Thomas Mathiesen
Perché il carcere?
Capitolo 6.
Che fare?
- Il segreto di un fiasco
Nessuna delle teorie discusse nei precedenti capitoli (prevenzione individuale
- riabilitazione, neutralizzazione e deterrenza - difesa sociale come prevenzione
generale, giusta pena), regge all'esame. Il carcere è nudo. Non si
può difendere. Negli ambienti scientifici il dibattito è aperto,
ma è difficile evitare la sensazione che sul versante della critica
le posizioni si siano rafforzate più di quanto non sia accaduto su
quello della difesa del carcere. Altrove la situazione è in parte diversa:
nei media, nella società e nella sfera politica c'è chi continua
a credere che il carcere possa riabilitare. Così, di fronte all'opinione
pubblica, il carcere porta il peso di un segreto, il segreto del suo fiasco.
Ma chi può svelare il segreto del carcere?
Possono farlo, ad esempio, la stampa e gli altri media. Anche se inizialmente
non possiedono le conoscenze necessarie, possono rivolgere le domande giuste
alle persone giuste e impegnarsi a diffondere il materiale di cui dispongono.
Questo è appunto il nocciolo del cosiddetto giornalismo critico, il
fiore all'occhiello dei media. Ma ciò non accade, se non in misura
molto ridotta. Le ragioni sono due: innanzitutto i media sono strettamente
legati alle élite sociali dominanti, che rappresentano le loro fonti
principali, anche se si trovano delle eccezioni (confer Olsen - Sælten
1980 e Mathiesen 1986, p.p. 140-152). Questo crea mutua dipendenza e obblighi
di lealtà non facili da spezzare. Inoltre l'orientamento dei media
è molto diverso dal trasmettere informazioni veritiere e significative
sulla società: i loro scopi sono vendere, e sostenere un'ideologia
politica (confer Mathiesen 1986, p.p. 154-167). Nella situazione dei media
degli anni Ottanta, questo orientamento ha creato un genere giornalistico
che, ancora più di prima, si guarda bene da svelare la realtà
del carcere. Ci si propone di farlo soltanto in ragione delle vendite, in
un'ottica corrispondentemente distorta, e ci si occupa di quando vanno in
carcere le grandi spie, i gangster famosi, i narcotrafficanti. La realtà
quotidiana del carcere è annullata.
Il segreto può essere svelato anche da coloro che pianificano la politica
criminale e lavorano nel sistema carcerario. Essi conoscono bene il fallimento
della riabilitazione, come pure gli altri aspetti del fiasco carcerario. L'entusiasmo
per il carcere è ormai da tempo sopito. Essendo, per la loro professione,
così prossimi alla situazione reale, essi "sanno" quanto
il sistema opera pericolosamente. Le loro dichiarazioni avrebbero molto peso:
costoro, invece, non svelano nulla e, nel caso, solo in quegli aridi rapporti
che pochi leggono. I motivi che nel complesso rendono loro impossibile ribellarsi
sono due: innanzitutto essi stessi, per il loro ruolo professionale, si identificano
con il loro lavoro. È molto difficile sopportare l'idea che il proprio
lavoro - a volte quello di tutta una vita - è, semplicemente, del tutto
privo di significato. Inoltre, sempre a causa del loro ruolo, sono condizionati
ad accettare le premesse del loro lavoro: il rapporto con i colleghi, la corresponsabilità
per ciò che accade nel carcere, e la carriera, tacitano le critiche.
Si trova qualche eccezione, come quando il personale carcerario si mobilita
per cambiare qualcosa nella condizione assurda dei detenuti. La gente del
carcere, come l'altra gente, non è priva di sentimenti umani. Ma in
sostanza non è da lì che giunge lo smascheramento.
L'esperienza sembra aver dimostrato che "lo smascheramento, nel caso
sia possibile, deve risultare da un contatto politico con coloro che popolano
le carceri, cioè con i carcerati". Se i detenuti rimangono soli,
sono abbandonati a quel sistema fallimentare. Coloro che sono fuori e desiderano
mostrare come è realmente il carcere, da soli, sono privi di esperienza
concreta del sistema. Insieme, le due parti producono perlomeno un potenziale
per lo smascheramento del fiasco del carcere. Un lavoro di contatto politico
trasversale - in cui le informazioni sul fiasco carcerario siano portate a
chi sta fuori del carcere e rivelate così all'intera società
- risulterà semplice? Alcuni anni fa, il sociologo tedesco Jürgen
Habermas ha pubblicato un nuovo imponente lavoro sulla «razionalità
comunicativa» (Habermas 1981). Egli si discosta dalla concezione, ispirata
a Weber, secondo cui la razionalità consiste nell'orientare il proprio
agire secondo i mezzi ritenuti più efficaci per ottenere determinati
fini. In alternativa a questa concezione efficientista ed utilitaristica,
dice Habermas, esiste una razionalità comunicativa secondo la quale
le persone argomentano in favore del proprio punto di vista, dando preminenza
ai criteri di veridicità, rilevanza e sincerità. È in
questa razionalità comunicativa, egli sostiene, che sono riposte le
speranze nel progresso dell'umanità. Nel pensiero di Habermas realtà
come l'oppressione, il potere, la classe, ecc etera - le quali tutto sommato
sono forme dell'agire, o istituzioni, che eliminano l'eguaglianza e l'equilibrio
tra le parti che argomentano nella società - vengono in certo qual
modo rimosse dall'analisi. Certo, sono indicate delle istituzioni che ostacolano
la razionalità comunicativa. Il diritto, e con esso la giuridificazione
della società, è secondo Habermas una delle più importanti.
Ma nell'analisi della comunicazione non sono incorporate considerazioni sull'oppressione,
il potere e le classi, anzi, ne sono piuttosto espunte. La comunicazione è
analizzata "come se tutti fossero uguali", come se la società
fosse una sorta di seminario in cui parti intellettuali eguali siedono e si
ascoltano, prendendo in considerazione quel che gli altri dicono in base al
suo valore.
Partendo da una tale rappresentazione della società - che abbiamo presentato
in modo un po' caricaturale - si potrebbe giungere a credere che il lavoro
di contatto trasversale, con l'intenzione di denunciare il fiasco del carcere
e smascherarne il segreto, sia relativamente semplice. Secondo questa concezione
la «società», in ultima analisi, ascolterebbe presumibilmente
le argomentazioni veritiere, rilevanti e sincere e ne terrebbe conto. Non
è affatto così. La comunicazione "incorpora" dimensioni
come l'oppressione, il potere, le classi. Non tutti sono comunicativamente
uguali, né la società è un seminario comunicativamente
razionale. Proprio l'esistenza dell'oppressione, del potere, delle classi
- che, si può dire, fa assomigliare un po' l'idea della razionalità
comunicativa a una foglia di fico socialdemocratica - rende molto difficile
creare il contatto politico trasversale di cui stiamo parlando.
Concretamente si possono distinguere due difficoltà. In primo luogo
è molto difficile istituire quel tipo di contatto trasversale, sopra
le mura del carcere, che è un presupposto necessario dell'azione di
smascheramento. Esso fa tutt'uno con l'istituzione di quella che chiamerò
d'ora innanzi una "solidarietà comunicativa" tra i detenuti
e le persone politicamente sensibili all'esterno, ossia una comunicazione
vicendevole sulla vita interna e sulle magagne del carcere. Sono in molti
a darsi da fare, se necessario con grande impegno, per impedire che questa
solidarietà comunicativa si stabilisca.
In secondo luogo, è difficile riuscire a diffondere nel resto della
società quella comprensione che la solidarietà comunicativa
ha creato. Smascherare il fiasco del carcere non significa semplicemente additarlo,
«renderlo noto». Sono molti gli esempi di persone che hanno «raccontato»
al mondo esterno le brutture del carcere senza suscitare una reazione qualsiasi.
Ciò che chiamiamo qui " smascherare" il segreto del carcere
richiede che lo si denunci con tanta forza da poter convincere, tanta sincerità
da poter commuovere, e giungendo, per il contenuto dell'informazione, tanto
prossimi agli interlocutori da muovere all'azione. Anche in questo caso sono
in molti a cercare d'impedirlo.
In pratica i due aspetti sono strettamente legati. Le difficoltà ad
istituire al di sopra delle mura carcerarie la solidarietà comunicativa
si riverberano sullo smascheramento, di cui la solidarietà è
un presupposto necessario. Gli ostacoli che si frappongono allo smascheramento,
dato che il lavoro va così facilmente a vuoto, hanno conseguenze sulla
stessa istituzione della solidarietà comunicativa.
- Un esempio di irrazionalità comunicativa
Nella seconda metà degli anni Sessanta nascono, nei paesi scandinavi,
diverse associazioni il cui scopo concreto è migliorare la situazione
dei detenuti e, sul lungo periodo, giungere all'abolizione del carcere: tra
di esse il KROM (Associazione norvegese per la riforma della politica criminale),
la cui esperienza è significativa per illustrare quali reazioni possano
verificarsi quando diventa realmente minaccioso il tentativo di stabilire
una solidarietà comunicativa per svelare il segreto del fiasco del
carcere (nota 1).
Il KROM può essere visto come il risultato organizzativo delle critiche
contro il carcere che, negli anni Cinquanta e Sessanta, provengono da specialisti
e intellettuali. Quest'organizzazione della critica è ritenuta una
minaccia già di per sé, soprattutto da quando l'associazione
inizia a prendere i primi prudenti contatti con i detenuti, perlopiù
mediante lettere di cui si manda copia ai direttori. Il fatto che si inizi
a mettere in contatto la riflessione specialistica con esperienze di detenuti
(eventualmente ex detenuti) in modo che specialisti e detenuti collaborino
pubblicamente in libri o riviste, dà vita pur con qualche conflitto
ad un importante potenziale politico e spinge le autorità a intervenire
apertamente in difesa del sistema. Le varie componenti del sistema della politica
criminale (commissioni politiche, tribunali, carceri, eccetera.) iniziano
ad applicare una serie di strategie tese ad ostacolare la solidarietà
comunicativa che si sta iniziando a costruire (benché allora non la
chiamassimo così) e a "mantenere" il segreto sul fallimento
del carcere.
Di queste strategie la prima, in una fase in cui l'associazione è orientata
al «dialogo», è di evitare per quanto possibile di dare
importanza al complesso dei problemi sollevati dal contatto del KROM con i
detenuti. Così dapprima le intrusioni vengono ignorate; inoltre, come
seconda e più attiva strategia, i contatti epistolari vengono troncati.
Una terza strategia, nel momento in cui tra i detenuti si diffondono (anche
in modo organizzato attraverso l'elezione di rappresentanti in condizione
di ottenere permessi a tale scopo) i contatti diretti con il KROM, consiste
nell'interrompere, sulla base di motivazioni disparate, anche i contatti personali.
Una quarta strategia consiste in una serie di argomentazioni intese ad isolare
gli oppositori del sistema sia rispetto al proprio stesso gruppo, sia rispetto
ad altri gruppi con i quali sarebbe possibile la collaborazione. Chi protesta,
si dice, un tempo era più ragionevole: il KROM ha ormai un atteggiamento
irresponsabile e demagogico. Un altro argomento è che gli oppositori
del sistema sono dei teorici, lontani mille miglia dalla vita reale (nota 2). Un
terzo argomento, sollevato ogni volta che si volesse far passare il KROM per
un nemico oggettivo degli interessi reali dei gruppi coinvolti, sostiene che
chi protesta vuole soltanto acutizzare la crisi. Ancora: ad opporsi è
una setta di estremisti politici, argomento spesso utilizzato insieme con
i due precedenti, a volte nella forma di un'accusa d'infiltrazione. Chi protesta,
dice un quinto argomento, è diviso al proprio stesso interno. Chi protesta,
infine, è del KROM! Ovvero, su ogni critica, anche isolata, piove l'accusa
secondo cui «dietro» ci sono i reali oppositori (così si
cerca anche di far acquistare implicitamente al nome del KROM una connotazione
squalificante).
La quinta strategia, infine: chi ha il potere entra in «collaborazione»
con chi ne è oppresso. Quando le altre strategie iniziano a mostrare
la corda, il sistema presenta un'«offerta di collaborazione» ai
suoi soggetti, un'offerta che però è limitata e basata sul presupposto
esplicito che non si stabilisca un contatto di comunicazione tra chi partecipa
e i critici «estranei».
La solidarietà comunicativa che non sembra, di fatto, in grado di smascherare
il fiasco del carcere non è percepita come una minaccia. Le strategie
che abbiamo descritto sono perciò messe in atto quando la solidarietà
sembra poter avere successo. Allora vien da chiedersi: perché la solidarietà
comunicativa, insieme con la possibilità che sia smascherato di fatto
il fiasco del carcere, è così pericolosa che un insieme di strategie
- dalle più meccaniche alle più sottili - debbano esser poste
in opera per impedirlo? Il motivo, credo, è che la nostra società
si è resa «patologicamente» dipendente dal carcere, il
quale non si può veramente considerare razionale e accettabile, ma
ha dopotutto assunto delle funzioni reali, molto meno accettabili ma importanti,
che «disturbano» la comunicazione del suo completo fiasco.
- Le reali funzioni del carcere
La prima fase di sviluppo del sistema carcerario si spiega con il fatto
che le forze dell'ordine avevano sperimentato la nuova, crescente necessità
di disciplinare certi gruppi di popolazione (confer il capitolo 1). Le diverse
teorie in difesa del carcere che abbiamo esaminato non sono che l'espressione
di questo bisogno, abbellita ideologicamente e resa ragionevole. Le funzioni
reali del carcere spiegano invece perché il carcere continui ad esistere,
benché i suoi scopi ideologici non siano stati soddisfatti.
Possiamo elencare cinque di queste funzioni.
La prima è la funzione "depurativa". Nella nostra società
la «produttività» è sempre più legata alla
vita lavorativa. Al tempo stesso la nostra forma di società crea sempre
più gruppi che, in relazione a quel criterio, sono «improduttivi».
Una società del genere deve sbarazzarsi degli elementi ritenuti improduttivi,
in parte perché la loro esistenza crea inefficienza nel sistema produttivo
(e nelle sfere vitali connesse con il sistema produttivo), in parte perché
essi ricordano brutalmente che il nostro sistema produttivo non è poi
così ben riuscito.
Una società può liberarsene in molte maniere, ma nella nostra
la soluzione più diffusa è chiuderli in un istituto. Gli anziani
vengono messi in una casa di riposo, i malati di mente in una casa di cura,
gli alcolisti in ima casa protetta, i ladri e i consumatori di stupefacenti
in carcere. Il «muro» che si leva tra la società produttiva,
benestante, e quella improduttiva, corre lungo le mura, reali e simboliche,
dell'istituto. Chi governa il sistema carcerario è, in questo contesto
sociale, un funzionario del sistema di depurazione.
La seconda funzione è "ridurre all'impotenza". Per la società
produttiva, non è sufficiente mettere gli «improduttivi»
in un istituto. Questi vanno messi da parte in modo tale che non si senta
più parlare di loro: solo così la depurazione ha buon esito.
Il sistema degli istituti dispone di una varietà di modi concreti per
ridurre al silenzio coloro che gli sono sottoposti, affinché la società
possa coprire con un velo di oblio chi ne viene espulso. Molti modi che si
basano sull'impotenza prodotta dalla detenzione. Isolati dal resto del mondo,
i detenuti in carcere sono resi impotenti di fronte al personale. La protesta
è perciò soffocata con la massima facilità, le obiezioni
tacitate.
La terza funzione è quella "diversiva". Nella nostra società
si commettono sempre più azioni pericolose, a volte pericolose per
la vita degli individui. Grosso modo si può dire che si tratta di azioni
commesse da individui e da gruppi di interesse che dispongono di un grande
potere: inquinamento, impiego della forza lavoro in forme nocive per la salute,
produzioni che devastano l'ambiente, eccetera sono azioni per le quali risultano
in ultima istanza responsabili coloro che sono più potenti nella società.
Un tempo i più potenti ne commettevano altre, ma anche allora le loro
azioni erano tra le più pericolose socialmente.
La pena è usata comunque principalmente contro gli autori di piccoli
reati contro la proprietà e altri individui relativamente poco pericolosi.
La ragione è in parte che la legislazione prevede delle pene innanzitutto
per queste azioni e in parte che ci sono scarse possibilità per loro
di aggirare il sistema che individua e sanziona questi reati. In tal modo,
la pena carceraria assolve alla funzione di distogliere l'attenzione dalle
azioni veramente pericolose commesse da coloro che dispongono del potere.
La pena carceraria è particolarmente adatta a questo scopo, essendo
una reazione così "visibile".
La quarta è la funzione "simbolica". La funzione simbolica
delle pene detentive è strettamente correlata con la funzione diversiva,
ma può essere comunque utile trattarla indipendentemente. Quando qualcuno
va in carcere, inizia per lui un processo di stigmatizzazione. Nella nostra
società il carcere è una forma di sanzione particolarmente stigmatizzante,
sempre perché è così visibile. Chi va in carcere è
stigmatizzato in quanto «nero»; grazie a ciò noialtri,
che stiamo fuori, ci consideriamo più bianchi al confronto: possiamo
ritenerci più giusti, migliori e meno pericolosi. La detenzione di
pochi simbolizza l'infallibilità dei molti. Forse in questa funzione
troviamo la ragione profonda per il fatto che, mentre il detenuto è
sottoposto a un complessivo processo di stigmatizzazione entrando in carcere,
non riceve mai un'equivalente destigmatizzazione quando ne esce. Così
egli rimane nero, come noi restiamo bianchi. L'ipotesi di Paul Reiwald che
i nostri metodi di punizione servano direttamente a far rimanere delinquente
il delinquente («Quello che mangiava nella gamella») è
in questo contesto interessante: «La società lo combatte [il
delinquente, N.d.A.] apparentemente con tutte le sue forze, ma in realtà
fa tutto quel che può per conservarlo tale» (Reiwald 1949, p.
34; confer Foucault 1975). Ossia, la società mantiene un gruppo di
detenuti per far risaltare la propria perfezione.
Nel caso in cui la comunicazione sveli effettivamente che il carcere non soddisfa
le funzioni attribuitegli dalle teorie in sua difesa, viene anche messa a
nudo la sua reale funzione di depurazione, ben poco accettabile nell'attuale
quadro culturale e ideologico della nostra società. Si colpiscono così
alcune delle ragioni per cui il carcere persiste. Resta anche a nudo la sua
funzione di ridurre all'impotenza. Né questa è una funzione
particolarmente accettabile nel nostro quadro ideologico-culturale, con il
suo accento sulla democrazia e sulla «partecipazione dal basso».
La solidarietà comunicativa tira inoltre i detenuti fuori dalla situazione
di impotenza, appunto mediante l'alleanza che si crea e che rappresenta un
contropotere. In entrambi i sensi la comunicazione è perciò
una minaccia contro alcuni fondamenti del carcere. La comunicazione offre
inoltre il punto di partenza per svelare chi è che sta davvero in carcere.
La questione di come si sviluppino i miti dissimulatori intorno ai detenuti
«pericolosi» è interessante, ma deve essere qui sorvolata.
Diventa comunque chiaro che fondamentalmente "non" sono quelli pericolosi
che stanno in carcere e si ostacola così la funzione diversiva del
carcere n ella società. Mediante la comunicazione si può infine
scompaginare la linea di demarcazione tra «neri» e «bianchi»
in due modi: innanzitutto «mettendo a nudo» il detenuto, con
una disamina delle sue azioni che predice che non risulterà comunque
tanto più nero degli altri. Inoltre fa sì che il detenuto stesso
cominci ad organizzarsi per difendere i propri interessi. Anche questo segnala
che egli non è così diverso dagli altri. La comunicazione minaccia
così tutti noi che preferiremmo rimanere bianchi.
La quinta e ultima può dirsi la funzione di provvedere all'" azione".
La carcerazione è il tipo di sanzione più visibile nella nostra
società. In tempi più lontani lo erano le punizioni corporali.
Il carcere, comunque, è altrettanto visibile, non come supplizio individuale,
ma come realtà istituzionale. In questo senso, tra i due tipi di sanzioni
esistono sia una continuità sia un mutamento: sono simili perché
ambedue risaltano come segni positivi e visibili che qualcosa si è
fatto; sono dissimili perché la sanzione più antica è
visibile nel corpo dell'individuo, mentre la più recente è visibile
nelle condizioni materiali stabilite per un gran numero di persone. Il mutamento
collima a sua volta con un cambiamento sociale. La società moderna,
con la sua mole e complessità, richiede soluzioni collettive. Costruendo
carceri, costruendo ancora più carceri, approvando leggi che prevedano
pene detentive più severe, gli attori della politica odierna trovano
il modo di far vedere che agiscono sul crimine come categoria del comportamento,
che stanno facendo qualcosa in proposito: che qualcosa, presumibilmente, si
sta davvero facendo in fatto di «legge e ordine». Nessun'altra
sanzione assolve così bene questo compito.
Voglio credere che queste funzioni siano evidenti a quanti fanno parte del
sistema della politica criminale. Mentre altri tipi di istituzione possiedono
solo alcune di queste funzioni - specialmente la funzione di «depurazione»
è caratteristica della maggior parte - il carcere le possiede tutte.
Questo spiega come mai si reagisca con tanta forza contro la comunicazione
e perché le strategie per impedirla siano così numerose. Spiega
anche, come già detto, perché continuiamo a tenerci il carcere
a dispetto del suo fiasco. Altri tipi di istituzione, infatti, sono più
facili da eliminare e le ideologie in loro sostegno vengono persino rovesciate,
soprattutto in tempi di crisi economica. Di contro, il carcere rimane.
Che fare, dunque? La risposta non è facile. Tuttavia, anche se bisogna
tenere conto delle reali funzioni del carcere, dobbiamo concederci il lusso
di pensare ad alta voce, utopisticamente. Perché la questione è
difficile, ma anche importante. Se ci liberiamo del carcere, non ci liberiamo
solo della repressione prodotta dal carcere. L'abolizione avrà probabilmente
anche una serie di altri effetti positivi sulla nostra società.
- Le alternative al carcere
Negli ultimi anni vi sono stati, in molte nazioni, svariati tentativi
di trovare alternative al carcere: strutture di controllo e di trattamento
pensate per sostituire il carcere. La speranza è che, mettendo a punto
tali alternative, si giungerà perlomeno a ridurre l'uso di quel fiasco
che è il carcere. In Norvegia, per esempio, nella relazione provvisoria
della commissione nazionale sul diritto penale troviamo una dettagliata discussione
di misure alternative (NOU 1983: 57, cap. 28, «La legislazione penale
in fase di revisione»): si tratta di strutture come il cosiddetto «consiglio
per la risoluzione dei conflitti» (le parti - rei e vittime - sono riunite
per discutere e comporre il conflitto rappresentato dal reato) ed altre forme
alternative di soluzione dei conflitti, come il progetto Buskerud per rafforzare
la difesa dei bambini e dei minori mediante, tra l'altro, case per l'infanzia
abbandonata e strutture di accoglienza e soluzione di crisi, eccetera. La
valutazione di questi esperimenti è perlopiù positiva e dopo
la pubblicazione del rapporto molte strutture alternative sono state ampliate
(per esempio in numerose località si è istituito, per la delinquenza
giovanile, il consiglio per la risoluzione dei conflitti).
Esaminiamo nel dettaglio i cosiddetti «servizi utili alla collettività»,
che stanno per essere istituiti su base nazionale in Norvegia. Il reo è
condannato a svolgere un certo numero di ore di lavoro, mediante cui viene
estinta una condanna non condizionale. Deve avere più di 17 anni, deve
esser ritenuto adatto all'attività in questione e dovrà restare
sotto la sorveglianza dei servizi sociali che si occupano dei criminali in
libertà. La misura andrebbe applicata soprattutto agli autori di piccoli
furti, di furti d'auto commessi allo scopo di guidarle, di furti in alloggio,
di atti di vandalismo; inoltre, «per quanto possibile», a criminali
che altrimenti sarebbero condannati a una pena non condizionale, in modo da
costituire una vera alternativa al carcere. Il tribunale dovrebbe quindi comminare
un'equivalente pena non condizionale e i «servizi utili alla collettività»,
in questo quadro, si baserebbero sul consenso del condannato.
Ecco il punto saliente: si tratta davvero di un'alternativa? Il libero consenso
può esserci, se l'alternativa è una condanna al carcere? E se
il consenso diventa fittizio, non ci troviamo di fronte ad una nuova forma
di lavoro forzato? È opportuno caricare i servizi sociali che si occupano
dei criminali in libertà di un nuovo compito di controllo, quello di
sorvegliare i condannati ai «servizi utili alla collettività»?
Non potrebbero anch'essi e le relative sanzioni diventare. forme oppressive
e poco efficaci? Sono domande importanti. Ma quella fondamentale è
se abbiamo nei fatti un'alternativa alla detenzione.
Il materiale empirico suggerisce che "non" sono una reale alternativa
e che - più precisamente - non sono applicati soprattutto, o perlopiù,
a criminali che sarebbero stati condannati a pene non condizionali. L'Inghilterra
è la patria dei «servizi utili alla collettività».
Sono stati in uso per più di dieci anni. Bisogna dire che non hanno
arrestato l'imponente espansione carceraria avutasi in Inghilterra nello stesso
periodo (confer il capitolo 1). Forse non ci si doveva aspettare tanto, sarebbe
già stato un risultato apprezzabile riuscire a "frenarla".
Ma una ricerca del 1977, quando i «servizi utili alla collettività»
suscitavano partecipazione ed entusiasmo, mostra che più del 50%, una
quota ragguardevole, dei rei che vi erano sottoposti avrebbero ricevuto altrimenti
le usuali condanne condizionali (Pease et al. 1977; per rapporti più
recenti confer «Tidsskrift for kriminalomsorg», 1985, 4, p.p.
32-33). Si può anche dire che i «servizi utili alla collettività»,
in Inghilterra, sono stati soprattutto usati in "aggiunta" al carcere,
invece di prenderne il posto. Corrispondentemente hanno smesso di fungere
da reale alternativa.
A livello internazionale i risultati delle ricerche intorno ad altre strutture
che avevano per scopo l'alternativa al carcere sono equivalenti. Le une cercano
di «deviare» il cammino che porta alla pena carceraria, prendendo
iniziative alternative affinché non sia posta in atto la carcerazione
(i cosiddetti "diversion programs"); le altre sono tese a «deistituzionalizzare»
le persone che si trovano comunque in carcere introducendo per loro misure
alternative (i cosiddetti " deistitutionalization programs") (nota
3). Una serie di ricerche empiriche dall'Inghilterra, dagli Stati Uniti,
dal Canada e dall'Australia dà motivo di sostenere che le strutture
di entrambi i tipi non hanno preso il posto del carcere, bensì strutture
e carcere si sono sommati; in questo modo il sistema di controllo della politica
criminale si espande e il carcere resta in piedi. Quando l'impiego di sanzioni
penali tradizionali è stato limitato, gli studi mostrano che il sistema
di controllo nel suo complesso si è ampliato in misura equivalente.
Nella letteratura specialistica il fenomeno è stato paragonato alle
variazioni nella struttura di una rete: in parte la rete è diventata
a maglie più fini, in parte le maglie della rete si sono allargate.
Invece di portare fuori dal carcere gruppi di persone, le strutture alternative mostrano la tendenza ad attirare nuovi gruppi dentro il sistema di politica
criminale, mentre i vecchi gruppi perlopiù rimangono in carcere - proprio
mentre l'uso del carcere cresce sempre più. Ma perché non si
trovano alternative "reali"?
Parte della risposta sta nella scarsa convinzione con cui sono state tentate
queste misure. L'esperienza norvegese mostra che, in pratica, coloro che la
polizia porta davanti al «consiglio per la risoluzione dei conflitti»
sono i giovani meno svantaggiati, che avrebbero comunque ricevuto una mite
condanna condizionale (Lingås 1986, p.p. 22, 25 e 48); così pure
per chi viene affidato ai servizi sociali, e così via. Ma anche questo
richiede a sua volta un chiarimento. Perché si tenta con così
poca convinzione? Una spiegazione la troviamo nelle reali funzioni del carcere,
che non sono soddisfatte dai servizi sociali, dal «consiglio per la
risoluzione dei conflitti» e così via. Non si tolgono di mezzo
né si neutralizzano altrettanto efficacemente le persone; l'effetto
diversivo e l'effetto simbolico sono deboli. Né le cose vanno diversamente
indirizzando gli esperimenti a indebolire i bisogni che motivano le funzioni:
quando questo è il caso, gli esperimenti devono «farsi da parte»,
invece di consolidarsi e diventare reali alternative (nota 4).
Che il carcere non sia minacciato da simili tentativi, è confermato
dalle reazioni delle autorità, le quali vi plaudono costantemente ma
dicono al tempo stesso che, anche se non si ama il carcere, lo si «deve»
mantenere. Ho presentato un esempio eclatante alla settima Conferenza mondiale
di politica criminale, organizzata dalle Nazioni Unite a Milano nell'autunno
del 1985. Come delegato norvegese, ho partecipato all'elaborazione di un documento
intitolato "Reduction of Prison Population, Alternatives to Prison, Social
Integration of Offenders". L'iniziativa di proporre una risoluzione in
merito era stata presa da un inglese esterno al congresso, da me e da altri.
Alla fine siamo riusciti a farci appoggiare da un certo numero di nazioni
partecipanti, limando e attenuando le formulazioni, soprattutto quelle sulla
riduzione dell'uso del carcere. Le formulazioni che riguardavano l'introduzione
di cosiddette «alternative» non hanno richiesto simili ritocchi.
Ancora più chiara è stata la differenza durante il dibattito
congressuale, svoltosi in due riprese in una delle grandi commissioni del
congresso. In generale c'era soddisfazione per l'idea di dare molto peso alle
alternative. Ma l'idea di ridurre la popolazione carceraria non ha incontrato
la stessa risposta. Le alternative erano le benvenute, ma avrebbero dovuto
prendere il posto del carcere e diventare, così, reali? Questo non
era "affatto" chiaro. Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, cosa
abbastanza interessante per l'epoca, hanno fatto causa comune nel dibattito
conclusivo, persino sul titolo della risoluzione. Gli Stati Uniti ritenevano
che una parte del titolo ("Reduction of Prison Population") potesse
essere eliminata, perché nel dibattito precedente - si diceva - era
stata ben cancellata, per fortuna, tutta la parte del contenuto della risoluzione
che trattava di tale riduzione; l'Unione Sovietica si è associata.
Il titolo è rimasto in effetti tal quale, ma dal punto di vista del
contenuto restava poco o niente circa l'abbandono del carcere.
Così uomini e donne di buona volontà che, in tutto il mondo,
sostengono le «alternative», ricevono sostegno perché le
«alternative» in realtà non corrispondono al loro nome:
non sono alternative. Occorrono dunque rimedi più energici. Quali?
Vorrei ribadire che dobbiamo permetterci di pensare ad alta voce. Nel seguito
sarà presentato l'abbozzo di un piano per l'abolizione del carcere,
piano che dovrà essere ulteriormente sviluppato in futuro.
- Un piano per l'abolizione del carcere
Abbiamo mostrato, in precedenza, la doppiezza delle autorità sul
problema del carcere. Da un lato abbiamo presentato una serie di loro dichiarazioni,
secondo cui il carcere è indifendibile; e d'altro canto, esse stesse
vanno costantemente in cerca di argomenti in suo favore e si tengono stretto
il sistema carcerario. Prenderemo allora come punto di partenza la percezione,
che esiste ai livelli superiori della politica criminale, del fiasco del carcere.
Idealistico? Certo! Ma sono pronto ad accettare critiche di questo tipo, perché
ormai è importante, una buona volta, prendere in parola i responsabili
della politica criminale per quanto riguarda la loro opinione più fondata.
Alcuni anni fa, in Svezia, un ampio dibattito sull'energia nucleare sfociò
in una consultazione popolare. I sostenitori del nucleare, noti come il «partito
del sì», vinsero. Ma essi stessi ritenevano che l'energia nucleare
dovesse essere eliminata entro il 2010. Resta loro una ventina d'anni di tempo.
I tempi di smantellamento delle centrali nucleari svedesi possono essere seguiti
anche per lo smantellamento del carcere. Si può metterla così:
se qualcosa formidabile come l'energia nucleare, con gli interessi e le funzioni
che le si intrecciano, viene eliminata entro il 2010, altrettanto si può
fare con il carcere. Le funzioni che garantiscono la sopravvivenza del sistema
carcerario sono poco più rilevanti delle funzioni attribuite all'energia
nucleare dalle società che ne fanno uso. E per quanto riguarda i fini
il carcere è, come detto, un puro fiasco, mentre in genere non si può
dire altrettanto per l'energia nucleare: dopotutto produce elettricità,
anche se la fonte è pericolosa.
L'obiettivo che dovrebbero porsi le nostre autorità di politica criminale
- legislatori ed esecutori - è smantellare il carcere entro la medesima
scadenza posta per lo smantellamento delle centrali nucleari svedesi. Si tratta
di uno obiettivo ragionevole e di una ragionevole richiesta. Il 2010 è
l'anno decisivo.
- Criminalizzazione fino a nuovo ordine
Daremo per scontato di voler continuare ad avere un ordinamento giuridico
secondo cui certe azioni siano considerate reati. Verrebbe la tentazione di
attaccare la criminalizzazione in sé, chiedendo di abolire tutto quanto
il sistema per cui si ricorre al diritto penale per risolvere i conflitti
umani. Oggi il problema è oggetto di seria discussione nella criminologia
internazionale (per esempio, nella seconda International Conference of Penal
Abolition tenutasi ad Amsterdam nel 1985; confer Hulsman 1986). In questo
libro ho assunto un punto di vista più moderato, che suppone di mantenere
il sistema del diritto penale. Ciò non significa che vada mantenuto
in tutti i suoi aspetti. Ridurre la criminalizzazione dei conflitti umani
e decriminalizzare le azioni compiute dagli individui è un obiettivo
molto importante. Inoltre l'abolizione del carcere, che è qui lo scopo,
avrebbe di per sé un effetto di decriminalizzazione. Tornerò
su questo. Ma, fino a nuovo ordine, accettiamo la situazione attuale.
In tal modo si fa una concessione essenziale alle teorie della prevenzione
generale. Due aspetti si intrecciano: nel capitolo sulla prevenzione generale
abbiamo puntualizzato che vi è un unico risultato sufficientemente
chiaro: ci si possono aspettare degli effetti soltanto da mutamenti generali
e ingenti nel sistema penale. Abbiamo sottolineato che i difensori delle teorie
della prevenzione generale si riferiscono solitamente a simili cambiamenti.
Nel quinto capitolo, sulle teorie della giustizia, abbiamo puntualizzato (discutendo
concretamente di SOU 1986: 13-15) che diverse autorità di politica
criminali danno per scontato che la criminalizzazione stessa, o l'esistenza
della pena, creino sottomissione alla legge. Abbiamo sottolineato che in quei
lavori si tratta praticamente di un postulato; ma abbiamo anche osservato
che si tratta del loro punto di partenza. Null'altro - per esempio non l'esistenza
del carcere - è presupposto creare sottomissione alla legge.
"Per andare sul sicuro", prendiamo qui il medesimo punto di partenza.
Non intendiamo schierarci in favore di un mutamento così ingente da
abolire la criminalizzazione. Le discussioni specialistiche sull'esistenza
stessa del diritto penale fanno sì che io non sia pienamente soddisfatto
del punto di partenza che ho preso, né mi sento convinto che sia giusto.
Come detto, il punto di partenza è preso qui per essere " sicuri",
sicuri di non spingerci troppo oltre.
- Forme di abolizione
Nel periodo di tempo prefissato per l'abolizione, i primi due o tre anni
vanno dedicati al dibattito e alla pianificazione. Nel tempo che rimane l'abolizione
deve avvenire gradualmente, per poter essere accettata dalla popolazione.
Un periodo di circa venti anni, come vedremo oltre, dovrebbe in effetti offrire
una garanzia per questa accettazione. Più precisamente l'abolizione
dovrebbe svolgersi con rapidità crescente, con un avvio moderato negli
anni 1990-95, seguìto da uno smantellamento più accentuato negli
anni 1995-2000, considerevolmente accelerato infine negli anni 2000-10.
L'abolizione può avvenire in tre modi: il primo consiste nel diminuire
progressivamente i limiti massimi di pena, seguendo l'andamento della «curva»
di abolizione. Bisogna tenere presente che i tribunali potrebbero continuare
a seguire modelli divenuti ormai vecchi e, corrispondentemente, non diminuire
i livelli di pena; ciò andrebbe affrontato concretamente nel pianificare
la riduzione dei massimi di pena, ma anche mediante contatti diretti con i
tribunali a proposito del loro lavoro. Il punto non è influenzare impropriamente
i tribunali, ma rendere chiare le motivazioni e le implicazioni delle novità
introdotte. Il lavoro preparatorio della nuova legislazione, così come
il lavoro di contatto con i tribunali, dovrebbe essere gestito da un nuovo
dipartimento o una nuova direzione del ministero della giustizia, un ufficio
ministeriale per l'abolizione. È importante che il lavoro non sia affidato
alle strutture ministeriali incaricate della politica criminale, o alla direzione
generale delle carceri, che ha un forte interesse nel conservare il sistema
esistente. Il nuovo dipartimento dovrebbe esso stesso abolirsi entro il 2010.
Il secondo procedimento richiede lo smantellamento materiale della struttura
carceraria, che dovrebbe avvenire parallelamente alla riduzione del numero
dei detenuti prodotta dalla diminuzione dei massimi di pena. È molto
importante che non si lascino sussistere le strutture amministrative e gli
edifici «privi di utenza», perché esiste il pericolo di
un «effetto boomerang», un arresto o un rovesciamento dei piani,
che è reso più difficile allontanando le strutture amministrative
e distruggendo materialmente gli edifici, come è richiesto dal processo
di contrazione del sistema. È importante stabilire degli ordinamenti
transitori per il personale dell'amministrazione carceraria che non può
essere pensionato, con il trasferimento a nuove mansioni in tutti i casi in
cui sia possibile. Questo lavoro dovrebbe essere svolto da un'apposita sezione
dell'ufficio incaricato dell'abolizione. Si dovrebbero coinvolgere le sovrintendenze
per stabilire quali edifici andrebbero preservati per il loro valore storico.
In terzo luogo l'abolizione dovrebbe avvenire mediante il continuo trasferimento
delle risorse precedentemente assegnate al sistema carcerario, in ragione
di metà della somma risparmiata sul budget delle carceri, al sistema
dell'affidamento ai servizi sociali, rivalutando di anno in anno le somme
disinvestite (torneremo sull'uso a cui destinare l'altra metà). Si
eviterebbe così di riprodurre la situazione apparentemente creatasi
dimettendo gli ospiti dei manicomi dopo il loro smantellamento. È molto
importante che l'affidamento ai servizi sociali, che sarebbe rafforzato in
modo eccezionale, "non sia organizzato in modo da accrescere la funzione
di controllo". È facile immaginare che sullo sfondo dello smantellamento
del carcere possa avvenire qualcosa del genere e bisogna evitarlo, sia "
vincolando" specificamente i mezzi finanziari a tre scopi: lavoro, casa
e trattamento volontario per coloro che - in misura crescente - verrebbero
rilasciati; sia con un "continuo dibattito critico" sulle funzioni
di queste misure. Bisogna attendersi che le attività su cui si vincolano
i fondi abbiano al tempo stesso un significativo effetto di prevenzione della
criminalità. Dopo l'abolizione, si dovrebbe impiegare un corrispondente
stanziamento per creare opportunità di lavoro per i gruppi poveri e
marginali, ma questo dovrebbe essere integrato amministrativamente nei servizi
sociali, per evitare che si sviluppi un sistema di assistenza separato. Un
piccolo intervento che per qualcuno potrebbe essere molto importante al momento
buono, è l'istituzione di quelli che il criminologo olandese Herman
Bianchi chiama «santuari» o «luoghi di rifugio» ("refugier"),
destinati ai pochi che abbiano commesso azioni tali da rischiare persecuzioni
o giustizia sommaria, luoghi che sono anche un'opportunità di riflessione
e riparazione. Il pericolo è che essi possano poi costituire il nucleo
di nuove prigioni.
- Contro le funzioni del carcere
È assolutamente necessario contrastare attivamente le funzioni
reali oggi svolte dalla pena detentiva e cercare di neutralizzarle. È
dunque necessario un lavoro contro le funzioni del carcere. Se questo manca,
ci sarebbe gran pericolo di far apparire un ordinamento para-carcerario che,
sotto un nuovo nome, vada ad adempiere alle medesime funzioni.
È importante tener presente che le funzioni svolte dagli ordinamenti
umani non sono per forza "necessarie". Quando si adopera il concetto
di «funzione» si presuppone facilmente che si tratti di qualcosa
di necessario dal punto di vista sociale, dando così all'analisi un
accento fortemente conservatore. Ma vi è un ampio spettro di funzioni
sociali non necessarie per la sopravvivenza della società (confer Merton
1949; 1957). Si può dire che se determinate funzioni sono o sono diventate
necessarie, l'intero assetto della società va rivoluzionato perché
si possa pensare di eliminarle. Nella misura in cui determinate funzioni
non sono o non sono diventate necessarie in questo senso, si può avere
successo con cambiamenti meno rivoluzionari, anche se ugualmente può
esserci bisogno di un impegno considerevole.
Ritengo che le funzioni reali, ufficiose, della carcerazione siano di quest'ultimo
tipo. Non sono tali che la struttura sociale si dissolva se vengono eluse.
Sono tali che l'abolizione di quei sistemi che, dopotutto, hanno cominciato
a svolgerle, genererebbe sì conflitto e agitazione; ma in misura tale
da potersi risolvere all'interno del quadro della nostra forma sociale. Allora
diventa assolutamente razionale cominciare questo lavoro contro le funzioni
del carcere prima che sorgano sistemi analoghi a ereditamele funzioni.
In generale tutte queste funzioni non riconosciute sono funzioni che si esercitano
nella sfera pubblica, nella "Offentlichkeit", intendendo con ciò
un'arena sociale in cui vengono presentati messaggi significanti e vengono
compiute azioni di fronte a una molteplicità (eventualmente limitata)
di altri soggetti, non privatamente dunque, e con più o meno piena
franchezza (Mathiesen 1984). Il carattere pubblico delle funzioni cresce secondo
l'ordine della loro serie: a partire dalla funzione di «depurazione»,
poi quella di ridurre all'impotenza, sino alla funzione diversiva, simbolica,
di azione. Esse sono, in un certo senso, modi diversi di gestire le nostre
impressioni, senza i quali coloro da cui ci auguriamo di essere liberati diventerebbero
visibili e avrebbero più voce; noi non saremmo così facilmente
distratti dalle reali minacce alla società , non saremmo in grado
di pensarci così «bianchi» e non proveremmo un falso sollievo
perché qualcosa viene fatto contro il crimine. Vediamolo in ordine
inverso: l'operazione simbolica per cui, grazie al carcere, qualcuno è
nerissimo affinché noi possiamo emergere come bianchi, è una
funzione che riguarda la nostra comprensione e interpretazione dell'ambiente.
Lo stesso vale per la funzione diversiva. Ridurre all'impotenza altri gruppi
di persone è una funzione più materiale e concreta, ma ha un
significato pubblico perché - come abbiamo detto a suo tempo - riguarda
un genere d'impotenza che rende certi gruppi muti. Senza carcere, questi gruppi
parleranno moltissimo. Lo stesso vale per la funzione di «depurazione»:
se non venisse svolta, certe persone non risulterebbero invisibili per il
pubblico.
Il lavoro contro le funzioni del carcere deve perciò svolgersi nella
sfera pubblica. In effetti non esiste propriamente una sola sfera pubblica,
ma molte sfere pubbliche. La più ampia è probabilmente l'arena
politica, riflessa nei grandi mass media. In complessi sistemi, che si trovano
«sotto» questa più ampia sfera, troviamo altre sfere pubbliche
più o meno limitate, connesse e separate le une rispetto alle altre
in una serie di modi. Altrove ho provato a esporre i principi di organizzazione
della sfera pubblica (Mathiesen 1984, p.p. 1-122). Qui si vuole solo puntualizzare
che questo lavoro va svolto in sfere pubbliche diverse nella società.
Come abbiamo osservato, le opinioni sui trasgressori della legge diventano
più sfumate o più liberali man mano che chi le esprime si accosta
alla singola persona o alla situazione concreta (ragione per cui le opinioni
superficiali offrono indicazioni fuorvianti in fatto di politica criminale).
Il compito centrale sarebbe di usare questa conoscenza investendo ingenti
risorse ed energie per rendere visibile, nella sfera pubblica centrale della
società, chi sono i detenuti e qual è la loro situazione di
vita. È decisivo che ciò avvenga parallelamente allo smantellamento
del carcere.
Non sarà un lavoro facile, ma neppure impossibile. Dalle ricerche sui
media e la comunicazione sappiamo che gli effetti delle campagne di opinione
e di informazione hanno i loro limiti. Ma questo dipende anche dalle risorse
e, come abbiamo detto, bisogna stanziare risorse ingentissime. Dalle stesse
ricerche sappiamo anche che è molto più facile consolidare opinioni
e convinzioni già esistenti piuttosto che cambiarle (confer Klapper
1960, cap. 2; Mathiesen 1986, p.p. 184 s.). Ed è importante avere chiaro
che si tratta appunto, creando un punto di osservazione più vicino,
di rafforzare nella gente la capacità potenziale di esprimere sfumature
di giudizio. Sappiamo anche che le convinzioni possono essere modificate.
È uno scopo perseguibile, se la comunicazione nei mass media è
intensamente sostenuta con la comunicazione personale all'interno di sfere
pubbliche delimitate, come sul posto di lavoro, nel vicinato, nelle scuole.
I sindacati, in quanto parte della causa socialista e socialdemocratica, essendo
tra i sostenitori dell'ideologia socialista di solidarietà, andrebbero
chiamati in campo.
Ho detto prima che metà delle somme risparmiate grazie allo smantellamento
del sistema carcerario andrebbero impiegate per creare posti di lavoro in
favore delle categorie che, alla fine, non verrebbero più chiuse in
carcere. L'altra metà dovrebbe essere usata per il lavoro contro le
funzioni del carcere nell'opinione pubblica, che potrebbe così svolgere
un ruolo importante nella preparazione al cambiamento. Probabilmente si dovrebbe
iniziare con stanziamenti ingentissimi, per ridurli poi gradatamente, all'inverso
dell'affidamento ai servizi sociali, il cui budget dovrebbe seguire, secondo
le nostre premesse, l'andamento crescente dell'abolizione. Di conseguenza
si verificherebbe - in rapporto a un normale bilancio carcerario - un «passivo»
nella parte iniziale del periodo di smantellamento. Ma corrispondentemente
avremmo un «attivo» verso la fine del periodo, cosicché,
nell'arco dei vent'anni, la somma degli stanziamenti per l'affidamento ai
servizi sociali e per il lavoro contro le funzioni del carcere equivarrebbe
a vent'anni di ordinaria amministrazione delle carceri.
La ricerca sui media ci offre ancora un suggerimento: l'attenzione a come
il messaggio e recepito e mediato nella concreta rete sociale. Anche se l'ipotesi
«a due tempi», come viene chiamata (Lazarsfeld et al. 1944), non
può essere mantenuta con la medesima pregnanza per gli odierni media
(confer Mathiesen 1986, p.p. 194 s.) è un importante punto di partenza
per i nostri scopi: le reti sono tuttora importanti per il tipo di mediazione
che stiamo discutendo e vanno sottolineate. Ciò significa che il lavoro
contro le funzioni del carcere deve essere condotto nelle scuole, sui posti
di lavoro, nelle organizzazioni, con i vicini di casa, ossia nei luoghi dove
le persone si incontrano, parlano, condividono esperienze, si formano una
comprensione comune. In quest'ottica possono essere usate anche le moderne
tecnologie della comunicazione di massa, ma probabilmente è molto importante
mantenere la comunicazione, per quanto possibile, sul piano personale. Il
lavoro dovrebbe comunque essere affidato ai Ministeri della cultura e della
pubblica istruzione, non al Ministero della giustizia.
- Lavorare per le vittime
L'attuale sistema penale in genere, in particolare in quanto poggia sulla
pena carceraria, omette sistematicamente di fare qualcosa. di ragionevole
per uno dei personaggi del dramma del crimine: "la vittima". Ho
detto sopra qualcosa su quanto dovrebbe essere fatto per chi ha commesso il
crimine. Costui è una vittima: vittima di una struttura sociale e di
uno sviluppo sociale che l'hanno portato al punto in cui si trova, e vittima
delle proprie azioni, dalle quali egli stesso è danneggiato. Appunto
per questo è così importante il grande trasferimento di risorse
in suo favore di cui abbiamo parlato. Ma in questo paragrafo non tratterò
di questo gruppo, bensì di coloro che più tradizionalmente sono
considerati vittime, e userò quindi il termine «vittime»
nell'accezione tradizionale: coloro che sono danneggiati da azioni commesse
da altri in violazione della legge (nota 5).
Si sentono spesso discorsi magniloquenti sulle vittime, ma in realtà
la loro condizione, nel sistema odierno, è trascurata. La vittima non
trae alcun vantaggio dal fatto che il criminale sia arrestato, mandato in
tribunale e eventualmente in prigione, perché di regola non è
risarcita né da un punto di vista simbolico, né materiale né
sociale. Non voglio parlare della piccola soddisfazione che forse alcuni traggono
dalla pura vendetta: non ritengo siano molti e non trovo che sia uno scopo
degno di speciale considerazione.
La mia proposta è di "spostare completamente l'attenzione, nella
politica criminale, dal reo alla vittima". Tradizionalmente il reo e
la vittima sono visti in mutua relazione. Io propongo di sciogliere la loro
relazione e far sì che la vittima, più che non il reo, sia oggetto
della politica criminale. Questo significa che l'impegno della società
non dovrebbe essere commisurato, sotto forma di pena, all'azione commessa
dal reo, ma, sotto forma di aiuto, commisurarsi alla vittima. Questo significa
che le misure prese dalla società non dovrebbero, sotto forma di pena,
crescere scalarmente in relazione alla colpa del reo e ai danni provocati
dalla sua azione, ma, sotto forma di aiuto, in relazione alla situazione della
vittima e al danno che ha subito.
Si riscontra, oggi, un certo interesse specialistico e politico per la vittima.
La «vittimologia» è diventata un concetto. Ma l'interesse
è tiepido e, cosa più importante, non si smette di guardare
al reo, ma lo si coinvolge ogni volta in relazione alla vittima, sotto forma
di generi diversi di risarcimento (imposto o pattuito). Il risarcimento sarà
però, quasi in ogni situazione, inadeguato per la vittima e fonte
di privazione e dolore per il reo. Infatti, come abbiamo più volte
ricordato, i criminali che vengono catturati sono perlopiù, in senso
ampio, poveri. Con proposte come questa si ritorna in realtà all'interno
del vecchio sistema. Non intendo trascurare il bisogno, da parte di alcuni
autori di reato, di trovare un accordo con la vittima. Dovrebbe essere istituito
un ordinamento che consentisse di rispondere a questo bisogno quando si presenti.
Ma il sistema dovrebbe spostare la sua "mira" e diventare completamente
diverso. L'idea è insolita e dovremo quindi familiarizzarci con essa.
Si tratta di commisurare l'impegno della società, esplicato sotto forma
di aiuto, alla condizione della vittima "piuttosto che", sotto forma
di pena, all'azione commessa dal reo; si tratta dunque di calibrare le misure
prese dalla società, sotto forma di aiuto, secondo la situazione della
vittima e il danno che ha subito " piuttosto che", sotto forma di
pena, in relazione alla colpa del reo e ai danni conseguiti alla sua azione.
Si tratta, in altre parole, di concepire una politica criminale completamente
nuova, che inoltre, al contrario di quanto fa la politica criminale odierna,
ridurrà l'allarme sociale. Come avevamo visto nel primo capitolo, i
legislatori e i giudici sono dei «barometri della paura», ossia
delle istituzioni che attraverso le loro decisioni riflettono l'allarme sociale.
Ma essi non "fanno" nulla contro questo allarme. La politica che
proponiamo "fa" qualcosa.
Focalizzare l'attenzione sulla vittima può essere concepito in tre
forme generali. La prima è quella "simbolica". La riparazione
è importante in un certo numero di casi. Una forma di simpatia da instaurare,
rituali che diano espressione al dolore (confer in altro contesto Christie
1981), forme più forti di restaurazione dell'onore mediante colloqui
e incontri sia personali sia pubblici, stanziamenti generosi per il trattamento,
in senso ampio, quando lo si desidera. E pace, e tranquillità, e nessuna
interferenza, quando è questo che si desidera.
La seconda forma è quella "materiale". È importante
un'assicurazione sulla vita, nel senso proprio del termine: sarebbe a dire,
essere assicurati dalla nascita, come membri della società, automaticamente
e per il massimo indennizzo, contro la criminalità; e poter riscuotere
l'assicurazione con modalità molto semplici, senza sforzi supplichevoli
e spesso umilianti da parte della vittima. È inconcepibile che il nostro
progredito stato socialdemocratico non abbia già provveduto, abbia
lasciato il campo all'iniziativa privata. Un'assicurazione sulla vita generale
dalla nascita annullerebbe, tra il resto, la sproporzione che ora esiste in
fatto di assicurazioni. Per esempio, coloro che sono esposti alla violenza
di strada, un tipo di violenza relativamente raro ma che accade, sono perlopiù
poveri vagabondi, assaliti da persone che si trovano nella loro stessa condizione,
e appunto costoro (ovviamente) non sono mai assicurati in alcun modo. Occorrerebbe
inoltre un ordinamento generoso e poco complicato, che prevedesse casi particolari
d'indennizzo non compresi nelle assicurazioni, per le forme di danno che h
rendono naturali. Le attuali forme di compensazione istituite nei paesi scandinavi
per le vittime di violenza non sono che un modestissimo inizio.
Oltre alle assicurazioni ed ai risarcimenti economici, ci vorrebbero un aiuto
concreto per restaurare la condizione materiale che è stata danneggiata
e un aiuto equivalente per ristabilire la situazione umana danneggiata, per
quanto è possibile. Si può dire che queste non sono sempre facili
da ricostruire. Ma nel sistema odierno non si ricostruisce "nulla",
mentre si potrebbe fare molto.
Terza viene la forma sociale. È in questo contesto che ci si potrebbe
immaginare un contatto riparatore tra l'autore e la vittima, quando entrambe
le parti lo desiderano. In generale si può dire che la criminalità
è un'azione comunicativa, un tentativo di dire qualcosa, che è
uscita dai binari. Quando sembra importante che quanto viene detto sia detto
nei suoi giusti termini, può risultare importante una ulteriore comunicazione.
L'attuale consiglio di composizione dei conflitti, esistente in alcuni paesi,
ne è un modello. Ma spesso la comunicazione non è desiderata,
né da uno né da entrambi, o non è possibile istituirla
anche se è desiderata. Chiaramente non è possibile nei casi
che non vengono risolti, che sono la maggior parte. Tuttavia, non per questo
la forma sociale di attenzione alla vittima risulta svuotata di senso. Per
coloro che hanno subito violenza di strada è decisivo costruire una
struttura a rete che possa proteggere e, innanzitutto, intervenire sull'ansia
e ridurla. Per coloro che hanno patito una violenza privata, gli odierni centri
di accoglienza per donne offrono un modello; man mano che viene in luce la
violenza personale, comprendiamo l'importanza di sostenere questi rifugi,
stanziando tutto ciò che è richiesto per la loro gestione ed
efficacia. Per coloro che hanno subito persecuzioni più sottili ma
minacciose - non sono molti ma ce ne sono, spesso donne ma anche uomini -
è importante sviluppare dei ruoli professionali cui ci si possa rivolgere
e che abbiano la possibilità di intromettersi (questi ruoli mancano
quasi totalmente nella nostra società). L'elenco delle misure potrebbe
continuare.
Il lavoro per migliorare la situazione della vittima dovrebbe essere avviato
e sviluppato parallelamente con l'abolizione del carcere: non perché
la vittima si troverà in una situazione peggiore - come abbiamo detto,
il sistema attuale non si prende mai cura delle necessità della vittima
- ma per sottolineare subito in quale direzione debba orientarsi la politica
criminale. Quanto costerà? L'assicurazione sulla vita finirà
per ammontare a una somma relativamente elevata. Ma dal punto di vista sociale
non implicherà un aumento dei costi, bensì un risparmio, perché
prenderà il posto delle assicurazioni private, al giorno d'oggi così
costose che le compagnie private di assicurazioni ci si impinguano. Sarebbero
necessari, per il resto, stanziamenti appositi. Prima abbiamo suggerito che
il budget carcerario, man mano che procede l'abolizione, sia trasferito al
lavoro sociale in favore dei gruppi interessati e per il lavoro contro le
funzioni del carcere nella pubblica opinione, provvedendo dunque degli altri
mezzi per il lavoro in favore delle vittime. "Dopo il 2010 metà
del bilancio carcerario diventerebbe disponibile per questo lavoro",
perché il lavoro contro le funzioni del carcere, che ha una funzione
preparatoria per la politica criminale, potrebbe venir meno dopo quella data
e da allora l'equivalente dell'attuale budget carcerario sarebbe totalmente
investito nel lavoro sociale e nel lavoro per le vittime, pareggiando così
i costi dell'intera operazione. E se poi non fosse così, vi sarebbe
un trascurabile aumento della quota destinata a questo settore, in rapporto
ad un immenso bilancio statale.
Inoltre il nuovo sistema, in generale, farebbe risparmiare in molti modi.
Ho già detto che probabilmente, con il sistema di assicurazione a vita,
si risparmierebbe. Altri risparmi riguardano i costosi danni sociali e occupazionali
- danni dovuti al controllo - inflitti dal carcere a quanti vi si trovano,
che verrebbero automaticamente evitati; riguardano ansia, disagio e frustrazione
(reali o creati dai media) indotti dalla criminalità, che sarebbero
attenuati; e ancora i costosi danni di lunga durata prodotti sulle vittime,
che si potrebbero eliminare con uno sforzo davvero riabilitativo, eccetera.
Concentrarsi sulla vittima e commisurare l'aiuto alla situazione della vittima
e ai danni subiti, invece di commisurare le reazioni punitive alla colpa del
reo e ai danni prodotti, avrebbe molte conseguenze positive. Innanzitutto,
naturalmente, per le vittime, categoria che sarebbe finalmente presa in considerazione
con uno sforzo adeguato. In secondo luogo per gli autori di reato: sarebbe
più facile trovare una breccia per l'abbattimento del carcere. Il lavoro
per le vittime può entrare direttamente a far parte della campagna
di opinione e informazione. In terzo luogo per l'intera società. Sarebbe
una società portata alla compassione piuttosto che alla punizione e
perciò una società più morale.
- Dalla politica criminale alla politica sociale
A questo punto, forse prima, i lettori si saranno domandati: che succede
della criminalità? Non crescerà a livelli inusitati, con la
nuova politica? La criminalità forse crescerà, ma un aumento
dovuto ai mutamenti della politica criminale è soltanto possibile e
non sarà più che marginale. Piuttosto, è evidente che
il lavoro sociale implicato dal mutamento avrà un effetto di prevenzione.
Ci sono tutt'altre forze, nella società, che determinano fondamentalmente
il tasso di criminalità. Ricordiamo quanto dice un'autorevole fonte
svedese, che già abbiamo citato in conclusione del terzo capitolo,
ossia che la politica criminale ha un significato subordinato rispetto alla
politica della famiglia, della scuola, dell'occupazione, sociale, eccetera.
("Regeringens proposition" 1982-83: 85, p. 30) (nota 6). Le cifre relative
al carcere e al tasso di criminalità variano in modo indipendente:
società con un enorme numero di detenuti hanno spesso un tasso di criminalità
astronomico, e le forze che determinano il livello di criminalità nella
società vanno cercate su un piano completamente differente, il piano
delle forze sociali.
In un'ottica rivolta al futuro, abbiamo dunque ragione di compiere un passo
ulteriore. Siamo partiti dall'idea di mantenere - temporaneamente - la criminalizzazione
per amor di sicurezza, secondo una concezione caratteristica delle teorie
della prevenzione generale. Ma se è vero che le forze che determinano
il livello di criminalità sono forze sociali, anche la criminalizzazione,
chiave di volta del sistema attuale, ha effetti insignificanti, benché
forse meno insignificanti di quelli del carcere in quanto tale. Si può
sperare che in futuro l'abolizione del carcere possa operare politicamente
come un «lievito», che dia inizio a ulteriori mutamenti nella
stessa direzione: una cosciente decriminalizzazione, elemento portante di
questa azione politica, e uno sviluppo sociale cosciente, che prevenga i tipi
di comportamento che oggi definiamo reati.
Qualcuno potrà domandarsi ancora se ridurre la criminalizzazione, in
ogni caso, non produrrebbe effetti inopportuni per quanto riguarda la grande
criminalità economica ai livelli sociali superiori. La mia risposta
è che non accadrebbe quasi nulla. Se c'è una forma di crimine
che in ogni caso, nella società odierna, non viene controllata mediante
la criminalizzazione, è questa. Occorrono tutt'altre strutture di controllo.
Inoltre, vorremo ben iniziare la decriminalizzazione dall'altro estremo della
scala sociale!
Ci sono situazioni problematiche, come dice Louk Hulsman, che oggi sono criminalizzate.
Queste situazioni hanno un'eziologia e un decorso. E si possono affrontare
in vari modi, molto più civili di quanto si fa oggi, modificando però
quelle forze sociali che oggi alimentano certi comportamenti. Saremmo allora
in una posizione migliore per proteggere le vittime "potenziali".
Su come fare ne sappiamo già molto. In effetti, persino le odierne
autorità responsabili ne sanno abbastanza. A costo di sembrare ripetitivi
e di risultare un po' noiosi, citiamo a mo' di conclusione un passo più
volte ripreso dal rapporto governativo svedese: «Nel complesso, operare
per una società solidale, con una migliore e più giusta distribuzione
di salari, alloggi, istruzione, condizioni di lavoro e cultura, è un'azione
adeguata a prevenire i rischi di disadattamento sociale, il quale spesso produce
condizioni favorevoli alla criminalità, e perciò è più
significativa della reazione penale a crimini già commessi» ("Regeringens
proposition" 1982-83: 85, p. 30).
Idealistico? Certo, ancora una volta! Ma credo che la situazione odierna lo
"pretenda".
Note:
1. L'organizzazione svedese, detta KRUM (Associazione nazionale per l'umanizzazione della politica criminale), fondata nel 1966 in seguito al cosiddetto «Convegno dei ladri» di Strömsund (un convegno sulla condizione carceraria cui parteciparono per la prima volta anche ex detenuti), fu il modello cui si ispirarono, oltre all'associazione norvegese, anche le associazioni danese e finlandese (entrambe sotto la sigla KRIM). [Questo paragrafo è stato considerevolmente abbreviato rispetto all'edizione norvegese, N.d.T ].
2. All'epoca il comitato direttivo del KROM comprendeva, oltre a un sociologo con due anni di esperienza di ricerca in un istituto di pena, un docente universitario e un avvocato entrambi con esperienza di lavoro in ambito carcerario, un operatore sociale con anni di esperienza specialmente nella realtà giovanile, due studenti e quattro ex detenuti.
3. Con "diversion" si indica un sistema di intervento correzionale mediante il quale si rinuncia all'intervento penale a favore di un trattamento extragiudiziale. La "diversion", contrariamente ad esempio alla "probation", non richiede che il procedimento penale venga differito al termine del periodo di prova, ma si sostituisce in concreto all'intervento giudiziario. Non possono esistere istituti corrispettivi nei sistemi, come quello italiano, che prevedano l'obbligatorietà dell'azione penale. Con processo di deistituzionalizzazione si intende invece quell'insieme di procedure che consentono di ridurre l'uso di certe istituzioni, in particolare le politiche volte a diminuire il ricorso a istituzioni totali. Nel caso del carcere si tratta da un lato di rinunciare a sanzionare penalmente determinati comportamenti (depenalizzazione) e spostare la competenza a giudicare e sanzionare certi reati dagli organi penali a organi amministrativi o comunque diversi da quelli giudiziari (degiurisdizionalizzazione); dall'altro, orientare la politica penale verso la decarcerizzazione, ossia verso la riduzione delle pene carcerarie, una maggior permeabilità tra carcere e ambiente esterno, l'adozione di misure sostitutive (libertà controllata) o alternative (affidamento ai servizi sociali, eccetera.) alle pene carcerarie per le persone detenute. In quest'ultimo senso è usato nel testo " deinstitutionalization" [N.d.T.].
4. Confer Pease et al. 1977; Blomberg 1977,1978,1980; Klein 1980; Chan - Ericson 1981; Dittenhoffer - Ericson 1983; Chan - Zdenkowski 1985; più teorico Cohen 1979, 1985. È uno sviluppo difficile da evitare e una recente rivalutazione di dati canadesi suggerisce moderazione nelle conclusioni generali (MacMahon 1988). Ma perlomeno come strategia verso l'abolizione del carcere, il «movimento per le alternative» è chiaramente inadeguato.
5. Richiamo l'attenzione sul fatto che il concetto di vittima si può adoperare in senso stretto oppure ampio. Nel primo caso si parla di chi è danneggiato da azioni individuali commesse da altri, nel secondo caso di chi è danneggiato da un complesso sistema di azioni che l'attore individuale non percepisce. Il concetto di vittima in senso ampio consente, per esempio, di considerare i popoli oppressi da un'altra nazione come "vittime". Su quest'uso più politico del termine vittima esiste un ricco dibattito (confer per esempio F.N.-Rapport 1985). Nel seguito uso il termine in senso stretto.
6. Si aggiunge a questo che nel futuro la criminalità potrebbe tendere piuttosto a "diminuire" in termini assoluti, a causa delle dinamiche demografiche. Si registra per esempio una stagnazione, che negli anni a venire tenderà a diventare un calo marcato, considerando i dati sulla criminalità giovanile in Norvegia, stagnazione che dalla fascia più giovane tenderà a riprodursi nei gruppi di età a criminalità più intensiva e potrebbe portare a attenuare o rovesciare le attuali dinamiche del tasso di criminalità (confer Balvig 1985; Schumann 1986; Falck 1987). Può esserci anche un'influenza sul numero dei detenuti. Se la denatalità influisce sul tasso di criminalità, la prevedibile diminuzione di quest'ultimo può offrire un argomento ulteriore in favore dello smantellamento: non c'è ragione di mantenere un enorme apparato penale se sarà poi difficile riempirlo.