Il MeTe imprigionato
Storia di un amore carcerato

di Vincenzo Guagliardo



Come le rosee labbra
non amo veder senza sorriso
così la lingua russa
non amo senza errori di grammatica.

Puskin (dall'Evgenij Onegin).



1. Un uomo senza palle

"Vincenzo è considerato uno che si è bevuto il cervello dietro una donna, un "senza palle" (tra l'altro è curiosa questa definizione per uno che ha difeso il suo rapporto con una donna ...), (te).
Ci sono voluti nove anni per arrivare fin qui: da un migliaio di chilometri a qualche centinaio di metri. Dal 25 luglio 1989 ci scriviamo ogni giorno senza mettere il francobollo sulla busta, basta la dicitura "posta interna". Abbiamo sei ore di colloquio al mese. Quattro sono "ordinarie", le altre due "premiali". Separati dal bancone, sotto lo sguardo degli agenti, possiamo vederci, sentirci, parlarci. Ogni sei mesi, in una relazione inviata al Ministero, gli operatori penitenziari rilevano l'ineccepibilità del mio comportamento, pur constatando che non prendo "posizione sul passato". Grazie a questo giudizio, mi sono garantiti altri sei mesi di permanenza in questo carcere.
     Un giorno, con sguardo d'intesa millenaria tra uomini, un agente mi diceva più o meno: "tutte le donne sono uguali". Di fronte a questa frase originale le cui molteplici allusioni sono tuttavia ben note, il mio comportamento è stato ineccepibile: non ho fiatato. Ormai, in simili circostanze, non penso neppure. Sono addestrato. Qualunque cosa io faccia, ho la testa altrove. Come spiegavi a quelle studentesse, mettendo al vetrino la nostra vita:
"Noi siamo dei grandi sognatori, nessuno di noi due in realtà sta mai nel posto a cui è costretto, ma vive costantemente "sovrappensiero", rivolto verso l'altro in un'estensione che investe il nostro modo di vivere tutti i rapporti. Ma non in un sogno immobile che lenisca solo la sofferenza, ma che sogno dopo sogno ci dà la forza di scalare il cielo".
A questo pensiero, tuttavia, non riesco a sfuggire: a qualche centinaio di metri di distanza, eccomi a dovere scrivere per comunicare con te per 726 ore ogni 732. A loro non basta tenerci fuori dalla società. Loro ci separano.
     Allora ho la certezza che il nostro è uno dei tanti casi emblematici dell'irrimediabile follia di questa società.
     Bisogna spiegare chi sono loro. Sono in tanti e "non lo sanno".
     L'emblema è saltato fuori grazie alla nostra tenacia. Poche persone hanno resistito in carcere quanto noi due. Siamo quasi più unici che rari. Lo dico in parte con orgoglio, ma soprattutto con grande disappunto perché questa rarità rende più difficile la realizzazione del senso profondo e semplice delle nostre vite: stare insieme all'altro, la parte di noi che ci manca.
     Negli anni passati, altre coppie recluse hanno dovuto-voluto scegliere tra dignità personale e amore. Hanno accettato l'orribile falsa alternativa che il carcere impone al rapporto fra uomini e donne.
     Alcune coppie hanno rinunciato alla dignità personale per salvaguardare ed ottenere il diritto d'incontrarsi. Si sono messe a contrattare le loro idee, a prendere "posizione sul passato". Assurdo gioco di parole. E allora, costoro, dissociandosi come usa dire per l'abiura premiata, o pentendosi come usa dire per il tradimento, sono finiti in "area omogenea", come usa dire per un'isola carceraria di relativo privilegio. Ma che amore è mai più questo? E sarà sopravvissuto a queste prove lo stesso suo simulacro?
     Altre coppie non hanno voluto rinunciare alla dignità personale. L 'uno/a ha affidato i suoi sentimenti per l'altra/o al disastro delle Poste italiane, accentuato dalla censura delle carceri speciali. Anni fa ricordo che per un anno e mezzo ci vietarono di scriverci fra detenuti speciali. Le nostre madri si misero a scrivere all'uno i pensieri d'amore dell'altro. Alla fine è spesso successo che l'uno (in genere l'uomo) ha cercato un legame un po' più fisico: una persona non carcerata da poter incontrare dietro il bancone delle sale-colloqui.
     In conclusione, queste sbarre ci dicono che l'amore è la rinuncia alla dignità e che la dignità è la rinuncia all'amore. Noi due non potevamo accettare questo. E non dobbiamo spiegare a nessuno il perché, sono gli altri, loro, a doverci spiegare perché no.
     Nei loro irritati balbettii, starà metà della nostra forza. Nei loro arroganti silenzi, metà della nostra debolezza.
     Per arrivare a questi pochi metri di distanza, abbiamo dovuto munirci d'infinita pazienza e rinunciare completamente solo al pudore. Abbiamo fatto uscire i nostri sentimenti dalla riservatezza e dalla "poesia". Sono finiti sulla carta da bollo e sui giornali. Da lì sono arrivati in tribunale, in parlamento, al ministero.
     A tanti anni dal nostro arresto (1980), ora siamo nel cuore dell'Emblema. Cioè al centro dell'assurdo. Anche se sei in prigione come me, tu sei una donna, io sono un uomo, questa differenza ci separa.
     Col carcere, sua istituzione totale, la società intera si libera di ogni ipocrisia e ci dice che alla fin fine quello che conta è quello che abbiamo tra le gambe. Alla resa dei conti, non si ragiona più con la testa ma all'altezza dei genitali. Tra queste mura, tutto quello che rimane del corpo e delle vite delle donne e degli uomini come "resto", è stato tagliato, cancellato: rimangono una vagina e un pene da tenere lontani.
     Parlo da viaggiatore. La mia affermazione è il frutto di una esplorazione durata anni e non ancora conclusa nel mare della follia. La prima tappa del nostro viaggio, durata nove anni, voleva raggiungere un porto che era in fondo ben poca cosa: Che c'era di più moderato, di meno politico, privo di secondi fini? Eppure ... Io qui, ora, dove ti vedo un'ora alla settimana, posso stare con estranei del mio stesso sesso. Posso essere, se voglio, voyeur di riviste pomo, feticista, super-onanista e omosessuale. Ci sono anime democratiche che vorrebbero persino rifornirci di preservativi! È ridicolo dire che viviamo in una società sessuofobica. Proprio il mondo dietro le sbarre dimostra il contrario! Ma tutto ciò che è alternativo alla scelta d'amore e al rapporto uomo-donna è incoraggiato in mille modi - è il caso di dire - perversi.
     Chiunque, con un minimo d'onestà, si sia dedicato allo studio di questo mondo di sbarre e cemento, deve riconoscere che il carcere non elimina la criminalità, ma la fabbrica. Si può dire che nessuno sta in galera per quello che ha fatto, ma per quello che di lui si può fare: l'utile idiota, il capro espiatorio dei mille fantasmi che agitano le menti della comunità esterna. Il carcere serve ad assolvere la società e a liberare il suo sadismo. È il comodo paravento dove un vecchio criminale perdente serve a coprire quello nuovo agli occhi della gente, così contribuendo al rinnovamento del crimine, attività necessaria a tanta gente perbene (forze dell'ordine, giudici, giornalisti, uomini d'affari e anime belle, eccetera). Ma il ruolo assolutorio e tranquillizzante per la società è ancora più palese verso l'amore.
     Inefficiente nel suo scopo dichiarato, il carcere è perfetto nella funzione non dichiarata che svolge: la separazione di uomini e donne. Qui, dove non dice, reprime veramente, così come là dove dice - verso la repressione del crimine - si limita a regolamentare, rinnovare, perpetuare (oltre a far soffrire, beninteso). E rispetto all'amore, la galera diventa un gioiello di diaboliche sottigliezze, capolavoro dell'ipocrisia umana, tacito monumento della nostra miseria morale, specchio di questa civiltà, fenomeno che per il solo fatto d'esistere tutti coinvolge, tutti trasforma in miseri ipocriti o cinici ignoranti.
     La scelta amorosa incontra ostacoli e ostilità in tutta la società dalla notte dei tempi. Una piccolissima parte dell'arte, ma soprattutto le canzonette, ce lo hanno sempre detto, costituendo in tal senso una delle più forti e meno ascoltate denunce sociali. Ma da tre secoli c'è anche un punto in cui l'ostacolo e l'ostilità cessano di disseminarsi e diventano, concentrandosi, struttura vera e propria. Questa moderna struttura è il carcere.
     Mentre uno scopo è sempre da spiegare, la struttura è fornitrice automatica di spiegazione. L'ostacolo all'amore qui non ha più bisogno di motivarsi, rischiando di smascherarsi nelle sue meschinità; è esso stesso fonte motivante:
- Perché Romeo e Giulietta non potevano amarsi?
- Perché le loro famiglie erano nemiche.
- Dio, che cattiveria!
- Perché voi due non potete unirvi?
- Perché siamo in carcere.
- Oh, fatale destino!
     È grazie a questo modo di pensare, reso possibile dalla Struttura, che non esiste neppure una legge che espliciti il divieto all'amore in carcere. Il rapporto uomo-donna non è vietato, semplicemente non è previsto.
     Ecco un piccolo paradosso: il carceriere che lasciasse incontrare in modo riservato un uomo e una donna, non commetterebbe nessun reato se non quello, forse, dell'abbandono del posto di lavoro (dato che è previsto un controllo visivo sui colloqui per motivi di "sicurezza"). Egli potrebbe dire che è semmai la non concessione dell'incontro a costituire una violazione del diritto, dello spirito della Costituzione, dei diritti civili e politici della Convenzione di New York del 1977, dello stesso Ordinamento Penitenziario! Tutte queste leggi, infatti, parlano di dover favorire il rapporto familiare.
     Naturalmente, nessun carceriere vorrà né potrà mai fare una cosa del genere. Impedire qualcosa che non è vietato da nessuna legge sarà pure una violenza, un arbitrio, eppure, proprio eseguendo questa violenza il carceriere "sa" di essere l'ultimo esecutore di una implicita volontà generale, di una... naturalezza sociale. Tanto forte da non avere bisogno di essere scritta. Tanto inconfessabile da non motivarsi mai in modo diretto. Tanto barbarica da lasciare intendere e alludere alle leggi e agli ordinamenti il contrario di quanto succede realmente.
     Sarebbe assurdo prendersela col carceriere. Il divieto che non esiste è il più forte di tutti i divieti. In difesa del carceriere dirò anzi che su pochi aspetti della vita reclusa, egli si sente obbligato a esercitare il suo potere come in questo. A Marsiglia, nel 1986, c'è stata una delle poche rivolte di guardie che la storia ricordi. Giunsero allo scontro fisico con la polizia per protestare, indignate, contro un direttore riformatore che voleva dare ai carcerati la libertà d'amare. Proprio questo "eccesso" fa riflettere. La singolare mancanza di un esplicito divieto d'amare la dice lunga. Mentre il recluso è il povero cristo della situazione, il suo guardiano è obiettivamente nella situazione di Ponzio Pilato. È la comunità intera che, come il Sinedrio, scarica le sue responsabilità su Pilato agli occhi della Storia.
     Pur con tutta la modestia dovuta, ritorniamo un attimo alla differenza che c'è tra me e te da un lato, Romeo e Giulietta dall'altro.
     Mentre questi ultimi sono le palesi vittime di una ingiustizia dovuta al pregiudizio, la nostra separazione è un fatto naturale. Sarebbe cioè innaturale riunirci. Altrimenti una ribellione come quella di Marsiglia non si potrebbe più spiegare. Essa può infatti avvenire solo se è vissuta come lotta a una volontà minoritaria e contro-natura.
     L'amore dei prigionieri sembra cancellare la Struttura, la ridurrebbe a un "bordello" agli occhi di tanti. E, dentro questo sistema interiorizzato di valori, la guardia non vuole essere considerata come un tenutario di bordello. Si scatena cioè in lei una reazione che non è tanto contro il detenuto (punitiva), quanto per se stessa, per la difesa del proprio onore.
     Nella sezione speciale del carcere di Novara qualche anno fa, è successo un piccolo episodio singolare. Gli agenti rifiutarono di consegnare la "posta interna" a due coniugi prigionieri, Rosaria e Giulio, che avevano ottenuto un mese di colloqui. "Non siamo dei postini - dissero -, se quei due vogliono scriversi, che mettano il francobollo e si rivolgano alle Poste". Qualcuno potrà notare che il mestiere di postino non ha nulla di umiliante, ma bisogna aggiungere un altro particolare: è sempre la guardia, e non il postino, a dover consegnare al prigioniero anche la posta affrancata. Il lavoro, i gesti della guardia non cambiano nei due casi. Cambia però il ruolo che la guardia assume rispetto ai sentimenti del prigioniero. Il riconoscimento dell'esistenza di questi sentimenti è stato vissuto, in quel caso, come un degrado. Eccone la prova: di fronte a quell'eccesso - mi hanno poi raccontato Rosaria e Giulio - il direttore non poté far nulla, gli agenti non vollero cambiare idea. Egli propose dunque ai due prigionieri di fare un colloquio in più al mese al posto delle lettere in meno! Gli agenti non ebbero nulla da obbiettare di fronte a questa concessione ben più ricca di una lettera a consegna relativamente rapida e gratuita. Il loro problema non era quello d'infierire contro i prigionieri, ma di rispettare in se stessi, fino all'eccesso, un presunto ordine naturale delle cose che li ponesse in armonia con la società.
     In conclusione, rispetto all'amore, è come se questa società trovasse nel carcere non già una contraddizione, ma il suo inconscio stato ideale. È solo qui, nell'istituzione totale, che la separazione di uomini e donne, altrove relativa e difficoltosa malgrado gli sforzi compiuti, diventa assoluta!
     L'ingiustificabile barbarie, la tortura bianca che si aggiunge - mai dichiarata eppur sempre risaputa - alla privazione della libertà materiale, riesce a mantenersi solo grazie all'opportunismo e alla complicità dell'inconscio collettivo. Attribuire la sopravvivenza della barbarie nel nostro paese alla cattiveria dei carcerieri, all'arbitrio dello Stato, agli eccessi di una volontà punitiva delle leggi, significa semplicemente rimuovere e raffinare quell'opportunismo: l'inconfessata delega.
     In questa società, c'è qualcosa nel rapporto uomo-donna che va combattuto, qualcosa che, se venisse disvelato, rivelerebbe la complicità d'ognuno in una guerra che solo nelle istituzioni totali diventa esplicita violenza sui corpi e i sentimenti delle persone. Allora è più comodo dire che tutto dipende dalla cattiveria del carceriere e dello Stato, fingere di credere che esistano leggi che non esistono e che, intanto, ci siano cose "più importanti" di cui occuparsi.
     La non previsione dell'amore fra le sbarre è il frutto di tanti divieti a essa sottostanti, di cui si è immemori. È il punto d'arrivo di un percorso di cui non ci si sforza di ricordare il punto di partenza. Ma se si provasse a fare nella propria coscienza la fatica del percorso a ritroso, ognuno (o quasi) dovrebbe accorgersi di essere complice di un pezzo di quel percorso.
     Che cos'è mai "naturale"? Poiché conosciamo una minima parte dell'esistente (la Natura) e quasi nulla delle sue possibilità (la "trascendenza"), ecco che l'aggettivo "naturale" finisce per ridursi a una convenzione stabilita dagli uomini che dettano le presunte leggi del sapere. Più precisamente, ci accorgiamo che un fenomeno viene considerato naturale quando si cessa di discuterne con scandalo. Cosicché la Natura cambia secondo le ideologie correnti molto più che secondo il ritmo degli eventi detti naturali!
     Orbene, nessuno considera scandaloso il divieto d'incontro fra uomini e donne in carcere o nelle istituzioni totali in genere. Ossia: nessuno ha mai fatto scandalo su questo. Tale mancanza di scandalo è il segno che proprio questo stato di cose è considerato naturale.
     Infatti, tu e io abbiamo dovuto accorgerci del carattere innaturale del volere opposto. Questo è stato il nostro primo sorprendente ostacolo, prima ancora dell'ostilità delle autorità ministeriali! Non mi raccapezzavo, ero io che dovevo spiegare persino ad alcuni amici perché ci tenessi tanto a voler chiacchierare un'ora alla settimana con te, mia moglie. Ero io che dovevo giustificare perché avessi messo al centro della mia vita la volontà di stare nello stesso carcere con te, a costo di starci in isolamento totale. Come mai, fra tutti i problemi che c'erano per un rivoluzionario, andavo a sollevare proprio questo? Ma io mi ostinavo (mi ostino) a rovesciare l'ordine della questione, dicendo al compagno di reclusione: perché non devo stare con mia moglie e con te sì?
     Spesso, la reazione a questa mia domanda era la stessa che ha l'Adulto di fronte al Bambino che chiede il perché d'un perché. L'interlocutore interloquito dava una risposta limitata e irrazionale e il suo atteggiamento, prima liquidatorio o ironico o paternalisticamente condiscendente, diventava infine irritato.
     Gli amici mi consigliavano di essere realista: ti capisco, ma chiedi qualcosa che puoi ottenere, non essere suicida. Altri riflettevano: era un segno dei tempi, davvero brutti, il fatto che mi rimanesse "solo più quello" da difendere, che mi sentissi disposto a mettere in discussione la mia salute o la mia vita (eravamo disposti a digiunare fino alla fine se non ci avessero permesso d'incontrarci a colloquio) per un obbiettivo tanto povero quanto difficilmente realizzabile, rispettabile sì ma limitato, privato...
     Qualcuno divenne diffidente. Considerato il mio buon pedigree rivoluzionario, tenendo conto del contesto della sconfitta politica eccetera eccetera, ero forse un altro dei tanti che non credevano più in niente? E che, non a caso, s'era messo a pensare solo più alla figa perdendo ogni lucidità? Povero Vincenzo, è scoppiato anche lui!
     Qualcuno divenne ostile. Ero ormai uno che voleva dare un'immagine addomesticata di se stesso, uno che - per la sua storia personale - non poteva non sapere che stava facendo una sporca politica. Io non stavo disvelando i limiti della politica rivoluzionaria, ma stavo anzi dimostrando apprezzamento per la politica borghese e parlamentare, quella che ipocritamente parla sempre di "diritti umani", individuali, eccetera.
     Tu sei stata più fortunata di me. Dubbiose o meno che fossero su quello che avremmo potuto ottenere, le donne prigioniere sono state in genere solidali con te e, di riflesso, con me. Non hanno sospettato secondi fini. Hanno detto: "speriamo che ce la fai" o addirittura "sei fortunata a poter lottare per qualcosa del genere". Anche quelle più lontane dalle nostre idee avevano almeno una tolleranza benevola per la nostra causa, quindi reazioni affettuose. E fuori dal carcere è stato lo stesso, sono state soprattutto delle donne ad aiutarci per riuscire a stare nello stesso carcere, rompendo il silenzio, dandoci voce.
     Quando sono arrivato a Opera, molte tue compagne di sezione mi hanno subito fatto pervenire un telegramma: "Per amore si fa tutto. Contente di averti qui".
     Sia chiaro, non mi faccio nessuna facile illusione: queste amiche sono un'eccezione. Ma l'eccezione è importante. Nel deserto una goccia d'acqua fa miracoli. Sì, da questo si deduce che basta una goccia d'acqua a far miracoli, ossia che ci vuole poco per fare molto. Ma ci vuole pure molto per raggiungere quel poco.
     Il miraggio che tu e io abbiamo dovuto respingere, che tutt'ora respingiamo, è quello della libertà materiale individuale. Si pensa a uscire dalla galera: ecco il sogno comprensibile d'ogni recluso, la vana promessa d'ogni progressista, il pericolo paventato da ogni reazionario. Il sogno diventa il ricatto che non fa pensare ad altro, che fa rimandare ogni altra questione. Alla fine, chi esce è spesso il cadavere di se stesso, comunque un altro. Play Pin Up casino online!
     In questo orizzonte comune, l'amore è per tutti una questione privata secondaria separata. Ma è proprio davanti alle istituzioni totali che il confinamento, la riduzione che queste parole hanno voluto stabilire, si smaschera. Esse, puntualmente fallimentari nei loro scopi dichiarati, altrettanto puntualmente funzionano solo nel negare l'unità del genere umano.
     Un uomo è mezzo genere, una donna è mezzo genere. Si è genere umano solo nell'unità. Unità data dal rapporto in senso lato fra la donna e l'uomo. E ci si viene a dire che l'eventuale opposizione a questa separazione è questione privata e secondaria! Ci si viene a dire che superare la sistematica tortura bianca che s'aggiunge alla privazione della libertà è questione non essenziale!
     Eh no, il legame che c'è fra me e te è un affare pubblico, un esemplare frammento di una questione sociale della massima importanza. Com'è possibile che tanta gente sia stranamente complice in tanta cecità? Che valore hanno le affermazioni a favore del cambiamento sociale se sono fatte da chi praticamente ignora che la coppia è la struttura fondamentale del genere umano, ossia il punto cardine di tutti i rapporti sociali?
     Non posso credere che una simile barbarie, tanto grande quanto ingiustificabile, sia dovuta a una cattiveria congenita degli uomini, a un cosiddetto limite naturale. Se così fosse, bisognerebbe smettere di far parte del genere umano, suicidarsi per onorare la dignità e la bellezza della vita almeno al di fuori dell'uomo. Non posso credere a una deliberata volontà generale di sottrarre i prigionieri all'appartenenza al genere umano. Un delitto contro la specie non può essere cosciente. Incosciente però sì!
     Mi pare allora più logico pensare che si viva un terribile equivoco, frutto di una cultura ormai profondamente deviata nella percezione della realtà. Per una serie di motivi storici e culturali, si arriva a ignorare che il genere umano è composto dall'unità dei due sessi. L'individuo odierno, con la sua mancanza di scandalo su questa caratteristica dell'istituzione totale, dimostra di essere vittima di una falsa visione dell'essere umano. Ignora il fondamento di sé. Ignora di sottrarre i prigionieri alla specie, ritiene anzi di far rientrare il "criminale" nel genere umano, suo malgrado. Attraverso il carcere si ritiene di contribuire a far ridiventare un "uomo" colui che dal consorzio umano sarebbe uscito. Peccato che quest'�uomo� non esista se non nella concezione degli uomini attuali, come dimostrano proprio l'inutile crudeltà e il fallimento puntuale delle istituzioni che separano con la forza i due sessi.
     Loro, così facendo, e così tacendo, dimostrano tutti di credere che il soggetto umano sia l'individuo e non la dualità di un rapporto tra sé e l'altro. Alla base di questo mito dell'individuo che cancella la visione sociale, "intrecciata", del singolo essere umano, c'è - come vedremo - una cultura fondatasi sulla misoginia.
     La dedizione all'altro e la capacità di pensiero che si proietta fino al punto di sapersi identificare con l'altro da sé sono cose considerate come una perdita di se stessi, come una negazione dell'autonomia personale. Solo nell'amore materno, questa dedizione, almeno formalmente, non è soggetta a limiti: tanto, è "roba di donne" e, anche se a dedicarsi c'è un uomo, si sa che non si "rischia" niente perché il bambino - si dice - non ha ancora una definita individualità, non ti toglie la tua.
     L'amore è il grande nemico di uomini che hanno perso la memoria del proprio fondamento come genere, che non sanno più riconoscere l'altro, identificarsi in esso.
     Perciò, consoliamoci, non abbiamo a che fare con una cattiva natura, ma con un impazzimento storico. Pensando alle galere, gli impazziti, reclusi o liberi, credono che la principale violenza esercitata sia la privazione della libertà individuale. Ma se questo potesse bastare a una società come la nostra, basterebbe ripristinare l'esilio: porre cioè fuori dalla comunità quelli giudicati ribelli, rompiscatole, aggressivi, eccetera. La libertà individuale non è affatto il valore supremo, lo è però la dignità del diverso; e l'esilio in qualche modo la garantiva. Ma ora che il mondo sovrappopolato e massmediato risulta sempre più piccolo, i pazzi che si credono sani non sanno che ci hanno tolto anzitutto il nostro diritto di appartenenza alla specie e che questa è la prima e più grande violenza compiuta ai nostri danni, violenza di cui sono ignorate tutte le conseguenze.
     Ci stiamo avvicinando all'analisi degli ostacoli presenti nelle ultime centinaia di metri che mi separano da te.