Thomas Mathiesen
Perché il carcere?

Capitolo 6.
Che fare?

- Il segreto di un fiasco
Nessuna delle teorie discusse nei precedenti capitoli (prevenzione individuale - riabilitazione, neutralizzazione e deterrenza - difesa sociale come prevenzione generale, giusta pena), regge all'esame. Il carcere è nudo. Non si può difendere. Negli ambienti scientifici il dibattito è aperto, ma è difficile evitare la sensazione che sul versante della critica le posizioni si siano rafforzate più di quanto non sia accaduto su quello della difesa del carcere. Altrove la situazione è in parte diversa: nei media, nella società e nella sfera politica c'è chi continua a credere che il carcere possa riabilitare. Così, di fronte all'opinione pubblica, il carcere porta il peso di un segreto, il segreto del suo fiasco. Ma chi può svelare il segreto del carcere?
Possono farlo, ad esempio, la stampa e gli altri media. Anche se inizialmente non possiedono le conoscenze necessarie, possono rivolgere le domande giuste alle persone giuste e impegnarsi a diffondere il materiale di cui dispongono. Questo è appunto il nocciolo del cosiddetto giornalismo critico, il fiore all'occhiello dei media. Ma ciò non accade, se non in misura molto ridotta. Le ragioni sono due: innanzitutto i media sono strettamente legati alle élite sociali dominanti, che rappresentano le loro fonti principali, anche se si trovano delle eccezioni (confer Olsen - Sælten 1980 e Mathiesen 1986, p.p. 140-152). Questo crea mutua dipendenza e obblighi di lealtà non facili da spezzare. Inoltre l'orientamento dei media è molto diverso dal trasmettere informazioni veritiere e significative sulla società: i loro scopi sono vendere, e sostenere un'ideologia politica (confer Mathiesen 1986, p.p. 154-167). Nella situazione dei media degli anni Ottanta, questo orientamento ha creato un genere giornalistico che, ancora più di prima, si guarda bene da svelare la realtà del carcere. Ci si propone di farlo soltanto in ragione delle vendite, in un'ottica corrispondentemente distorta, e ci si occupa di quando vanno in carcere le grandi spie, i gangster famosi, i narcotrafficanti. La realtà quotidiana del carcere è annullata.
Il segreto può essere svelato anche da coloro che pianificano la politica criminale e lavorano nel sistema carcerario. Essi conoscono bene il fallimento della riabilitazione, come pure gli altri aspetti del fiasco carcerario. L'entusiasmo per il carcere è ormai da tempo sopito. Essendo, per la loro professione, così prossimi alla situazione reale, essi "sanno" quanto il sistema opera pericolosamente. Le loro dichiarazioni avrebbero molto peso: costoro, invece, non svelano nulla e, nel caso, solo in quegli aridi rapporti che pochi leggono. I motivi che nel complesso rendono loro impossibile ribellarsi sono due: innanzitutto essi stessi, per il loro ruolo professionale, si identificano con il loro lavoro. È molto difficile sopportare l'idea che il proprio lavoro - a volte quello di tutta una vita - è, semplicemente, del tutto privo di significato. Inoltre, sempre a causa del loro ruolo, sono condizionati ad accettare le premesse del loro lavoro: il rapporto con i colleghi, la corresponsabilità per ciò che accade nel carcere, e la carriera, tacitano le critiche. Si trova qualche eccezione, come quando il personale carcerario si mobilita per cambiare qualcosa nella condizione assurda dei detenuti. La gente del carcere, come l'altra gente, non è priva di sentimenti umani. Ma in sostanza non è da lì che giunge lo smascheramento.
L'esperienza sembra aver dimostrato che "lo smascheramento, nel caso sia possibile, deve risultare da un contatto politico con coloro che popolano le carceri, cioè con i carcerati". Se i detenuti rimangono soli, sono abbandonati a quel sistema fallimentare. Coloro che sono fuori e desiderano mostrare come è realmente il carcere, da soli, sono privi di esperienza concreta del sistema. Insieme, le due parti producono perlomeno un potenziale per lo smascheramento del fiasco del carcere. Un lavoro di contatto politico trasversale - in cui le informazioni sul fiasco carcerario siano portate a chi sta fuori del carcere e rivelate così all'intera società - risulterà semplice? Alcuni anni fa, il sociologo tedesco Jürgen Habermas ha pubblicato un nuovo imponente lavoro sulla «razionalità comunicativa» (Habermas 1981). Egli si discosta dalla concezione, ispirata a Weber, secondo cui la razionalità consiste nell'orientare il proprio agire secondo i mezzi ritenuti più efficaci per ottenere determinati fini. In alternativa a questa concezione efficientista ed utilitaristica, dice Habermas, esiste una razionalità comunicativa secondo la quale le persone argomentano in favore del proprio punto di vista, dando preminenza ai criteri di veridicità, rilevanza e sincerità. È in questa razionalità comunicativa, egli sostiene, che sono riposte le speranze nel progresso dell'umanità. Nel pensiero di Habermas realtà come l'oppressione, il potere, la classe, ecc etera - le quali tutto sommato sono forme dell'agire, o istituzioni, che eliminano l'eguaglianza e l'equilibrio tra le parti che argomentano nella società - vengono in certo qual modo rimosse dall'analisi. Certo, sono indicate delle istituzioni che ostacolano la razionalità comunicativa. Il diritto, e con esso la giuridificazione della società, è secondo Habermas una delle più importanti. Ma nell'analisi della comunicazione non sono incorporate considerazioni sull'oppressione, il potere e le classi, anzi, ne sono piuttosto espunte. La comunicazione è analizzata "come se tutti fossero uguali", come se la società fosse una sorta di seminario in cui parti intellettuali eguali siedono e si ascoltano, prendendo in considerazione quel che gli altri dicono in base al suo valore.
Partendo da una tale rappresentazione della società - che abbiamo presentato in modo un po' caricaturale - si potrebbe giungere a credere che il lavoro di contatto trasversale, con l'intenzione di denunciare il fiasco del carcere e smascherarne il segreto, sia relativamente semplice. Secondo questa concezione la «società», in ultima analisi, ascolterebbe presumibilmente le argomentazioni veritiere, rilevanti e sincere e ne terrebbe conto. Non è affatto così. La comunicazione "incorpora" dimensioni come l'oppressione, il potere, le classi. Non tutti sono comunicativamente uguali, né la società è un seminario comunicativamente razionale. Proprio l'esistenza dell'oppressione, del potere, delle classi - che, si può dire, fa assomigliare un po' l'idea della razionalità comunicativa a una foglia di fico socialdemocratica - rende molto difficile creare il contatto politico trasversale di cui stiamo parlando.
Concretamente si possono distinguere due difficoltà. In primo luogo è molto difficile istituire quel tipo di contatto trasversale, sopra le mura del carcere, che è un presupposto necessario dell'azione di smascheramento. Esso fa tutt'uno con l'istituzione di quella che chiamerò d'ora innanzi una "solidarietà comunicativa" tra i detenuti e le persone politicamente sensibili all'esterno, ossia una comunicazione vicendevole sulla vita interna e sulle magagne del carcere. Sono in molti a darsi da fare, se necessario con grande impegno, per impedire che questa solidarietà comunicativa si stabilisca.
In secondo luogo, è difficile riuscire a diffondere nel resto della società quella comprensione che la solidarietà comunicativa ha creato. Smascherare il fiasco del carcere non significa semplicemente additarlo, «renderlo noto». Sono molti gli esempi di persone che hanno «raccontato» al mondo esterno le brutture del carcere senza suscitare una reazione qualsiasi. Ciò che chiamiamo qui " smascherare" il segreto del carcere richiede che lo si denunci con tanta forza da poter convincere, tanta sincerità da poter commuovere, e giungendo, per il contenuto dell'informazione, tanto prossimi agli interlocutori da muovere all'azione. Anche in questo caso sono in molti a cercare d'impedirlo.
In pratica i due aspetti sono strettamente legati. Le difficoltà ad istituire al di sopra delle mura carcerarie la solidarietà comunicativa si riverberano sullo smascheramento, di cui la solidarietà è un presupposto necessario. Gli ostacoli che si frappongono allo smascheramento, dato che il lavoro va così facilmente a vuoto, hanno conseguenze sulla stessa istituzione della solidarietà comunicativa.

- Un esempio di irrazionalità comunicativa
Nella seconda metà degli anni Sessanta nascono, nei paesi scandinavi, diverse associazioni il cui scopo concreto è migliorare la situazione dei detenuti e, sul lungo periodo, giungere all'abolizione del carcere: tra di esse il KROM (Associazione norvegese per la riforma della politica criminale), la cui esperienza è significativa per illustrare quali reazioni possano verificarsi quando diventa realmente minaccioso il tentativo di stabilire una solidarietà comunicativa per svelare il segreto del fiasco del carcere (nota 1).
Il KROM può essere visto come il risultato organizzativo delle critiche contro il carcere che, negli anni Cinquanta e Sessanta, provengono da specialisti e intellettuali. Quest'organizzazione della critica è ritenuta una minaccia già di per sé, soprattutto da quando l'associazione inizia a prendere i primi prudenti contatti con i detenuti, perlopiù mediante lettere di cui si manda copia ai direttori. Il fatto che si inizi a mettere in contatto la riflessione specialistica con esperienze di detenuti (eventualmente ex detenuti) in modo che specialisti e detenuti collaborino pubblicamente in libri o riviste, dà vita pur con qualche conflitto ad un importante potenziale politico e spinge le autorità a intervenire apertamente in difesa del sistema. Le varie componenti del sistema della politica criminale (commissioni politiche, tribunali, carceri, eccetera.) iniziano ad applicare una serie di strategie tese ad ostacolare la solidarietà comunicativa che si sta iniziando a costruire (benché allora non la chiamassimo così) e a "mantenere" il segreto sul fallimento del carcere.
Di queste strategie la prima, in una fase in cui l'associazione è orientata al «dialogo», è di evitare per quanto possibile di dare importanza al complesso dei problemi sollevati dal contatto del KROM con i detenuti. Così dapprima le intrusioni vengono ignorate; inoltre, come seconda e più attiva strategia, i contatti epistolari vengono troncati. Una terza strategia, nel momento in cui tra i detenuti si diffondono (anche in modo organizzato attraverso l'elezione di rappresentanti in condizione di ottenere permessi a tale scopo) i contatti diretti con il KROM, consiste nell'interrompere, sulla base di motivazioni disparate, anche i contatti personali.
Una quarta strategia consiste in una serie di argomentazioni intese ad isolare gli oppositori del sistema sia rispetto al proprio stesso gruppo, sia rispetto ad altri gruppi con i quali sarebbe possibile la collaborazione. Chi protesta, si dice, un tempo era più ragionevole: il KROM ha ormai un atteggiamento irresponsabile e demagogico. Un altro argomento è che gli oppositori del sistema sono dei teorici, lontani mille miglia dalla vita reale (nota 2). Un terzo argomento, sollevato ogni volta che si volesse far passare il KROM per un nemico oggettivo degli interessi reali dei gruppi coinvolti, sostiene che chi protesta vuole soltanto acutizzare la crisi. Ancora: ad opporsi è una setta di estremisti politici, argomento spesso utilizzato insieme con i due precedenti, a volte nella forma di un'accusa d'infiltrazione. Chi protesta, dice un quinto argomento, è diviso al proprio stesso interno. Chi protesta, infine, è del KROM! Ovvero, su ogni critica, anche isolata, piove l'accusa secondo cui «dietro» ci sono i reali oppositori (così si cerca anche di far acquistare implicitamente al nome del KROM una connotazione squalificante).
La quinta strategia, infine: chi ha il potere entra in «collaborazione» con chi ne è oppresso. Quando le altre strategie iniziano a mostrare la corda, il sistema presenta un'«offerta di collaborazione» ai suoi soggetti, un'offerta che però è limitata e basata sul presupposto esplicito che non si stabilisca un contatto di comunicazione tra chi partecipa e i critici «estranei».
La solidarietà comunicativa che non sembra, di fatto, in grado di smascherare il fiasco del carcere non è percepita come una minaccia. Le strategie che abbiamo descritto sono perciò messe in atto quando la solidarietà sembra poter avere successo. Allora vien da chiedersi: perché la solidarietà comunicativa, insieme con la possibilità che sia smascherato di fatto il fiasco del carcere, è così pericolosa che un insieme di strategie - dalle più meccaniche alle più sottili - debbano esser poste in opera per impedirlo? Il motivo, credo, è che la nostra società si è resa «patologicamente» dipendente dal carcere, il quale non si può veramente considerare razionale e accettabile, ma ha dopotutto assunto delle funzioni reali, molto meno accettabili ma importanti, che «disturbano» la comunicazione del suo completo fiasco.

- Le reali funzioni del carcere
La prima fase di sviluppo del sistema carcerario si spiega con il fatto che le forze dell'ordine avevano sperimentato la nuova, crescente necessità di disciplinare certi gruppi di popolazione (confer il capitolo 1). Le diverse teorie in difesa del carcere che abbiamo esaminato non sono che l'espressione di questo bisogno, abbellita ideologicamente e resa ragionevole. Le funzioni reali del carcere spiegano invece perché il carcere continui ad esistere, benché i suoi scopi ideologici non siano stati soddisfatti.
Possiamo elencare cinque di queste funzioni.
La prima è la funzione "depurativa". Nella nostra società la «produttività» è sempre più legata alla vita lavorativa. Al tempo stesso la nostra forma di società crea sempre più gruppi che, in relazione a quel criterio, sono «improduttivi». Una società del genere deve sbarazzarsi degli elementi ritenuti improduttivi, in parte perché la loro esistenza crea inefficienza nel sistema produttivo (e nelle sfere vitali connesse con il sistema produttivo), in parte perché essi ricordano brutalmente che il nostro sistema produttivo non è poi così ben riuscito.
Una società può liberarsene in molte maniere, ma nella nostra la soluzione più diffusa è chiuderli in un istituto. Gli anziani vengono messi in una casa di riposo, i malati di mente in una casa di cura, gli alcolisti in ima casa protetta, i ladri e i consumatori di stupefacenti in carcere. Il «muro» che si leva tra la società produttiva, benestante, e quella improduttiva, corre lungo le mura, reali e simboliche, dell'istituto. Chi governa il sistema carcerario è, in questo contesto sociale, un funzionario del sistema di depurazione.
La seconda funzione è "ridurre all'impotenza". Per la società produttiva, non è sufficiente mettere gli «improduttivi» in un istituto. Questi vanno messi da parte in modo tale che non si senta più parlare di loro: solo così la depurazione ha buon esito. Il sistema degli istituti dispone di una varietà di modi concreti per ridurre al silenzio coloro che gli sono sottoposti, affinché la società possa coprire con un velo di oblio chi ne viene espulso. Molti modi che si basano sull'impotenza prodotta dalla detenzione. Isolati dal resto del mondo, i detenuti in carcere sono resi impotenti di fronte al personale. La protesta è perciò soffocata con la massima facilità, le obiezioni tacitate.
La terza funzione è quella "diversiva". Nella nostra società si commettono sempre più azioni pericolose, a volte pericolose per la vita degli individui. Grosso modo si può dire che si tratta di azioni commesse da individui e da gruppi di interesse che dispongono di un grande potere: inquinamento, impiego della forza lavoro in forme nocive per la salute, produzioni che devastano l'ambiente, eccetera sono azioni per le quali risultano in ultima istanza responsabili coloro che sono più potenti nella società. Un tempo i più potenti ne commettevano altre, ma anche allora le loro azioni erano tra le più pericolose socialmente.
La pena è usata comunque principalmente contro gli autori di piccoli reati contro la proprietà e altri individui relativamente poco pericolosi. La ragione è in parte che la legislazione prevede delle pene innanzitutto per queste azioni e in parte che ci sono scarse possibilità per loro di aggirare il sistema che individua e sanziona questi reati. In tal modo, la pena carceraria assolve alla funzione di distogliere l'attenzione dalle azioni veramente pericolose commesse da coloro che dispongono del potere. La pena carceraria è particolarmente adatta a questo scopo, essendo una reazione così "visibile".
La quarta è la funzione "simbolica". La funzione simbolica delle pene detentive è strettamente correlata con la funzione diversiva, ma può essere comunque utile trattarla indipendentemente. Quando qualcuno va in carcere, inizia per lui un processo di stigmatizzazione. Nella nostra società il carcere è una forma di sanzione particolarmente stigmatizzante, sempre perché è così visibile. Chi va in carcere è stigmatizzato in quanto «nero»; grazie a ciò noialtri, che stiamo fuori, ci consideriamo più bianchi al confronto: possiamo ritenerci più giusti, migliori e meno pericolosi. La detenzione di pochi simbolizza l'infallibilità dei molti. Forse in questa funzione troviamo la ragione profonda per il fatto che, mentre il detenuto è sottoposto a un complessivo processo di stigmatizzazione entrando in carcere, non riceve mai un'equivalente destigmatizzazione quando ne esce. Così egli rimane nero, come noi restiamo bianchi. L'ipotesi di Paul Reiwald che i nostri metodi di punizione servano direttamente a far rimanere delinquente il delinquente («Quello che mangiava nella gamella») è in questo contesto interessante: «La società lo combatte [il delinquente, N.d.A.] apparentemente con tutte le sue forze, ma in realtà fa tutto quel che può per conservarlo tale» (Reiwald 1949, p. 34; confer Foucault 1975). Ossia, la società mantiene un gruppo di detenuti per far risaltare la propria perfezione.
Nel caso in cui la comunicazione sveli effettivamente che il carcere non soddisfa le funzioni attribuitegli dalle teorie in sua difesa, viene anche messa a nudo la sua reale funzione di depurazione, ben poco accettabile nell'attuale quadro culturale e ideologico della nostra società. Si colpiscono così alcune delle ragioni per cui il carcere persiste. Resta anche a nudo la sua funzione di ridurre all'impotenza. Né questa è una funzione particolarmente accettabile nel nostro quadro ideologico-culturale, con il suo accento sulla democrazia e sulla «partecipazione dal basso». La solidarietà comunicativa tira inoltre i detenuti fuori dalla situazione di impotenza, appunto mediante l'alleanza che si crea e che rappresenta un contropotere. In entrambi i sensi la comunicazione è perciò una minaccia contro alcuni fondamenti del carcere. La comunicazione offre inoltre il punto di partenza per svelare chi è che sta davvero in carcere. La questione di come si sviluppino i miti dissimulatori intorno ai detenuti «pericolosi» è interessante, ma deve essere qui sorvolata. Diventa comunque chiaro che fondamentalmente "non" sono quelli pericolosi che stanno in carcere e si ostacola così la funzione diversiva del carcere n ella società. Mediante la comunicazione si può infine scompaginare la linea di demarcazione tra «neri» e «bianchi» in due modi: innanzitutto «mettendo a nudo» il detenuto, con una disamina delle sue azioni che predice che non risulterà comunque tanto più nero degli altri. Inoltre fa sì che il detenuto stesso cominci ad organizzarsi per difendere i propri interessi. Anche questo segnala che egli non è così diverso dagli altri. La comunicazione minaccia così tutti noi che preferiremmo rimanere bianchi.
La quinta e ultima può dirsi la funzione di provvedere all'" azione". La carcerazione è il tipo di sanzione più visibile nella nostra società. In tempi più lontani lo erano le punizioni corporali. Il carcere, comunque, è altrettanto visibile, non come supplizio individuale, ma come realtà istituzionale. In questo senso, tra i due tipi di sanzioni esistono sia una continuità sia un mutamento: sono simili perché ambedue risaltano come segni positivi e visibili che qualcosa si è fatto; sono dissimili perché la sanzione più antica è visibile nel corpo dell'individuo, mentre la più recente è visibile nelle condizioni materiali stabilite per un gran numero di persone. Il mutamento collima a sua volta con un cambiamento sociale. La società moderna, con la sua mole e complessità, richiede soluzioni collettive. Costruendo carceri, costruendo ancora più carceri, approvando leggi che prevedano pene detentive più severe, gli attori della politica odierna trovano il modo di far vedere che agiscono sul crimine come categoria del comportamento, che stanno facendo qualcosa in proposito: che qualcosa, presumibilmente, si sta davvero facendo in fatto di «legge e ordine». Nessun'altra sanzione assolve così bene questo compito.
Voglio credere che queste funzioni siano evidenti a quanti fanno parte del sistema della politica criminale. Mentre altri tipi di istituzione possiedono solo alcune di queste funzioni - specialmente la funzione di «depurazione» è caratteristica della maggior parte - il carcere le possiede tutte. Questo spiega come mai si reagisca con tanta forza contro la comunicazione e perché le strategie per impedirla siano così numerose. Spiega anche, come già detto, perché continuiamo a tenerci il carcere a dispetto del suo fiasco. Altri tipi di istituzione, infatti, sono più facili da eliminare e le ideologie in loro sostegno vengono persino rovesciate, soprattutto in tempi di crisi economica. Di contro, il carcere rimane.
Che fare, dunque? La risposta non è facile. Tuttavia, anche se bisogna tenere conto delle reali funzioni del carcere, dobbiamo concederci il lusso di pensare ad alta voce, utopisticamente. Perché la questione è difficile, ma anche importante. Se ci liberiamo del carcere, non ci liberiamo solo della repressione prodotta dal carcere. L'abolizione avrà probabilmente anche una serie di altri effetti positivi sulla nostra società.

- Le alternative al carcere
Negli ultimi anni vi sono stati, in molte nazioni, svariati tentativi di trovare alternative al carcere: strutture di controllo e di trattamento pensate per sostituire il carcere. La speranza è che, mettendo a punto tali alternative, si giungerà perlomeno a ridurre l'uso di quel fiasco che è il carcere. In Norvegia, per esempio, nella relazione provvisoria della commissione nazionale sul diritto penale troviamo una dettagliata discussione di misure alternative (NOU 1983: 57, cap. 28, «La legislazione penale in fase di revisione»): si tratta di strutture come il cosiddetto «consiglio per la risoluzione dei conflitti» (le parti - rei e vittime - sono riunite per discutere e comporre il conflitto rappresentato dal reato) ed altre forme alternative di soluzione dei conflitti, come il progetto Buskerud per rafforzare la difesa dei bambini e dei minori mediante, tra l'altro, case per l'infanzia abbandonata e strutture di accoglienza e soluzione di crisi, eccetera. La valutazione di questi esperimenti è perlopiù positiva e dopo la pubblicazione del rapporto molte strutture alternative sono state ampliate (per esempio in numerose località si è istituito, per la delinquenza giovanile, il consiglio per la risoluzione dei conflitti).
Esaminiamo nel dettaglio i cosiddetti «servizi utili alla collettività», che stanno per essere istituiti su base nazionale in Norvegia. Il reo è condannato a svolgere un certo numero di ore di lavoro, mediante cui viene estinta una condanna non condizionale. Deve avere più di 17 anni, deve esser ritenuto adatto all'attività in questione e dovrà restare sotto la sorveglianza dei servizi sociali che si occupano dei criminali in libertà. La misura andrebbe applicata soprattutto agli autori di piccoli furti, di furti d'auto commessi allo scopo di guidarle, di furti in alloggio, di atti di vandalismo; inoltre, «per quanto possibile», a criminali che altrimenti sarebbero condannati a una pena non condizionale, in modo da costituire una vera alternativa al carcere. Il tribunale dovrebbe quindi comminare un'equivalente pena non condizionale e i «servizi utili alla collettività», in questo quadro, si baserebbero sul consenso del condannato.
Ecco il punto saliente: si tratta davvero di un'alternativa? Il libero consenso può esserci, se l'alternativa è una condanna al carcere? E se il consenso diventa fittizio, non ci troviamo di fronte ad una nuova forma di lavoro forzato? È opportuno caricare i servizi sociali che si occupano dei criminali in libertà di un nuovo compito di controllo, quello di sorvegliare i condannati ai «servizi utili alla collettività»? Non potrebbero anch'essi e le relative sanzioni diventare. forme oppressive e poco efficaci? Sono domande importanti. Ma quella fondamentale è se abbiamo nei fatti un'alternativa alla detenzione.
Il materiale empirico suggerisce che "non" sono una reale alternativa e che - più precisamente - non sono applicati soprattutto, o perlopiù, a criminali che sarebbero stati condannati a pene non condizionali. L'Inghilterra è la patria dei «servizi utili alla collettività». Sono stati in uso per più di dieci anni. Bisogna dire che non hanno arrestato l'imponente espansione carceraria avutasi in Inghilterra nello stesso periodo (confer il capitolo 1). Forse non ci si doveva aspettare tanto, sarebbe già stato un risultato apprezzabile riuscire a "frenarla". Ma una ricerca del 1977, quando i «servizi utili alla collettività» suscitavano partecipazione ed entusiasmo, mostra che più del 50%, una quota ragguardevole, dei rei che vi erano sottoposti avrebbero ricevuto altrimenti le usuali condanne condizionali (Pease et al. 1977; per rapporti più recenti confer «Tidsskrift for kriminalomsorg», 1985, 4, p.p. 32-33). Si può anche dire che i «servizi utili alla collettività», in Inghilterra, sono stati soprattutto usati in "aggiunta" al carcere, invece di prenderne il posto. Corrispondentemente hanno smesso di fungere da reale alternativa.
A livello internazionale i risultati delle ricerche intorno ad altre strutture che avevano per scopo l'alternativa al carcere sono equivalenti. Le une cercano di «deviare» il cammino che porta alla pena carceraria, prendendo iniziative alternative affinché non sia posta in atto la carcerazione (i cosiddetti "diversion programs"); le altre sono tese a «deistituzionalizzare» le persone che si trovano comunque in carcere introducendo per loro misure alternative (i cosiddetti " deistitutionalization programs") (nota 3). Una serie di ricerche empiriche dall'Inghilterra, dagli Stati Uniti, dal Canada e dall'Australia dà motivo di sostenere che le strutture di entrambi i tipi non hanno preso il posto del carcere, bensì strutture e carcere si sono sommati; in questo modo il sistema di controllo della politica criminale si espande e il carcere resta in piedi. Quando l'impiego di sanzioni penali tradizionali è stato limitato, gli studi mostrano che il sistema di controllo nel suo complesso si è ampliato in misura equivalente. Nella letteratura specialistica il fenomeno è stato paragonato alle variazioni nella struttura di una rete: in parte la rete è diventata a maglie più fini, in parte le maglie della rete si sono allargate. Invece di portare fuori dal carcere gruppi di persone, le strutture alternative mostrano la tendenza ad attirare nuovi gruppi dentro il sistema di politica criminale, mentre i vecchi gruppi perlopiù rimangono in carcere - proprio mentre l'uso del carcere cresce sempre più. Ma perché non si trovano alternative "reali"?
Parte della risposta sta nella scarsa convinzione con cui sono state tentate queste misure. L'esperienza norvegese mostra che, in pratica, coloro che la polizia porta davanti al «consiglio per la risoluzione dei conflitti» sono i giovani meno svantaggiati, che avrebbero comunque ricevuto una mite condanna condizionale (Lingås 1986, p.p. 22, 25 e 48); così pure per chi viene affidato ai servizi sociali, e così via. Ma anche questo richiede a sua volta un chiarimento. Perché si tenta con così poca convinzione? Una spiegazione la troviamo nelle reali funzioni del carcere, che non sono soddisfatte dai servizi sociali, dal «consiglio per la risoluzione dei conflitti» e così via. Non si tolgono di mezzo né si neutralizzano altrettanto efficacemente le persone; l'effetto diversivo e l'effetto simbolico sono deboli. Né le cose vanno diversamente indirizzando gli esperimenti a indebolire i bisogni che motivano le funzioni: quando questo è il caso, gli esperimenti devono «farsi da parte», invece di consolidarsi e diventare reali alternative (nota 4).
Che il carcere non sia minacciato da simili tentativi, è confermato dalle reazioni delle autorità, le quali vi plaudono costantemente ma dicono al tempo stesso che, anche se non si ama il carcere, lo si «deve» mantenere. Ho presentato un esempio eclatante alla settima Conferenza mondiale di politica criminale, organizzata dalle Nazioni Unite a Milano nell'autunno del 1985. Come delegato norvegese, ho partecipato all'elaborazione di un documento intitolato "Reduction of Prison Population, Alternatives to Prison, Social Integration of Offenders". L'iniziativa di proporre una risoluzione in merito era stata presa da un inglese esterno al congresso, da me e da altri. Alla fine siamo riusciti a farci appoggiare da un certo numero di nazioni partecipanti, limando e attenuando le formulazioni, soprattutto quelle sulla riduzione dell'uso del carcere. Le formulazioni che riguardavano l'introduzione di cosiddette «alternative» non hanno richiesto simili ritocchi. Ancora più chiara è stata la differenza durante il dibattito congressuale, svoltosi in due riprese in una delle grandi commissioni del congresso. In generale c'era soddisfazione per l'idea di dare molto peso alle alternative. Ma l'idea di ridurre la popolazione carceraria non ha incontrato la stessa risposta. Le alternative erano le benvenute, ma avrebbero dovuto prendere il posto del carcere e diventare, così, reali? Questo non era "affatto" chiaro. Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, cosa abbastanza interessante per l'epoca, hanno fatto causa comune nel dibattito conclusivo, persino sul titolo della risoluzione. Gli Stati Uniti ritenevano che una parte del titolo ("Reduction of Prison Population") potesse essere eliminata, perché nel dibattito precedente - si diceva - era stata ben cancellata, per fortuna, tutta la parte del contenuto della risoluzione che trattava di tale riduzione; l'Unione Sovietica si è associata. Il titolo è rimasto in effetti tal quale, ma dal punto di vista del contenuto restava poco o niente circa l'abbandono del carcere.
Così uomini e donne di buona volontà che, in tutto il mondo, sostengono le «alternative», ricevono sostegno perché le «alternative» in realtà non corrispondono al loro nome: non sono alternative. Occorrono dunque rimedi più energici. Quali? Vorrei ribadire che dobbiamo permetterci di pensare ad alta voce. Nel seguito sarà presentato l'abbozzo di un piano per l'abolizione del carcere, piano che dovrà essere ulteriormente sviluppato in futuro.

- Un piano per l'abolizione del carcere
Abbiamo mostrato, in precedenza, la doppiezza delle autorità sul problema del carcere. Da un lato abbiamo presentato una serie di loro dichiarazioni, secondo cui il carcere è indifendibile; e d'altro canto, esse stesse vanno costantemente in cerca di argomenti in suo favore e si tengono stretto il sistema carcerario. Prenderemo allora come punto di partenza la percezione, che esiste ai livelli superiori della politica criminale, del fiasco del carcere. Idealistico? Certo! Ma sono pronto ad accettare critiche di questo tipo, perché ormai è importante, una buona volta, prendere in parola i responsabili della politica criminale per quanto riguarda la loro opinione più fondata.
Alcuni anni fa, in Svezia, un ampio dibattito sull'energia nucleare sfociò in una consultazione popolare. I sostenitori del nucleare, noti come il «partito del sì», vinsero. Ma essi stessi ritenevano che l'energia nucleare dovesse essere eliminata entro il 2010. Resta loro una ventina d'anni di tempo.
I tempi di smantellamento delle centrali nucleari svedesi possono essere seguiti anche per lo smantellamento del carcere. Si può metterla così: se qualcosa formidabile come l'energia nucleare, con gli interessi e le funzioni che le si intrecciano, viene eliminata entro il 2010, altrettanto si può fare con il carcere. Le funzioni che garantiscono la sopravvivenza del sistema carcerario sono poco più rilevanti delle funzioni attribuite all'energia nucleare dalle società che ne fanno uso. E per quanto riguarda i fini il carcere è, come detto, un puro fiasco, mentre in genere non si può dire altrettanto per l'energia nucleare: dopotutto produce elettricità, anche se la fonte è pericolosa.
L'obiettivo che dovrebbero porsi le nostre autorità di politica criminale - legislatori ed esecutori - è smantellare il carcere entro la medesima scadenza posta per lo smantellamento delle centrali nucleari svedesi. Si tratta di uno obiettivo ragionevole e di una ragionevole richiesta. Il 2010 è l'anno decisivo.

- Criminalizzazione fino a nuovo ordine
Daremo per scontato di voler continuare ad avere un ordinamento giuridico secondo cui certe azioni siano considerate reati. Verrebbe la tentazione di attaccare la criminalizzazione in sé, chiedendo di abolire tutto quanto il sistema per cui si ricorre al diritto penale per risolvere i conflitti umani. Oggi il problema è oggetto di seria discussione nella criminologia internazionale (per esempio, nella seconda International Conference of Penal Abolition tenutasi ad Amsterdam nel 1985; confer Hulsman 1986). In questo libro ho assunto un punto di vista più moderato, che suppone di mantenere il sistema del diritto penale. Ciò non significa che vada mantenuto in tutti i suoi aspetti. Ridurre la criminalizzazione dei conflitti umani e decriminalizzare le azioni compiute dagli individui è un obiettivo molto importante. Inoltre l'abolizione del carcere, che è qui lo scopo, avrebbe di per sé un effetto di decriminalizzazione. Tornerò su questo. Ma, fino a nuovo ordine, accettiamo la situazione attuale.
In tal modo si fa una concessione essenziale alle teorie della prevenzione generale. Due aspetti si intrecciano: nel capitolo sulla prevenzione generale abbiamo puntualizzato che vi è un unico risultato sufficientemente chiaro: ci si possono aspettare degli effetti soltanto da mutamenti generali e ingenti nel sistema penale. Abbiamo sottolineato che i difensori delle teorie della prevenzione generale si riferiscono solitamente a simili cambiamenti. Nel quinto capitolo, sulle teorie della giustizia, abbiamo puntualizzato (discutendo concretamente di SOU 1986: 13-15) che diverse autorità di politica criminali danno per scontato che la criminalizzazione stessa, o l'esistenza della pena, creino sottomissione alla legge. Abbiamo sottolineato che in quei lavori si tratta praticamente di un postulato; ma abbiamo anche osservato che si tratta del loro punto di partenza. Null'altro - per esempio non l'esistenza del carcere - è presupposto creare sottomissione alla legge.
"Per andare sul sicuro", prendiamo qui il medesimo punto di partenza. Non intendiamo schierarci in favore di un mutamento così ingente da abolire la criminalizzazione. Le discussioni specialistiche sull'esistenza stessa del diritto penale fanno sì che io non sia pienamente soddisfatto del punto di partenza che ho preso, né mi sento convinto che sia giusto. Come detto, il punto di partenza è preso qui per essere " sicuri", sicuri di non spingerci troppo oltre.

- Forme di abolizione
Nel periodo di tempo prefissato per l'abolizione, i primi due o tre anni vanno dedicati al dibattito e alla pianificazione. Nel tempo che rimane l'abolizione deve avvenire gradualmente, per poter essere accettata dalla popolazione. Un periodo di circa venti anni, come vedremo oltre, dovrebbe in effetti offrire una garanzia per questa accettazione. Più precisamente l'abolizione dovrebbe svolgersi con rapidità crescente, con un avvio moderato negli anni 1990-95, seguìto da uno smantellamento più accentuato negli anni 1995-2000, considerevolmente accelerato infine negli anni 2000-10.
L'abolizione può avvenire in tre modi: il primo consiste nel diminuire progressivamente i limiti massimi di pena, seguendo l'andamento della «curva» di abolizione. Bisogna tenere presente che i tribunali potrebbero continuare a seguire modelli divenuti ormai vecchi e, corrispondentemente, non diminuire i livelli di pena; ciò andrebbe affrontato concretamente nel pianificare la riduzione dei massimi di pena, ma anche mediante contatti diretti con i tribunali a proposito del loro lavoro. Il punto non è influenzare impropriamente i tribunali, ma rendere chiare le motivazioni e le implicazioni delle novità introdotte. Il lavoro preparatorio della nuova legislazione, così come il lavoro di contatto con i tribunali, dovrebbe essere gestito da un nuovo dipartimento o una nuova direzione del ministero della giustizia, un ufficio ministeriale per l'abolizione. È importante che il lavoro non sia affidato alle strutture ministeriali incaricate della politica criminale, o alla direzione generale delle carceri, che ha un forte interesse nel conservare il sistema esistente. Il nuovo dipartimento dovrebbe esso stesso abolirsi entro il 2010.
Il secondo procedimento richiede lo smantellamento materiale della struttura carceraria, che dovrebbe avvenire parallelamente alla riduzione del numero dei detenuti prodotta dalla diminuzione dei massimi di pena. È molto importante che non si lascino sussistere le strutture amministrative e gli edifici «privi di utenza», perché esiste il pericolo di un «effetto boomerang», un arresto o un rovesciamento dei piani, che è reso più difficile allontanando le strutture amministrative e distruggendo materialmente gli edifici, come è richiesto dal processo di contrazione del sistema. È importante stabilire degli ordinamenti transitori per il personale dell'amministrazione carceraria che non può essere pensionato, con il trasferimento a nuove mansioni in tutti i casi in cui sia possibile. Questo lavoro dovrebbe essere svolto da un'apposita sezione dell'ufficio incaricato dell'abolizione. Si dovrebbero coinvolgere le sovrintendenze per stabilire quali edifici andrebbero preservati per il loro valore storico.
In terzo luogo l'abolizione dovrebbe avvenire mediante il continuo trasferimento delle risorse precedentemente assegnate al sistema carcerario, in ragione di metà della somma risparmiata sul budget delle carceri, al sistema dell'affidamento ai servizi sociali, rivalutando di anno in anno le somme disinvestite (torneremo sull'uso a cui destinare l'altra metà). Si eviterebbe così di riprodurre la situazione apparentemente creatasi dimettendo gli ospiti dei manicomi dopo il loro smantellamento. È molto importante che l'affidamento ai servizi sociali, che sarebbe rafforzato in modo eccezionale, "non sia organizzato in modo da accrescere la funzione di controllo". È facile immaginare che sullo sfondo dello smantellamento del carcere possa avvenire qualcosa del genere e bisogna evitarlo, sia " vincolando" specificamente i mezzi finanziari a tre scopi: lavoro, casa e trattamento volontario per coloro che - in misura crescente - verrebbero rilasciati; sia con un "continuo dibattito critico" sulle funzioni di queste misure. Bisogna attendersi che le attività su cui si vincolano i fondi abbiano al tempo stesso un significativo effetto di prevenzione della criminalità. Dopo l'abolizione, si dovrebbe impiegare un corrispondente stanziamento per creare opportunità di lavoro per i gruppi poveri e marginali, ma questo dovrebbe essere integrato amministrativamente nei servizi sociali, per evitare che si sviluppi un sistema di assistenza separato. Un piccolo intervento che per qualcuno potrebbe essere molto importante al momento buono, è l'istituzione di quelli che il criminologo olandese Herman Bianchi chiama «santuari» o «luoghi di rifugio» ("refugier"), destinati ai pochi che abbiano commesso azioni tali da rischiare persecuzioni o giustizia sommaria, luoghi che sono anche un'opportunità di riflessione e riparazione. Il pericolo è che essi possano poi costituire il nucleo di nuove prigioni.

- Contro le funzioni del carcere
È assolutamente necessario contrastare attivamente le funzioni reali oggi svolte dalla pena detentiva e cercare di neutralizzarle. È dunque necessario un lavoro contro le funzioni del carcere. Se questo manca, ci sarebbe gran pericolo di far apparire un ordinamento para-carcerario che, sotto un nuovo nome, vada ad adempiere alle medesime funzioni.
È importante tener presente che le funzioni svolte dagli ordinamenti umani non sono per forza "necessarie". Quando si adopera il concetto di «funzione» si presuppone facilmente che si tratti di qualcosa di necessario dal punto di vista sociale, dando così all'analisi un accento fortemente conservatore. Ma vi è un ampio spettro di funzioni sociali non necessarie per la sopravvivenza della società (confer Merton 1949; 1957). Si può dire che se determinate funzioni sono o sono diventate necessarie, l'intero assetto della società va rivoluzionato perché si possa pensare di eliminarle. Nella misura in cui determinate funzioni non sono o non sono diventate necessarie in questo senso, si può avere successo con cambiamenti meno rivoluzionari, anche se ugualmente può esserci bisogno di un impegno considerevole.
Ritengo che le funzioni reali, ufficiose, della carcerazione siano di quest'ultimo tipo. Non sono tali che la struttura sociale si dissolva se vengono eluse. Sono tali che l'abolizione di quei sistemi che, dopotutto, hanno cominciato a svolgerle, genererebbe sì conflitto e agitazione; ma in misura tale da potersi risolvere all'interno del quadro della nostra forma sociale. Allora diventa assolutamente razionale cominciare questo lavoro contro le funzioni del carcere prima che sorgano sistemi analoghi a ereditamele funzioni.
In generale tutte queste funzioni non riconosciute sono funzioni che si esercitano nella sfera pubblica, nella "Offentlichkeit", intendendo con ciò un'arena sociale in cui vengono presentati messaggi significanti e vengono compiute azioni di fronte a una molteplicità (eventualmente limitata) di altri soggetti, non privatamente dunque, e con più o meno piena franchezza (Mathiesen 1984). Il carattere pubblico delle funzioni cresce secondo l'ordine della loro serie: a partire dalla funzione di «depurazione», poi quella di ridurre all'impotenza, sino alla funzione diversiva, simbolica, di azione. Esse sono, in un certo senso, modi diversi di gestire le nostre impressioni, senza i quali coloro da cui ci auguriamo di essere liberati diventerebbero visibili e avrebbero più voce; noi non saremmo così facilmente distratti dalle reali minacce alla società , non saremmo in grado di pensarci così «bianchi» e non proveremmo un falso sollievo perché qualcosa viene fatto contro il crimine. Vediamolo in ordine inverso: l'operazione simbolica per cui, grazie al carcere, qualcuno è nerissimo affinché noi possiamo emergere come bianchi, è una funzione che riguarda la nostra comprensione e interpretazione dell'ambiente. Lo stesso vale per la funzione diversiva. Ridurre all'impotenza altri gruppi di persone è una funzione più materiale e concreta, ma ha un significato pubblico perché - come abbiamo detto a suo tempo - riguarda un genere d'impotenza che rende certi gruppi muti. Senza carcere, questi gruppi parleranno moltissimo. Lo stesso vale per la funzione di «depurazione»: se non venisse svolta, certe persone non risulterebbero invisibili per il pubblico.
Il lavoro contro le funzioni del carcere deve perciò svolgersi nella sfera pubblica. In effetti non esiste propriamente una sola sfera pubblica, ma molte sfere pubbliche. La più ampia è probabilmente l'arena politica, riflessa nei grandi mass media. In complessi sistemi, che si trovano «sotto» questa più ampia sfera, troviamo altre sfere pubbliche più o meno limitate, connesse e separate le une rispetto alle altre in una serie di modi. Altrove ho provato a esporre i principi di organizzazione della sfera pubblica (Mathiesen 1984, p.p. 1-122). Qui si vuole solo puntualizzare che questo lavoro va svolto in sfere pubbliche diverse nella società.
Come abbiamo osservato, le opinioni sui trasgressori della legge diventano più sfumate o più liberali man mano che chi le esprime si accosta alla singola persona o alla situazione concreta (ragione per cui le opinioni superficiali offrono indicazioni fuorvianti in fatto di politica criminale). Il compito centrale sarebbe di usare questa conoscenza investendo ingenti risorse ed energie per rendere visibile, nella sfera pubblica centrale della società, chi sono i detenuti e qual è la loro situazione di vita. È decisivo che ciò avvenga parallelamente allo smantellamento del carcere.
Non sarà un lavoro facile, ma neppure impossibile. Dalle ricerche sui media e la comunicazione sappiamo che gli effetti delle campagne di opinione e di informazione hanno i loro limiti. Ma questo dipende anche dalle risorse e, come abbiamo detto, bisogna stanziare risorse ingentissime. Dalle stesse ricerche sappiamo anche che è molto più facile consolidare opinioni e convinzioni già esistenti piuttosto che cambiarle (confer Klapper 1960, cap. 2; Mathiesen 1986, p.p. 184 s.). Ed è importante avere chiaro che si tratta appunto, creando un punto di osservazione più vicino, di rafforzare nella gente la capacità potenziale di esprimere sfumature di giudizio. Sappiamo anche che le convinzioni possono essere modificate. È uno scopo perseguibile, se la comunicazione nei mass media è intensamente sostenuta con la comunicazione personale all'interno di sfere pubbliche delimitate, come sul posto di lavoro, nel vicinato, nelle scuole. I sindacati, in quanto parte della causa socialista e socialdemocratica, essendo tra i sostenitori dell'ideologia socialista di solidarietà, andrebbero chiamati in campo.
Ho detto prima che metà delle somme risparmiate grazie allo smantellamento del sistema carcerario andrebbero impiegate per creare posti di lavoro in favore delle categorie che, alla fine, non verrebbero più chiuse in carcere. L'altra metà dovrebbe essere usata per il lavoro contro le funzioni del carcere nell'opinione pubblica, che potrebbe così svolgere un ruolo importante nella preparazione al cambiamento. Probabilmente si dovrebbe iniziare con stanziamenti ingentissimi, per ridurli poi gradatamente, all'inverso dell'affidamento ai servizi sociali, il cui budget dovrebbe seguire, secondo le nostre premesse, l'andamento crescente dell'abolizione. Di conseguenza si verificherebbe - in rapporto a un normale bilancio carcerario - un «passivo» nella parte iniziale del periodo di smantellamento. Ma corrispondentemente avremmo un «attivo» verso la fine del periodo, cosicché, nell'arco dei vent'anni, la somma degli stanziamenti per l'affidamento ai servizi sociali e per il lavoro contro le funzioni del carcere equivarrebbe a vent'anni di ordinaria amministrazione delle carceri.
La ricerca sui media ci offre ancora un suggerimento: l'attenzione a come il messaggio e recepito e mediato nella concreta rete sociale. Anche se l'ipotesi «a due tempi», come viene chiamata (Lazarsfeld et al. 1944), non può essere mantenuta con la medesima pregnanza per gli odierni media (confer Mathiesen 1986, p.p. 194 s.) è un importante punto di partenza per i nostri scopi: le reti sono tuttora importanti per il tipo di mediazione che stiamo discutendo e vanno sottolineate. Ciò significa che il lavoro contro le funzioni del carcere deve essere condotto nelle scuole, sui posti di lavoro, nelle organizzazioni, con i vicini di casa, ossia nei luoghi dove le persone si incontrano, parlano, condividono esperienze, si formano una comprensione comune. In quest'ottica possono essere usate anche le moderne tecnologie della comunicazione di massa, ma probabilmente è molto importante mantenere la comunicazione, per quanto possibile, sul piano personale. Il lavoro dovrebbe comunque essere affidato ai Ministeri della cultura e della pubblica istruzione, non al Ministero della giustizia.

- Lavorare per le vittime
L'attuale sistema penale in genere, in particolare in quanto poggia sulla pena carceraria, omette sistematicamente di fare qualcosa. di ragionevole per uno dei personaggi del dramma del crimine: "la vittima". Ho detto sopra qualcosa su quanto dovrebbe essere fatto per chi ha commesso il crimine. Costui è una vittima: vittima di una struttura sociale e di uno sviluppo sociale che l'hanno portato al punto in cui si trova, e vittima delle proprie azioni, dalle quali egli stesso è danneggiato. Appunto per questo è così importante il grande trasferimento di risorse in suo favore di cui abbiamo parlato. Ma in questo paragrafo non tratterò di questo gruppo, bensì di coloro che più tradizionalmente sono considerati vittime, e userò quindi il termine «vittime» nell'accezione tradizionale: coloro che sono danneggiati da azioni commesse da altri in violazione della legge (nota 5).
Si sentono spesso discorsi magniloquenti sulle vittime, ma in realtà la loro condizione, nel sistema odierno, è trascurata. La vittima non trae alcun vantaggio dal fatto che il criminale sia arrestato, mandato in tribunale e eventualmente in prigione, perché di regola non è risarcita né da un punto di vista simbolico, né materiale né sociale. Non voglio parlare della piccola soddisfazione che forse alcuni traggono dalla pura vendetta: non ritengo siano molti e non trovo che sia uno scopo degno di speciale considerazione.
La mia proposta è di "spostare completamente l'attenzione, nella politica criminale, dal reo alla vittima". Tradizionalmente il reo e la vittima sono visti in mutua relazione. Io propongo di sciogliere la loro relazione e far sì che la vittima, più che non il reo, sia oggetto della politica criminale. Questo significa che l'impegno della società non dovrebbe essere commisurato, sotto forma di pena, all'azione commessa dal reo, ma, sotto forma di aiuto, commisurarsi alla vittima. Questo significa che le misure prese dalla società non dovrebbero, sotto forma di pena, crescere scalarmente in relazione alla colpa del reo e ai danni provocati dalla sua azione, ma, sotto forma di aiuto, in relazione alla situazione della vittima e al danno che ha subito.
Si riscontra, oggi, un certo interesse specialistico e politico per la vittima. La «vittimologia» è diventata un concetto. Ma l'interesse è tiepido e, cosa più importante, non si smette di guardare al reo, ma lo si coinvolge ogni volta in relazione alla vittima, sotto forma di generi diversi di risarcimento (imposto o pattuito). Il risarcimento sarà però, quasi in ogni situazione, inadeguato per la vittima e fonte di privazione e dolore per il reo. Infatti, come abbiamo più volte ricordato, i criminali che vengono catturati sono perlopiù, in senso ampio, poveri. Con proposte come questa si ritorna in realtà all'interno del vecchio sistema. Non intendo trascurare il bisogno, da parte di alcuni autori di reato, di trovare un accordo con la vittima. Dovrebbe essere istituito un ordinamento che consentisse di rispondere a questo bisogno quando si presenti. Ma il sistema dovrebbe spostare la sua "mira" e diventare completamente diverso. L'idea è insolita e dovremo quindi familiarizzarci con essa. Si tratta di commisurare l'impegno della società, esplicato sotto forma di aiuto, alla condizione della vittima "piuttosto che", sotto forma di pena, all'azione commessa dal reo; si tratta dunque di calibrare le misure prese dalla società, sotto forma di aiuto, secondo la situazione della vittima e il danno che ha subito " piuttosto che", sotto forma di pena, in relazione alla colpa del reo e ai danni conseguiti alla sua azione. Si tratta, in altre parole, di concepire una politica criminale completamente nuova, che inoltre, al contrario di quanto fa la politica criminale odierna, ridurrà l'allarme sociale. Come avevamo visto nel primo capitolo, i legislatori e i giudici sono dei «barometri della paura», ossia delle istituzioni che attraverso le loro decisioni riflettono l'allarme sociale. Ma essi non "fanno" nulla contro questo allarme. La politica che proponiamo "fa" qualcosa.
Focalizzare l'attenzione sulla vittima può essere concepito in tre forme generali. La prima è quella "simbolica". La riparazione è importante in un certo numero di casi. Una forma di simpatia da instaurare, rituali che diano espressione al dolore (confer in altro contesto Christie 1981), forme più forti di restaurazione dell'onore mediante colloqui e incontri sia personali sia pubblici, stanziamenti generosi per il trattamento, in senso ampio, quando lo si desidera. E pace, e tranquillità, e nessuna interferenza, quando è questo che si desidera.
La seconda forma è quella "materiale". È importante un'assicurazione sulla vita, nel senso proprio del termine: sarebbe a dire, essere assicurati dalla nascita, come membri della società, automaticamente e per il massimo indennizzo, contro la criminalità; e poter riscuotere l'assicurazione con modalità molto semplici, senza sforzi supplichevoli e spesso umilianti da parte della vittima. È inconcepibile che il nostro progredito stato socialdemocratico non abbia già provveduto, abbia lasciato il campo all'iniziativa privata. Un'assicurazione sulla vita generale dalla nascita annullerebbe, tra il resto, la sproporzione che ora esiste in fatto di assicurazioni. Per esempio, coloro che sono esposti alla violenza di strada, un tipo di violenza relativamente raro ma che accade, sono perlopiù poveri vagabondi, assaliti da persone che si trovano nella loro stessa condizione, e appunto costoro (ovviamente) non sono mai assicurati in alcun modo. Occorrerebbe inoltre un ordinamento generoso e poco complicato, che prevedesse casi particolari d'indennizzo non compresi nelle assicurazioni, per le forme di danno che h rendono naturali. Le attuali forme di compensazione istituite nei paesi scandinavi per le vittime di violenza non sono che un modestissimo inizio.
Oltre alle assicurazioni ed ai risarcimenti economici, ci vorrebbero un aiuto concreto per restaurare la condizione materiale che è stata danneggiata e un aiuto equivalente per ristabilire la situazione umana danneggiata, per quanto è possibile. Si può dire che queste non sono sempre facili da ricostruire. Ma nel sistema odierno non si ricostruisce "nulla", mentre si potrebbe fare molto.
Terza viene la forma sociale. È in questo contesto che ci si potrebbe immaginare un contatto riparatore tra l'autore e la vittima, quando entrambe le parti lo desiderano. In generale si può dire che la criminalità è un'azione comunicativa, un tentativo di dire qualcosa, che è uscita dai binari. Quando sembra importante che quanto viene detto sia detto nei suoi giusti termini, può risultare importante una ulteriore comunicazione. L'attuale consiglio di composizione dei conflitti, esistente in alcuni paesi, ne è un modello. Ma spesso la comunicazione non è desiderata, né da uno né da entrambi, o non è possibile istituirla anche se è desiderata. Chiaramente non è possibile nei casi che non vengono risolti, che sono la maggior parte. Tuttavia, non per questo la forma sociale di attenzione alla vittima risulta svuotata di senso. Per coloro che hanno subito violenza di strada è decisivo costruire una struttura a rete che possa proteggere e, innanzitutto, intervenire sull'ansia e ridurla. Per coloro che hanno patito una violenza privata, gli odierni centri di accoglienza per donne offrono un modello; man mano che viene in luce la violenza personale, comprendiamo l'importanza di sostenere questi rifugi, stanziando tutto ciò che è richiesto per la loro gestione ed efficacia. Per coloro che hanno subito persecuzioni più sottili ma minacciose - non sono molti ma ce ne sono, spesso donne ma anche uomini - è importante sviluppare dei ruoli professionali cui ci si possa rivolgere e che abbiano la possibilità di intromettersi (questi ruoli mancano quasi totalmente nella nostra società). L'elenco delle misure potrebbe continuare.
Il lavoro per migliorare la situazione della vittima dovrebbe essere avviato e sviluppato parallelamente con l'abolizione del carcere: non perché la vittima si troverà in una situazione peggiore - come abbiamo detto, il sistema attuale non si prende mai cura delle necessità della vittima - ma per sottolineare subito in quale direzione debba orientarsi la politica criminale. Quanto costerà? L'assicurazione sulla vita finirà per ammontare a una somma relativamente elevata. Ma dal punto di vista sociale non implicherà un aumento dei costi, bensì un risparmio, perché prenderà il posto delle assicurazioni private, al giorno d'oggi così costose che le compagnie private di assicurazioni ci si impinguano. Sarebbero necessari, per il resto, stanziamenti appositi. Prima abbiamo suggerito che il budget carcerario, man mano che procede l'abolizione, sia trasferito al lavoro sociale in favore dei gruppi interessati e per il lavoro contro le funzioni del carcere nella pubblica opinione, provvedendo dunque degli altri mezzi per il lavoro in favore delle vittime. "Dopo il 2010 metà del bilancio carcerario diventerebbe disponibile per questo lavoro", perché il lavoro contro le funzioni del carcere, che ha una funzione preparatoria per la politica criminale, potrebbe venir meno dopo quella data e da allora l'equivalente dell'attuale budget carcerario sarebbe totalmente investito nel lavoro sociale e nel lavoro per le vittime, pareggiando così i costi dell'intera operazione. E se poi non fosse così, vi sarebbe un trascurabile aumento della quota destinata a questo settore, in rapporto ad un immenso bilancio statale.
Inoltre il nuovo sistema, in generale, farebbe risparmiare in molti modi. Ho già detto che probabilmente, con il sistema di assicurazione a vita, si risparmierebbe. Altri risparmi riguardano i costosi danni sociali e occupazionali - danni dovuti al controllo - inflitti dal carcere a quanti vi si trovano, che verrebbero automaticamente evitati; riguardano ansia, disagio e frustrazione (reali o creati dai media) indotti dalla criminalità, che sarebbero attenuati; e ancora i costosi danni di lunga durata prodotti sulle vittime, che si potrebbero eliminare con uno sforzo davvero riabilitativo, eccetera.
Concentrarsi sulla vittima e commisurare l'aiuto alla situazione della vittima e ai danni subiti, invece di commisurare le reazioni punitive alla colpa del reo e ai danni prodotti, avrebbe molte conseguenze positive. Innanzitutto, naturalmente, per le vittime, categoria che sarebbe finalmente presa in considerazione con uno sforzo adeguato. In secondo luogo per gli autori di reato: sarebbe più facile trovare una breccia per l'abbattimento del carcere. Il lavoro per le vittime può entrare direttamente a far parte della campagna di opinione e informazione. In terzo luogo per l'intera società. Sarebbe una società portata alla compassione piuttosto che alla punizione e perciò una società più morale.

- Dalla politica criminale alla politica sociale
A questo punto, forse prima, i lettori si saranno domandati: che succede della criminalità? Non crescerà a livelli inusitati, con la nuova politica? La criminalità forse crescerà, ma un aumento dovuto ai mutamenti della politica criminale è soltanto possibile e non sarà più che marginale. Piuttosto, è evidente che il lavoro sociale implicato dal mutamento avrà un effetto di prevenzione. Ci sono tutt'altre forze, nella società, che determinano fondamentalmente il tasso di criminalità. Ricordiamo quanto dice un'autorevole fonte svedese, che già abbiamo citato in conclusione del terzo capitolo, ossia che la politica criminale ha un significato subordinato rispetto alla politica della famiglia, della scuola, dell'occupazione, sociale, eccetera. ("Regeringens proposition" 1982-83: 85, p. 30) (nota 6). Le cifre relative al carcere e al tasso di criminalità variano in modo indipendente: società con un enorme numero di detenuti hanno spesso un tasso di criminalità astronomico, e le forze che determinano il livello di criminalità nella società vanno cercate su un piano completamente differente, il piano delle forze sociali.
In un'ottica rivolta al futuro, abbiamo dunque ragione di compiere un passo ulteriore. Siamo partiti dall'idea di mantenere - temporaneamente - la criminalizzazione per amor di sicurezza, secondo una concezione caratteristica delle teorie della prevenzione generale. Ma se è vero che le forze che determinano il livello di criminalità sono forze sociali, anche la criminalizzazione, chiave di volta del sistema attuale, ha effetti insignificanti, benché forse meno insignificanti di quelli del carcere in quanto tale. Si può sperare che in futuro l'abolizione del carcere possa operare politicamente come un «lievito», che dia inizio a ulteriori mutamenti nella stessa direzione: una cosciente decriminalizzazione, elemento portante di questa azione politica, e uno sviluppo sociale cosciente, che prevenga i tipi di comportamento che oggi definiamo reati.
Qualcuno potrà domandarsi ancora se ridurre la criminalizzazione, in ogni caso, non produrrebbe effetti inopportuni per quanto riguarda la grande criminalità economica ai livelli sociali superiori. La mia risposta è che non accadrebbe quasi nulla. Se c'è una forma di crimine che in ogni caso, nella società odierna, non viene controllata mediante la criminalizzazione, è questa. Occorrono tutt'altre strutture di controllo. Inoltre, vorremo ben iniziare la decriminalizzazione dall'altro estremo della scala sociale!
Ci sono situazioni problematiche, come dice Louk Hulsman, che oggi sono criminalizzate. Queste situazioni hanno un'eziologia e un decorso. E si possono affrontare in vari modi, molto più civili di quanto si fa oggi, modificando però quelle forze sociali che oggi alimentano certi comportamenti. Saremmo allora in una posizione migliore per proteggere le vittime "potenziali". Su come fare ne sappiamo già molto. In effetti, persino le odierne autorità responsabili ne sanno abbastanza. A costo di sembrare ripetitivi e di risultare un po' noiosi, citiamo a mo' di conclusione un passo più volte ripreso dal rapporto governativo svedese: «Nel complesso, operare per una società solidale, con una migliore e più giusta distribuzione di salari, alloggi, istruzione, condizioni di lavoro e cultura, è un'azione adeguata a prevenire i rischi di disadattamento sociale, il quale spesso produce condizioni favorevoli alla criminalità, e perciò è più significativa della reazione penale a crimini già commessi» ("Regeringens proposition" 1982-83: 85, p. 30).
Idealistico? Certo, ancora una volta! Ma credo che la situazione odierna lo "pretenda".

 

Note:

1. L'organizzazione svedese, detta KRUM (Associazione nazionale per l'umanizzazione della politica criminale), fondata nel 1966 in seguito al cosiddetto «Convegno dei ladri» di Strömsund (un convegno sulla condizione carceraria cui parteciparono per la prima volta anche ex detenuti), fu il modello cui si ispirarono, oltre all'associazione norvegese, anche le associazioni danese e finlandese (entrambe sotto la sigla KRIM). [Questo paragrafo è stato considerevolmente abbreviato rispetto all'edizione norvegese, N.d.T ].

2. All'epoca il comitato direttivo del KROM comprendeva, oltre a un sociologo con due anni di esperienza di ricerca in un istituto di pena, un docente universitario e un avvocato entrambi con esperienza di lavoro in ambito carcerario, un operatore sociale con anni di esperienza specialmente nella realtà giovanile, due studenti e quattro ex detenuti.

3. Con "diversion" si indica un sistema di intervento correzionale mediante il quale si rinuncia all'intervento penale a favore di un trattamento extragiudiziale. La "diversion", contrariamente ad esempio alla "probation", non richiede che il procedimento penale venga differito al termine del periodo di prova, ma si sostituisce in concreto all'intervento giudiziario. Non possono esistere istituti corrispettivi nei sistemi, come quello italiano, che prevedano l'obbligatorietà dell'azione penale. Con processo di deistituzionalizzazione si intende invece quell'insieme di procedure che consentono di ridurre l'uso di certe istituzioni, in particolare le politiche volte a diminuire il ricorso a istituzioni totali. Nel caso del carcere si tratta da un lato di rinunciare a sanzionare penalmente determinati comportamenti (depenalizzazione) e spostare la competenza a giudicare e sanzionare certi reati dagli organi penali a organi amministrativi o comunque diversi da quelli giudiziari (degiurisdizionalizzazione); dall'altro, orientare la politica penale verso la decarcerizzazione, ossia verso la riduzione delle pene carcerarie, una maggior permeabilità tra carcere e ambiente esterno, l'adozione di misure sostitutive (libertà controllata) o alternative (affidamento ai servizi sociali, eccetera.) alle pene carcerarie per le persone detenute. In quest'ultimo senso è usato nel testo " deinstitutionalization" [N.d.T.].

4. Confer Pease et al. 1977; Blomberg 1977,1978,1980; Klein 1980; Chan - Ericson 1981; Dittenhoffer - Ericson 1983; Chan - Zdenkowski 1985; più teorico Cohen 1979, 1985. È uno sviluppo difficile da evitare e una recente rivalutazione di dati canadesi suggerisce moderazione nelle conclusioni generali (MacMahon 1988). Ma perlomeno come strategia verso l'abolizione del carcere, il «movimento per le alternative» è chiaramente inadeguato.

5. Richiamo l'attenzione sul fatto che il concetto di vittima si può adoperare in senso stretto oppure ampio. Nel primo caso si parla di chi è danneggiato da azioni individuali commesse da altri, nel secondo caso di chi è danneggiato da un complesso sistema di azioni che l'attore individuale non percepisce. Il concetto di vittima in senso ampio consente, per esempio, di considerare i popoli oppressi da un'altra nazione come "vittime". Su quest'uso più politico del termine vittima esiste un ricco dibattito (confer per esempio F.N.-Rapport 1985). Nel seguito uso il termine in senso stretto.

6. Si aggiunge a questo che nel futuro la criminalità potrebbe tendere piuttosto a "diminuire" in termini assoluti, a causa delle dinamiche demografiche. Si registra per esempio una stagnazione, che negli anni a venire tenderà a diventare un calo marcato, considerando i dati sulla criminalità giovanile in Norvegia, stagnazione che dalla fascia più giovane tenderà a riprodursi nei gruppi di età a criminalità più intensiva e potrebbe portare a attenuare o rovesciare le attuali dinamiche del tasso di criminalità (confer Balvig 1985; Schumann 1986; Falck 1987). Può esserci anche un'influenza sul numero dei detenuti. Se la denatalità influisce sul tasso di criminalità, la prevedibile diminuzione di quest'ultimo può offrire un argomento ulteriore in favore dello smantellamento: non c'è ragione di mantenere un enorme apparato penale se sarà poi difficile riempirlo.