Thomas Mathiesen
Perché il carcere?
Postfazione
Questo libro è stato scritto nel 1985-86 e pubblicato per
la prima volta nella mia lingua, in norvegese, nel 1987. Successivamente è
apparso in danese, svedese, tedesco e inglese, e ora, nel 1996, in italiano.
Penso sia corretto dire che gli argomenti contro il carcere presentati in
questo libro sono oggi ancor più rilevanti di quanto lo fossero nell'edizione
originale del 1987. Due importanti tendenze di sviluppo fanno pensare che
sia così.
- Le cifre della carcerazione
Innanzitutto, l'uso del carcere come una delle forme principali di punizione
ha continuato ad espandersi. Tendenze che erano chiaramente osservabili verso
la fine degli anni Ottanta sono oggi, nel 1996, ancor più chiare. Con
scarse eccezioni, nel mondo occidentale il numero di detenuti sta crescendo.
Si possono fornire alcuni esempi: nel corso degli anni 1979, 1989 e 1993 il
numero di detenuti negli Stati Uniti è balzato da 230 a 426 a 532 per
100.000 abitanti. In Canada i dati corrispondenti sono stati 100, 111 e 125;
in Spagna 37, 80 e 117; in Inghilterra/Galles 85, 96 e 95; in Danimarca 63,
66 e 67; in Norvegia 44, 56 e 62; in Svezia 55, 58 e 66, e in Olanda - nota
per il suo basso numero di detenuti - 23, 44 e 52. Il solo paese nordico che
ha mostrato un calo è la Finlandia, da 106 a 68 a 67, ma aveva un dato
di partenza eccezionalmente elevato. La fonte di queste informazioni è
un recente libro di Nils Christie, mio collega norvegese (Christie 1994);
egli aggiunge l'importante informazione che pure in un certo numero di paesi
dell'Est europeo il numero di detenuti ha avuto un'impennata, mostrando in
diversi casi una curva a «U» - con una flessione al tempo dei
mutamenti politici negli anni 1989-90 e successivamente un nuovo sostanziale
incremento. Aggiungerò subito che il sostanziale calo nel numero di
detenuti nel corso degli anni Ottanta in Germania Occidentale, che avevo indicato
come ragione di speranza nel primo capitolo di questo libro, è ormai
storia: nel corso degli anni Novanta, le sole regioni della precedente Germania
Occidentale hanno mostrato una nuova sostanziale crescita numerica di detenuti
(nota 1).
Differenze nei metodi di classificazione e cambiamenti in tali metodi rendono
difficile analizzare e paragonare in dettaglio dati come questi. Ma la maggior
tendenza generale è molto chiara: in breve, tra la fine degli anni
Ottanta e la seconda metà degli anni Novanta l'importanza del carcere
in quanto istituzione punitiva si è intensificata ulteriormente, e
il carcere ha consolidato la sua posizione in maniera drammatica. Oggi nel
mondo occidentale, milioni di persone trascorrono o hanno trascorso il tempo
dietro le sbarre. Questo a dispetto del fatto che una sostanziosa mole di
lavori di ricerca mostri che il carcere, per gli scopi che esso stesso si
è posti, è un fiasco. Questo ci porta alla seconda tendenza,
suggerendo che gli argomenti contro il carcere presentati in questo libro
sono oggi ancor più rilevanti di prima.
- La ricerca sul carcere
Per numero di libri e articoli specialistici, la ricerca sul carcere
si è espansa dal momento della prima edizione di questo libro nel
1987. Peraltro, in termini di risultati di ricerca che evidenzino effetti
positivi da parte del carcere, l'espansione è davvero marginale.
"Riabilitazione".
La letteratura sulla riabilitazione è aumentata. Ma le principali meta-analisi,
cioè quelle analisi che incorporano e forniscono una sintesi di un
gran numero di studi empirici dello stesso genere, mostrano largamente i risultati
negativi che addirittura il carcere sortisce. Bisogna ricordare in particolare
due importanti contributi.
In un libro intitolato "In difesa del carcere" il sociologo americano
Richard A. Wright fornisce una trattazione attenta e aggiornata dei principali
studi e meta-analisi di studi americani sulla riabilitazione (Wright 1994).
La sua rassegna è la più importante perché tenta, come
il titolo mostra e come potremo vedere oltre, di organizzare una "difesa"
del carcere. La conclusione del suo percorso consiste nel respingere completamente
la riabilitazione come argomento in difesa del carcere. Di particolare importanza
è la sua attenta critica metodologica di un piccolo gruppo di studi
metanalitici «devianti», i quali mostrano risultati più
positivi in termini di riabilitazione.
Alcuni studi sono in grado di mostrare effetti positivi, in termini di abilità
sociali piuttosto che di riduzione della recidiva. Si suggerisce che possa
essere importante il cosiddetto «training in competenza cognitiva»,
in cui si pone un'enfasi sulle abilità sociali attraverso strategie
per lo sviluppo della capacità di risolvere problemi, di prendere decisioni
e di comprendere gli altri (confer anche Porporino 1991). Studi come questi
certamente non vanno trascurati. Ma bisogna anche aver chiaro in mente che
sono pochi esempi, di fronte a un numero estremamente maggiore di studi che
dimostrano l'inefficacia del trattamento e dei programmi di riabilitazione
nel contesto carcerario - in termini di recidiva tanto quanto di abilità
sociali in senso più ampio. Per usare un'espressione popolare, gli
studi che mostrano risultati positivi sono difficili da trovare quanto un
ago in un pagliaio.
Il secondo contributo da menzionare è un importante articolo di Gene
G. Kassebaum e David Ward (Kassebaum - Ward 1991). Gli autori arrivano alle
stesse conclusioni di Wright e vedono i tentativi di rivitalizzare la filosofia
del trattamento da parte degli addetti al trattamento come una strategia di
autodifesa nei confronti della realtà da parte degli operatori, ove
la realtà, per il personale coinvolto nel trattamento, è stata
«nelle due ultime decadi un incubo». Gli Stati Uniti, mostrano
gli autori, hanno un sistema della giustizia penale con più di un milione
di prigionieri, centinaia di migliaia di sentenze con la condizionale e parecchi
milioni di probation, in aggiunta a un personale addetto al trattamento molto
poco preparato per il proprio compito. Nel normale contesto carcerario burocratico,
autoritario, inumano il trattamento diventa impossibile. La situazione in
Europa, specialmente nei maggiori paesi, è simile, diminuisce solo
la scala delle cifre.
Una recente meta-analisi porta in un'altra direzione, benché in misura
limitata. Mark W. Lipsey ha condotto una meta-analisi di 400 lavori di ricerca
sul trattamento con giovani delinquenti e ha trovato mediamente un lieve effetto
positivo a breve termine sulla recidiva (Lipsey 1995). Su un periodo medio
di circa sei mesi successivi al trattamento, i gruppi di controllo dei non
trattati (o «trattati normalmente») raggiungevano in media il
50% di recidiva, mentre nel caso dei giovani trattati la media era circa il
45%: in altri termini, il 5% di differenza. Una riduzione del 5% medio sul
50% di base - sostiene Lipsey - produce un 10% complessivo di riduzione della
recidiva, che a suo parere non è di poca conto. Anche per altri tipi
di risultati - psicologici, di adattamento interpersonale e così via
- i gruppi trattati mostravano effetti migliorativi rispetto ai gruppi di
controllo, benché ci sia ben poco rapporto tra questi risultati e quelli
in termini di recidiva. Gli effetti non erano influenzati dalle caratteristiche
dei rei, ma piuttosto dal tipo di programma di trattamento, andando da programmi
con un effetto molto positivo (programmi concreti orientati al comportamento,
formazione al lavoro e così via) a programmi con effetto molto negativo
(per esempio la terapia di avversione basata sullo shock), mediante i quali
la recidiva aumenta sostanzialmente.
I risultati di Lipsey sono certo molto interessanti. Peraltro, come ha osservato
il criminologo norvegese Per Hage (1996), non è chiaro se la meta-analisi
include sia i trattamenti istituzionali sia quelli non istituzionali. Benché
sembri probabile che il trattamento istituzionale, in carcere, sia di fatto
incluso, noi non sappiamo in che modo i diversi programmi di trattamento,
che variano in termini di effetti positivi, neutri o negativi, si distribuiscano
rispetto all'asse istituzionale - non istituzionale. Questo è un punto
critico della meta-analisi. Comunque, anche se accettassimo una modesto effetto
medio del trattamento, dal 5 al 10%, sulla complessiva riduzione di recidiva,
come dato rappresentativo per il trattamento dei giovani carcerati, restano
due problemi di fondo: primo, e per ripeterci, sappiamo che una quantità
strabocchevole di carceri nei paesi occidentali - tanto per giovani che per
adulti - non ha nulla che rassomigli a programmi di trattamento, né
lo avrà mai, a causa della struttura e del funzionamento delle carceri.
Secondo, mentre un 5 % in media di effetto del trattamento può essere
considerato un successo marginale di quest'ultimo, tale effetto non può
certo essere usato come legittimazione del carcere.
Bisognerebbe sottolineare che i disastrosi risultati della riabilitazione
"non" dovrebbero e "non" devono essere usati come scusa
per privare i carceri di servizi medici, di servizi pedagogici come i programmi
scolastici, eccetera. Finché avremo delle carceri, i carcerati ovviamente
avranno non solo lo stesso diritto degli altri cittadini a tali servizi; in
ragione del retroterra di generale povertà e di condizioni inumane
del carcere nelle quali vivono, essi avranno diritto a qualcosa in più.
Il punto è che tali servizi dovrebbero essere forniti precisamente
per questo: in quanto "diritti" che i carcerati hanno e dovrebbero
avere, e in quanto elementi di una politica sensibile, illuminata e umana.
I servizi non dovrebbero essere forniti a condizione che siano seguiti da
riabilitazione, e non dovrebbero e non possono essere usati come un argomento
ideologico in favore del carcere.
"Prevenzione generale".
L'area della prevenzione generale - deterrenza, formazione di abitudini, persuasione
morale degli altri non (ancora) in carcere - ha visto a sua volta un numero
di ricerche nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Ma di nuovo, i risultati
sono miseri.
Uno dei più importanti libri in materia è lo studio sopra menzionato
di Richard Wright, che offre una rassegna delle ricerche recenti sulla prevenzione
generale. Il libro di Wright è importante ai nostri fini
precisamente perché l'autore si propone il compito di " difendere"
il carcere. Che cosa trova? Molto poco.
Wright passa in rassegna l'enorme numero di studi comparativi (con uno stesso
punto di inizio temporale) intorno agli effetti sul crimine delle differenze
nell'effettiva probabilità della pena (Wright e altri spesso usano
il termine «certezza» come sinonimo di probabilità) e nell'effettiva
severità della pena; studi su esperimenti naturali (cioè studio
degli effetti dei mutamenti nella legislazione); studi comparativi in merito
agli effetti sul crimine delle differenze nella probabilità soggettivamente
attesa e nella severità soggettivamente attesa della pena; infine studi
quadro, nei quali le aspettative in merito alla certezza e alla severità
della pena ad un dato momento sono paragonate con il crimine che viene riferito
dagli stessi rei in un tempo successivo. Gli studi quadro sono importanti,
perché evitano un problema. metodologico insito in quelli comparativi:
in questi ultimi si pongono domande "allo stesso tempo" sulle aspettative
delle persone in merito alla probabilità e alla severità della
pena e sulla loro attività criminale, riportata da loro stessi. Ciò
significa che si studiano e comparano aspettative "attuali" circa
la pena con azioni criminali che vengono riferite in quanto compiute "nel
passato". Perciò, le azioni criminali del passato possono dar
luogo alle aspettative attuali circa la pena altrettanto bene che viceversa.
Gli studi quadro, comparando le aspettative attuali circa le pene relative
a crimini futuri, evitano il problema. In aggiunta, Wright passa in rassegna
i pochi studi qualitativi che esistono. Gli studi econometrici, basati sui
modelli economici del comportamento, sono inclusi nella rassegna. I suoi risultati
possono essere riassunti come segue:
1. una modesta connessione, in senso negativo, tra le reali probabilità
di punizione e quelle attese, da una parte, e il comportamento criminale dall'altra;
ossia, maggiore è la probabilità reale e attesa di essere preso
e punito, minore è la propensione a commettere il crimine;
2. un effetto iniziale modesto sul comportamento criminale, ma un effetto
minimo a lungo termine, di mutamenti improvvisi nella politica criminale che
aumentino le aspettative circa la probabilità della pena;
3. nessuna relazione sia tra la reale sia tra l'attesa severità della
pena e il crimine;
4. in più, gli studi quadro (metodologicamente importanti) sugli effetti
prodotti dalle aspettative delle persone intorno alla probabilità e
la severità della pena "non mostrano effetti sui crimini commessi
in seguito". Per ripetersi, questo avviene anche a proposito della "
probabilità della pena".
Persino per gli ottimisti in fatto di prevenzione generale, questi risultati
devono sembrare abbastanza una doccia fredda. La rassegna, intrapresa da un
ricercatore che cerca di difendere il carcere, "non dà alcuna
base alla credenza in un effetto preventivo della severità della pena,
tanto di quella reale come di quella attesa". Questo libro tratta precisamente
di ciò: della severità della pena sotto forma di prigione. La
rassegna di Wright dà motivo di ritenere che la "probabilità
" - reale e attesa - della pena abbia un modesto effetto. Ma gli studi
quadro cancellano anche questo effetto. Inoltre, come ho indicato nel capitolo
sulla prevenzione generale, siamo una volta di più di fronte al fatto
che nella società moderna e urbanizzata è estremamente difficile
(a dire il meno) immaginarsi un qualche aumento sostanziale nella probabilità
della pena attraverso un aumento dell'attività investigativa di polizia.
Nelle aree urbane con elevato tasso di criminalità, il tasso di indagini,
e per conseguenza di probabilità attesa della pena, non c'è
dubbio che rimarrà basso.
Ho visto parecchi studi sociologici recenti, non inclusi nella rassegna di
Wright, che puntano esattamente nella stessa direzione. Lo studio generale
sulla gioventù tedesca citato nel mio capitolo sulla prevenzione generale
(Berlitz et al. 1986), è stato completato dopo la pubblicazione del
mio libro (Schumann et al. 1987). È uno studio quadro: un ampio campione
di giovani tra i 15 e i 17 anni (nota 2) è stato sottoposto a due interviste
a un anno di distanza l'una dall'altra. Lo studio mostra che la severità
della pena attesa "non" aveva effetto sul crimine riferito o registrato.
Allo stesso modo, l'aspettativa di una pena detentiva in un carcere minorile
non determinava alcun effetto. Questi risultati correlati costituiscono una
delle principali conclusioni del testo. Le aspettative sulla probabilità
di essere scoperti e la probabilità della pena avevano qualche effetto,
ma non sui crimini gravi - quali furti, gravi violenze fisiche, crimini correlati
alla droga - come si dovrebbe sperare dal punto di vista della prevenzione
generale. E anche sui reati meno gravi le aspettative sulla probabilità
di essere scoperti e la probabilità della pena avevano soltanto effetti
limitati: non si potevano desumere effetti sul furto e l'uso illegale d'automobile;
e solo un modestissimo effetto («recht bescheiden»; ivi, p. 152)
potrebbe desumersi, tramite analisi multivariata, su violenze di tipo lieve,
danni alla proprietà, guida senza patente e uso di mezzi pubblici senza
biglietto. In breve: nessun effetto è prodotto dalla severità
attesa della pena, solo limitati e modestissimi effetti dalla probabilità
attesa della pena.
I risultati di un ampio studio sociologico statunitense, compiuto da Raymond
Paternoster nella «tradizione della scelta razionale», sono identici
(Paternoster 1989). Si tratta di un ampio studio, mediante questionario, su
2700 studenti di nove scuole pubbliche in una cittadina di dimensioni medie
nel sud-est degli Stati Uniti. I ricercatori hanno contattato il 99% del campione.
Lo studio si concentra sui reati giovanili tipici e su attività quali
consumo di hashish e di alcool, piccoli furti e atti vandalici. Una volta
di più, risulta che la percezione della severità della pena
" non" produce effetti, mentre solo marginali sono gli effetti della
percezione della probabilità della pena. I giovani prestavano molta
più attenzione ad altre considerazioni, come i costi sociali associati
al crimine, che non alla probabilità della pena.
L'unica rassegna di lavori di ricerca che ho trovato suggerire un modesto
effetto non solo della probabilità, ma anche della severità
della pena, è quello dell'economista norvegese Erling Eide, "Economia
del crimine. Deterrenza e criminali razionali" (Eide 1994). Come il titolo
suggerisce, viene applicato un modello economico dell'essere umano, in quanto
guidato dalla scelta «razionale» tra i costi della pena e i benefici
del crimine. In rapporto a questo studio bisogna tenere presenti diversi problemi.
Innanzitutto, gli effetti della severità della pena sono chiaramente
più modesti degli effetti della probabilità della pena. In secondo
luogo, l'effetto della severità che si può desumere è
così modesto che se contassimo su di esso, e lo accettassimo come linea
base per la politica criminale, anche aumenti massicci della severità
della pena produrrebbero nella società in generale un aumento scarsissimo
della sicurezza, in termini di riduzione del crimine. Bisogna aggiungere che
questo è in linea con ciò che abbiamo imparato dall'esperimento
norvegese con la legislazione contro i reati correlati alla droga: anche un
aumento drastico della severità della pena in connessione con le droghe,
che ha portato oggi il livello massimo di pena a 21 anni, sembra aver avuto
un effetto minimo o nullo sui reati gravi connessi alla droga. Piuttosto,
ciò potrebbe di fatto aver intensificato il carattere clandestino e
organizzato del crimine in quell'area.
In terzo luogo, rimangono irrisolti i problemi legati all'uso dei modelli
economici nella spiegazione dei comportamenti umani, criminali o no, della
vita pratica. Jürgen Frank (1987) e altri ne hanno indicato diversi:
per esempio, è grande la probabilità che l'aumento di severità
della pena in un'area, incanali semplicemente l'attività criminale
in un'altra. E ancora, l'assunto di base che il comportamento umano sia sempre
guidato dalla scelta «razionale» tra «costi» della
pena e «benefici» del reato, così come definiti dalle autorità
e dai ricercatori, è davvero discutibile. Ed è specialmente
il caso nell'area dei comportamenti criminali, dove le persone sono di frequente
guidate da valori subculturali, preferenze collettive e individuali, impulsi
psicologici del tutto differenti. Naturalmente i concetti di «costo»
e di «beneficio» possono venire ampliati sino ad includere tali
valori e preferenze. Ma a quel punto la nozione di scelta razionale tra «costi»
e «benefici» include ogni cosa e non ne spiega nessuna. Da ultimo,
il relativo assunto di base che tutti i tipi di «benefici» inclusi
nei «calcoli costi-benefici» delle persone si possono tradurre
in fattori che possono essere conteggiati - come il denaro e il tempo - è
discutibile. Lo status in una sub-cultura, o il craving per l'eroina, non
possono certo essere tradotti in questo modo.
Comunque, la rassegna di Eide è un caso deviante, «una rondine
solitaria» come diciamo in Norvegia, nell'ampia mole di attenti studi
e metastudi i quali mostrano che non ci sono effetti della severità
della pena sul crimine. E carcere trova difficilmente una difesa nella prevenzione
generale.
"Neutralizzazione"
La neutralizzazione non se la passa meglio. Per quanto riguarda la neutralizzazione
collettiva, l'esperienza americana lo mostra chiaramente. L'enorme crescita
nel numero di detenuti può, come hanno osservato Sheldon Messinger
e Richard Berk, essere vista come una sorta di esperimento di neutralizzazione
collettiva. Il Comitato di ricerca sulle carriere criminali, presieduto da
Alfred Blumstein e sponsorizzato dall'Istituto nazionale di giustizia, ha
pubblicato un rapporto in due volumi nel 1986 (Blumstein et al. 1986), prestando
un'attenzione rigorosa alla questione della neutralizzazione. Tra il 1973
e il 1982 il numero di detenuti nelle prigioni statali e federali degli Stati
Uniti è quasi raddoppiato - eppure il tasso di criminalità è
aumentato del 29%. Le stime a disposizione del comitato suggerivano che a
seconda della frequenza di reati individuali ipotizzata (nota 3), se non si fosse
verificato l'aumento di circa il 100% del numero di detenuti il tasso sarebbe
stato maggiore del 10-20% (ivi, I, p.p. 124-128). Potrebbe essere considerato
un modesto guadagno, ma è di certo estremamente costoso, in vista della
drammatica crescita della popolazione carceraria. Cosa più importante,
ulteriori riduzioni richiederebbero al minimo un 10-20% di aumento nella popolazione
detenuta per ogni punto percentuale di riduzione del crimine (ivi, I, p. 128).
In breve, l'effetto marginale delle strategie di neutralizzazione collettiva
è nuovamente dimostrato. È particolarmente importante osservare
che l'effetto è marginale anche riguardo ai crimini violenti. (Reiss
- Roth 1993).
Dei ricercatori svedesi hanno cercato di calcolare l'effetto di un ipotetico
aumento, eccezionale e drammatico, della popolazione carceraria. Per esempio,
Jan Andersson trova che se fosse introdotta una pena detentiva di due anni
senza condizionale per tutti coloro che commettono il loro secondo crimine
- proposta praticamente impossibile - si preverrebbe il 28 % di tutte le sentenze
per crimine (Andersson 1993). Ma questo implicherebbe aumentare la popolazione
carceraria del 500% e la Svezia raggiungerebbe la leadership mondiale per
popolazione detenuta ogni 100 mila abitanti. Ancor più importante,
presto l'effetto verrebbe meno. Andersson basa i suoi calcoli su tre assunti
che noi sappiamo essere insostenibili: innanzitutto assume che tutti i criminali
corrano il rischio di essere scoperti e condannati. Noi sappiamo che non è
così. Secondariamente, assume che i crimini prevenuti non siano sostituiti
da altri crimini. Nuovamente sappiamo che non è così, specie
nelle aree a elevato livello di pena, come l'area dei reati correlati alla
droga, nuovi criminali e nuovi crimini prendono il posto di quelli precedenti.
Terzo, si assume che il carcere non produca alcun effetto dannoso, in termini
di recidiva dopo il rilascio, su coloro che sono stati carcerati. Dal gran
numero di studi sulla riabilitazione, sappiamo che non è così.
In ultimo, è estremamente importante tener presente il fatto banale
che ogni anno nascono nuove generazioni e nuove generazioni raggiungono l'età
della «maturità criminale». In altre parole il "
reclutamento al crimine" prosegue implacabile. Ciò significa che
anche i rimasugli degli effetti prodotti da esperimenti di drammatica neutralizzazione
collettiva simili a quelli suggeriti da Andersson (o dall'esperienza americana)
presto sparirebbero. Per confermare l'effetto dovrebbero aver luogo nuovi
cicli di incarcerazioni, senza rilasciare i criminali «veterani».
Le carceri dovrebbero dilatarsi sempre più, ma poiché il reclutamento
continuerebbe, l'effetto sarebbe nuovamente vano, e così via in un
circolo vizioso. È precisamente quanto accade oggi negli Stati Uniti.
Che dire a proposito della "neutralizzazione selettiva"? Sono state
inventate parecchie nuove misure predittive e si son fatti tentativi di affinare
quelle vecchie. La proporzione di falsi positivi (così come di falsi
negativi) è ancora molto elevata. Lo ammette anche Richard Wright,
nel suo tentativo di difesa del carcere. Egli riporta un certo numero di strumenti
predittivi americani. Due sono fra gli altri particolarmente importanti: quello
sviluppato dall'INSLAW in uno studio retrospettivo sulla recidiva, in un periodo
di tempo di cinque anni, su un campione di 1700 individui detenuti nelle prigioni
federali rilasciati nel 1970; e il Salient Factor Score (Punteggio nei fattori
salienti), sviluppato in uno studio durato due anni su un campione di 900
detenuti federali rilasciati nei primi sei mesi del 1970. Nel caso dell'INSLAW,
i detenuti predetti essere «criminali cronici» presentarono una
percentuale del 15% di falsi positivi nell'arco di cinque anni, una proporzione
inusualmente bassa. Lo strumento è stato, comunque, sottoposto a scarsa
verifica metodologica, e il risultato è smaccatamente contraddetto
da tutti gli altri strumenti predittivi a mia conoscenza. Il Salient Factor
Score, usato in uno studio su un campione di 3400 detenuti federali rilasciati
nei primi sei mesi del 1978, ha prodotto un tasso di falsi positivi del 34,5
% tra quanti erano stati indicati come fortemente inclini alla recidiva (Wright
1994, p.p. 122-123). Nel suo testo del 1993, Jan Andersson sviluppa uno strumento
predittivo in base a uno studio condotto su tutti i nati nel 1953 viventi
a Stoccolma nel 1993. Sulla base della supposizione che tutte le persone individuate
come criminali ad alto rischio siano condannate a due anni di pena per il
loro prossimo crimine, Andersson calcola che si potrebbe prevenire il 7 %
di tutte le sentenze per crimini, ma a prezzo di un aumento del 78% della
popolazione carceraria. Il calcolo è fondato sui medesimi tre assunti
insostenibili su cui si basa il suo calcolo degli effetti della neutralizzazione
collettiva (vedi sopra), e trascura gli effetti del nuovo reclutamento. Cosa
molto più importante, appare ancora una volta un tasso molto elevato
di falsi positivi, il 44,5% (Andersson 1993, p. 64). In apparenza Jan Andersson
è favorevole a una neutralizzazione selettiva (e collettiva). Come
si è espresso il criminologo svedese Henrik Tham in una recensione
del lavoro: «Andersson ha mostrato in maniera convincente che la neutralizzazione
non è una strada percorribile in politica criminale».
Si aggiunga a ciò la questione morale legata alla neutralizzazione
selettiva, e il quadro è completo. L'inesattezza predittiva costituisce
in sé uno dei maggiori problemi morali nel tradurre in pratica gli
strumenti predittivi. A questo proposito, Richard Wright ha argomentato che
le predizioni sono dopo tutto meglio del caso, e che come minimo sono meglio
delle predizioni a casaccio e disinformate di pubblici ministeri, giudici,
assistenti sociali del tribunale. L'argomento contiene quattro punti deboli.
In prima istanza, altri sostengono che i risultati della predizione non sono
meglio del caso. Robert Menzies e collaboratori scrivono (Menzies et al. 1992):
«[Una] piccola biblioteca di ricerca è ormai disponibile per
documentare le misere corrispondenze tra comportamento violento e categorie
o condizioni personali come lo status psichiatrico, la storia criminale e
la classe sociale [...] Anche quei fattori che dovrebbero dimostrare un effetto
differenziale - per esempio età, genere, e precedenti violenze - sono
notoriamente deficitari in potere predittivo [...] I giudizi intuitivi di
coloro che esercitano la psichiatria, e di altri esperti, a loro volta, sono
poco promettenti. [...] Strumenti statistici e psicometrici, pur essendo meno
palesemente inesatti, hanno scarso valore pratico nella classificazione clinica
o penale delle persone pericolose».
Menzies e collaboratori trovano estremamente difficile raggiungere un coefficiente
di correlazione di 0.40.
In secondo luogo, anche se gli strumenti sono qualcosa di meglio del caso,
il caso non è uno standard rilevante nei tribunali. Il paragone con
il caso è irrilevante nelle corti di giustizia, perché la pratica
legale non è, né dovrebbe essere basata su considerazioni relative
alla casualità. Se qualcuno venisse a dire: «beh, il test contiene
in ogni caso molte predizioni false, ma se non altro è meglio che tirare
una moneta», i giudici rigetterebbero correttamente l'argomento come
del tutto irrilevante, perché non si gettano monete in aria in tribunale.
In terzo luogo, la previsione è solo una tra le attività che
la corte deve svolgere nell'insieme dell'attività di valutazione. Altre
concernono considerazioni sul passato, le circostanze attenuanti e aggravanti,
l'umanità, l'equità e così via. Il decidere in un tribunale
è, in altre parole, una valutazione globale di valori. Anche se le
predizioni di chi amministra i tribunali fossero a casaccio e disinformate,
l'affidabilità degli strumenti predittivi fondamentalmente sbilancerebbe
l'insieme del giudizio del tribunale da un lato e verso la direzione della
predizione.
Quarto, e cosa più importante, tutti gli strumenti predittivi in maggiore
o minor misura sono correlati a fattori sociali, storia lavorativa, storia
familiare, storia del consumo di droghe e così via. I perdenti in termini
di lavoro, famiglia e droghe, sono ritenuti a rischio in quanto poveri. Come
indicato in dettaglio nel mio capitolo sulla neutralizzazione, il basarsi
su tali fattori nella predizione interessando detenzioni prolungate e pene
particolarmente severe, è del tutto inaccettabile da un punto di vista
etico.
"Giustizia".
Infine, qualche parola sulla giustizia come argomento a favore del carcere.
Il maggior contributo nuovo sul modello della giustizia - o del «giusto
merito» - è il libro di Andrew von Hirsch intitolato "Censura
e sanzioni". Per una considerevole parte, contiene una difesa contro
varie critiche rivolte al modello del «giusto merito». Due i punti
di particolare importanza.
In primo luogo, nella sua ricerca di un equilibrio preciso tra la gravità
del crimine e la severità della pena, che è lo scopo principale
dell'intero progetto sul «giusto merito», von Hirsch una volta
di più tenta di trovare un modo di aggirare la necessità di
un fondamento morale per giudicare la gravità dei differenti crimini.
Come indicato nel capitolo sulla giustizia, l'uso di un fondamento morale
per giudicare la gravità dei reati costituisce uno dei più grandi
problemi per la teoria del «giusto merito», poiché la morale
è relativa e può variare in termini di tempo e di luogo. Si
è anche visto come nel suo libro del 1986 von Hirsch cerchi di evitare
il problema enfatizzando il carattere fattuale del danno, che può essere
studiato empiricamente. Tuttavia, egli aggiunge l'importante osservazione
che a sostegno di un'inchiesta empirica sul danno criminale devono esserci
giudizi di valore. Inoltre aggiunge che rimane l'altro elemento importante
nella valutazione della gravità, ossia la colpevolezza, implicando
che anche questo elemento contenga giudizi di valore. Enfatizzando così
i giudizi di valore, egli non riesce ad evitare la questione della valutazione
morale del crimine.
Nel libro del 1993, von Hirsch cerca di trovare un nuovo approccio al problema.
Il concetto di danno viene connesso allo «standard di vita» delle
persone e copre, nell'uso che ne fa von Hirsch, interessi economici e non-economici.
La gravità può essere classificata, secondo von Hirsch, in relazione
al grado di riduzione dello standard di vita di una persona. C'è, a
mio parere, molto di vero nel concetto secondo il quale il crimine riduce
lo standard di vita delle persone, anche nel senso lato del termine. Classificare
i reati in base a questo criterio è tuttavia molto problematico. Un
furto con scasso colpisce lo standard di vita di un lavoratore non qualificato,
di un impiegato del ceto medio, di un ricco armatore, in modi molto diversi.
I furti con scasso dovrebbero essere diversificati e classificati in maniera
corrispondente? Una tale classificazione può avere una certa base -
il furto con scasso in casa di un lavoratore è probabilmente più
grave di quello ai danni dell'impiegato di ceto medio, a sua volta più
grave di quello ai danni di un ricco armatore - ma certamente si va nella
direzione opposta al genere di classificazione precisa enfatizzata dal modello
del «giusto merito». Anzi, ciò richiede un trattamento
dei reati molto più individuale e variabile, che non quello delle tabelle
del semplice «giusto merito» per il calcolo della pena che deve
seguire al crimine. In generale, la dimensione morale - con i suoi correlati
di relatività e mutevolezza - è ancora presente. Lo «standard
di vita» è in sé un concetto normativo.
In secondo luogo, von Hirsch considera l'elemento della pena nell'equazione
reato/pena sollevando ancora una volta la questione di come ancorare la scala
delle pene. Nel capitolo sulla giustizia abbiamo visto come von Hirsch, nel
volume del 1986, tentasse di ancorare la scala fissando le cosiddette grandezze
cardinali sulla base della disponibilità di spazio carcerario come
criterio d'ingresso. In seguito si doveva, secondo il libro del 1986, esaminare
se questa linea, posta in modo così titubante, fosse coerente con i
vincoli di proporzionalità cardinale. In alcuni casi, con poco spazio
carcerario che rispondesse agli standard di accettabilità, tanto da
lasciare gravi reati non puniti con la detenzione, quest'ultima considerazione
implicherebbe di dover incrementare lo spazio carcerario. In altri casi, esistendo
opportunità per un ampio uso del carcere, tanto da punire anche reati
minori con la detenzione, lo spazio carcerario andrebbe diminuito per la stessa
ragione.
Nel mio libro ho criticato l'idea di basarsi sullo spazio carcerario disponibile,
in quanto è equivalente a introdurre un criterio storicamente determinato
dalle peculiari vicende economiche e politiche di un paese o di uno stato.
Come punto di partenza per fissare i punti basilari - assoluti, cardinali
- d'ancoraggio per una scala delle pene, si tratta di un criterio molto insoddisfacente
e, nel contesto del calcolo della pena, troppo lontano dal tipo preciso di
misurazione richiesto dal modello del «giusto merito». Sostenevo
allora che ci sarebbe ben poco di assoluto, di cardinale, di ancorante, in
questi «punti di ancoraggio». È interessante che nel libro
del 1993 von Hirsch respinge il criterio dello spazio carcerario: «In
breve, la capacità del sistema penale è una questione politica
che dovrebbe dipendere da come la scala delle pene è ancorata, e non
viceversa» (von Hirsch 1993, p. 40).
Ma che cosa propone come alternativa? La risposta è interessante: considerazioni
di prevenzione generale. Più precisamente, non si tratta della tradizionale
visione ottimizzatrice della prevenzione, che fissa il livello di pena in
base a ipotesi sul massimo effetto preventivo. Piuttosto, viene proposta una
strategia «decrementale», nella quale la pena è ridotta
fino a giungere presumibilmente a un livello minimo («floor»)
sotto il quale, per ragioni preventive, non si deve andare, in quanto scendendo
ulteriormente si avrebbe un aumento del crimine. Von Hirsch intende che qui
andrebbe conseguentemente fissato il punto di ancoraggio inferiore della scala
delle pene.
Mi trovo in sintonia con l'enfasi posta da von Hirsch sulla diminuzione del
livello di pena. Sappiamo che una strategia «ottimizzatrice»,
orientata verso il massimo effetto preventivo, non ha altro effetto che di
aumentare la miseria umana e il dolore per i molti condannati a pene di lungo
periodo. Mi sento anche in accordo con il punto di vista (implicito) secondo
cui si può diminuire il livello di pena senza esporre affatto la società
a un aumento del crimine. Come già ricordato, il tasso di criminalità
cresce (o diminuisce) per ragioni diverse dal livello di pena. Ci sono tuttavia
due problemi di fondo nell'approccio di von Hirsch per quanti riguarda il
modello del «giusto merito». Da una lato, le considerazioni circa
la prevenzione generale, che nel suo libro del 1986 (p.p. 47-60; si veda il
capitolo sulla giustizia) e nella prima parte del suo libro del 1993 (p.p.
12-13) sono viste solo come un motivo prudenziale supplementare per l'esistenza
in generale della pena in una società, e non come una motivazione dell'organizzazione
concreta e dell'uso del sistema penale, sono ora posti al centro di quell'organizzazione
e di quell'uso. I punti di ancoraggio della scala concreta delle pene, fondamento
pratico per il «giusto merito», sono ora stabiliti mediante considerazioni
preventive. D'altro canto, la questione di come possa essere stabilito il
livello minimo preventivo (concetto che induce una falsa impressione di precisione)
resta aperta; addirittura ci si può domandare se esista un livello
minimo preventivo preciso, il che è devastante, rispetto a farne uso
come punto d'ancoraggio della scala delle pene. Il punto d'ancoraggio rimane
vago e fluttuante. Ciò significa poi che il punto d'ancoraggio, e quindi
la scala delle pene, è facilmente influenzato dal clima dell'opinione
pubblica, dai mutamenti politici nella società, e così via.
In tempi di venti di destra, come quelli che soffiano oggi sui paesi occidentali,
i punti di vista circa quello che è: un livello minimo necessario diventeranno
facilmente più severi e il livello di pena salirà anziché
discendere, contraddicendo così smaccatamente l'intenzione di von Hirsch.
Il livello di pena potrebbe davvero salire drammaticamente in nome di un «punto
d'ancoraggio» di apparentemente precisione, dato che la scala delle
pene in realtà è costruita sulla sabbia.
La teoria del «giusto merito» può essere vista come un
tentativo di difendere il carcere in forma limitata. I recenti sviluppi di
questa teoria non forniscono grandi miglioramenti nella sua difesa.
"Conclusioni: le alternative diventano supplementi? Abolizione o
riduzione?"
Il numero di detenuti, aumentato drammaticamente nel corso degli ultimi anni,
e le recenti ricerche sul carcere, che non hanno migliorato sostanzialmente
la difesa del carcere, rendono gli argomenti contro il carcere presentati
in questo libro ancora più importanti oggi di alcuni anni fa. Che bisogna
fare, dunque?
La mia risposta si trova nel capitolo conclusivo del libro. In questa postfazione
vorrei aggiungere due considerazioni.
La prima ha a che fare con la questione delle alternative al carcere. Nel
capitolo conclusivo, argomentavo contro la fiducia nello sviluppo di alternative
tradizionali quali i servizi sociali, i vari progetti di decarcerizzazione
e così via. Sostenevo che le «alternative» tendono a diventare
non reali alternative all'uso del carcere, ma piuttosto a sommarsi al sistema,
espandendo così invece di contrarre il sistema totale di controllo
formale e conservando il sistema carcerario in quanto tale.
Alla luce del recente enorme aumento della popolazione carceraria nei paesi
occidentali, questo quadro sembra avere ancora piena validità. Sperimentazioni
di «alternative» al carcere, per quel poco che esistono, non sono
certamente in grado di dare grandi contributi ad invertire la tendenza carceraria
dominante. Peraltro, recenti ricerche suggeriscono che forse lo sviluppo delle
alternative non andrebbe scartato in modo così reciso come sostenevo
nel capitolo conclusivo. Sto pensando al grande contributo alla ricerca in
quest'area fornito dalla criminologa irlandese-canadese Maeve McMahon (1992;
confer anche Ruggiero - Rayan - Sim 1995). Nel suo libro, McMahon fornisce
una ri-analisi empirica di un'importante parte di dati (specialmente canadesi)
su cui Stanley Cohen e altri avevano costruito la loro critica alle «alternative».
La ri-analisi mostra in modo convincente che l'impiego di varie alternative
deistituzionalizzanti ha avuto in effetti un certo impatto, limitato, sull'uso
del carcere, giungendo in certi periodi a far contrarre, almeno in qualche
misura, il sistema carcerario. È un risultato importante.
Sebbene il contributo di McMahon andrebbe tenuto in conto nella politica contro
il crimine, e anche se dovrebbe spingere definitivamente alla massima apertura
a un approccio basato sulle alternative in politica penale, l'apertura dovrebbe
restare critica, poiché il pericolo che le «alternative»
possano essere convertite in supplementi alla prigione, capaci di allargare
le sue reti, piuttosto che diventare reali alternative ad essa, è ancora
grande. Molti esempi internazionali mostrano chiaramente che è così.
Ciononostante, anche gli effetti delle alternative di maggior successo sono
limitati, producendo soltanto minime riduzioni nell'uso del carcere. Bisogna
ancora ricordare la recente, spettacolare crescita della popolazione carceraria.
Alcune tra le alternative, come l'impiego di moderne attrezzature elettroniche
per il controllo delle persone all'interno della comunità, sono anche
discutibili su base etica. Per tali ragioni, sono necessari rimedi molto più
energici. Ciò mi porta alla seconda e ultima delle mie considerazioni.
A mio parere le carceri vanno abolite, come ho sottolineato nel capitolo conclusivo.
Sono un fiasco, hanno quasi solo funzioni inaccettabili. Il crimine va affrontato
e contrastato con metodi basati sul complesso della società ("societal").
È chiaro però che non viviamo in un clima favorevole all'abolizione.
Era così nel 1987, quando il libro fu pubblicato per la prima volta,
ed è ancora più evidente adesso. Il mio scopo, l'abolizione
entro il 2010 (nota 4), era una data ideale. E rimane ancora il mio ideale. Ma
certamente oggi sarei soddisfatto se potessimo assistere a un'inversione nella
salita vertiginosa del numero di detenuti, e anzi a una loro sostanziale diminuzione,
per esempio entro il 2010.
Io, e molti altri, saremmo estremamente felici se il numero dei detenuti fosse
dimezzato entro 112010. Un piano per dimezzare queste cifre potrebbe seguire
esattamente lo stesso schema suggerito per la completa abolizione. Diminuzione
del massimo di pena, chiusura fisica delle carceri, trasferimento delle risorse
così risparmiate alla prevenzione nella comunità, alle vittime
del crimine e al lavoro comunicativo volto a contrastare le funzioni latenti
- inaccettabili, ma importanti - che tengono in piedi la soluzione carcere.
In aggiunta, andrebbero stanziate considerevoli somme per trasformare le restanti
prigioni in luoghi più umani, luoghi di vita umana. Una riduzione del
cinquanta per cento lascerebbe certamente uno spazio più che adeguato
per mantenere sotto controllo i pochissimi rei chiaramente pericolosi e dovrebbe
essere più che sufficiente per tranquillizzare ogni preoccupazione
nell'opinione pubblica. Forse dovremmo porre un «tetto» al numero
dei detenuti al cinquanta per cento di quelli attuali, e richiedere livelli
di pena e gradi di criminalizzazione tali da non sfondare il tetto.
Anche un taglio del cinquanta per cento in un tempo relativamente breve sarebbe
irrealistico in alcuni paesi. Gli Stati Uniti sono forse un caso tipico. Ma
nei paesi europei la situazione è differente. Più importante
è che, come scienziati sociali spronati e guidati dai valori, non dobbiamo
prendere come nostra bussola il realismo, benché possiamo, e l'ho detto
prima, tenerlo prudentemente in considerazione.
A mo' di conclusione, lasciatemi portare un esempio che illustra quest'ultimo
punto. Nel 1995, il cosiddetto Pugwash Movement - per esteso «Pugwash
Conferences on Science and World Affairs» - ha vinto il premio Nobel
per la pace. Il movimento è formato principalmente da ricercatori nelle
scienze naturali, e sottolinea soprattutto la responsabilità etica
della scienza e degli scienziati in generale. I membri lavorano per la pace
nel mondo e protestano in particolare contro lo sviluppo della bomba atomica
e degli armamenti nucleari. Il loro scopo è chiaramente l'abolizione
della «bomba». Se il movimento fosse stato «realistico»
dall'inizio, sostenendo solo mutamenti che potessero risultare accettabili
per le autorità politiche (come le armi nucleari più pulite),
noi saremmo oggi molto più lontani di come siamo sia dall'abolizione
degli armamenti sia dalla pace nel mondo.
Altrettanto vale per gli scienziati sociali nel campo del carcere, una delle
più grandi e distruttive istituzioni della società moderna.
Note:
1. Informazioni dal criminologo tedesco Johannes Feest, Bremen.
2. La metà di un campione originario di 1600 contattati; gli autori discutono in dettaglio della rappresentatività del campione.
3. «Lambda»; si veda il capitolo sulla neutralizzazione.
4. L'anno dell'abolizione del piano di energia nucleare in Svezia.