Thomas Mathiesen
Perché il carcere?

Postfazione
Questo libro è stato scritto nel 1985-86 e pubblicato per la prima volta nella mia lingua, in norvegese, nel 1987. Successivamente è apparso in danese, svedese, tedesco e inglese, e ora, nel 1996, in italiano. Penso sia corretto dire che gli argomenti contro il carcere presentati in questo libro sono oggi ancor più rilevanti di quanto lo fossero nell'edizione originale del 1987. Due importanti tendenze di sviluppo fanno pensare che sia così.

- Le cifre della carcerazione
Innanzitutto, l'uso del carcere come una delle forme principali di punizione ha continuato ad espandersi. Tendenze che erano chiaramente osservabili verso la fine degli anni Ottanta sono oggi, nel 1996, ancor più chiare. Con scarse eccezioni, nel mondo occidentale il numero di detenuti sta crescendo. Si possono fornire alcuni esempi: nel corso degli anni 1979, 1989 e 1993 il numero di detenuti negli Stati Uniti è balzato da 230 a 426 a 532 per 100.000 abitanti. In Canada i dati corrispondenti sono stati 100, 111 e 125; in Spagna 37, 80 e 117; in Inghilterra/Galles 85, 96 e 95; in Danimarca 63, 66 e 67; in Norvegia 44, 56 e 62; in Svezia 55, 58 e 66, e in Olanda - nota per il suo basso numero di detenuti - 23, 44 e 52. Il solo paese nordico che ha mostrato un calo è la Finlandia, da 106 a 68 a 67, ma aveva un dato di partenza eccezionalmente elevato. La fonte di queste informazioni è un recente libro di Nils Christie, mio collega norvegese (Christie 1994); egli aggiunge l'importante informazione che pure in un certo numero di paesi dell'Est europeo il numero di detenuti ha avuto un'impennata, mostrando in diversi casi una curva a «U» - con una flessione al tempo dei mutamenti politici negli anni 1989-90 e successivamente un nuovo sostanziale incremento. Aggiungerò subito che il sostanziale calo nel numero di detenuti nel corso degli anni Ottanta in Germania Occidentale, che avevo indicato come ragione di speranza nel primo capitolo di questo libro, è ormai storia: nel corso degli anni Novanta, le sole regioni della precedente Germania Occidentale hanno mostrato una nuova sostanziale crescita numerica di detenuti (nota 1).
Differenze nei metodi di classificazione e cambiamenti in tali metodi rendono difficile analizzare e paragonare in dettaglio dati come questi. Ma la maggior tendenza generale è molto chiara: in breve, tra la fine degli anni Ottanta e la seconda metà degli anni Novanta l'importanza del carcere in quanto istituzione punitiva si è intensificata ulteriormente, e il carcere ha consolidato la sua posizione in maniera drammatica. Oggi nel mondo occidentale, milioni di persone trascorrono o hanno trascorso il tempo dietro le sbarre. Questo a dispetto del fatto che una sostanziosa mole di lavori di ricerca mostri che il carcere, per gli scopi che esso stesso si è posti, è un fiasco. Questo ci porta alla seconda tendenza, suggerendo che gli argomenti contro il carcere presentati in questo libro sono oggi ancor più rilevanti di prima.

- La ricerca sul carcere
Per numero di libri e articoli specialistici, la ricerca sul carcere si è espansa dal momento della prima edizione di questo libro nel 1987. Peraltro, in termini di risultati di ricerca che evidenzino effetti positivi da parte del carcere, l'espansione è davvero marginale.
"Riabilitazione".
La letteratura sulla riabilitazione è aumentata. Ma le principali meta-analisi, cioè quelle analisi che incorporano e forniscono una sintesi di un gran numero di studi empirici dello stesso genere, mostrano largamente i risultati negativi che addirittura il carcere sortisce. Bisogna ricordare in particolare due importanti contributi.
In un libro intitolato "In difesa del carcere" il sociologo americano Richard A. Wright fornisce una trattazione attenta e aggiornata dei principali studi e meta-analisi di studi americani sulla riabilitazione (Wright 1994). La sua rassegna è la più importante perché tenta, come il titolo mostra e come potremo vedere oltre, di organizzare una "difesa" del carcere. La conclusione del suo percorso consiste nel respingere completamente la riabilitazione come argomento in difesa del carcere. Di particolare importanza è la sua attenta critica metodologica di un piccolo gruppo di studi metanalitici «devianti», i quali mostrano risultati più positivi in termini di riabilitazione.
Alcuni studi sono in grado di mostrare effetti positivi, in termini di abilità sociali piuttosto che di riduzione della recidiva. Si suggerisce che possa essere importante il cosiddetto «training in competenza cognitiva», in cui si pone un'enfasi sulle abilità sociali attraverso strategie per lo sviluppo della capacità di risolvere problemi, di prendere decisioni e di comprendere gli altri (confer anche Porporino 1991). Studi come questi certamente non vanno trascurati. Ma bisogna anche aver chiaro in mente che sono pochi esempi, di fronte a un numero estremamente maggiore di studi che dimostrano l'inefficacia del trattamento e dei programmi di riabilitazione nel contesto carcerario - in termini di recidiva tanto quanto di abilità sociali in senso più ampio. Per usare un'espressione popolare, gli studi che mostrano risultati positivi sono difficili da trovare quanto un ago in un pagliaio.
Il secondo contributo da menzionare è un importante articolo di Gene G. Kassebaum e David Ward (Kassebaum - Ward 1991). Gli autori arrivano alle stesse conclusioni di Wright e vedono i tentativi di rivitalizzare la filosofia del trattamento da parte degli addetti al trattamento come una strategia di autodifesa nei confronti della realtà da parte degli operatori, ove la realtà, per il personale coinvolto nel trattamento, è stata «nelle due ultime decadi un incubo». Gli Stati Uniti, mostrano gli autori, hanno un sistema della giustizia penale con più di un milione di prigionieri, centinaia di migliaia di sentenze con la condizionale e parecchi milioni di probation, in aggiunta a un personale addetto al trattamento molto poco preparato per il proprio compito. Nel normale contesto carcerario burocratico, autoritario, inumano il trattamento diventa impossibile. La situazione in Europa, specialmente nei maggiori paesi, è simile, diminuisce solo la scala delle cifre.
Una recente meta-analisi porta in un'altra direzione, benché in misura limitata. Mark W. Lipsey ha condotto una meta-analisi di 400 lavori di ricerca sul trattamento con giovani delinquenti e ha trovato mediamente un lieve effetto positivo a breve termine sulla recidiva (Lipsey 1995). Su un periodo medio di circa sei mesi successivi al trattamento, i gruppi di controllo dei non trattati (o «trattati normalmente») raggiungevano in media il 50% di recidiva, mentre nel caso dei giovani trattati la media era circa il 45%: in altri termini, il 5% di differenza. Una riduzione del 5% medio sul 50% di base - sostiene Lipsey - produce un 10% complessivo di riduzione della recidiva, che a suo parere non è di poca conto. Anche per altri tipi di risultati - psicologici, di adattamento interpersonale e così via - i gruppi trattati mostravano effetti migliorativi rispetto ai gruppi di controllo, benché ci sia ben poco rapporto tra questi risultati e quelli in termini di recidiva. Gli effetti non erano influenzati dalle caratteristiche dei rei, ma piuttosto dal tipo di programma di trattamento, andando da programmi con un effetto molto positivo (programmi concreti orientati al comportamento, formazione al lavoro e così via) a programmi con effetto molto negativo (per esempio la terapia di avversione basata sullo shock), mediante i quali la recidiva aumenta sostanzialmente.
I risultati di Lipsey sono certo molto interessanti. Peraltro, come ha osservato il criminologo norvegese Per Hage (1996), non è chiaro se la meta-analisi include sia i trattamenti istituzionali sia quelli non istituzionali. Benché sembri probabile che il trattamento istituzionale, in carcere, sia di fatto incluso, noi non sappiamo in che modo i diversi programmi di trattamento, che variano in termini di effetti positivi, neutri o negativi, si distribuiscano rispetto all'asse istituzionale - non istituzionale. Questo è un punto critico della meta-analisi. Comunque, anche se accettassimo una modesto effetto medio del trattamento, dal 5 al 10%, sulla complessiva riduzione di recidiva, come dato rappresentativo per il trattamento dei giovani carcerati, restano due problemi di fondo: primo, e per ripeterci, sappiamo che una quantità strabocchevole di carceri nei paesi occidentali - tanto per giovani che per adulti - non ha nulla che rassomigli a programmi di trattamento, né lo avrà mai, a causa della struttura e del funzionamento delle carceri. Secondo, mentre un 5 % in media di effetto del trattamento può essere considerato un successo marginale di quest'ultimo, tale effetto non può certo essere usato come legittimazione del carcere.
Bisognerebbe sottolineare che i disastrosi risultati della riabilitazione "non" dovrebbero e "non" devono essere usati come scusa per privare i carceri di servizi medici, di servizi pedagogici come i programmi scolastici, eccetera. Finché avremo delle carceri, i carcerati ovviamente avranno non solo lo stesso diritto degli altri cittadini a tali servizi; in ragione del retroterra di generale povertà e di condizioni inumane del carcere nelle quali vivono, essi avranno diritto a qualcosa in più. Il punto è che tali servizi dovrebbero essere forniti precisamente per questo: in quanto "diritti" che i carcerati hanno e dovrebbero avere, e in quanto elementi di una politica sensibile, illuminata e umana. I servizi non dovrebbero essere forniti a condizione che siano seguiti da riabilitazione, e non dovrebbero e non possono essere usati come un argomento ideologico in favore del carcere.
"Prevenzione generale".
L'area della prevenzione generale - deterrenza, formazione di abitudini, persuasione morale degli altri non (ancora) in carcere - ha visto a sua volta un numero di ricerche nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Ma di nuovo, i risultati sono miseri.
Uno dei più importanti libri in materia è lo studio sopra menzionato di Richard Wright, che offre una rassegna delle ricerche recenti sulla prevenzione generale. Il libro di Wright è importante ai nostri fini
precisamente perché l'autore si propone il compito di " difendere" il carcere. Che cosa trova? Molto poco.
Wright passa in rassegna l'enorme numero di studi comparativi (con uno stesso punto di inizio temporale) intorno agli effetti sul crimine delle differenze nell'effettiva probabilità della pena (Wright e altri spesso usano il termine «certezza» come sinonimo di probabilità) e nell'effettiva severità della pena; studi su esperimenti naturali (cioè studio degli effetti dei mutamenti nella legislazione); studi comparativi in merito agli effetti sul crimine delle differenze nella probabilità soggettivamente attesa e nella severità soggettivamente attesa della pena; infine studi quadro, nei quali le aspettative in merito alla certezza e alla severità della pena ad un dato momento sono paragonate con il crimine che viene riferito dagli stessi rei in un tempo successivo. Gli studi quadro sono importanti, perché evitano un problema. metodologico insito in quelli comparativi: in questi ultimi si pongono domande "allo stesso tempo" sulle aspettative delle persone in merito alla probabilità e alla severità della pena e sulla loro attività criminale, riportata da loro stessi. Ciò significa che si studiano e comparano aspettative "attuali" circa la pena con azioni criminali che vengono riferite in quanto compiute "nel passato". Perciò, le azioni criminali del passato possono dar luogo alle aspettative attuali circa la pena altrettanto bene che viceversa. Gli studi quadro, comparando le aspettative attuali circa le pene relative a crimini futuri, evitano il problema. In aggiunta, Wright passa in rassegna i pochi studi qualitativi che esistono. Gli studi econometrici, basati sui modelli economici del comportamento, sono inclusi nella rassegna. I suoi risultati possono essere riassunti come segue:

1. una modesta connessione, in senso negativo, tra le reali probabilità di punizione e quelle attese, da una parte, e il comportamento criminale dall'altra; ossia, maggiore è la probabilità reale e attesa di essere preso e punito, minore è la propensione a commettere il crimine;
2. un effetto iniziale modesto sul comportamento criminale, ma un effetto minimo a lungo termine, di mutamenti improvvisi nella politica criminale che aumentino le aspettative circa la probabilità della pena;
3. nessuna relazione sia tra la reale sia tra l'attesa severità della pena e il crimine;
4. in più, gli studi quadro (metodologicamente importanti) sugli effetti prodotti dalle aspettative delle persone intorno alla probabilità e la severità della pena "non mostrano effetti sui crimini commessi in seguito". Per ripetersi, questo avviene anche a proposito della " probabilità della pena".

Persino per gli ottimisti in fatto di prevenzione generale, questi risultati devono sembrare abbastanza una doccia fredda. La rassegna, intrapresa da un ricercatore che cerca di difendere il carcere, "non dà alcuna base alla credenza in un effetto preventivo della severità della pena, tanto di quella reale come di quella attesa". Questo libro tratta precisamente di ciò: della severità della pena sotto forma di prigione. La rassegna di Wright dà motivo di ritenere che la "probabilità " - reale e attesa - della pena abbia un modesto effetto. Ma gli studi quadro cancellano anche questo effetto. Inoltre, come ho indicato nel capitolo sulla prevenzione generale, siamo una volta di più di fronte al fatto che nella società moderna e urbanizzata è estremamente difficile (a dire il meno) immaginarsi un qualche aumento sostanziale nella probabilità della pena attraverso un aumento dell'attività investigativa di polizia. Nelle aree urbane con elevato tasso di criminalità, il tasso di indagini, e per conseguenza di probabilità attesa della pena, non c'è dubbio che rimarrà basso.
Ho visto parecchi studi sociologici recenti, non inclusi nella rassegna di Wright, che puntano esattamente nella stessa direzione. Lo studio generale sulla gioventù tedesca citato nel mio capitolo sulla prevenzione generale (Berlitz et al. 1986), è stato completato dopo la pubblicazione del mio libro (Schumann et al. 1987). È uno studio quadro: un ampio campione di giovani tra i 15 e i 17 anni (nota 2) è stato sottoposto a due interviste a un anno di distanza l'una dall'altra. Lo studio mostra che la severità della pena attesa "non" aveva effetto sul crimine riferito o registrato. Allo stesso modo, l'aspettativa di una pena detentiva in un carcere minorile non determinava alcun effetto. Questi risultati correlati costituiscono una delle principali conclusioni del testo. Le aspettative sulla probabilità di essere scoperti e la probabilità della pena avevano qualche effetto, ma non sui crimini gravi - quali furti, gravi violenze fisiche, crimini correlati alla droga - come si dovrebbe sperare dal punto di vista della prevenzione generale. E anche sui reati meno gravi le aspettative sulla probabilità di essere scoperti e la probabilità della pena avevano soltanto effetti limitati: non si potevano desumere effetti sul furto e l'uso illegale d'automobile; e solo un modestissimo effetto («recht bescheiden»; ivi, p. 152) potrebbe desumersi, tramite analisi multivariata, su violenze di tipo lieve, danni alla proprietà, guida senza patente e uso di mezzi pubblici senza biglietto. In breve: nessun effetto è prodotto dalla severità attesa della pena, solo limitati e modestissimi effetti dalla probabilità attesa della pena.
I risultati di un ampio studio sociologico statunitense, compiuto da Raymond Paternoster nella «tradizione della scelta razionale», sono identici (Paternoster 1989). Si tratta di un ampio studio, mediante questionario, su 2700 studenti di nove scuole pubbliche in una cittadina di dimensioni medie nel sud-est degli Stati Uniti. I ricercatori hanno contattato il 99% del campione. Lo studio si concentra sui reati giovanili tipici e su attività quali consumo di hashish e di alcool, piccoli furti e atti vandalici. Una volta di più, risulta che la percezione della severità della pena " non" produce effetti, mentre solo marginali sono gli effetti della percezione della probabilità della pena. I giovani prestavano molta più attenzione ad altre considerazioni, come i costi sociali associati al crimine, che non alla probabilità della pena.
L'unica rassegna di lavori di ricerca che ho trovato suggerire un modesto effetto non solo della probabilità, ma anche della severità della pena, è quello dell'economista norvegese Erling Eide, "Economia del crimine. Deterrenza e criminali razionali" (Eide 1994). Come il titolo suggerisce, viene applicato un modello economico dell'essere umano, in quanto guidato dalla scelta «razionale» tra i costi della pena e i benefici del crimine. In rapporto a questo studio bisogna tenere presenti diversi problemi.
Innanzitutto, gli effetti della severità della pena sono chiaramente più modesti degli effetti della probabilità della pena. In secondo luogo, l'effetto della severità che si può desumere è così modesto che se contassimo su di esso, e lo accettassimo come linea base per la politica criminale, anche aumenti massicci della severità della pena produrrebbero nella società in generale un aumento scarsissimo della sicurezza, in termini di riduzione del crimine. Bisogna aggiungere che questo è in linea con ciò che abbiamo imparato dall'esperimento norvegese con la legislazione contro i reati correlati alla droga: anche un aumento drastico della severità della pena in connessione con le droghe, che ha portato oggi il livello massimo di pena a 21 anni, sembra aver avuto un effetto minimo o nullo sui reati gravi connessi alla droga. Piuttosto, ciò potrebbe di fatto aver intensificato il carattere clandestino e organizzato del crimine in quell'area.
In terzo luogo, rimangono irrisolti i problemi legati all'uso dei modelli economici nella spiegazione dei comportamenti umani, criminali o no, della vita pratica. Jürgen Frank (1987) e altri ne hanno indicato diversi: per esempio, è grande la probabilità che l'aumento di severità della pena in un'area, incanali semplicemente l'attività criminale in un'altra. E ancora, l'assunto di base che il comportamento umano sia sempre guidato dalla scelta «razionale» tra «costi» della pena e «benefici» del reato, così come definiti dalle autorità e dai ricercatori, è davvero discutibile. Ed è specialmente il caso nell'area dei comportamenti criminali, dove le persone sono di frequente guidate da valori subculturali, preferenze collettive e individuali, impulsi psicologici del tutto differenti. Naturalmente i concetti di «costo» e di «beneficio» possono venire ampliati sino ad includere tali valori e preferenze. Ma a quel punto la nozione di scelta razionale tra «costi» e «benefici» include ogni cosa e non ne spiega nessuna. Da ultimo, il relativo assunto di base che tutti i tipi di «benefici» inclusi nei «calcoli costi-benefici» delle persone si possono tradurre in fattori che possono essere conteggiati - come il denaro e il tempo - è discutibile. Lo status in una sub-cultura, o il craving per l'eroina, non possono certo essere tradotti in questo modo.
Comunque, la rassegna di Eide è un caso deviante, «una rondine solitaria» come diciamo in Norvegia, nell'ampia mole di attenti studi e metastudi i quali mostrano che non ci sono effetti della severità della pena sul crimine. E carcere trova difficilmente una difesa nella prevenzione generale.

"Neutralizzazione"
La neutralizzazione non se la passa meglio. Per quanto riguarda la neutralizzazione collettiva, l'esperienza americana lo mostra chiaramente. L'enorme crescita nel numero di detenuti può, come hanno osservato Sheldon Messinger e Richard Berk, essere vista come una sorta di esperimento di neutralizzazione collettiva. Il Comitato di ricerca sulle carriere criminali, presieduto da Alfred Blumstein e sponsorizzato dall'Istituto nazionale di giustizia, ha pubblicato un rapporto in due volumi nel 1986 (Blumstein et al. 1986), prestando un'attenzione rigorosa alla questione della neutralizzazione. Tra il 1973 e il 1982 il numero di detenuti nelle prigioni statali e federali degli Stati Uniti è quasi raddoppiato - eppure il tasso di criminalità è aumentato del 29%. Le stime a disposizione del comitato suggerivano che a seconda della frequenza di reati individuali ipotizzata (nota 3), se non si fosse verificato l'aumento di circa il 100% del numero di detenuti il tasso sarebbe stato maggiore del 10-20% (ivi, I, p.p. 124-128). Potrebbe essere considerato un modesto guadagno, ma è di certo estremamente costoso, in vista della drammatica crescita della popolazione carceraria. Cosa più importante, ulteriori riduzioni richiederebbero al minimo un 10-20% di aumento nella popolazione detenuta per ogni punto percentuale di riduzione del crimine (ivi, I, p. 128). In breve, l'effetto marginale delle strategie di neutralizzazione collettiva è nuovamente dimostrato. È particolarmente importante osservare che l'effetto è marginale anche riguardo ai crimini violenti. (Reiss - Roth 1993).
Dei ricercatori svedesi hanno cercato di calcolare l'effetto di un ipotetico aumento, eccezionale e drammatico, della popolazione carceraria. Per esempio, Jan Andersson trova che se fosse introdotta una pena detentiva di due anni senza condizionale per tutti coloro che commettono il loro secondo crimine - proposta praticamente impossibile - si preverrebbe il 28 % di tutte le sentenze per crimine (Andersson 1993). Ma questo implicherebbe aumentare la popolazione carceraria del 500% e la Svezia raggiungerebbe la leadership mondiale per popolazione detenuta ogni 100 mila abitanti. Ancor più importante, presto l'effetto verrebbe meno. Andersson basa i suoi calcoli su tre assunti che noi sappiamo essere insostenibili: innanzitutto assume che tutti i criminali corrano il rischio di essere scoperti e condannati. Noi sappiamo che non è così. Secondariamente, assume che i crimini prevenuti non siano sostituiti da altri crimini. Nuovamente sappiamo che non è così, specie nelle aree a elevato livello di pena, come l'area dei reati correlati alla droga, nuovi criminali e nuovi crimini prendono il posto di quelli precedenti. Terzo, si assume che il carcere non produca alcun effetto dannoso, in termini di recidiva dopo il rilascio, su coloro che sono stati carcerati. Dal gran numero di studi sulla riabilitazione, sappiamo che non è così.
In ultimo, è estremamente importante tener presente il fatto banale che ogni anno nascono nuove generazioni e nuove generazioni raggiungono l'età della «maturità criminale». In altre parole il " reclutamento al crimine" prosegue implacabile. Ciò significa che anche i rimasugli degli effetti prodotti da esperimenti di drammatica neutralizzazione collettiva simili a quelli suggeriti da Andersson (o dall'esperienza americana) presto sparirebbero. Per confermare l'effetto dovrebbero aver luogo nuovi cicli di incarcerazioni, senza rilasciare i criminali «veterani». Le carceri dovrebbero dilatarsi sempre più, ma poiché il reclutamento continuerebbe, l'effetto sarebbe nuovamente vano, e così via in un circolo vizioso. È precisamente quanto accade oggi negli Stati Uniti.
Che dire a proposito della "neutralizzazione selettiva"? Sono state inventate parecchie nuove misure predittive e si son fatti tentativi di affinare quelle vecchie. La proporzione di falsi positivi (così come di falsi negativi) è ancora molto elevata. Lo ammette anche Richard Wright, nel suo tentativo di difesa del carcere. Egli riporta un certo numero di strumenti predittivi americani. Due sono fra gli altri particolarmente importanti: quello sviluppato dall'INSLAW in uno studio retrospettivo sulla recidiva, in un periodo di tempo di cinque anni, su un campione di 1700 individui detenuti nelle prigioni federali rilasciati nel 1970; e il Salient Factor Score (Punteggio nei fattori salienti), sviluppato in uno studio durato due anni su un campione di 900 detenuti federali rilasciati nei primi sei mesi del 1970. Nel caso dell'INSLAW, i detenuti predetti essere «criminali cronici» presentarono una percentuale del 15% di falsi positivi nell'arco di cinque anni, una proporzione inusualmente bassa. Lo strumento è stato, comunque, sottoposto a scarsa verifica metodologica, e il risultato è smaccatamente contraddetto da tutti gli altri strumenti predittivi a mia conoscenza. Il Salient Factor Score, usato in uno studio su un campione di 3400 detenuti federali rilasciati nei primi sei mesi del 1978, ha prodotto un tasso di falsi positivi del 34,5 % tra quanti erano stati indicati come fortemente inclini alla recidiva (Wright 1994, p.p. 122-123). Nel suo testo del 1993, Jan Andersson sviluppa uno strumento predittivo in base a uno studio condotto su tutti i nati nel 1953 viventi a Stoccolma nel 1993. Sulla base della supposizione che tutte le persone individuate come criminali ad alto rischio siano condannate a due anni di pena per il loro prossimo crimine, Andersson calcola che si potrebbe prevenire il 7 % di tutte le sentenze per crimini, ma a prezzo di un aumento del 78% della popolazione carceraria. Il calcolo è fondato sui medesimi tre assunti insostenibili su cui si basa il suo calcolo degli effetti della neutralizzazione collettiva (vedi sopra), e trascura gli effetti del nuovo reclutamento. Cosa molto più importante, appare ancora una volta un tasso molto elevato di falsi positivi, il 44,5% (Andersson 1993, p. 64). In apparenza Jan Andersson è favorevole a una neutralizzazione selettiva (e collettiva). Come si è espresso il criminologo svedese Henrik Tham in una recensione del lavoro: «Andersson ha mostrato in maniera convincente che la neutralizzazione non è una strada percorribile in politica criminale».
Si aggiunga a ciò la questione morale legata alla neutralizzazione selettiva, e il quadro è completo. L'inesattezza predittiva costituisce in sé uno dei maggiori problemi morali nel tradurre in pratica gli strumenti predittivi. A questo proposito, Richard Wright ha argomentato che le predizioni sono dopo tutto meglio del caso, e che come minimo sono meglio delle predizioni a casaccio e disinformate di pubblici ministeri, giudici, assistenti sociali del tribunale. L'argomento contiene quattro punti deboli.
In prima istanza, altri sostengono che i risultati della predizione non sono meglio del caso. Robert Menzies e collaboratori scrivono (Menzies et al. 1992):
«[Una] piccola biblioteca di ricerca è ormai disponibile per documentare le misere corrispondenze tra comportamento violento e categorie o condizioni personali come lo status psichiatrico, la storia criminale e la classe sociale [...] Anche quei fattori che dovrebbero dimostrare un effetto differenziale - per esempio età, genere, e precedenti violenze - sono notoriamente deficitari in potere predittivo [...] I giudizi intuitivi di coloro che esercitano la psichiatria, e di altri esperti, a loro volta, sono poco promettenti. [...] Strumenti statistici e psicometrici, pur essendo meno palesemente inesatti, hanno scarso valore pratico nella classificazione clinica o penale delle persone pericolose».
Menzies e collaboratori trovano estremamente difficile raggiungere un coefficiente di correlazione di 0.40.
In secondo luogo, anche se gli strumenti sono qualcosa di meglio del caso, il caso non è uno standard rilevante nei tribunali. Il paragone con il caso è irrilevante nelle corti di giustizia, perché la pratica legale non è, né dovrebbe essere basata su considerazioni relative alla casualità. Se qualcuno venisse a dire: «beh, il test contiene in ogni caso molte predizioni false, ma se non altro è meglio che tirare una moneta», i giudici rigetterebbero correttamente l'argomento come del tutto irrilevante, perché non si gettano monete in aria in tribunale.
In terzo luogo, la previsione è solo una tra le attività che la corte deve svolgere nell'insieme dell'attività di valutazione. Altre concernono considerazioni sul passato, le circostanze attenuanti e aggravanti, l'umanità, l'equità e così via. Il decidere in un tribunale è, in altre parole, una valutazione globale di valori. Anche se le predizioni di chi amministra i tribunali fossero a casaccio e disinformate, l'affidabilità degli strumenti predittivi fondamentalmente sbilancerebbe l'insieme del giudizio del tribunale da un lato e verso la direzione della predizione.
Quarto, e cosa più importante, tutti gli strumenti predittivi in maggiore o minor misura sono correlati a fattori sociali, storia lavorativa, storia familiare, storia del consumo di droghe e così via. I perdenti in termini di lavoro, famiglia e droghe, sono ritenuti a rischio in quanto poveri. Come indicato in dettaglio nel mio capitolo sulla neutralizzazione, il basarsi su tali fattori nella predizione interessando detenzioni prolungate e pene particolarmente severe, è del tutto inaccettabile da un punto di vista etico.
"Giustizia".
Infine, qualche parola sulla giustizia come argomento a favore del carcere. Il maggior contributo nuovo sul modello della giustizia - o del «giusto merito» - è il libro di Andrew von Hirsch intitolato "Censura e sanzioni". Per una considerevole parte, contiene una difesa contro varie critiche rivolte al modello del «giusto merito». Due i punti di particolare importanza.
In primo luogo, nella sua ricerca di un equilibrio preciso tra la gravità del crimine e la severità della pena, che è lo scopo principale dell'intero progetto sul «giusto merito», von Hirsch una volta di più tenta di trovare un modo di aggirare la necessità di un fondamento morale per giudicare la gravità dei differenti crimini. Come indicato nel capitolo sulla giustizia, l'uso di un fondamento morale per giudicare la gravità dei reati costituisce uno dei più grandi problemi per la teoria del «giusto merito», poiché la morale è relativa e può variare in termini di tempo e di luogo. Si è anche visto come nel suo libro del 1986 von Hirsch cerchi di evitare il problema enfatizzando il carattere fattuale del danno, che può essere studiato empiricamente. Tuttavia, egli aggiunge l'importante osservazione che a sostegno di un'inchiesta empirica sul danno criminale devono esserci giudizi di valore. Inoltre aggiunge che rimane l'altro elemento importante nella valutazione della gravità, ossia la colpevolezza, implicando che anche questo elemento contenga giudizi di valore. Enfatizzando così i giudizi di valore, egli non riesce ad evitare la questione della valutazione morale del crimine.
Nel libro del 1993, von Hirsch cerca di trovare un nuovo approccio al problema. Il concetto di danno viene connesso allo «standard di vita» delle persone e copre, nell'uso che ne fa von Hirsch, interessi economici e non-economici. La gravità può essere classificata, secondo von Hirsch, in relazione al grado di riduzione dello standard di vita di una persona. C'è, a mio parere, molto di vero nel concetto secondo il quale il crimine riduce lo standard di vita delle persone, anche nel senso lato del termine. Classificare i reati in base a questo criterio è tuttavia molto problematico. Un furto con scasso colpisce lo standard di vita di un lavoratore non qualificato, di un impiegato del ceto medio, di un ricco armatore, in modi molto diversi. I furti con scasso dovrebbero essere diversificati e classificati in maniera corrispondente? Una tale classificazione può avere una certa base - il furto con scasso in casa di un lavoratore è probabilmente più grave di quello ai danni dell'impiegato di ceto medio, a sua volta più grave di quello ai danni di un ricco armatore - ma certamente si va nella direzione opposta al genere di classificazione precisa enfatizzata dal modello del «giusto merito». Anzi, ciò richiede un trattamento dei reati molto più individuale e variabile, che non quello delle tabelle del semplice «giusto merito» per il calcolo della pena che deve seguire al crimine. In generale, la dimensione morale - con i suoi correlati di relatività e mutevolezza - è ancora presente. Lo «standard di vita» è in sé un concetto normativo.
In secondo luogo, von Hirsch considera l'elemento della pena nell'equazione reato/pena sollevando ancora una volta la questione di come ancorare la scala delle pene. Nel capitolo sulla giustizia abbiamo visto come von Hirsch, nel volume del 1986, tentasse di ancorare la scala fissando le cosiddette grandezze cardinali sulla base della disponibilità di spazio carcerario come criterio d'ingresso. In seguito si doveva, secondo il libro del 1986, esaminare se questa linea, posta in modo così titubante, fosse coerente con i vincoli di proporzionalità cardinale. In alcuni casi, con poco spazio carcerario che rispondesse agli standard di accettabilità, tanto da lasciare gravi reati non puniti con la detenzione, quest'ultima considerazione implicherebbe di dover incrementare lo spazio carcerario. In altri casi, esistendo opportunità per un ampio uso del carcere, tanto da punire anche reati minori con la detenzione, lo spazio carcerario andrebbe diminuito per la stessa ragione.
Nel mio libro ho criticato l'idea di basarsi sullo spazio carcerario disponibile, in quanto è equivalente a introdurre un criterio storicamente determinato dalle peculiari vicende economiche e politiche di un paese o di uno stato. Come punto di partenza per fissare i punti basilari - assoluti, cardinali - d'ancoraggio per una scala delle pene, si tratta di un criterio molto insoddisfacente e, nel contesto del calcolo della pena, troppo lontano dal tipo preciso di misurazione richiesto dal modello del «giusto merito». Sostenevo allora che ci sarebbe ben poco di assoluto, di cardinale, di ancorante, in questi «punti di ancoraggio». È interessante che nel libro del 1993 von Hirsch respinge il criterio dello spazio carcerario: «In breve, la capacità del sistema penale è una questione politica che dovrebbe dipendere da come la scala delle pene è ancorata, e non viceversa» (von Hirsch 1993, p. 40).
Ma che cosa propone come alternativa? La risposta è interessante: considerazioni di prevenzione generale. Più precisamente, non si tratta della tradizionale visione ottimizzatrice della prevenzione, che fissa il livello di pena in base a ipotesi sul massimo effetto preventivo. Piuttosto, viene proposta una strategia «decrementale», nella quale la pena è ridotta fino a giungere presumibilmente a un livello minimo («floor») sotto il quale, per ragioni preventive, non si deve andare, in quanto scendendo ulteriormente si avrebbe un aumento del crimine. Von Hirsch intende che qui andrebbe conseguentemente fissato il punto di ancoraggio inferiore della scala delle pene.
Mi trovo in sintonia con l'enfasi posta da von Hirsch sulla diminuzione del livello di pena. Sappiamo che una strategia «ottimizzatrice», orientata verso il massimo effetto preventivo, non ha altro effetto che di aumentare la miseria umana e il dolore per i molti condannati a pene di lungo periodo. Mi sento anche in accordo con il punto di vista (implicito) secondo cui si può diminuire il livello di pena senza esporre affatto la società a un aumento del crimine. Come già ricordato, il tasso di criminalità cresce (o diminuisce) per ragioni diverse dal livello di pena. Ci sono tuttavia due problemi di fondo nell'approccio di von Hirsch per quanti riguarda il modello del «giusto merito». Da una lato, le considerazioni circa la prevenzione generale, che nel suo libro del 1986 (p.p. 47-60; si veda il capitolo sulla giustizia) e nella prima parte del suo libro del 1993 (p.p. 12-13) sono viste solo come un motivo prudenziale supplementare per l'esistenza in generale della pena in una società, e non come una motivazione dell'organizzazione concreta e dell'uso del sistema penale, sono ora posti al centro di quell'organizzazione e di quell'uso. I punti di ancoraggio della scala concreta delle pene, fondamento pratico per il «giusto merito», sono ora stabiliti mediante considerazioni preventive. D'altro canto, la questione di come possa essere stabilito il livello minimo preventivo (concetto che induce una falsa impressione di precisione) resta aperta; addirittura ci si può domandare se esista un livello minimo preventivo preciso, il che è devastante, rispetto a farne uso come punto d'ancoraggio della scala delle pene. Il punto d'ancoraggio rimane vago e fluttuante. Ciò significa poi che il punto d'ancoraggio, e quindi la scala delle pene, è facilmente influenzato dal clima dell'opinione pubblica, dai mutamenti politici nella società, e così via. In tempi di venti di destra, come quelli che soffiano oggi sui paesi occidentali, i punti di vista circa quello che è: un livello minimo necessario diventeranno facilmente più severi e il livello di pena salirà anziché discendere, contraddicendo così smaccatamente l'intenzione di von Hirsch. Il livello di pena potrebbe davvero salire drammaticamente in nome di un «punto d'ancoraggio» di apparentemente precisione, dato che la scala delle pene in realtà è costruita sulla sabbia.
La teoria del «giusto merito» può essere vista come un tentativo di difendere il carcere in forma limitata. I recenti sviluppi di questa teoria non forniscono grandi miglioramenti nella sua difesa.

"Conclusioni: le alternative diventano supplementi? Abolizione o riduzione?"
Il numero di detenuti, aumentato drammaticamente nel corso degli ultimi anni, e le recenti ricerche sul carcere, che non hanno migliorato sostanzialmente la difesa del carcere, rendono gli argomenti contro il carcere presentati in questo libro ancora più importanti oggi di alcuni anni fa. Che bisogna fare, dunque?
La mia risposta si trova nel capitolo conclusivo del libro. In questa postfazione vorrei aggiungere due considerazioni.
La prima ha a che fare con la questione delle alternative al carcere. Nel capitolo conclusivo, argomentavo contro la fiducia nello sviluppo di alternative tradizionali quali i servizi sociali, i vari progetti di decarcerizzazione e così via. Sostenevo che le «alternative» tendono a diventare non reali alternative all'uso del carcere, ma piuttosto a sommarsi al sistema, espandendo così invece di contrarre il sistema totale di controllo formale e conservando il sistema carcerario in quanto tale.
Alla luce del recente enorme aumento della popolazione carceraria nei paesi occidentali, questo quadro sembra avere ancora piena validità. Sperimentazioni di «alternative» al carcere, per quel poco che esistono, non sono certamente in grado di dare grandi contributi ad invertire la tendenza carceraria dominante. Peraltro, recenti ricerche suggeriscono che forse lo sviluppo delle alternative non andrebbe scartato in modo così reciso come sostenevo nel capitolo conclusivo. Sto pensando al grande contributo alla ricerca in quest'area fornito dalla criminologa irlandese-canadese Maeve McMahon (1992; confer anche Ruggiero - Rayan - Sim 1995). Nel suo libro, McMahon fornisce una ri-analisi empirica di un'importante parte di dati (specialmente canadesi) su cui Stanley Cohen e altri avevano costruito la loro critica alle «alternative». La ri-analisi mostra in modo convincente che l'impiego di varie alternative deistituzionalizzanti ha avuto in effetti un certo impatto, limitato, sull'uso del carcere, giungendo in certi periodi a far contrarre, almeno in qualche misura, il sistema carcerario. È un risultato importante.
Sebbene il contributo di McMahon andrebbe tenuto in conto nella politica contro il crimine, e anche se dovrebbe spingere definitivamente alla massima apertura a un approccio basato sulle alternative in politica penale, l'apertura dovrebbe restare critica, poiché il pericolo che le «alternative» possano essere convertite in supplementi alla prigione, capaci di allargare le sue reti, piuttosto che diventare reali alternative ad essa, è ancora grande. Molti esempi internazionali mostrano chiaramente che è così. Ciononostante, anche gli effetti delle alternative di maggior successo sono limitati, producendo soltanto minime riduzioni nell'uso del carcere. Bisogna ancora ricordare la recente, spettacolare crescita della popolazione carceraria. Alcune tra le alternative, come l'impiego di moderne attrezzature elettroniche per il controllo delle persone all'interno della comunità, sono anche discutibili su base etica. Per tali ragioni, sono necessari rimedi molto più energici. Ciò mi porta alla seconda e ultima delle mie considerazioni.
A mio parere le carceri vanno abolite, come ho sottolineato nel capitolo conclusivo. Sono un fiasco, hanno quasi solo funzioni inaccettabili. Il crimine va affrontato e contrastato con metodi basati sul complesso della società ("societal"). È chiaro però che non viviamo in un clima favorevole all'abolizione. Era così nel 1987, quando il libro fu pubblicato per la prima volta, ed è ancora più evidente adesso. Il mio scopo, l'abolizione entro il 2010 (nota 4), era una data ideale. E rimane ancora il mio ideale. Ma certamente oggi sarei soddisfatto se potessimo assistere a un'inversione nella salita vertiginosa del numero di detenuti, e anzi a una loro sostanziale diminuzione, per esempio entro il 2010.
Io, e molti altri, saremmo estremamente felici se il numero dei detenuti fosse dimezzato entro 112010. Un piano per dimezzare queste cifre potrebbe seguire esattamente lo stesso schema suggerito per la completa abolizione. Diminuzione del massimo di pena, chiusura fisica delle carceri, trasferimento delle risorse così risparmiate alla prevenzione nella comunità, alle vittime del crimine e al lavoro comunicativo volto a contrastare le funzioni latenti - inaccettabili, ma importanti - che tengono in piedi la soluzione carcere. In aggiunta, andrebbero stanziate considerevoli somme per trasformare le restanti prigioni in luoghi più umani, luoghi di vita umana. Una riduzione del cinquanta per cento lascerebbe certamente uno spazio più che adeguato per mantenere sotto controllo i pochissimi rei chiaramente pericolosi e dovrebbe essere più che sufficiente per tranquillizzare ogni preoccupazione nell'opinione pubblica. Forse dovremmo porre un «tetto» al numero dei detenuti al cinquanta per cento di quelli attuali, e richiedere livelli di pena e gradi di criminalizzazione tali da non sfondare il tetto.
Anche un taglio del cinquanta per cento in un tempo relativamente breve sarebbe irrealistico in alcuni paesi. Gli Stati Uniti sono forse un caso tipico. Ma nei paesi europei la situazione è differente. Più importante è che, come scienziati sociali spronati e guidati dai valori, non dobbiamo prendere come nostra bussola il realismo, benché possiamo, e l'ho detto prima, tenerlo prudentemente in considerazione.
A mo' di conclusione, lasciatemi portare un esempio che illustra quest'ultimo punto. Nel 1995, il cosiddetto Pugwash Movement - per esteso «Pugwash Conferences on Science and World Affairs» - ha vinto il premio Nobel per la pace. Il movimento è formato principalmente da ricercatori nelle scienze naturali, e sottolinea soprattutto la responsabilità etica della scienza e degli scienziati in generale. I membri lavorano per la pace nel mondo e protestano in particolare contro lo sviluppo della bomba atomica e degli armamenti nucleari. Il loro scopo è chiaramente l'abolizione della «bomba». Se il movimento fosse stato «realistico» dall'inizio, sostenendo solo mutamenti che potessero risultare accettabili per le autorità politiche (come le armi nucleari più pulite), noi saremmo oggi molto più lontani di come siamo sia dall'abolizione degli armamenti sia dalla pace nel mondo.
Altrettanto vale per gli scienziati sociali nel campo del carcere, una delle più grandi e distruttive istituzioni della società moderna.

 

Note:

1. Informazioni dal criminologo tedesco Johannes Feest, Bremen.

2. La metà di un campione originario di 1600 contattati; gli autori discutono in dettaglio della rappresentatività del campione.

3. «Lambda»; si veda il capitolo sulla neutralizzazione.

4. L'anno dell'abolizione del piano di energia nucleare in Svezia.