tempo, orientato alla riabilitazione dell'individuo. Nel rapporto del 1971 i quaccheri sostenevano una visione quasi diametralmente opposta: determinare la durata delle pene in ragione della gravità del reato. Nell'arco degli anni Settanta, da varie fonti americane seguirono altri rapporti di un certo rilievo, che in modi diversi manifestavano la stessa tendenza (confer ad esempio von Hirsch 1976).
Nei paesi nordici il neoclassicismo mise radici in alcuni organismi di programmazione della politica criminale, meno chiaramente in Norvegia e Danimarca, più esplicitamente in due rapporti ufficiali stesi in Finlandia e in Svezia (Kommittébetänkande 1976: 72 per la Finlandia; BRÅ-Rapport 1977:7 in Svezia). In entrambi, i termini chiave erano: proporzionalità tra reato e pena, "scala di gradazione della pena e gravità del reato". L'idea fondamentale era per entrambi che la pena dovesse essere proporzionale alla gravità dei reati, fosse posta cioè con questa in una relazione corretta e ragionevole. Si deve subire la pena che si è «meritata»: in questa prospettiva si graduano le pene per i diversi reati. Si dovrebbe poter introdurre così un ordinamento penale giusto e prevedibile.
Negli anni Ottanta le teorie di cui ci stiamo occupando sono una nuova formulazione del neoclassicismo degli anni Settanta. Lo riscontriamo in Svezia, ad esempio, in un recente progetto di riforma in via di parziale attuazione (SOU 1986: 13-15, «Sulla scala di gradazione delle pene, la scelta delle sanzioni, il rilascio sulla parola, eccetera.»). L'idea della giusta pena, sotto forma di pena «meritata», è centrale:
«Abbiamo dunque concluso che non si debba dar troppo peso alla: prospettiva della prevenzione generale o individuale quando si tratta di determinare la scala di gradazione delle pene per i diversi reati. Secondo noi la scala di gradazione delle pene è basata sulla gravità o sulla reprensibilità del reato. Riteniamo cioè che, quando si debba determinare la gradazione delle pene per i diversi reati, un punto di partenza perfettamente naturale sia giudicare che cosa questi, presi in generale, meritano di pena. Per stabilire la scala di gradazione delle pene richiesta dai diversi reati bisogna fondarsi su qualche forma di teoria della giustizia. A tal scopo sono importanti i concetti di proporzionalità ed equivalenza. Con proporzionalità si intende che la scala sia determinata in proporzione alla gravità del reato. L'equivalenza implica che a tipi equivalenti di reato siano applicate pene egualmente gravi e si può dire che sia una conseguenza dell'idea di proporzionalità» (ivi, vol. 1, p. 15).
I diversi reati sono a questo punto classificati secondo il loro «valore di pena», distinto in valore di pena astratto e concreto:
«Con il "valore di pena" del reato si intende la gravità del reato in rapporto ad altri reati. Il valore di pena è dunque una misura della serietà del reato. Il valore di pena come si esprime nella scala di gradazione delle pene è il valore di pena astratto del reato. Il valore di pena di un reato effettivamente commesso è il valore di pena concreto» (ivi, vol. 1, p. 19).
I valori di pena sono stabiliti sulla base della reprensibilità e della gravità del reato:
«Come detto sopra, riteniamo che per quanto riguarda la formulazione delle scale di gradazione della pena per i diversi reati non possiamo applicare né la prospettiva della prevenzione generale né quella della prevenzione individuale. Riteniamo invece che la determinazione del valore di pena debba fondarsi sulla reprensibilità dei diversi reati. Per stabilire la scala di gradazione delle pene per i diversi reati bisogna dunque partire da ciò che il reato, preso in generale, merita di pena. Per raggiungere tale scopo diventa necessario seguire qualche forma di ragionamento basato sulla giustizia, tale che ci si domandi che cosa i diversi reati in generale meritino di pena» (ivi).
Su questo si basa la scala di gradazione delle pene: «La gradazione delle pene deve dunque essere determinata in proporzione alla gravità del reato e pene ugualmente gravi devono essere applicate a reati equivalenti» (ivi).
Le citazioni sono sintetiche. Sui dettagli torneremo in seguito. Il punto è per ora che l'idea di proporzionalità si concretizza in una serie di valori di pena e di scale di gradazione: il valore di pena dei semplici reati contro la proprietà è in generale, dice il rapporto, troppo elevato e dovrebbe essere ridotto; il valore di pena dei reati contro la persona, specialmente quelli violenti, dovrebbe d'altro canto essere innalzato rispetto all'attuale, e altrettanto si dovrebbe fare per i reati contro l'ambiente e per il traffico di stupefacenti. Complessivamente si suggerisce una certa riduzione del livello generale delle pene ma, contemporaneamente, si propone di abolire il rilascio automatico sulla parola a metà della pena per la maggioranza dei detenuti, tornando al precedente limite dei due terzi di pena. L'idea è che la riduzione compensi l'aumento dei tempi di carcerazione prodotto dal ripristino del limite dei due terzi di pena per il rilascio sulla parola. Bisogna vedere se andrà davvero così.

- L'idea della giustizia costituisce l'unico fondamento?
La risposta a questa domanda è: quasi, ma non del tutto. In genere si distingue tra le motivazioni dell'esistenza sociale della pena, ossia le ragioni per cui determinate azioni sono criminalizzate, e le motivazioni della formulazione e dell'applicazione, in concreto, del sistema penale, ossia delle norme di legge che definiscono e graduano le pene e della scelta e attribuzione delle sanzioni. Le motivazioni dell'esistenza in sé della pena le troviamo, almeno prevalentemente, nella prevenzione generale. Le teorie della giusta pena sono troppo fredde e severe; bisogna aggiungervi l'utilità sociale per poter rendere ragione della sofferenza inflitta intenzionalmente alle persone (nota 2). Le motivazioni della struttura e dell'applicazione del sistema penale non si trovano invece nella prevenzione generale, né in qualunque altro fine di utilità sociale; su questo tutti i testi citati sono perfettamente chiari. Si trovano invece nei principi di giustizia descritti in precedenza. Si legge, per esempio:
«Neppure i risultati delle ricerche sugli effetti di prevenzione generale della pena detentiva suscitano grandi speranze di poter influenzare l'entità del fenomeno criminale modulando l'uso della detenzione. Negli studi comparativi a livello internazionale non si rinviene alcuna tendenza ad una calo del tasso di criminalità in conseguenza dell'inasprimento delle pene. Un impiego più intenso della detenzione non è dunque un mezzo efficace per diminuire la criminalità, né per prevenirne un aumento. Nei limiti entro i quali è possibile diminuire la criminalità, occorrono misure di tutt'altra specie. Ne consegue che non c'è motivo di ritenere che limitare l'uso della detenzione abbia un qualche effetto sull'entità del fenomeno criminale» (SOU 1986: 13-15, vol. 1, p. 16).
Nel generale accordo su questa distinzione fondamentale, rimangono però delle differenze. In alcune fonti, soprattutto nel BRÅ-Rapport 1977: 7, si tenta di unificare le motivazioni dovute alla prevenzione generale e quelle basate sul principio di giustizia. Nel BRÅ-Rapport, lo si ottiene soprattutto sottolineando l'aspetto moralizzatore della prevenzione generale. Se si privilegiasse l'aspetto deterrente, si dice, la pena dovrebbe essere commisurata alla tentazione di commettere il reato. Se invece si accentua l'effetto moralizzatore, si metterà al centro il valore di pena dell'azione e la sanzione andrà determinata secondo quanto il reato è grave o reprensibile - ed è appunto così che, si ritiene, bisognerebbe fare. È sottinteso che, se non prevalessero i principi di giustizia, il sistema finirebbe per non avere credibilità morale, perdendo così la funzione moralizzatrice cui è legata la prevenzione generale. Ecco trovato il legame tra i due aspetti (nota 3). Invece in altri lavori si cerca di conservarli come due momenti più o meno distinti. Per quanto posso capire, così è nell'opera più recente di von Hirsch, anche se, con un complicato ragionamento, egli affianca alla prevenzione generale l'aspetto sanzionatorio in modo che contribuisca anche a motivare l'esistenza della pena (von Hirsch 1986, pp. 47-60).
Come dobbiamo giudicare questa ripresa della prevenzione generale? In primo luogo, nei testi citati non si trovano argomentazioni approfondite in favore della prevenzione generale, in quanto fondamento, grazie ai suoi eventuali effetti moralizzatori, dell'esistenza della pena. L'effetto di prevenzione generale è un semplice presupposto, o un assioma, ancor più che nella letteratura sulla prevenzione generale analizzata nel terzo capitolo, e a mala pena si cerca qualche argomento a sostegno. Quasi tutto lo sforzo logico si concentra in dettagliate argomentazioni sulla giustizia come fondamento per la struttura e l'applicazione del sistema penale. Ecco un esempio di assunzione acritica del presupposto:
«Constatiamo che le considerazioni alla base della prevenzione generale sono ovviamente fondamentali per le decisioni sulla criminalizzazione, ossia le decisioni relative al fatto che determinate azioni vadano punite» (SOU 1986: 13-15, vol. 1, p.p. 14-15; confer anche vol. 2, p. 67, dove la motivazione fondamentale è il «buon senso»).
In secondo luogo, molti di questi lavori giungono assai vicini a sostenere che l'effetto di prevenzione generale dovuto all'esistenza stessa delle pene e della criminalizzazione è limitato, per non dire dubbio. Ne troviamo un esempio nel medesimo rapporto:
«Il compito principale della politica criminale è [...] neutralizzare il crimine. Il sistema penale non è certo, da questo punto di vista, uno strumento particolarmente efficace. Questa è l'indicazione che viene sia dalle esperienze svedesi sia dall'estero. Non si trova alcuna correlazione tra pene lunghe e severe, e un ridotto tasso di criminalità» (SOU 1986: 13-15, vol. 1, p. 14)
Dapprima qui si impugna, abbastanza apertamente, l'esistenza della pena; poi solo le sue modalità; nell'insieme si finisce quasi per sostenere che l'esistenza della pena e i suoi effetti possono esser messi in dubbio.
In terzo luogo bisogna dire che nel rapporto che stiamo citando si trovano qua e là impercettibili e velati slittamenti nelle formulazioni: prima si sostiene un effetto di prevenzione generale dovuto all'esistenza della pena e della criminalizzazione, poi si slitta ad un analogo effetto che sarebbe da trovarsi comunque nella struttura concreta della legislazione penale. Il rapporto prosegue, ad esempio, precisando che la neutralizzazione del crimine «è innanzitutto una responsabilità del legislatore, il quale deve foggiare il sistema penale in modo che gli aspetti preventivi siano tenuti nella dovuta considerazione, senza che ciò vada a scapito dell'esigenza di legalità e dell'equa applicazione delle norme penali» (ivi, vol. 1, p. 15). La concreta struttura giuridica, che dovrebbe fondarsi su principi di giustizia, di colpo è basata - con uno slittamento - anche sulla prevenzione generale. Ma attribuire un effetto di prevenzione generale anche ai dettagli della legislazione è ben altro concetto, e ormai ben più difficile da sostenere, che attribuire il medesimo effetto all'esistenza della pena e alla criminalizzazione. Con questo slittamento si rafforza, in maniera semplice e non troppo evidente, l'idea che la struttura della legislazione abbia di per sé un effetto di prevenzione generale.
Nei testi neoclassici, in breve, la causa delle teorie della giusta pena è sostenuta riportando in un certo qual modo l'attenzione sulla difesa sociale, nella forma della prevenzione generale. La pura e semplice idea di giustizia non si regge sulle proprie gambe. Ma la prevenzione generale, introdotta senza precise argomentazioni a sostegno, come un postulato, in forma quasi autocontraddittoria e con un nascosto slittamento nell'argomentazione, svolge in linea di principio un ruolo ristretto a motivare l'esistenza della criminalizzazione e della pena. Incalzata dalle ricerche, dal pubblico dibattito e dal tempo, la prevenzione generale è ricacciata in un angolo.

- I limiti della giustizia
Innanzitutto può essere utile definire quale filosofia della giustizia sta a fondamento della moderne teorie della pena basate sull'idea di giustizia. Torstein Eckhoff distingue tra due tipi di principi di giustizia (Eckhoff 1971, p.p. 37 s.) e chiama il primo di essi "giustizia equilibratrice" ("likevektsrettferdighet"). In generale essa riguarda lo scambio di valori ed Eckhoff discute quattro forme concrete di questo scambio. Senza entrare in dettagli, importante è per noi che tutte queste forme - e quindi per la giustizia equilibratrice in generale - presentano due caratteristiche. Innanzitutto implicano un diritto o un dovere a una qualche forma di remunerazione:
«Con questo intendo un diritto o un dovere, derivante dal fatto che una distribuzione di valori (di segno positivo o negativo) ha avuto luogo, il quale fa sì che possa o debba avvenire una nuova distribuzione - di direzione o di segno opposti - tra le medesime parti» (ivi, p. 39).
Inoltre implicano un'idea determinata di eguaglianza, che enfatizza l'equilibrio ("likevekt") della ripartizione:
«Il punto di vista fondamentale è che si debba cercare di ottenere l'equilibrio tra le quote e che questo serva sia per fondare la remunerazione sia per stabilire il suo carattere e la sua misura. I piatti della bilancia con cui era rappresentata la dea della giustizia - l'antica Justitia - simboleggiano questo concetto» (ivi).
L'altro principio di giustizia è detto da Eckhoff "giustizia distributiva" e in generale riguarda, come il nome suggerisce, la distribuzione di valori. Anch'essa si basa su un'idea di eguaglianza, ma diversa dalla precedente: bisogna trattare in modo eguale i destinatari. A volte il principio della distribuzione richiede che i destinatari ricevano quote eguali dei valori distribuiti - per esempio fette eguali di torta, servizio militare di ugual durata. In altri casi si domanda eguaglianza relativa, tale che la relazione tra colpa e pena debba essere uguale per tutti. Mentre la giustizia del primo tipo coinvolge sempre due parti, la giustizia distributiva non ha limiti di principio sul numero dei destinatari (nota 4).
Cerchiamo di collocare in rapporto a questa classificazione l'idea di giustizia nella moderna teoria della pena, analizzando in particolare le idee espresse nel già noto rapporto svedese (SOU 1986: 13-15). Alla base sembra esserci la giustizia equilibratrice: quando si parla della «proporzionalità» tra pena e reato abbiamo a che fare evidentemente con una questione di equilibrio, di piatti della bilancia da tenere in pareggio. La giustizia distributiva diventa così quasi "una conseguenza dell'applicazione della giustizia equilibratrice". Quando si stabilisce un equilibrio tra pena e reato c'è anche eguaglianza di trattamento, nel senso che la medesima pena è applicata a reati uguali. Riprendiamo un passo già citato:
«Per stabilire la scala di gradazione delle pene richiesta dai diversi reati bisogna fondarsi su qualche forma di teoria della giustizia. A tal scopo la proporzionalità e l'equivalenza sono importanti concetti. Con proporzionalità si intende che la scala sia determinata in proporzione alla gravità del reato. L'equivalenza implica che a tipi equivalenti di reato siano applicate pene egualmente severe e si può dire che sia una conseguenza dell'idea di proporzionalità» (ivi, vol. 1, p. 15).
La domanda che sorge è allora: regge quest'argomentazione in favore della teoria di un equilibrio tra azione e pena?
La teoria della giusta pena si ammanta di un'aura «scientifica» che la rende credibile e convincente. Concetti come «proporzionalità», «valore di pena», «gradazione della pena», «misura», creano l'apparenza che si possano determinare la durata e la severità della pena con una sorta di scientificità e analiticità - in contrapposizione alle valutazioni vaghe e imprecise che stanno alla base della prevenzione individuale e generale. Queste formulazioni danno innanzitutto l'impressione che il ragionamento poggi su una salda logica scientifica e suggeriscono che uno dei due termini dei quali si calcola l'equilibrio, gravità e reprensibilità del crimine, possa essere valutato in base a criteri stabili; inoltre, che il secondo termine, la severità della pena, il quale dovrà essere proporzionale al crimine, possa essere valutato in base a criteri assoluti. Infine danno l'impressione che i due termini, negatività del reato e negatività della pena, siano quantità comparabili. Sono quattro impressioni false, prese una ad una sarebbero forse emendabili o tollerabili, ma insieme, cumulando la loro falsità, portano questa forma di difesa del carcere a incagliarsi irrimediabilmente.

- Ragionamenti e circoli viziosi
Ben lungi da procedere con una salda logica scientifica, il rapporto SOU 1986: 13-15 si basa fondamentalmente su un circolo vizioso. Riesaminiamo, come sotto il microscopio, alcune delle citazioni già considerate. Il punto cruciale di tutto il ragionamento è la determinazione del valore di pena, stabilita per ogni reato sulla base della sua gravità e reprensibilità. Come già citato: «Riteniamo invece che la determinazione del valore di pena debba essere fondata sulla reprensibilità dei diversi reati» (SOU 1986: 13-15, vol. 1, p. 19). Che il valore di pena si ottenga cosi, risulta anche dalla discussione sulla determinazione delle sanzioni:
«Il punto di partenza è il valore di pena dei reati commessi, che si determina in base alla gravità del reato, con particolare attenzione al danno o ai pericoli che l'azione ha comportato e alla colpa dell'autore in quanto essa giunge ad espressione nell'azione» (ivi, vol. 1, p. 22).
Non c'è dunque alcun dubbio che il punto di partenza per determinare la pena siano la reprensibilità e la gravità del reato.
Poiché la determinazione del valore di pena è il primo passo per determinare la scala di gradazione delle pene, anche quest'ultima va riferita alla reprensibilità e la gravità, come risulta da un passo del rapporto che abbiamo già citato: «La gradazione delle pene deve dunque essere determinata in proporzione alla gravità del reato» (ivi, vol. 1, p. 19). Come vengono determinate, a loro volta, la reprensibilità e la gravità dei reati? La questione è decisiva. «Con il "valore di pena" del reato si intende la gravità del reato in rapporto ad altri reati» (ivi; confer anche vol. 2, p. 131); in altre parole, il singolo reato è visto nel contesto di altri reati e la sua reprensibilità o la sua gravità vengono determinate mediante un raffronto. Non c'è naturalmente motivo di preoccuparsi: si può benissimo pensare di stabilire la gravità del furto d'appartamento in relazione, ad esempio, alla gravità della rapina o della violenza carnale. Comunque non abbiamo ancora saputo come si stabiliscano reprensibilità e gravita di questi altri reati con i quali dovrebbe aversi il raffronto, né quali siano i relativi criteri; così siamo ancora a chiederci come si possano determinare più precisamente.
La risposta è sorprendente. Gravità e reprensibilità di un reato sono determinate a loro volta secondo quanto il reato «merita» di pena, a seconda cioè del valore di pena che esse stesse dovrebbero giustificare. Riprendendo ancora la medesima citazione, subito dopo la frase «Riteniamo invece che la determinazione del valore di pena debba essere fondata sulla reprensibilità dei diversi reati», leggiamo: «Per stabilire la scala di gradazione delle pene per i diversi reati bisogna dunque partire da "ciò che il reato, preso in generale, merita di pena"» (ivi, vol. 1, p. 19; corsivo dell'autore). La circolarità è evidente anche in altre parti del rapporto. Per esempio, subito dopo l'affermazione: «Secondo noi la scala di gradazione delle pene è basata sulla gravità o sulla reprensibilità del reato», segue: «Riteniamo cioè che un punto di partenza perfettamente naturale, quando si debba determinare la gradazione delle pene per i diversi reati, sia giudicare "che cosa questi, presi in generale, meritano di pena"» (ivi, vol. 1, p. 15; corsivo dell'autore). I termini chiave sono «dunque» ("således") e «cioè» ("nämligen"), che connettono " direttamente" affermazioni secondo le quali il valore di pena e la gradazione della pena devono basarsi sulla reprensibilità e sulla gravità del reato, con affermazioni secondo le quali la gradazione delle pene dev'essere determinata partendo da quanto il reato merita di pena. I due termini implicano che i secondi enunciati siano chiarimenti o approfondimenti dei primi.
Siamo dunque di fronte a un circolo vizioso. Ci dev'essere un equilibrio tra la pena e il reato: il valore di pena dev'essere stabilito in base alla reprensibilità e alla gravità del reato; la reprensibilità e la gravità del reato sono determinate da quanto il reato «merita di pena», cioè il valore di pena. Se il valore di pena è determinato dalla reprensibilità e dalla gravità del reato e viceversa, non è poi così complicato stabilire che cosa si intenda con «equilibrio» tra pena e reato.
Si può aggiungere che più avanti nel rapporto, dove si discute più in dettaglio (ivi, vol. 2, capp. 11 -12) delle medesime questioni, la circolarità è meno evidente. Ma non scompare di certo. All'inizio del principale capitolo sul valore di pena scopriamo che il concreto valore di pena di un reato «è considerato una misura della gravità di un certo atto criminale commesso» (ivi, vol. 2, p. 131). Il testo continua: «Tale valore di pena è deciso, nel singolo caso, da chi deve applicare la legge, normalmente all'interno di limiti determinati dalla scala di gradazione della pena stabilita per quel reato» (ivi). Qui l'argomento è esplicitamente circolare. Inoltre la possibilità di misurazioni indipendenti della reprensibilità e della gravità, in riferimento a interessi o valori da tutelare, è discussa (ivi, vol. 2, p.p. 147-149) in un modo breve e generico, come ammette il rapporto stesso («è quasi impossibile, in generale, determinare più precisamente come dovrebbe essere stimato il valore di pena», ivi, vol. 2, p. 149).
Bisogna anche aggiungere, per addolcire le critiche, che questo genere di circoli viziosi, più o meno espliciti, è antico quanto le stesse teorie assolute della pena ed è un marchio del vecchio come del nuovo classicismo. Il lavoro neoclassico meno infarcito di circoli viziosi è quello di von Hirsch (1986), in cui si tenta di stabilire criteri indipendenti della gravità del reato, cercando apparentemente di limitare i circoli viziosi. Von Hirsch non riesce però ad eliminarli: dopo aver discusso in generale come si debba determinare la gravità dei crimini, egli prosegue dando alcuni consigli più pratici al legislatore, tra i quali, in aggiunta ad altri criteri più indipendenti, il suggerimento che «perlomeno quando si tratta di crimini tipici come furti, violenza e frodi, si può sviluppare una stima approssimativa delle loro conseguenze " usando la definizione giuridica del crimine" e le normali conoscenze disponibili degli effetti probabili di quest'ultimo» (von Hirsch 1986, p. 74, corsivo dell'autore). Sembra assolutamente impossibile valutare «la definizione giuridica del crimine» senza prendere in considerazione il valore di pena.
In favore del rapporto svedese va detto che propone un minor impiego del carcere (confer SOU 1986: 13-15, vol. 1, p. 17). Altrettanto vale per il rapporto del comitato quacchero citato in precedenza. Il fatto è che "esattamente con lo stesso tipo di ragionamento si potrebbe giungere a ritenere desiderabili pene più dure e un maggior numero di detenuti", influenzando alla lunga la prassi. I ragionamenti circolari portano forse a una liberalizzazione nel nome della giustizia, ma possono condurre altrettanto bene a conclusioni opposte, pur sempre in nome della giustizia. La cosiddetta teoria assoluta della pena è in questo senso ben poco assoluta. Se l'idea della giustizia come equilibrio tra reato e pena potrà avere qualche significato, la gravità e la reprensibilità del reato, da una parte, e la severità della pena dall'altra, dovranno essere definite perlomeno in modo indipendente e non circolarmente. Si incontreranno però comunque nuovi problemi.

- Gravità, reprensibilità e senso morale
Leggendo SOU 1986: 13-15 o simili documenti neoclassici risulta evidente che, nell'intenzione degli autori, la criminalità è anche valutata dal punto di vista morale. Termini come «gravità» e «reprensibilità» sono impiegati proprio come equivalenti di «danno prodotto» e di «colpa». Introdurre considerazioni etiche nella valutazione dei reati è, in prima istanza, un criterio indipendente che spezza il circolo vizioso di cui abbiamo discusso. Ma il senso morale non è un criterio stabile, anzi, è parzialmente soggetto a forti oscillazioni (confer ad esempio Kutchinski 1972) e porlo a fondamento della proporzionalità risulta perciò molto complicato. È un fatto importante, perché una certa immagine della giustizia, come già detto, dà l'impressione che uno dei due elementi che devono trovarsi in equilibrio, la gravità e la reprensibilità del crimine, possa essere valutato sulla base di criteri fissi.
Possiamo presentare due forme di queste oscillazioni, ognuna delle quali a sua volta presenta due aspetti. Innanzitutto il senso morale cambia "nel tempo" e cambia, con esso, la percezione della gravità e reprensibilità del reato. Da un lato, sul lungo periodo, vi sono molti esempi storici di tali cambiamenti, come la blasfemia e l'omosessualità. Dall'altro si trovano esempi di cambiamenti drammatici, che avvengono nell'arco di un breve periodo, quando in una società si verificano dei casi di cosiddetto «panico morale»: all'inizio vi sono determinati interessi che vengono provocati da certi comportamenti; poi le istituzioni reagiscono a quei comportamenti e quindi i mass media (o altri canali di comunicazione) si impadroniscono dell'accaduto, esasperando i gruppi i cui interessi erano stati provocati, incrementando la reazione delle istituzioni, eccetera., in una spirale di reazione morale panica. Reazioni morali fortemente negative nei confronti di gruppi giovanili riconoscibili per determinate caratteristiche esteriori - i "mods" e i "rockers" nell'Inghilterra degli anni Sessanta - sono state descritte come il frutto di un simile panico morale (Cohen 1972). Analogamente sono state descritte, in Norvegia, la reazione nei confronti degli etilisti senza fissa dimora durante gli anni Settanta (Mathiesen 1975) e quella più recente contro i giovani che fanno uso di stupefacenti (Christie - Bruun 1985). Sono tre esempi importanti perché hanno tutti riscontri in ambito penale: poco tempo dopo, i "mods" e i "rockers" furono trattati dalla polizia in modo assai poco garantista, e i vagabondi etilisti, che dal 1970, tra grandi ovazioni pubbliche e per voto unanime del Parlamento, erano esenti dal carcere e dal lavoro forzato, sperimentavano una crescente volontà politica di ripristinare il vecchio regime. Invece i consumatori norvegesi di stupefacenti hanno sperimentato nei fatti che il panico si traduceva in un aumento del livello di pena: mentre la pena massima per i trafficanti passava nell'arco di qualche anno da 10 a 15 e poi a 21 anni, per i detentori e spacciatori di piccole quantità di droga, oltre ad essere effettuati un maggior numero di arresti, le sentenze sono diventate molto più severe.
II senso morale cambia, inoltre, "nello spazio"; e di nuovo la percezione della gravità e della reprensibilità del reato va di conserva. Per lo più si tratta di variazioni dall'una all'altra società. Un esempio: la valutazione della guida in stato di ebbrezza è probabilmente molto diversa se si paragonano gli Stati Uniti e la Norvegia, in conformità ai loro diversi contesti culturali. Ma si trovano molti esempi di simili differenze anche tra i diversi gruppi della medesima società. In una ricerca da me condotta a Oslo, in due tipici ambienti di classe media e classe operaia, su genitori e figli (questi ultimi da 15 a 18 anni; per dettagli confer Mathiesen 1966), avevo riscontrato differenze notevoli sia tra le due generazioni, sia tra le classi sociali, nella valutazione del comportamento giovanile criminale o deviante. In primo luogo si notava che i genitori assumevano sistematicamente un atteggiamento più intollerante e restrittivo che non i loro figli, risultato per certi versi prevedibile. In secondo luogo, senza considerare la generazione, gli appartenenti alla classe operaia risultavano sistematicamente e inoppugnabilmente più intolleranti e restrittivi degli appartenenti alla classe media. Le domande erano formulate in modo da far esprimere una diretta valutazione morale intorno a diverse azioni, delle quali si chiedeva se fossero «giuste o sbagliate» (ivi, p. 23). Ricerche condotte in altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e l'Italia, hanno evidenzi ato analoghe differenze tra le classi sociali (Kohn 1969). Oltre a porre domande dirette intorno ad azioni precise, avevo domandato quale ritenevano sarebbe stata l'opinione degli altri intervistati. Specificamente, ai genitori veniva chiesto che cosa ne avrebbero pensato i coetanei dei loro figli, ma ai figli veniva chiesto che cosa ne avrebbero pensato sia i loro coetanei sia i coetanei dei loro genitori. Tra i genitori come tra i figli, gli appartenenti alla classe operaia evidenziavano sistematicamente nel loro ambiente un clima morale più intollerante e restrittivo verso il comportamento criminale o deviante rispetto agli appartenenti alla classe media.
Le variazioni di lungo periodo o tra società diverse costituiscono probabilmente il versante meno significativo della questione. Ben più importante è quanto abbiamo evidenziato a proposito delle differenze sul breve periodo e tra i gruppi sociali: si può tranquillamente affermare che l'azione equilibratrice della giustizia deve essere collocata e valutata sullo sfondo del concreto periodo storico cui si appartiene e delle caratteristiche della società nella quale, dopotutto, si vive (nota 5).
Vorrei sottolineare che questo non implica un completo relativismo morale. Nell'ultima ricerca di cui abbiamo parlato, ho trovato, come detto, che vi erano differenze tra i gruppi qualunque fosse il comportamento deviante o criminale considerato. Ma la maggioranza dei genitori come dei figli, della classe media come della classe operaia, riteneva che, tra i comportamenti su cui era loro chiesto di prender posizione, quello di più forte connotazione criminale fosse «del tutto sbagliato». Le differenze tra i gruppi riguardavano perciò l'entità di questa maggioranza. Analoghe tendenze al consenso sono state riscontrate in molte ricerche americane, anche se il grado di tale consenso rimane una questione aperta (confer von Hirsch 1986, p. 85) e varia probabilmente da una società all'altra. In una rassegna di studi americani e finlandesi, nella quale questi ultimi mostravano un grado di consenso ben superiore riguardo alla relativa gravità dei diversi tipi di reato, come erano valutati dalla legge, dall'apparato giudiziario e dall'opinione pubblica, Kutchinski suggeriva che simili variazioni da una società all'altra possano essere spiegate in base a differenze sociologiche relative al grado di eterogeneità della composizione, di conflitto culturale, di mobilità e di mutamento sociale (Kutchinski 1973).
In ogni caso, appunto, le convinzioni morali della popolazione non sono del tutto fluttuanti. Ma ovviamente non sono neppure perfettamente stabili. Variano abbastanza, anche in brevi periodi di tempo e tra i diversi gruppi sociali, al punto che diventa complicato, in generale, valutare la gravità e la reprensibilità dei reati dal punto di vista morale. Inoltre, se davvero il consenso è influenzato dai parametri proposti da Kutchinski, in molti paesi occidentali ci si deve attendere che le diversificazioni aumentino alla fine di questo secolo.
Prima di proseguire va menzionato che Andrew von Hirsch, nel suo nuovo lavoro sulla giusta pena (la relativa espressione inglese, "just deserts", letteralmente significherebbe «quanto ci si merita giustamente»), ha cercato di ragionare in modo tale da superare i problemi connessi con la valutazione del crimine basata sulla percezione che se ne ha dal punto di vista morale (von Hirsch 1986). Egli prende le mosse, com'è normale nelle teorie assolute della pena, in parte dal danno conseguente al crimine e in parte dal grado di colpevolezza che caratterizza il singolo atto criminale. In accordo con il criminologo Richard Sparks, egli ritiene che non bisogna dar peso a come la popolazione valuta un crimine, perché questo significherebbe basarsi su ciò che la gente "crede" a tale proposito, e la gente può, per esempio, sovrastimare l'entità del danno prodotto. L'idea di von Hirsch è che il danno deve essere stabilito sulla base degli accertamenti di fatto e quindi può essere in una certa misura indagato empiricamente. Comunque, egli aggiunge un'importante specificazione: questa «indagine empirica sul danno criminale deve essere integrata con giudizi di valore» (ivi, p. 66). Differenti crimini colpiscono interessi diversi, che - come egli chiaramente sottintende - devono essere valutati. «Rimane ancora», aggiunge von Hirsch, «l'altro elemento di pari importanza in gravità: la colpevolezza del criminale per l'azione commessa» (ivi). È sottinteso che questo elemento comporta anche giudizi di valore. «Come possono dunque essere formulati tali giudizi di valore?», si chiede von Hirsch, e sviluppa allora un sistema per misurare con precisione la gravità, che richiede in parte di valutare il danno, classificando i vari tipi di interesse, e in parte di valutare la colpevolezza, classificando i vari gradi di colpa (ivi, p.p. 63-76).
In tal modo von Hirsch cerca di tingere di fattualità la determinazione della gravità del reato. Bisogna dire che ottiene dei buoni risultati in fatto di chiarezza, ma bisogna anche sottolineare che egli dà molto peso ai «giudizi di valore», per misurare sia il danno sia la colpevolezza. Nel fare ciò, ricade necessariamente nella questione della valutazione morale del crimine. È molto difficile capire, allora, come egli, o il legislatore ipotetico, possano evitare tutti i problemi connessi con la valutazione morale, se non mascherandola con l'apparenza di qualcosa di avalutativo. Riprendiamo un passo già parzialmente citato: «Penso che un organo legislativo possa intraprendere dei passi concreti che lo metteranno in grado di elaborare una scala di gravità operativa, se non perfetta, che gli serva di guida. Perlomeno quando si tratta di crimini tipici come furti, violenza e frodi, si può sviluppare una stima approssimativa delle loro conseguenze usando la definizione giuridica del crimine e le normali conoscenze disponibili degli effetti probabili di quest'ultimo. Si possono anche formulare dei giudizi morali basati sul "common sense" [sic!] circa la diversa importanza relativa dei diritti e degli interessi violati dai differenti reati. Si può graduare la colpevolezza almeno considerando se si riscontrino intenzionalità, imprudenza o negligenza...» (von Hirsch 1986, p. 74). Nel mucchio rientra chiaramente la valutazione morale.
Alle oscillazioni del senso morale di cui abbiamo parlato vanno aggiunte numerose e cospicue differenze, in fatto di risorse e opportunità di vita, tra i diversi individui e gruppi sociali. Come abbiamo già osservato, su coloro che restano presi in una carriera criminale e che finiscono per scontare lunghe condanne nelle nostre carceri, pesa un cumulo di problemi (alcool, vuoti educativi, gravi difficoltà familiari eccetera). Le azioni giudicate particolarmente gravi e reprensibili, che comportano quindi lunghe carcerazioni, sono compiute pertanto da persone che sono le più povere, in senso ampio. Più sappiamo di questa loro povertà, più ci riesce difficile continuare a considerare reprensibili quelle azioni. Un'azione commessa in condizioni di indigenza materiale, in stato di grave disagio sociale e psicologico, è così riprovevole? La valutazione della gravità e della reprensibilità dei crimini, già complicata dalle variazioni del senso morale nel tempo e nello spazio, diventa tremendamente difficile quando si prendono in considerazione questi aspetti vitali delle situazioni dei singoli.
L'approccio classico (come SOU 1986: 13-15) trascura questi aspetti e ne tiene conto solo in quanto circostanze attenuanti, i cosiddetti «motivi di clemenza» (SOU 1986: 13-15, vol. I, p. 22). Se invece li si assume nel proprio punto di vista, la valutazione morale diventa molto incerta. Occuparsi di politica criminale porta in genere a dire che più ci si avvicina alle vite di quanti affollano le nostre carceri, meglio si vedono l'indigenza materiale e la mancanza di opportunità. Questo significa che il punto di osservazione, più precisamente il grado di vicinanza all'autore dell'azione che si giudica, è una dimensione fondamentale dell'immagine che se ne ha.

- Il punto di osservazione
Il giudizio su quale sia una pena severa e in che cosa consista la maggiore o minore severità dipende dal proprio punto di osservazione ed è dunque relativo alla distanza alla quale ci si pone dalla situazione e da chi vi è coinvolto. Tra le molte ricerche in proposito, vorrei presentarne una da me svolta sull'immagine della politica portata avanti nei confronti della delinquenza giovanile, nell'opinione pubblica norvegese (Mathiesen 1965b). La domanda principale era: «Le sembra che i giovani delinquenti siano oggi trattati perlopiù: troppo severamente, troppo poco severamente, con la giusta severità?». Sulla distribuzione totale delle risposte (2100) risultava evidente un atteggiamento punitivo: solo il 2% riteneva il trattamento troppo severo, ben il 67% lamentava una scarsa severità e il 21% optava per una giusta severità. Il 10% non rispondeva.
La successiva domanda era più precisa: «Dei provvedimenti elencati in questa lista, vorremmo sapere quali Lei ritiene siano applicati troppo sovente, con giusta frequenza o troppo raramente ai giovani delinquenti». Nella lista si trovavano: «ritiro della denuncia, nessun processo», «casa di correzione, collegio», «trattamento da parte di medici, psicologi, eccetera», «carcerazione». La domanda era dettagliata per quanto riguarda le sanzioni, pur rimanendo generica sulla «delinquenza giovanile», e le risposte mostravano sfumature corrispondenti: il 49% riteneva che si ricorresse troppo raramente al carcere, ma una percentuale di poco superiore, il 51%, lamentava la scarsità di trattamenti medicopsicologici e una quota rilevante, il 31%, riteneva sottoutilizzati la casa di correzione e il collegio. Persino il ritiro della denuncia trovava una percentuale rilevante di consensi, tenendo conto della distribuzione delle risposte alla prima domanda: il 20% riteneva che vi si ricorresse troppo di rado.
Le sfumature aumentavano entrando ancor più nel dettaglio. La terza domanda precisava sia le sanzioni sia i reati commessi: «Un ventenne commette per la prima volta un reato. Cosa ritiene si debba fare nel caso si tratti di...» e poi era precisata l'azione. Si ottennero le risposte riportate nella tabella in questa pagina.

[A: furto d'auto; B: furto in appartamento; C: rapina; D: violenza carnale.]

pena detentiva: A 20 - B 15 - C 37 - D 51

pena non specificata: - A 14 - B 13 - C 19 - D 22

subtotale: A 34 - B 28 - C 56 - D 73

reintegrazione del danno: A 43 - B 32 - C 20 - D //

ammonimento, ritiro della denuncia, richiamo: A 9 - B 17 - C 6 - D 1

condanna condizionale: A 11 - B 18 - C 7 - D 2

subtotale: A 20 - B 35 - C 13 - D 3

casa di correzione o di lavoro: A 5 - B 4 - C 7 - D 3

trattamento, periodo in osservazione: A 1 - B 2 - C 2 - D 10

altre, inclassificabili: A 9 - B 9 - C 8 - D 7

non risponde: A 11 - B 11 - C 12 - D 12

(dati in percentuale).

La somma delle percentuali è diversa da 100 perché ogni persona poteva indicare più di una sanzione. Tra i reati compresi nella lista si trovavano i più frequenti tra la popolazione giovanile, cioè furti d'auto e in appartamento, altri chiaramente meno frequenti (come le rapine) e altri molto rari, cioè i casi di violenza carnale. Per quanto riguarda i più frequenti, vediamo prevalere sanzioni diverse dalla carcerazione e l'atteggiamento della gente è abbastanza liberale: per entrambe le categorie, in caso di reati per un valore standard di 2000 corone, la reintegrazione del danno è preferita al carcere. Per i furti in appartamento, sono preferiti provvedimenti quali l'ammonimento, il ritiro della denuncia, il richiamo ufficiale da parte del magistrato, le condanne condizionali; per i furti d'auto le misure più liberali sono per lo meno rappresentate con buone percentuali. È degno di nota che persino tra coloro che alla prima domanda rispondevano «troppo poco severamente», il carcere non è menzionato più frequentemente di altre misure, ma divide con altre il primo posto.
Benché l'interpretazione delle risposte a queste domande sia complessa, in ogni caso i risultati suggeriscono molto chiaramente che più ci si accosta, nella formulazione delle domande, alle situazioni specifiche e a chi vi è coinvolto, tanto più il modo di considerare le punizioni da parte degli intervistati diventa sfumato e addirittura liberale.
Si può aggiungere che se cambiamo ancora il punto di osservazione e, da un campione rappresentativo della popolazione che si esprime su come trattare altri individui, ci rivolgiamo a un campione di detenuti che si esprimono sul trattamento da applicare a loro stessi, le tendenze che abbiamo sottolineato diventano ancora più marcate. In una ricerca svolta in un istituto di sicurezza (Ila) e in un penitenziario in cui si scontano lunghi periodi di detenzione, chiedendo tra l'altro: «Pensi che la condanna che stai scontando sia giusta in relazione a quel che hai fatto?», rispondevano: «No» il 75% nel primo carcere e il 65% nel secondo (Mathiesen 1965a, p. 160). Anche se si può pensare che alcuni di loro intendessero che la condanna era troppo lieve, si può mettere in conto che la maggior parte rispondesse così perché riteneva la condanna troppo severa. Le percentuali possono essere paragonate con la quota di popolazione che riteneva il trattamento inflitto ai giovani delinquenti troppo severo: il 2%.
Ricerche internazionali suggeriscono la medesima tendenza di fondo per quanto riguarda il punto di osservazione. In una ricerca del 1975 su un campione scelto a caso di persone tra i 18 e i 75 anni nella città svedese di Malmö, Ulla Bondeson poneva una domanda generale sull'opinione dell'intervistato intorno alle pene applicate nel paese. L'8% rispose che le pene erano troppo severe e il 55% che erano troppo lievi, il 22% le riteneva appropriate e il 18% dava altre risposte o non rispondeva (Bondeson 1979, p. 135). Seguiva una serie di domande concrete su vari tipi di comportamento che erano considerati criminosi o che potevano esser ritenuti moralmente riprovevoli. Tra l'altro veniva chiesto agli intervistati di precisare quali dovessero essere le sanzioni per questi tipi di comportamento. Tenendo presente l'osservazione di Kutchinski, che ci possono essere differenze nazionali nel grado di consenso rispetto alla legge, ai tribunali e all'opinione pubblica (Kutchinski 1973), vediamo come la stessa Bondeson riassume i risultati del proprio lavoro:
«Per ragioni di spazio non possiamo riportare qui le domande, ma si possono indicare comunque certe tendenze. Si può sostenere nel complesso che la gente ha perlopiù una concezione delle questioni giuridiche molto ricca di sfumature: certi tipi di comportamento si considerano più gravi di quanto non facciano la legislazione o la prassi giudiziaria, mentre altri sono considerati meno gravemente. Le risposte non offrono dunque, in generale, un supporto alla tesi di Illum che la consapevolezza diffusa delle questioni giuridiche manca di struttura ed è priva di contenuto. Non si può nemmeno dire che prestino sostegno alla tesi secondo cui in genere si richiedono 'misure più severe contro la criminalità'» (Bondeson 1979, p. 134).
Di nuovo può essere utile un paragone con il parere dei detenuti: in una ricerca di Ulla Bondeson sui detenuti di una serie di carceri svedesi, si trova che il 51% considerava in generale le pene troppo severe, mentre il 6% le trovava troppo lievi (Bondeson 1974, p. 438; confer Bondeson 1979, p. 135). Possiamo confrontare queste percentuali con la quota di popolazione di Malmö che riteneva le pene troppo severe (8%) e troppo lievi (55%): risultati diametralmente opposti. Dalla rassegna dei risultati di diverse ricerche su campioni di detenuti e di popolazione, risulta che, nonostante variazioni tra gli studi e tra i sottogruppi della popolazione generale, tra i campioni di detenuti e i campioni generali si riscontrano gli scarti maggiori, definiti da Bondeson «contrasti stridenti» (ivi, p. 440).
Anche se non tutto fluttua, insomma, anche se si rintracciano tendenze a una comune concezione della severità delle pene, ci sono tuttavia variazioni significative, specialmente in relazione al mutare del punto di osservazione, alla distanza o alla prossimità rispetto alla situazione e a chi ne è coinvolto. La mia interpretazione è che, quanto più ci si allontana, tanto più il giudizio rimane superficiale e tanto meno si comprende la sofferenza prodotta dalla pena. Di converso, quanto minore è la distanza tanto maggiore è la comprensione. Questa interpretazione è anche confermata da risultati di ricerche svolte in altri contesti. Stanley Milgram ha osservato, in una situazione sperimentale, che quanto maggiore è la distanza tra chi esegue un ordine di infliggere dolore e la sua vittima, tanto più di buon grado l'ordine viene eseguito (Milgram 1965). Nils Christie lo ha mostrato in una ricerca mediante interviste condotta tra le guardie nei campi di concentramento norvegesi durante la seconda guerra mondiale: tanto maggiore era la distanza che costoro riuscivano a porre tra sé e i prigionieri, più di buon grado giungevano ad usare mezzi di potere violenti e persino la tortura (Christie 1952). Ciò non significa che una relazione ravvicinata non possa comportare elementi di oppressione e violenza, come si vede nella sfera privata e soprattutto nella famiglia. Che la vicinanza porti alla comprensione, dipende da ciò su cui si basa la relazione e dal contesto. Nella sfera pubblica, soprattutto quella statale, con relazioni meno personali e più burocratiche, una maggiore prossimità alla vittima ci pone in migliori condizioni per capire. Quanto abbiamo detto offre un approccio per comprendere la situazione di gruppi sociali disagiati: consiste nel diminuire la distanza, in modo che da vicino la gente veda il contenuto delle situazioni e risulti capace di empatia.
Riassumendo, non solo è complicato giudicare della gravità e la reprensibilità della criminalità sulla base del senso morale, come abbiamo visto nel paragrafo precedente: di per sé sarebbe ancora una complicazione sopportabile, anche perché si ritiene che vi sia un certo grado di consenso nella valutazione morale dei crimini. Ma con tutto ciò che vi è di relativo e dipendente dal punto di osservazione nella valutazione della severità delle pene, risulta anche - e ancor più - complicato stabilire il «giusto» valore di pena in termini di severità.
Così entrambi gli elementi da mantenere in equilibrio, conformemente all'idea di giustizia, per giungere a definire la giusta pena, la pena «meritata», risultano quanto mai problematici.
Nel suo libro più recente, von Hirsch cerca di valutare la severità delle pene in modo da neutralizzare l'importanza del punto di osservazione, e quindi il suo carattere relativo, così come già abbiamo visto che cerca di neutralizzare la problematica morale. Egli distingue, in fatto di pena, tra grandezze cardinali e ordinali. I valori cardinali, o fondamentali, sono i punti di ancoraggio della scala di gradazione delle pene, il punto minimo sotto il quale non si può scendere e il punto massimo che non può essere superato. I valori ordinali, ossia ordinati in serie, rappresentano la scansione interna ai punti terminali. Trovare i valori cardinali, secondo von Hirsch, è la prima cosa da fare. Dopo, all'interno di quei confini, potranno essere determinati i valori ordinali.
La descrizione suggerisce che i valori cardinali siano oggettivi e assoluti, per aggirare così la questione del relativismo. Il termine "anchoring", ancoraggio, dovrebbe convincere che il fondamento della scala di gradazione delle pene sia reso sicuro come una barca all'ancora in una baia tranquilla. Come si trovano allora questi stabili valori cardinali? A questa domanda von Hirsch non dà una risposta soddisfacente. Egli spiega anzitutto che la giustizia, o il principio della giusta pena come quella che si è «meritata», in fatto di decisioni sui valori cardinali è solo un principio che pone dei limiti, mentre le decisioni sui valori ordinali ne sono invece direttamente determinate. Parlare di ruolo esclusivamente limitativo significa che i valori cardinali non possono essere determinati con precisione sulla base del solo principio di giustizia, ma unicamente in modo che ne siano limitati e che non possano variare al di sopra o al di sotto di quel che è proporzionalmente ragionevole.
Ma come vanno stabiliti i limiti di proporzionale ragionevolezza? Von Hirsch non offre che vaghissime indicazioni, tanto che la questione rimane aperta (von Hirsch 1986, p.p. 43-44). Anche se cerca di cavarsela con una gran mole di esempi, non si riesce a trovare un vero e proprio metodo adottabile dal legislatore.
Che la giustizia sia un principio che limita e non determina i valori cardinali della pena, comporta inoltre - come von Hirsch ammette apertamente - che anche altri criteri possano esser presi in considerazione per determinare questi valori. Quali? Specialmente la ricettività degli istituti carcerari, di cui si dovrebbe poter tenere conto, secondo von Hirsch, «in combinazione con [...] valutazioni normative della proporzionalità cardinale» (ivi, p. 96; confer anche p.p. 100-101). I valori cardinali devono poter essere stabiliti preliminarmente sulla base dei posti disponibili nelle carceri. Poi si dovrà decidere se quanto si è stabilito «è in accordo con i limiti cardinali di proporzionalità» (ivi, p. 96). In alcuni casi, in cui pochi posti accettabili sono disponibili, quest'ultimo passo fa sì che si debba aumentare la ricettività carceraria per evitare che i crimini rimangano impuniti. In altri casi, quando il sistema carcerario è molto sviluppato e i posti sono numerosi, si cercherà di diminuirla.
Usare la ricettività delle carceri come criterio supplementare sembra comunque equivalente a introdurre un criterio storicamente determinato, per esempio dalla storia economica e politica di un particolare stato federale (von Hirsch parla degli Stati Uniti). Come fondamento per una scala di gradazione delle pene è ben poco soddisfacente, e inoltre molto lontano dall'idea di giustizia che von Hirsch difende. Se si partisse dalla disponibilità di spazio nelle carceri tedesche, italiane o norvegesi, si arriverebbe di certo a valori assoluti, o «cardinali», a punti di ancoraggio ben lontani da quelli degli Stati Uniti, per cui non vi sarebbe nulla di assoluto, cardinale o «ancorante». Inoltre, e non meno importante, aggiungendo «valutazioni normative dei limiti cardinali», o un'ulteriore precisazione dei valori cardinali «in accordo con i limiti cardinali di proporzionalità», von Hirsch si limita ad aggirare il problema: sono proprio questi limiti di proporzionalità a dover essere determinati, sono essi i veri valori «cardinali» che stiamo cercando. Così restiamo di fatto a mani vuote.
Von Hirsch deve aver ben chiari questi problemi. Egli stesso mostra una certa cautela sulla determinazione dei valori cardinali: «In effetti, non c'è un'unica soluzione corretta per l'ancoraggio della scala di gradazione delle pene» (ivi, p. 100). Ma, egli ritiene, in ogni caso queste considerazioni rendono il modo di procedere «razionale, nel senso di essere coerente e sostenuto da ragioni basate su una concezione generale della pena meritata» (ivi, p. 101). In realtà, visto i problemi che abbiamo riscontrato, la razionalità è solo "apparente" . Il modo di procedere offusca la realtà. La realtà è che i problemi legati al punto di osservazione e alla sua relatività persistono.
In aggiunta al criterio della ricettività carceraria, von Hirsch menziona un criterio basato su un genere di neutralizzazione sul quale ritiene di dover richiamare l'attenzione. Come abbiamo notato nel quarto capitolo, von Hirsch critica in modo efficace e convincente la neutralizzazione, tanto collettiva quanto selettiva, come motivazione della pena e in particolare del carcere. Ma verso la fine del libro (ivi, capp. 13 s.), nella discussione finale sul "just deserts" (giusta pena ma anche, come dicevamo, «giusto merito»), egli introduce inaspettatamente un terzo tipo di neutralizzazione, detta «per categorie», che starebbe in qualche modo «tra» quella collettiva e quella selettiva, sperando di combinare questo tipo di neutralizzazione con la definizione della giusta pena. Mentre la neutralizzazione collettiva, egli dice, è diretta contro i crimini più gravi in generale, nel tentativo di ottenere un impatto neutralizzante uniforme sulle varie categorie, la neutralizzazione «per categorie» prende a bersaglio particolari categorie di reati. D'altra parte, mentre la neutralizzazione selettiva punta alle caratteristiche individuali del reo associate con la recidività, la neutralizzazione «per categorie» punta a determinare quali categorie di crimini siano correlate con i più alti tassi di recidività. Si esamina la recidività grave, tenendo cioè conto della gravità degli episodi considerati.
Il tentativo di von Hirsch è di combinare l'attenzione alla recidività di determinate categorie di criminali con il dovuto rispetto per la giustizia, sviluppando una complessiva strategia giudiziaria che consenta di affrontare in modo diversificato le varie forme di criminalità, restando coerente con il rispetto dell'equità e della giustizia nel formulare le sentenze. Più precisamente, dovrebbero essere sviluppate prima di tutto linee direttive sperimentali, che tengano esclusivamente conto di principi di «merito». Successivamente i punti d'ancoraggio della scala di gradazione delle pene andrebbero rimaneggiati in funzione di scopi di controllo non-selettivo della criminalità, in particolare della neutralizzazione «per categorie» (ivi, p. 161). Ma l'aggiustamento non dovrebbe essere così ampio da oltrepassare i limiti della proporzionalità cardinale e nessuna variazione dovrebbe interferire con le relazioni tra i rispettivi valori ordinali delle pene all'interno di questi limiti (ivi, p.p. 161-162). L'idea si basa sul lavoro di Jacqueline Cohen (Cohen 1983).
In primo luogo si può obiettare che la neutralizzazione «per categorie» pare una sottospecie di neutralizzazione collettiva. Se non altro, è molto difficile capire in che cosa sia diversa in linea di principio e se non presenti gli stessi rischi - come von Hirsch sembra in parte riconoscere (ivi, p.p. 165-166), per quanto posso capire, specie quando ammette apertamente che finché «non se ne sappia di più sugli effetti della neutralizzazione per categorie, per esempio, riterrei prematuro tentare la strategia di inclusione di cui ho parlato» (ivi, p. 166). In secondo luogo, il tentativo di combinare la neutralizzazione «per categorie» con esigenze di giustizia sembra del tutto artificioso rispetto alla pratica, sia legislativa sia giudiziaria. Il legislatore vive e lavora in un contesto politico vivace e turbolento, il che rende estremamente improbabili certi astratti esercizi mentali qui suggeriti. In effetti von Hirsch lo ammette, quando scrive che l'inclusione di intenti preventivi «dovrebbe dipendere dalle abilità della commissione e dal clima in cui questa viene ad operare» (ivi).
Bisogna ricordare un altro tentativo di combinare "just deserts" e neutralizzazione. Norval Morris e Marc Miller hanno proposto di ammettere le predizioni di pericolosità, nel caso di crimini violenti contro la persona, all'interno di limiti ampi e determinati, basati sul «merito»:
«Riteniamo che la pena non dovrebbe essere estesa o statuita, in base alla predizione di pericolosità, al di là di quanto sarebbe giustificabile indipendentemente da tale predizione. Dunque concetti di 'merito' ("desert") definiscono i limiti superiori della pena ammissibile» (Morris - Miller 1983, p. 6).
Essi ammettono che la precisione predittiva sia bassa - si aspettano, con la miglior precisione possibile, di produrre una predizione di comportamento criminale violento avverata ogni due falsi positivi. Ma ritengono che ciò non significhi che i rei risultati falsamente positivi siano «innocenti»: «Insomma, il fatto che le persone ritenute pericolose non commettano in seguito reati non significa che la classificazione fosse errata, anche se era sbagliata la predizione stessa» (ivi, p.p. 2021). Essi fanno un paragone con oggetti pericolosi come, nel dopoguerra, le bombe inesplose a Londra: la maggior parte non esplosero e risultarono quindi «falsi positivi», benché esse avessero un alto "potenziale" di detonazione e fossero certamente pericolose (ivi, p.p. 18-19).
L'argomentazione ha numerosi punti deboli. Intanto, la ragione per accettare l'imprecisione predittiva è insostenibile. Un insieme sterminato di teorie e di dati di conoscenza, dalla fenomenologia alla sociologia di Weber, mette in guardia dalle analogie tra le azioni degli esseri umani, dotati di intenzionalità e coscienza, e i movimenti degli oggetti fisici. Per di più, e in parte proprio a causa di questa diversità, ne sappiamo molto di più sull'effettivo potenziale di pericolosità di oggetti fisici come le bombe, che non sull'analogo potenziale degli esseri umani. Morris e Miller non prendono sul serio l'imprecisione della predizione e anzi, vi passano sopra, procedendo come se la precisione e la conoscenza regnassero sovrane a prescindere dai risultati.
Molto più importante nel nostro contesto, Morris e Miller non forniscono alcuna indicazione su dove e come vadano determinati i limiti, basati su concetti di «merito», al di là dei quali presumibilmente la predizione non dovrebbe spingerci. Essi sostengono che esiste una gamma di pene giuste per un determinato reato, che l'idea di pene "non immeritate" dovrebbe limitare in modo appropriato la gamma delle considerazioni utilitaristiche e che «all'interno della gamma di pene non ingiuste» si possono prendere in considerazione differenti livelli di pericolosità al momento della sentenza (ivi, p. 37). Ma così non si risolve il problema dei punti di ancoraggio, che rimane senza risposta. Nel favorire la neutralizzazione all'interno di ampi limiti basati sul merito, che in effetti non vengono stabiliti, Morris e Miller corrono in realtà il rischio di promuovere un aumento dei livelli di pena in nome di una mera retorica della giustizia - esattamente quanto sta succedendo in Svezia.

- La sofferenza in carcere
L'ultimo punto elencato all'inizio di questa sezione sulla giustizia era l'impressione, che viene accreditata, di un equilibrio tra la negatività del crimine e la negatività della pena considerate come quantità commensurabili. Le difficoltà sollevate da questo presupposto, e in generale dalla realizzazione pratica della giustizia equilibratrice, toccano il loro apice quando si considera da vicino la sostanza della carcerazione. L'americano Gresham Sykes è uno dei sociologi che hanno descritto il contenuto della pena carceraria dandone una rappresentazione particolarmente partecipe. Come abbiamo ricordato nel capitolo 2, nel suo libro "The Society of Captives" (1958) egli discute le sofferenze maggiori cui sono sottoposti i detenuti ("pains of imprisonment"). L'espressione «pain» è forte, ma è usata da Sykes per evitare la tendenza a considerare il dolore o la sofferenza come qualcosa che appartiene al passato, e che appartiene solo al corpo (nota 6).
Il primo genere di sofferenza discusso da Sykes riguarda la privazione stessa della libertà: «Di tutte le condizioni che infliggono sofferenza imposte ai detenuti [...] nessuna è più immediatamente ovvia della perdita della libertà» (Sykes 1958, p. 65). Innanzitutto viene il fatto che i movimenti di una persona sono confinati all'interno del carcere. Più importante e più doloroso è che la libertà di intrecciare e serbare legami affettivi con familiari, parenti, amici, sia perduta. Benché non sempre se ne faccia uso quando ci si trova fuori del carcere, il fatto decisivo è che ci sia, e la sua mancanza «costituisce una dolorosa privazione o frustrazione, in termini di perdita di relazioni affettive, solitudine e noia» (ivi). Corrispondenza, visite e permessi non possono compensarne la perdita. Per di più, la reclusione rappresenta un «deliberato rifiuto morale del criminale da parte della comunità dei liberi» (ivi), il che è un attentato costante all'immagine di sé. Va aggiunto che la privazione della libertà si modella come gli strati di una cipolla: si trovano all'interno del carcere molte possibilità di isolamento per limitare quella libertà che resta al suo interno, si trovano persino forme di isolamento all'interno dell'isolamento (all'estremo la cella d'isolamento, il «buco»).
Il secondo genere di sofferenza riguarda la privazione di una serie di beni e servizi quotidiani. Molto di quanto diamo per scontato nella vita di tutti i giorni «fuori» viene tolto, o razionato, «dentro». In effetti il detenuto vede perlopiù soddisfatti i propri bisogni materiali fondamentali: in genere non soffre la fame, il freddo o un'eccessiva umidità. «Ma uno standard di vita calcolato in termini di tot calorie giornaliere, tot ore di ricreazione, tot metri cubi di spazio individuale e via di seguito, non coglie il punto fondamentale» (ivi, p. 68). Nella moderna cultura occidentale i beni materiali sono una parte così importante dell'immagine di sé, «che esserne strappati significa essere attaccati profondamente nella personalità» (ivi, p. 69). In verità la povertà materiale subita in carcere non sempre deve essere maggiore di quella che il detenuto sperimenta come membro della società. Ma la privazione sistematica di beni materiali e di servizi che si verifica in carcere costituisce in modo del tutto particolare un attacco, sistematico appunto e doloroso, all'immagine di sé del recluso.
Il terzo è costituito dalla privazione di relazioni eterosessuali, che costituisce ovviamente molto più di un problema fisiologico: «i problemi psicologici creati dalla perdita di relazioni eterosessuali possono essere molto più seri» (ivi, p. 71). Sono il ruolo maschile del detenuto in quanto uomo e il ruolo femminile della detenuta in quanto donna ad essere fondamentalmente minacciati e scossi. I colloqui alla presenza del sorvegliante con il coniuge o il convivente, quando questi esistano, attutiscono sì il problema; ma non lo eliminano, giacché tra l'altro i contatti sono molto limitati e si svolgono in una situazione molto costrittiva. E molti non hanno un coniuge o un convivente - la maggior parte dei detenuti che scontano lunghe pene è priva di nucleo familiare. I permessi hanno un effetto attenuante ma non risolutivo.
Un quarto genere riguarda la privazione di autonomia e indipendenza, ottenuta sottoponendo il detenuto a «un'enorme sistema di regole e disposizioni che hanno per scopo di controllare il suo comportamento in ogni minimo dettaglio» (ivi, p. 73). In realtà, anche nella società esterna si è sottoposti a regole e controlli. Ma la regolamentazione burocratica del carcere «è percepita come molto più dura della regolazione prodotta dai costumi sociali» (ivi). Dal punto di vista del detenuto, per di più, gran parte della regolamentazione interna appare priva di scopo. È di nuovo in questione l'immagine di sé, in questo caso come un individuo capace di autodeterminazione: le dettagliate e sovente inspiegabili disposizioni «provenienti dalla burocrazia carceraria implicano una minaccia profonda all'immagine di sé del detenuto, perché lo riducono alla condizione di debolezza, impotenza e dipendenza di un bambino» (ivi, p. 75).
Infine si ha la privazione della sicurezza personale. II «singolo prigioniero si trova gettato in un'intimità protratta con altri che hanno spesso una lunga storia di comportamenti violenti e aggressivi» (ivi, p. 77). Il carcere è per questo fortemente ansiogeno. L'angoscia connessa con la vita in comune con altri detenuti, che uno non si è scelto per conviventi, si riflette in Norvegia nell'alto numero di detenuti che richiedono periodi di isolamento, che viene percepito allora come male minore. A questo si aggiunge l'angoscia di dover subire le azioni repressive del personale carcerario.
«La detenzione è quindi dolorosa» (ivi, p. 78), conclude Sykes. Nei testi odierni di criminologia, le sofferenze della carcerazione sono spesso elencate tutt'al più come qualcosa di risaputo e che si può dare per scontato, finendo per non prenderle neppure in considerazione. È per questo che le abbiamo presentate dettagliatamente. Queste sofferenze esistono, pur in misura differente, in tutti i paesi e in tutti gli istituti di pena, in maggiore o minor grado.
All'insieme di queste sofferenze si aggiunge il "potere" che il carcere esercita in generale sulle vite dei detenuti. Il carcere controlla un ampio ventaglio di benefici e di oneri (per inciso, stranamente trascurati da Sykes) essenziali, a volte decisivi, per la vita dei reclusi. Dall'esterno, si potrebbe non credere che gli elementi controllati dal carcere siano di così grande importanza. La differenza tra una cella di isolamento e una cella normale può sembrare cosa da poco, come pure la differenza tra sei e otto corone di salario giornaliero: la cella è comunque angusta e il salario irrisorio. Viste da dentro, le differenze che da fuori paiono minime si ingigantiscono e, in parte, diventano per il detenuto d'importanza vitale, come hanno evidenziato molte ricerche svolte sia in carceri di dimensioni ridotte e relativamente aperti (Mathiesen 1965a) sia in carceri più grandi e meno liberali (Kristoffersen 1986). Kristoffersen, un antropologo norvegese che ha lavorato come guardia nel carcere circondariale di Oslo e che su di esso ha scritto la sua tesi, l'ha intitolata significativamente "La tirannia delle inezie". Questo effetto di ingigantimento è dovuto al fatto che il carcere stesso e la vita che vi si svolge costituiscono il quadro di riferimento e i termini di paragone per il recluso. Nella misura in cui i detenuti riescono a conservare come termine di paragone la comunità esterna, possono anche riuscire a conservare il punto di vista esterno rispetto all'entità delle differenze esistenti all'interno. Ma se il carcere s'impone loro come quadro di riferimento, come accade normalmente durante le lunghe carcerazioni (Mathiesen 1965a, p.p. 76-80), allora ne assumono la prospettiva. Allora la differenza tra sei e otto corone diventa davvero importante.
A ciò si aggiunge che il carcere controlla benefici e oneri che anche dall'esterno si dovrebbe poter capire come risultino vitali per il detenuto. La concessione o il rifiuto dei permessi, la libertà di corrispondenza o la censura, il rilascio sulla parola o il proseguimento della carcerazione, sono controllati dal carcere o da autorità superiori. Questo non significa necessariamente che siano usati dal personale come premi e punizioni allo scopo di mettere in riga i detenuti (ed è per questo che Sykes li ritiene irrilevanti in materia di potere), ma dal punto di vista dei prigionieri, che si pongono degli scopi diversi, quel controllo è una forma di potere. In carcere, la personalità del detenuto è sistematicamente smantellata per costruire una personalità nuova sulla base del sistema interno di privilegi, che per il detenuto finisce per significare quasi tutto (Mathiesen 1965a; Goffman 1961).
È importante chiarire che le possibilità del carcere di decidere su benefici e oneri, formali come informali, sono largamente discrezionali. Le regole cui il carcere deve attenersi per le proprie decisioni sono flessibili - in Norvegia si chiamano "gummistrikkbestemmelser", «regole a elastico». I detenuti hanno perciò scarse possibilità legali di controllare e limitare tali decisioni. Per questa ampia discrezionalità nelle proprie decisioni, ho definito altrove il potere del carcere come patriarcale: è lo stesso genere di potere che si incontra in una struttura feudale, una sorta di relitto sociologico del passato nell'epoca del dominio legale-burocratico (Mathiesen 1965a, cap. 6). Il carcere detiene, insomma, un potere colossale sui detenuti. Il carcere si rivela come la sofferenza eretta a sistema. La questione è allora: come viene «pesata» questa sofferenza nel contesto della giustizia proporzionale? Il problema è che equilibrare un insieme di sofferenze mediante un altro è ben arduo. È indiscutibile che un crimine espone altri a sofferenza. In ogni caso questo vale per le vittime di azioni criminali e, in particolare, per l'esiguo numero di vittime di violenza fisica. Ma, come abbiamo visto, anche chi finisce in carcere a causa di tali azioni è sottoposto a sofferenze. I due insiemi di sofferenze - della vittima e dell'autore del reato - sono "comunque incommensurabili" e pertanto non possono venire «pesati», come se su questa misura potesse poggiare un edificio composto di valori di pena, scala di gradazione delle pene e, infine, proporzionalità e equilibrio.
Da un lato si ruba un'automobile, un alloggio viene svaligiato, forse si compie una rapina. Persone sono private dei loro beni, in alcuni casi dell'integrità fisica o della salute. Dall'altra lato l'autore del reato, se sarà messo in prigione, dovrà sottostare a una privazione sistematica della libertà, di beni e servizi, della relazionalità eterosessuale, dell'autonomia e della sicurezza personale, oltre a subire l'esercizio di un potere pervasivo sui minimi dettagli della sua vita quotidiana. Non sostengo che le sofferenze cui è sottoposta la vittima siano insignificanti - anche se credo sia davvero così in molti casi. Non sostengo neppure che le sofferenze inflitte ai detenuti sembrino maggiori di quelle patite dalla vittima - anche se, ancora, credo sia così in molti casi. Dico solo che le sofferenze sono così diverse da non potersi confrontare, in ogni caso non in modo così preciso da farvi affidamento per stabilire valori di pena, scale di gradazione delle pene, proporzionalità ed equilibrio della pena.
Quanta sottrazione di libertà, di servizi medici, d'immagine di sé come uomo e come donna, di autonomia personale, sarà necessaria a compensare un furto in un alloggio, o i danneggiamenti a una seconda casa? I due insiemi di sofferenza, nei casi suddetti, contengono così tanti fattori annodati e un così grande carico di esperienze soggettive che la proporzionalità e l'equilibrio della giustizia sprofondano.

- Si può difendere il carcere con le teorie della giusta pena?
Cerchiamo di ripercorrere il cammino percorso. Quando le punizioni fisiche sono state sostituite con il carcere, è avvenuta una conversione della pena in "sottrazione di tempo". La premessa fondamentale dell'idea che il carcere dia la misura della giustizia proporzionale è che si possa misurare, in termini di "tempo sottratto", la giusta pena che si è «meritata» rispetto alle azioni criminali. Il tempo che viene sottratto ai detenuti in carcere è considerato come se avesse due caratteristiche: innanzitutto è visto come una grandezza oggettiva, nel senso che è intersoggettivo, vale a dire ugualmente valido per tutti: nella società c'è accordo su una misura comune del tempo - in secondi, minuti, giorni, mesi e anni; in secondo luogo il tempo è visto come una scala di misura proporzionale.
Dal punto di vista della metodologia si possono distinguere quattro livelli di scale di misura. Il primo è il livello "nominale", in cui la misurazione richiede soltanto di classificare le unità in categorie reciprocamente esclusive, come il sesso. Il secondo livello è quello "ordinale", nel quale le unità hanno anche un ordinamento lineare secondo il «più» e il «meno» - per esempio lo status sociale. Al terzo livello si opera su "intervalli", e l'unità di misura rende possibile misurare le distanza tra i valori - per esempio le temperature, misurate nella scala centigrada. Il quarto livello è quello delle scale di misura "proporzionali", dove si dispone anche di un punto di zero assoluto, tale che si possano paragonare relazioni tra valori diversi - per esempio il peso: si può dire che dieci chili sono il doppio di cinque chili (Hellevik 1977, p.p. 150 s.) (nota 7). Il «tempo di carcerazione» è preso come se avesse un punto di zero assoluto, proprio come il peso, e si presuppone perciò che abbia senso dire che una condanna di dieci anni è doppia rispetto a una di cinque anni.
Se il tempo sottratto ai detenuti è considerato oggettivo e misurabile con una scala proporzionale, diventa possibile sviluppare un sistema di proporzionalità, la giustizia equilibratrice. Una certa azione va retribuita con tre anni di prigione, un'altra con sei anni: si è detto così, al tempo stesso, che la seconda azione è doppiamente grave o doppiamente reprensibile rispetto alla prima e si è instaurato un sistema di equilibrio tra reato e pena.
Entrambi i presupposti crollano insieme. Innanzitutto il tempo di carcerazione non è oggettivo o intersoggettivo. Non c'è accordo sociale su cosa significhi il tempo trascorso in carcere. Come la percezione del crimine varia insieme con il senso morale, così la gravità della pena secondo il punto di osservazione. Il significato di due mesi, due anni, vent'anni trascorsi in carcere è perciò soggettivo, moralmente e prospetticamente. Che sia davvero così, lo vediamo riflesso nelle grandi differenze, sul piano internazionale, nella valutazione del significato dei tempi di carcerazione. Se il tempo di carcerazione fosse oggettivo, le diverse nazioni dovrebbero tendere ai medesimi termini di pena, mentre siamo ben lontani da ciò.
In secondo luogo il tempo di carcerazione non è misurato da una scala proporzionale. Il contenuto della pena carceraria porta il marchio della sofferenza e dell'esercizio del potere, e questi non hanno un punto di zero assoluto. Perciò è privo di significato fare dei confronti e dire che questa sofferenza è doppiamente più dolorosa di quest'altra o che questo modo di esercitare potere è doppiamente più schiacciante di quest'altro. Se la sostanza della pena carceraria è presa seriamente, come dovrebbe, la carcerazione piomba verso il basso nella classificazione dei livelli delle scale di misura: non si tratta neppure di una scala di intervalli, ma tutt'al più la sofferenza e l'esercizio del potere sono ordinabili secondo il «più» e il «meno», in modo da formare una scala ordinale. È per questo che alcuni prudenti condottieri, come Andrew von Hirsch, interpretano anch'essi in tal modo la giustizia come fondamento della pena. Ma, chiaramente, nella prassi legislativa e giudiziaria si usa l'insostenibile scala proporzionale e non è possibile vedere come distinzioni quali quelle di von Hirsch possano impedire ai legislatori e ai giudici di perseverare. In molti casi, per di più, non ci si trova di fronte neanche ad una scala ordinale, ma al massimo ad una scala nominale: due settimane di isolamento sono ben altro che un permesso negato o la censura sulle lettere, ma non necessariamente sono «meglio» o «peggio». Questo risulta chiaro quando si passa dalle valutazioni astratte a quelle basate su informazioni concrete intorno alla situazione del detenuto, che si modifica, cosicché l'isolamento può risultare terribile in una certa situazione e la negazione di un permesso o la censura sulla corrispondenza in un'altra. La variabilità delle situazioni, in altre parole, fa sì che spesso la scala nominale rimanga l'unica scala corretta.
Per usare il tempo come una punizione, il legislatore e il giudice astraggono da tutte queste situazioni. Si può dire che il tempo sia preso come una categoria priva di contenuto. I matematici possono trattare così il tempo. Per loro il tempo è astratto. Se il legislatore e il giudice fanno lo stesso, astraggono dalla realtà delle cose - dalle variazioni nella percezione morale dei reati, dal significato del punto di osservazione per la valutazione della severità della pena, dalle sofferenze inflitte e dal potere subito; astraggono, insomma, dall'incommensurabilità di reato e pena. In tal modo essi offuscano la realtà e suscitano l'impressione che il carcere si possa difendere sulla base di una teoria della giustizia equilibratrice. Ma tutti i fattori menzionati indicano concordemente che anche quest'ultima difesa non è sostenibile.

 

Note:

1. L'espressione impiegata da Mathiesen è "rettferdighetsteorien", la teoria della giustizia. Abbiamo però tradotto prevalentemente con «teoria della giusta pena», per evitare un'interferenza con l'uso che, di «teoria della giustizia», si fa correntemente e soprattutto dal famoso lavoro di Rawls in poi. Ciò anche perché in seguito si discutono problemi di teoria della giustizia in senso proprio e questi sono più generali di quelli discussi dal punto di vista di una "rettferdighetsteoriet" in ambito criminologico [N.d.T.].

2. Confer American Friends Service Committee 1971, p.p. 61, 66, 149-150; von Hirsch 1976, p.p. 37-44; BRÅ-Rapport 1977: 7, p.p. 199-200; SOU 1986: 13-15, vol. 1, p.p. 1415, vol. 2, p.p. 67-68; von Hirsch 1986, p.p. 47-60.

3. Anche in SOU 1986: 13-15, che segue al BRÅ-Rapport, si trovano ragionamenti analoghi (vol. 2, p.p. 64 s.).

4. La distinzione corrisponde fondamentalmente alla classica coppia di giustizia distributiva e giustizia riparatrice (anche detta commutativa), che risale ad Aristotele. La prima riguarda la distribuzione, secondo principi di uguaglianza proporzionale, di ogni cosa divisibile tra i partecipanti al sistema politico; la seconda riguarda la riparazione dei torti, secondo principi di uguaglianza aritmetica nella retribuzione di quanto subito o inflitto, ed è quindi la distribuzione al singolo di ricompense e punizioni [N.d.T.].

5. Sarebbe invece piuttosto difficile sostenere che i principi su cui si basa la giustizia equilibratrice possano variare molto in un tempo brevissimo o che si debbano accettare diversi tipi di remunerazione penale per diversi gruppi di popolazione - incluse le diverse classi sociali.

6. Nonostante sia stato scritto più di trenta anni fa, la finezza dell'analisi è una ragione di più per ricordarlo, soprattutto oggi che tra i criminologi le sofferenze della carcerazione - nonostante una gran messe di lavori sulla neutralizzazione, il danno e la sanzionabilità, i valori cardinali e ordinali, e così via - sono stranamente dimenticate. Nel mondo scandinavo, Nils Christie ha affrontato queste tematiche (Christie 1985; confer anche Foucault 1961 [confer Gallo - Ruggiero 1989, N.d.T.]).

7. Ad esempio la scala Kelvin di temperatura assoluta, in contrapposizione alla scala centigrada; poiché lo zero di quest'ultima è un punto scelto arbitrariamente, è del tutto relativo che la temperatura di 10 gradi C (circa 283 gradi K nella scala assoluta) sia «doppia» rispetto a 5 gradi C (circa 278 gradi K) [N.d.T.].