Il MeTe imprigionato
2. Primo ostacolo: l'intellettuale
Lo stretto rapporto esistente fra scelta ideale e scelta amorevole (tanto
da farne una cosa sola), è tutt'altro che chiaro nella nostra coscienza
ottenebrata da migliaia di dualismi che bisognerà imparare a superare
tutti quanti a partire dalla radice. In ognuno di essi dimentichiamo il corpo,
l'altro, l'oggetto reale, l'unità del pensiero. Il carcere è un'istituzione misogina che impone all'individuo di
percorrere a tappe accelerate un cammino che è la lunga storia collettiva
di questa civiltà. È una severa scuola... filosofica che vorrebbe
obbligarti ad abbracciare una particolare visione dell'essere umano, andata
per la maggiore in questi secoli e fondata su due assiomi - il secondo che
deriva dal primo -: la separazione dei sessi a scapito delle donne; il mito
dell'individuo quale soggetto degli eventi.
Storia di un amore carcerato
di Vincenzo Guagliardo"A volte durante il giorno mentre sono soprappensiero mi blocco
per ricostruire cosa sto pensando, quasi sempre non me lo ricordo, sono frammenti
di pensieri che scorrono da soli, difficile dopo dargli una forma di linguaggio.
Questa comunicazione con se stessi però è anche quella che se
potesse essere comunicata all'altro ci svelerebbe completamente, senza filtri,
e allora penso se fosse possibile imparare a farlo ad alta voce, trasformare
questo continuo lavorio interiore in parole in modo da trasmetterlo all'altro
come a se stessi. Un giorno noi lo faremo, noi possiamo farlo, abolire tutte
le difese, e queste lettere serali sono il frutto di questo desiderio, rappresentano
questo indipendentemente da quello che ci diciamo con le parole. È
un modo di dirci continuamente io sono pronto a farlo, vorrei non avere più
un solo pensiero per me, bello o brutto che sia, soprattutto quelli brutti,
quelli che uno ha la tendenza a censurare. Sono qui che me la sto ridendo
perché appunto lasciando andare i pensieri a ruota libera ho pensato:
ma io da piccola qualcosa del genere l'ho fatto con il cane!", (te, lettera
7/6/91).
Diventato un affare privato, personale, il rapporto uomo-donna ha subito la sua
prima grande riduzione. Grazie alla quale si potrà dare per scontato
che esso sia, ogni volta, d'ostacolo per qualcos'altro di più importante.
Se assume troppo peso, l'amore diminuisce l'impegno dell'attività socialmente
utile, ossia, a seconda dei punti di vista, del Lavoro, della Carriera, dell'Alto
Pensiero, del Nobile Ideale, eccetera.
La civiltà, invece di mettersi al servizio del viaggio richiesto e alluso dal rapporto amoroso, legittima i suoi ostacoli contro una presunta fonte di distrazione.
La "luna di miele", per esempio, è l'usanza che già nelle parole sancisce con ogni evidenza questa visione irreale ed extraterrestre dell'amore. È la parentesi in cui ci si sottrae alla realtà del pianeta.
Imprigionare un individuo significa perciò dargli una lezione sulla realtà, farlo tornare sulla terra. La prigione è una società ad alta intensità dove diventa punto di partenza forzato quel disamore che, in società, è l'implicito punto d'arrivo di ogni individuo ritenuto maturo.
La prima riduzione subita dall'amore è dunque un "passaggio politico": un ribaltamento delle priorità. L'amore è al servizio della società, bisogna vergognarsi al solo fatto di pensare a una società asservita all'amore.
Il primo passaggio ne determina un secondo, questa volta di natura psicologica: scompare dall'amore tutto un mondo "interiore" fatto di pensiero e linguaggio, rimane il puro rapporto sessuale, inteso come frizione dei corpi essenzialmente concentrata all'altezza dei genitali. Il deprezzamento, o l'ignoranza pura e semplice, del mondo "interiore" amoroso lascia emergere soprattutto l'immagine dell'atto necessario alla procreazione, funzione sociale necessaria del mondo alienato.
È come se uno sguardo ignorasse il 90% del paesaggio per concentrarsi con la lente d'ingrandimento sul 10%. L'effetto è stravolgente: atrofico di qua, diventa mostruoso di là.
Può avvenire a questo punto il terzo passaggio: l'effetto di ritorno. L'affare privato e secondario ritorna diventando fonte di guai. Ora è riconosciuto nella società con tanto d'importanza, è dotato di parola e pensiero, ma solo per essere presentato come forza negativa. Chi si ostina ad amare in modo totale è colpevole. Non capisce quale dannazione sta accettando e provocando.
Non starò a citare il gran numero di Grandi
Pensatori, Delicati Letterati, Acuti Filosofi, Severi Scienziati che spiegano
l'amore (non la loro incapacità d'amare) come Tormento Naturale. Gli
ostacoli incontrati dal cammino amoroso, costruiti dalla storia della società,
diventano il presunto mistero infernale dell'amore stesso. La capacità
d'abbracciare una vita altrui come se fosse la propria non è più
spiegazione della sopravvivenza ma il suo opposto. In questi complessi ragionamenti,
in questi alti e poetici tormenti sulla "natura" dell'amore, io vedo
ormai soltanto la miserevole difesa delle miserie dell'esistente. Vedo uomini
e, a volte, anche donne, che si perdono dietro a piccole cose perché
non devono (e accettano di non volere) vedere l'importante, il grandioso. Uomini
che preferiscono ingannarsi, perdersi nel bicchiere per non guardare il mare
nella sua semplice bellezza.
Io qui so bene che è il carcere a uccidermi
giorno per giorno e che sei tu a farmi vivere. Quando parlo di questo, non sono
il solito carcerato che, poverino, si è fissato come al solito sui quattro
libri che è riuscito a leggere fra le sbarre. Come credeva quell'intellettuale!
No, ho avuto la fortuna di potermi liberare anche di quei quattro libri. Il
problema non si risolve infatti leggendone cinquecento, ma conquistando un'esperienza
reale. Ho una fortuna che mi sono saputo meritare. Infatti, il prigioniero che
dopo anni, rimasto solo, comincia a "incorporare" carcere, è
"invitato" a perdere anche il ricordo della donna reale. Comincerà
a guardare, com'è portata a fare la cultura maschile, la donna generica
e impersonale di una foto appiccicata al muro della cella, donna ridotta alle
sue nudità messe in mostra, non più donna ma "fica".
Un trionfo dell'Astratto.
Tu tieni in piedi il 90% della mia umanità. Tu e non già i libri che da quattro dovrebbero diventare cinquecento. Pensare a te significa riuscire a ricordare ancora quello che mi manca realmente e totalmente: un accenno dello sguardo, un mugugno, un semplice gesto che racchiudono e rendono inutile ogni lunga spiegazione per intendersi.
Un dialogo smozzicato, sgrammaticato degli innamorati, delle vecchie coppie, dei grandi complici, è identico al linguaggio interiore. Mi manca, qui, il punto in cui la parola possa perdersi felicemente nel pensiero, acquistando una ricchezza di significati, una profondità di senso di cui è partecipe tutto il mio corpo. Le parole degli innamorati appaiono, viste dall'esterno, o troppo scarse o sproloqui eccessivi, e sempre "banali". La loro forza sta in ciò che sottintendono, al di là d'ogni grammatica, nell'estensione del non detto, del calore fusionale. Questa forza richiede e dà una profonda unità spirituale.
Il percorso mentale dell'amante procede all'inverso di quello del poeta. In quest'ultimo è il pensiero che va a concentrarsi nelle parole, come se l'emozione passata potesse resuscitare attraverso quel mezzo. La scrittura diventa (viene considerata come) possibile veicolo di transe. Ma proprio questo meccanismo è la seconda condanna e la crudele beffa per ogni carcerato: il ben noto "canta che ti passa" diventa tra le sbarre "scrivi, scrivi che solo questo è previsto per te!"
A pensarci bene, ogni parola scritta, come ci dimostra
ogni libro, è il sostituto di un'emozione che non si può più
vivere o rivedere. È il monumento funebre eretto per un ricordo. La molteplicità
di significati espressa dalle due più famose parole del mondo - ti amo
- va ricostruita, con la scrittura, nella lunghezza di un discorso che può
coprire un intero volume. È quello che sto facendo in queste pagine...
Mi è chiaro che in amore l'intelletto, la volontà e gli affetti si ritrovano perfettamente riuniti. Solo qui può ritornare la coscienza della natura unitaria del pensiero. Il carcere sancisce invece senza più maschere quello che viene costruito in tutti gli ambiti dei nostri sciagurati rapporti sociali: la scissione dell'essere umano quale unità pensante:
In galera, queste tre direttrici della scissione mentale, vale a dire del modello di pensiero che guida la nostra civiltà, trovano il loro luogo ideale.
Il prigioniero modello è un... intellettuale suo malgrado, portato a distruggere i suoi sentimenti ("servono solo a soffrire"), ad apprendere come mascherare la propria volontà ("a me non mi frega nessuno"). Non è forse tutto questo la massima esaltazione del pensiero comune? Quando sarà diventato una simile creatura disumanizzata, il prigioniero sarà dichiarato redento.
Avrà ottime possibilità di uscire di galera.
Come tanti altri, non posso starci. Non voglio liberare un tale che porta il mio nome ma è ormai il cadavere della mia persona.
La libertà così ottenuta non mi servirebbe
più a niente. Mi ucciderebbe. E nessuno capirebbe che si tratterebbe
di un assassinio perché passerebbe sotto forma di malattia: un'ulcera,
un infarto, un cancro... Ci tengo alla mia salute.
Letterati, filosofi, scienziati: siete a metà strada di una particolare esperienza umana, per questo non potete capire. Sono invece arrivato al fondo di una strada di cui gli altri hanno potuto conoscere solo un pezzo. Da qui ci vedo bene. Se ho dovuto liberarmi dei vostri libri è perché parlavate senza esperienza. Se sembro un fottuto e limitato empirista è perché ciò è inevitabile durante i primi passi.
Nei miei sogni a occhi aperti - nella mia reverie, come direbbe il prof. Bachelard - tutto diventa più chiaro. Addio, poeti: finché starò fra queste mura tradurrò i miei sentimenti in carta da bollo piuttosto che in versi. Addio uomini di scrittura: accetto la scrittura, ma solo come si può accettare l'inevitabile condanna o, meglio ancora, come il mutilato accetta la sua protesi. Immobile sulla mia branda, vedo lui e lei, me e te, che hanno abbiamo bisogno di poche parole per intendersi. Perché ognuna ha riacquistato tutti i suoi significati possibili, infiniti, attraverso la sensibilità dei corpi. I due sembrano, cioè sono, telepatici. Non ostacolato, infatti, questo incontro va oltre il semplice fatto di capirsi al volo. Inseguendosi nei pensieri, i due ora cominciano a sentirsi.
Già in condizioni "normali", sappiamo che il disagio dell'uno diventa sofferenza dell'altro, così come si vive il piacere di far piacere, fino a giocare d'anticipo. Quando si arriverà nuovamente (come i "primitivi") a sentire il corpo dell'altro, la metamorfosi ritornerà nella condizione umana.
Intanto, l'individuo può già scoprire che il suo vero corpo è più grande del corpo "individuale". Ne fa parte anche l'altro, a partire da una coscienza amorosa capace di sviluppare processi d'identificazione. Se fino ad oggi possiamo fare questa scoperta più spesso nella sofferenza e nella malattia che nella gioia, la causa sta altrove che nell'amore. E dove porti tutto questo è quello che intuiamo, che non conosciamo. Una precisa struttura della conoscenza, frutto di rapporti sociali, abitudini ben sedimentate e difese fino a diventare costruzioni di ferro e cemento, impediscono la stessa formazione di questo cammino.
Se l'amore si ostina a esistere in milioni di tentativi, è perché è una lotta irriducibile della vita contro la morte. Solo chi ne è cosciente avrà possibilità di fargli fare nuovi salti, lasciando una porta aperta verso nuove sponde della specie umana, della vita.
Io so ancora che cos'è un uomo, intuisco ancora cosa potrebbe diventare l'essere umano. Lo so in una lotta costante, grazie a te e con te, nonostante l'ostacolo fattosi monumento addosso a noi.
L'amore ha per me un nome preciso, un corpo preciso,
è la chiave-per-me che apre le porte dell'universo. Il poeta invece disprezza
spesso i significati a favore dei simboli. L'immaginazione poetica, procedendo
all'inverso di quella amorosa, compie l'errore di volersi liberare della carne.
Io do carne e sangue allo spirito contro la volontà purificante del carcere.
Io so qual è la triste realtà che si nasconde dietro al sogno
di tanti poeti.
In uno dei suoi ultimi libri, "Frammenti di una poetica del fuoco", il prof. Gaston Bachelard riassume bene i fondamenti dell'illusione comune a gran parte del pensiero intellettuale:
"L'immagine sfugge sia alla storia sia alla psicologia. L'essere dell'immagine è poematico. Poiché l'immagine viene comunicata tramite la Parola, essa diventa un valore della Parola; l'immagine che io non vedo si ricopre di parole, si orna con le parole, si rinnova attraverso la parola. Tutti i legami dell'immagine con la realtà sono ormeggi che vanno tagliati con decisione per poter entrare nel regno della poetica. Allora la grande immagine basta a se stessa, non può essere ridotta alla dimensione di una storia; trasformandola in tragedia, si sminuisce la sua gloria".
Bachelard non sa dove portano le sue parole, non ha mai conosciuto le prigioni, luoghi in cui tutti i legami dell'immagine con la realtà sono stati indubbiamente tagliati, luoghi in cui le virtù delle menti poetiche si rovesciano nella miserabile necessità della vita quotidiana condannata a fantasticare nella solitudine della branda!
Molto prosaicamente, devo dire perciò che lo stato della mia artrosi cervicale è migliorato da quando la mia distanza da te è diminuita, nonostante gli anni in più e la maggiore umidità del luogo. In quanto a te, direi che già anni fa, un bel giorno hai messo in crisi la scienza. Il tuo tasso di prolattina lasciava ormai sospettare la presenza di un tumore all'ipofisi (il "terzo occhio"). Fu perciò ordinata una radiografia al cranio. Ma uscire da una sezione speciale per essere scortata in un ospedale non era un'impresa facile per una "terrorista" che rifiutava di pentirsi o dissociarsi. I mesi passavano invano. Per fortuna, il caso volle che avessimo un processo tutt'e due a Torino. Così abbiamo potuto rivederci e, per giunta, nel carcere c'era pure un centro clinico. Potevano farti la radiografia senza doverti scortare in un ospedale. Mi hai rivisto nell'aula del tribunale e mi hai raccontato. Il medico, registrando il cambiamento avvenuto nella percentuale di prolattina, disse: "è scientificamente impossibile". Gli hai risposto: "ma Lei, della vita cosa ne sa?". Non ha risposto. Il suo silenzio fu segno di rispetto, aveva capito.
Non bisogna dimenticare che il carcere - invenzione
recente - è stato realizzato da uomini per altri uomini. Le "complicazioni"
del corpo femminile non sono state previste, visto che non è prevista
neppure la donna come persona. Cicli mestruali sconvolti, a volte persino aumento
di peluria sulle braccia, eccetera, è come se il carcere tendesse a mascolinizzare
la donna venuta sgraditamente a capitare tra le sue mura. Così come,
d'altronde, il carcere stimola l'uomo a diventare una macchietta del modello
virilista. Ribellarsi in carcere significa, contrariamente a quanto si crede
dovunque, ribellarsi interiormente alle esteriorità di un atteggiamento
da "duri". Rifiutare la consegna che vuol fare di noi dei "veri
uomini" e che in realtà serve solo a distruggere le persone.
La presunta libertà dell'immaginazione dalla Storia e dalla psicologia ha la sovranità limitata di un privilegio concesso proprio dalla storia sociale e creduto altro dalla psicologia. La radicalità della sfida di chi crede di potersi concedere questo tipo d'immaginario è tale solo nell'immaginario, è una povertà consolatoria che va a rinchiudersi nelle parole, nella scissione mentale, nella necessità eretta a virtù. La sfida è tanto più radicale quanto più è inoffensiva! E disamorata!
È notorio che è più facile essere rivoluzionari in letteratura che in politica e nel politico invece che nel sociale.
Liberare la poesia significa infatti per Bachelard, da buon letterato, affermare che:
"saremo tanto più sicuri di essere nel regno della Poetica quanto più risolutamente elimineremo la Psicologia e debelleremo ciò che Nietszche, credo, chiamava la «peste della biografia»".
Nell'artista (ma anche nel mistico cristiano in particolare, e nell'intellettuale di professione in generale), l'arte si separa dalla vita, l'amore dall'altro reale. E, per il resto, egli può essere, a questo punto, lo schizofrenico esaltatore della più pura "razionalità" conformista. Citiamo ancora Bachelard, formidabile riassuntore e apologeta dei paradigmi di solito inconsci dell'intellettuale di professione:
"... ho potuto lavorare tranquillamente solo dopo aver diviso con nettezza la mia attività in due parti quasi indipendenti, l'una all'insegna del concetto, l'altra all'insegna dell'immagine."
Nel rivendicare la bontà del dualismo e dell'incoerenza in modo esplicito (e non più inconscio), Bachelard dà per scontato che il suo lavoro, il suo rapporto con gli altri debbano essere all'insegna di una razionalità di tipo concettuale, mentre il suo abbandonarsi all'immagine, alla reverie, costituiscono il suo "diritto alla solitudine."
"... capii che potevo, che dovevo condurre una doppia vita."
"Nei nostri libri sulla filosofia del razionalismo applicato, abbiamo sempre insistito sul pericolo delle convinzioni immaginative per il ricercatore scientifico" (op. cit.).
La transe dell'incontro, invece che un'estasi interna a stati più profondi di una multipla realtà, è, per Bachelard come per la maggior parte degli esperti di transe, una bestemmia antiscientifica. Se il pensiero si eleva nella solitudine, è chiaro che il rapporto con l'altro (l'amore), essendo rifiuto di questa solitudine, finisce per essere considerato come un ostacolo allo sviluppo del pensiero, della comprensione della realtà, dell'estasi...
Quante volte abbiamo visto uniti misoginia e intellettualismo o virilismo esasperato: "era intelligente, ma l'amore per quella donna l'ha reso scemo". Qui, il fine intellettuale e il rozzo seguace di Rambo si danno la mano.
In realtà, dove c'è lotta alla solitudine, arte e vita tendono a riunirsi. La coscienza amorosa tende a liberare tutti i significati invece che a liberarsene. È il più potente sentiero della conoscenza che esista, è l'unica possibilità di acquisire il senso del reale, uscendo da un ormai troppo vecchio e pericoloso delirio. L'enorme pathos che accompagna le più semplici parole della persona innamorata, indica il ritorno, dentro l'uso della parola, di sensi-significati che la storia comune prova a rimuovere annegandoli nell'abitudine. Si rompe la dittatura esercitata da un solo significato premiato dalla storia, si compie ogni volta una piccola rivoluzione etimologica e grammaticale volta alla riconquista della storia vera d'ogni parola, alla pienezza di senso.
Questa "nuova" parola decondiziona il cervello, colpisce il cuore. Perché non mente. Non può mentire tanto è esplicita in tutte le sue sfumature. Se si dice "ti voglio bene", è perché non si è ancora in grado di dire "ti amo", sarebbe troppo impegnativo. Se si cita la luna, ecco che il satellite si ricopre di mille echi che vanno a rimbalzare su chi ci sta accanto. Parimenti, nella coscienza dell'individuo, abissi di rimozioni tornano a galla, possono ridiventare cieli stellati.
Se la parola innamorata risulta troppo semplice o persino ridicola ascoltata "dall'esterno", è per questa sua ricchezza, per l'enorme impegno che sancisce e richiede.
La parola data al di là delle proprie possibilità reali sottoporrebbe l'individuo a un'iperattività cerebrale, potrebbe dar luogo a qualche sorta di crisi epilettica perché, in questo caso, il corpo non sarebbe ancora in grado di seguire la nuova potenza auspicata dalla mente in quell'attimo. L'immaginazione amorosa è faticosa. È l'esaltante iniziazione all'arte della vita, alla riconquista umana della metamorfosi. L'approccio conoscitivo è, spontaneamente, di tipo rivoluzionario.
È meglio dire, anzi, che la rivoluzione è l'elaborazione di una tensione amorosa. In un'intervista concessa allo scrittore francese Malraux nel 1965, Mao disse:
"La rivoluzione è un dramma passionale; noi non abbiamo conquistato il popolo facendo appello alla ragione, ma sviluppando la speranza, la fiducia e la fratellanza".
Di conseguenza, sotto il profilo individuale, non ci stupiremo per questa autodefinizione di Che Guevara:
"Molti mi definiranno un avventuriero - e io lo sono, tranne che di tipo diverso - uno di quelli che rischiano la pelle per verificare le proprie convinzioni".
Il pensiero del rivoluzionario Che Guevara non è un "ideale", ma qualcosa di più: dà luogo a un comportamento che la "ragionevole" cultura comune chiama da sognatore, oppure moralistico, eccessivo, eccetera.
Nella sfera dei rapporti cosiddetti "privati", invece, ci stupiamo già molto di meno se vediamo una donna libera "sacrificarsi" per anni seguendo un uomo in carcere (il contrario è caso raro e perciò stupisce!). È pure abbastanza naturale venire a sapere che un uomo si è "rovinato" per una donna. Ma in entrambi i casi, dell'amore individuale e dell'impegno rivoluzionario, il fatto comune è che l'idea professata è racconto riassuntivo della propria vita, commento degli atti compiuti da un corpo su di sé. Nel nostro linguaggio, siamo stati invece abituati a definire eccessivo, ad attribuire un "ismo" proprio a tutto ciò che non scinde la nostra mente. Chiamiamo "ragione" uno stato di noncoscienza dei nostri sentimenti! Manchiamo totalmente di educazione sentimentale. Per dotarsene, è necessario acquistare una nuova coscienza critica.
Ho dovuto accorgermene alcuni anni fa anche là dove meno me l'aspettavo.
Mi fece molto riflettere una mia amica compiendo una scelta amorevole che fu, per così dire, del corpo e non dell'ideale; dell'amore in quel caso fuori dalla ragione.
Andò così: per l'abolizione di quelle
sezioni d'isolamento che furono dette "braccetti della morte", avevo
deciso di aderire a uno sciopero della fame totale a tempo indefinito. Tutto
sommato, ero certo che non sarebbe durato più di un mese e che perciò
me la sarei cavata senza gravi conseguenze. Ma, soprattutto, c'era un aspetto
- opportunista o perfido che dir si voglia - che mi rassicurava: sapevo che
tu eri in disaccordo e non avresti partecipato. In modo semi-cosciente ne
ero contento. In quel periodo ero infatti molto preoccupato per la tua salute,
dato che da tempo soffrivi per una fastidiosa febbricciola reumatica. Quando
ho cominciato a digiunare, mi è arrivato il tuo previsto telegramma:
"Non sono d'accordo con te, ma la mia vita è con te". Oggi
un simile testo mi spaventerebbe, ma allora, molto superficialmente, la "perfida"
contentezza per la prima parte del messaggio mi fece sottovalutare il significato
che la seconda avrebbe avuto sulla tua salute, sul tuo stato d'animo. Circa
due settimane dopo, però, non vedendo alternative allo sciopero della
fame, ti sei messa a digiunare pure tu. Oggi so che avrei dovuto smettere
di preoccuparmi proprio da quel giorno. Naturalmente, feci il contrario. Proprio
quando hai trovato un equilibrio interiore, ho cominciato a spaventarmi per
le tue condizioni di salute. Quando poi ho saputo che eri stata trasferita
dal carcere all'ospedale, ho vissuto il tuo sciopero, non più il mio,
in modo angosciato. Poi tutto finì bene.
A farmi capire tutte queste cose in modo diverso fu il caso, appunto, della nostra amica. Lei aveva continuato a non condividere il nostro sciopero e, coerentemente, non aveva aderito. Solo che con il corpo ha deciso di stare con te. Ha cominciato a dimagrire di un chilo al giorno, esattamente come se stesse digiunando.
Alla luce di questo esempio, ecco la mia conclusione: la scelta ideale diventa reale, amorevole, quando coincide coscientemente con il posto in cui l'individuo va a stare e agire con tutto il corpo.
Ritornando all'affermazione di Che Guevara, si può dire che la propria pelle è carta, pietra, tela. E il pensiero suscitato dall'altro in noi, e accettato, diventa penna, scalpello, pennello. Diversamente dalla materia inanimata, la "pelle" muore se non accetta "strumenti" che la lavorino.
Quando Bachelard affermava che, abbandonandosi alla reverie, realizzava il suo "diritto alla solitudine", ci dava un'involontaria confessione sulla tristezza dei rapporti sociali esistenti. Trasformava una necessità in virtù, gli sfuggiva il possibile orizzonte di un diritto all'estasi dell'incontro. Egli non sapeva che il diritto da lui rivendicato esiste, è il dovere imposto da sbarre e cemento. Il sogno di libertà individualista della conoscenza intellettuale si rivela una beffa orribile che sfugge alla coscienza dei suoi ignari sostenitori.
La paura d'amare gioca brutti scherzi. Ma essi si smascherano solo in fondo alla strada di questa società: nelle istituzioni totali. A metà strada, questa paura (insieme alla misoginia che ne fu la fonte storica) si rinnova e trova forza perché diventa fonte di discutibili privilegi, di presunte prove d'intelligenza. A un prezzo che è l'infelicità generale. In una situazione che è di complicità generale.
Se entri qui, sei stato anzitutto separato dal tuo prossimo.
D'ora in poi, il tuo rapporto con il prossimo avrà un carattere sempre più precario e casuale, essendo determinato da una lontana autorità burocratica che magari neppure ti conosce e che, quando vuole conoscere le tue relazioni umane, vuole magari distruggerle. Quando la compagnia è coatta e casuale, sei soprattutto in compagnia di te stesso. Pian piano l'Altro perderà ogni realtà e assumerà la forma dei tuoi sogni: le fantasie del tuo Io.
Ecco allora che l'Io, fantasticando, si va dilatando
a dismisura per far sopravvivere l'individuo nella sua solitudine reale. Si
inventa un Altro ideale che, come Dio, ha costruito a sua immagine e somiglianza.
Gli altri in carne e ossa risulteranno sempre meno all'altezza di un simile
ideale. Di volta in volta, essi diventeranno o lo strumento da asservire o
l'ostacolo da combattere. Il detenuto modello è un individuo che, accettando
la separazione, si esalta nel suo Io per sostituire la mancanza di scelta
nell'incontro.
Il rapporto ché si stabilisce tra l'Io e l'Altro ideale è la simulazione del rapporto amoroso, il suo alienato e alienante sostituto.
Questo meccanismo "ripiegato" della conoscenza umana, nella storia d'Occidente esaltato come massima virtù dell'intelletto, solo in galera rivela tutta la sua triste perversità. Il movimento di spiritualizzazione inteso in contrapposizione invece che in sintonia con la corporeità, grazie al quale una figura ideale sostituisce e disprezza l'altro in carne e ossa, è stato la molla del dominio nella lenta storia della nostra cultura. Nella rapida storia dell'individuo recluso vuole essere fabbrica di risentimento dai risultati criminogeni.
Una delle più grandi opere poetiche dateci
dalla mistica cattolica è il "Cantico spirituale" di San
Giovanni della Croce. Imprigionato in condizione di completo isolamento, praticamente
al buio, S. Giovanni imprime nella sua memoria dei pensieri riassumibili in
questa sua bellissima espressione: "l'uno è l'altro, e ambedue
uno solo". Ma non si riferisce anche alla coppia umana. Il matrimonio
d'amore che egli celebra vede come sposa la sua anima e come sposo Cristo:
il suo Io e l'Altro ideale. E quale donna in carne e ossa potrà mai
essere all'altezza di Cristo?
In San Giovanni della Croce, il processo d'idealizzazione trasforma la realtà dell'altro in oggetto da allontanare per la preservazione dell'Io. Questa particolare forma di elevazione spirituale dà luogo a tendenze eremitiche e la fisicità femminile tende a essere demonizzata. Watch live couples sex cams live sex shows featuring couples who dare to be on cam, vulnerable and eager to have sex on cam, here's a chance at Camevil.com to get off along with them. Randy and horny couples performing free cam shows can be clicked on during their live webcam shows as a part of an unforgettable performance.
Altrove, questo primo altro da sé che è la donna per l'uomo, invece di dar luogo a una politica ascetica dell'allontanamento, è diventato strumento da asservire. Sappiamo che questa è stata la maggioranza dei casi! L'esperienza mistica misogina ha dato all'ipertrofia dell'Io la teoria di cui aveva bisogno per forme di dominio meno nobili.
A riprova del carattere rivelatore dell'istituzione totale, mi viene in mente quello che hai raccontato un giorno:
"Io tengo in gran sospetto le parole e penso che per addentrarsi
nel loro senso vero bisogna sempre sapere da che pulpito viene la predica.
Credo che sia chiaro quello che voglio dire, ma voglio fare un esempio sul
tema: una donna (una comune) mi fa leggere una lettera del suo uomo piena
di pensieri amorosi, le racconta di come lui steso in branda si assenti vada
via con la testa pensando di stare con lei eccetera (tra l'altro in modo delicato
e romantico, niente affatto volgare). Guardando cosa diceva l'uomo uno avrebbe
pensato a una intensa transe amorosa, che l'amore lo librava oltre se stesso,
oltre il carcere. Già, solo che il nostro era il suo protettore...
in transe per coltivare la gallina dalle uova d'oro! E lei? Lei mi fa: lo
vedi com'è la vita, quasi quasi dovrei essere grata al carcere perché
poi fuori mi prende a mazzate, mi sbatte sul marciapiede e per il resto si
dimentica persino che esisto".
Il santo e il protettore: nessuno si scandalizzi per l'accostamento. La tua amica prostituta in carcere non era solo la gallina dalle uova d'oro. Quello era il suo ruolo fuori dalle mura. Tra le sbarre, era lo strumento con cui lui si esaltava per raggiungere una transe estatica in "differita", lo strumento che evocava l'Altro ideale. È più facile onorare un angelo che un essere reale. Nella fantasticheria dominata da questo modello di pensiero, più nobile è il pensiero, minore è l'impegno. Fino alla misantropia totale. Gustave Flaubert diceva: siate borghesi nella vita e originali nell'arte. Era un grande scrittore...
Io posso dire che amare te invece che una figura ideale
di donna (foss'anche la tua idealizzazione!) o un paio sempre più astratto
di cosce femminili in fotografia porno, è qualcosa che fa di me un privilegiato
rispetto a tanti prigionieri. È qualcosa che mi fa sognare e trasognare
molto di più e molto meglio di chi, cedendo ai colpi concreti e al comando
implicito del carcere, abbandona il legame con la persona reale (diventato gravoso)
per fantasticare nella sua branda su quello che ora deve inventarsi il suo Io
che così sarà costretto a diventare sempre più ipertrofico,
egoista, prepotente, risentito, comunque sempre più lontano dagli altri.
A questi processi d'idealizzazione interiore e di culto di sé, conseguenti
alle difficoltà incontrate, agli ; abbandoni subiti, corrisponde l'accettazione
di quelle relazioni casuali e provvisorie date dall'istituzione. Di qua molli,
di là ti rapporti a oggetti. L'unico punto fermo sei te stesso, sempre
più pieno di parole o di pensate solitarie, sempre più soggetto
a transes allucinatorie: quelle dell'Io, purtroppo, e non del suo auspicabile
oltrepassamento. Quello che in società va conquistato come virtù
della maturazione individuale, qui si presenta come imposizione. Un recluso
è un individuo di sesso maschile, "intellettualizzato" di fatto.
Di questa creatura scissa nei fatti, le autorità diranno spesso: "simula".
Ma come fa l'uomo libero che giudica a capire dove passa il confine tra la scissione
e la simulazione? In realtà, nel provare a giudicare la personalità
prigioniera, i liberi cittadini tendono soprattutto a difendere la società
di cui fanno parte, ossia a far di tutto per non riconoscere il corto-circuito
di una cultura che il carcere mette a nudo. Al libero cittadino sembra "elastico"
(una mente aperta) quell'uomo che, accettando lo stato casuale precario e imposto
delle sue relazioni sociali, è diventato un grande cinico dentro di sé
o un'infelice creatura totalmente passiva: un uomo comunque deprivato dei suoi
sentimenti. Viceversa, al libero cittadino pare spesso rigida quella persona
che difende il senso profondo delle sue relazioni, del suo "mondo",
che non rinuncia dunque al suo senso degli altri, ad una reale apertura mentale.
In questo diffuso sistema di giudizi, va vista una società incapace d'ammettere che gli atteggiamenti in carcere rispondono a logiche diverse, a una situazione dove tutto giunge all'estremo; la logica astratta del "libero cittadino", incapacità di riconoscere l'altro, è un'autodifesa.
Per le donne prigioniere, la situazione è peggiore. Ai guai che già toccano agli uomini, si aggiungono quelli derivanti dall'essere "soggetto non previsto".
Il carcere stenta persino a riconoscere il corpo femminile nella sua visione medica. È chiaramente più facile farsi visitare dall'ortopedico che dal ginecologo. Eppure, la cattiva sorte che notoriamente tocca alle ossa e ai tendini in carcere, non è peggiore di quella che tocca alla fisiologia specificamente femminile (tra l'altro, proprio in campo osseo, per esempio, l'osteoporosi colpisce più le donne che gli uomini già fuori di galera).
E che dire della vicinanza di personale maschile? Spesso crea situazioni a dir poco imbarazzanti, un'intima violenza che colpisce la stessa identità. E infatti le persone libere, in genere, non riconosceranno proprio questa identità di donne alle prigioniere.
La prima forma di non riconoscimento avviene soprattutto ignorando, è silenzio. Ma quella peggiore si rivela proprio quando se ne parla e riparla e straparla. Allora si vede esplodere la logica astratta che ragiona per categorie invece che in dialettica con personalità dotate di diversificate realtà interiori. Possiamo vedere opinioni di progressisti, persino di donne femministe, negare identità (pensiero, sentimenti) alle donne in carcere. Lo fanno negando l'«autonomia» di queste donne, ossia affermando tranquillamente che non c'è identità femminile neppure nei motivi che le hanno portate in carcere. Le carcerate sarebbero meno donne delle altre donne perché meno autonome verso l'uomo di quanto non lo sia la più docile fra le casalinghe. Si dice che sono finite qui per seguire o favorire il loro uomo o l'uomo in genere. Come se il gesto d'amore fosse di per sé la negazione di se stessi! E se fosse l'embrione di una superiore coscienza, da esaltare, da liberare dalle forme sfortunate in cui spesso viene imprigionato?
Peggio ancora, se le donne sono implicate direttamente in episodi di violenza (è il caso delle "politiche"), succede che si dica: erano schiave degli stessi valori maschili. Donne che hanno rinunciato a se stesse fino al punto di tentare di fare "cose d'uomini", di diventarne la caricatura.
Affermi: "A tutt'oggi veniamo considerate quelle che hanno fatto cose da uomini e che, nel caso, interessano solo come pentite in un ritorno al femminile. Viceversa le donne, o alcune donne.., della lotta armata (quelle che ci hanno speso se stesse) hanno compiuto e vissuto da donne la stessa esperienza insieme agli uomini: senza di loro un'esperienza come quella delle BR non sarebbe neppure nata".
Tutte queste difficoltà a situare il carcere rispetto all'insieme dei rapporti sociali, tutti questi luoghi comuni sui suoi "ospiti", finiscono per rendere invisibile la sorda e tenace resistenza che tanti uomini e donne hanno condotto e conducono contro la propria disumanizzazione. "Palombari delle risorse umane", ha detto Renato Curcio.
Attraverso quest'altra storia, quella del non detto, si conferma che:
È proprio grazie a tutto quello di cui non si parla mai che il carcere non riesce, malgrado tutto, a trasformarsi in un luogo di carneficina dove ognuno sia in preda a una spirale paranoica. Per il convinto assertore degli schemi del pensiero comune, ci sarebbe da stupirsi che ciò non avvenga.
L'immenso campo delle quotidiane resistenze alla disumanizzazione si può altrimenti definire come lotta sotterranea della dignità umana.
Mi rendo conto: parole come dignità e onore sembrano generiche, si prestano facilmente a un uso ambiguo come tutte quelle che fanno parte della morale individuale. E infatti il luogo comune, essendo puntualmente elaborato da chi non ha mai dovuto affrontare seriamente l'ineffabile terreno chiamato "dignità", finisce spesso per racchiudere il senso dell'onore in una presunta solitaria coerenza della persona con se stessa, in una sorta di orgoglio super-individualista; peggio ancora, nella presunta inamovibilità delle idee, prova di "virilità", eccetera.
Insomma, non ci sarebbe niente di più lontano che la dignità dall'amore, dal senso degli altri. Ora poi il guaio è che spesso siano soprattutto i voltagabbana a definire la dignità. Essi dettano legge quasi dappertutto e fanno ulteriore confusione perché possono dire tutto e il contrario di tutto.
La persona dignitosa, rivela silenziosamente la galera, non è necessariamente un lupo solitario. Essa viene definita come tale in rapporto al prossimo perché risulta, anzitutto, autentica: quando hai a che fare con lei, sai con chi hai a che fare. Ed è sincero solo chi ci tiene ad avere un legame reale con gli altri.
Esiste dunque alla base della dignità un problema di comunicazione sociale che non riduca l'altro a un oggetto interscambiabile, a una merce "usa e getta". In galera, questo porta (ieri di più, oggi di meno, come vedremo) a saper anteporre il rispetto per gli altri alla stessa libertà personale. "Non voglio la mia libertà ad ogni costo", è la tipica frase che si sentirà in dovere di dire ogni recluso che voglia guadagnare fiducia. Intende dire che sa che la solidarietà qui si paga, ma che nasconde pure qualcosa che vale più di ogni libertà materiale: la coscienza dell'intreccio umano di cui ogni vita è il risultato.
Il voltagabbana è colui che, ogni volta, dimentica questo mondo intrecciato. Ogni idea non è più l'espressione di questo intreccio ma la ruota occasionale del proprio carro. Se la figura del voltagabbana si va tanto diffondendo, è perché in essa va ravvisata la massima espressione dell'uomo tecnologico che riduce tutto il vivente che lo circonda a disamorato strumento. C'è in lui una regressione dell'homo sapiens che viene presentata come spregiudicatezza, scoperta della complessità.
Il carcere non può che essere la punta di diamante di quanto avviene fuori quando si parli d'alienazione. Ha riflesso fedelmente anche gli ultimi passaggi storici, con il suo consueto meccanismo: facendo le cose diventar legge, e non solo intenzione da raggiungere; punto di partenza forzato e non solo auspicato punto d'arrivo.