Il MeTe imprigionato
3. L'ultima offesa: il sesso premio
Se si vuole riflettere su queste vicende e reagire, bisogna abbandonare
il campo tradizionale dei "diritti" e dei "bisogni" e
porre un nuovo accento sui princìpi e sui terreni della coscienza.
Storia di un amore carcerato
di Vincenzo Guagliardo
L'affermazione "la legge è uguale per tutti", da sempre astratta, è più incongrua che mai. È ora per legge che, a parità di reato, corrispondono espiazioni diverse. Un orgoglioso ladro di polli può finire per farsi più galera del responsabile di un'azione abietta che si sia "pentito". Il pentimento moderno, laico e di Stato, non porta a voler espiare, ma ad avere sconti di pena proporzionali alle prove di ravvedimento riscontrate da una caterva di nuovi esperti.
Se accetti la legge, accetti che due che hanno compiuto lo stesso reato possano il primo (tu) uscire e l'altro (l'altro) restare in galera. Cosicché fai del male a quello che, discriminato, resta in galera.
Non c'è mai nulla di nuovo in assoluto. Il buon Carlo Marx denunciava già ai suoi tempi che, con l'avvento della borghesia, la dignità era diventata un valore di scambio. Aggiungeva:
"le istituzioni vogliono proteggere la religione, ma offendono il principio più universale, cioè la santità e l'inviolabilità della coscienza individuale. Al posto di Dio rendono giudice dei cuori il censore".
La legge Gozzini era già descritta a grandi linee! Ma ritengo che Marx non immaginasse fin dove può arrivare l'offesa: al controllo di Stato dell'eros.
Nella legge c'è, fra gli altri, questo aspetto: dopo una certa quantità di pena espiata, si può (purché lo voglia il giudice) usufruire di licenze da trascorrere fuori dal carcere, dette "permessi premio", per un totale di giorni che non superi i 45 all'anno.
Il 4 luglio 1990, tu e io abbiamo quindi posto il seguente problema al Ministero di Grazia e Giustizia, con una lettera formalmente rivolta al direttore del carcere:
"I permessi premio previsti dalla legge Gozzini danno ai detenuti parentesi di libertà materiale; ma anche, per questo tramite, delle parentesi di piena libertà affettiva mentre si sta ancora scontando la pena.
Nessuna risposta. Perciò, all'incirca dopo un anno d'attesa, il 25 maggio 1991, mi sono rivolto ai giudici di sorveglianza con questa istanza:
Se non ci stupiamo che la libertà personale sia sottoposta a delle discriminanti (quale che sia il parere, a questo serve il carcere...), è meno ovvio che gli affetti vadano soggetti a criteri premiali. E qui hanno fornito giochi di questo tipo come applicazioni e giochi online friv, che sono giocati su dispositivi e gadget, come laptop, telefoni cellulari e altri. Molti di questi giochi possono essere trovati su vari siti Web e alcuni di essi sono gratuiti.
Si è sempre sostenuto comunemente che gli affetti costituiscano l'aspetto più elevato della persona umana in genere. Essi, dunque, andrebbero incoraggiati e protetti sempre, a prescindere dal giudizio morale dato socialmente sugli atti compiuti o i pensieri professati dal singolo individuo. Le limitazioni imposte da una condizione come il carcere dovrebbero avere un carattere esclusivamente oggettivo.
La legge Gozzini ha creato una nuova situazione carceraria in cui la discriminazione in materia di libertà diventa anche morale, riducendo l'amore a un privilegio tra gli stessi detenuti. Si sta entrando in un campo pericoloso che, attraverso gli affetti, pone fine alla libertà mentale perché viene indirettamente incoraggiata la simulazione, il possibile uso strumentale delle relazioni d'amore e d'amicizia in cambio della libertà personale. Lo Stato deve invece lasciare queste relazioni all'idea disinteressata, alla gratuità del comportamento affinché continuino a poter essere reali per chi voglia esserne all'altezza. Queste relazioni umane devono perciò, nella loro vita, rimanere separate quanto più possibile da quelle ragioni di sicurezza dello Stato che motivano la concessione o meno della libertà materiale in forma di premio. Se proprio si vuole continuare a sottoporre i detenuti alla castità, questa tuttavia deve ora trovare un limite che ristabilisca una condizione di parità tra i detenuti. La privazione affettiva deve per lo meno rimanere condizionata unicamente dalla quantità di pena effettivamente sofferta; i detenuti considerati non meritevoli di permesso (o che non ne facciano richiesta) non devono subire discriminazioni sul piano affettivo rispetto agli altri.
Non stiamo chiedendo neppure quanto prometteva il
direttore generale Amato nel 1988 sulla stampa, �l'amore fra le sbarre� per
tutti i detenuti, inteso come fine di un'�intollerabile proibizione�. Vogliamo,
per intanto, che i diritti all'affetto non diventino motivo d'offesa della
dignità umana e che perciò rimangano legati, anche nel nuovo
contesto attraverso i modi opportuni, al solo criterio della pena sofferta.
Per questo noi due, coniugi ed entrambi ergastolani, in carcere dal 1980, chiediamo, in sostituzione dei giorni di permesso premio, altrettanti giorni di permesso all'affettività in condizione di reclusione non sottoposta a controllo visivo permanente.
Non intendiamo chiedere permessi premio ma la pari dignità del nostro legame d'amore rispetto a chi ne usufruisce. D'altronde, ricordiamo, gli atti che nel passato ci hanno portati in carcere ebbero motivazioni di natura politica; e perciò solo in sede di giudizio storico e politico siamo disposti a discuterne, non in relazione alla nostra libertà personale o ai nostri sentimenti. Se così facessimo, non ci limiteremmo a negare le stesse motivazioni dei nostri atti incriminati, ma - soprattutto -accetteremmo in modo ben poco dignitoso di contrattare le idee per stare meglio.
Distinti saluti, Nadia Ponti, Vincenzo Guagliardo"."[...] Per coerenza rinuncio a essere presente all'udienza del 4 luglio 1991; con la presente lettera, infatti, intendo spiegare le particolari ragioni che mi spingono a rinunciare a chiedere il beneficio della liberazione anticipata e, al tempo stesso, a voler porre alla vostra attenzione, con una diversa richiesta che illustrerò, la necessità di un approfondimento delle questioni che sottostanno alla concessione di questo e altri benefici previsti dalla legge penitenziaria. Per tali questioni auspico, in casi particolari come il mio, la possibilità d'usufruire di soluzioni in parte diverse dalle attuali forme di beneficio previste dalla legge penitenziaria.
Avevo già espresso la volontà di rinunciare a questo procedimento in una dichiarazione resa a modo 13 in gennaio 91, ma essa non ha evidentemente avuto esito.
La risposta è arrivata ovvia e scontata: la mia richiesta è stata definita "abnorme" perché non prevista dalla legge attuale. E il provvedimento di non luogo a provvedere è stato dichiarato "inimpugnabile". Come volevasi dimostrare, il cerchio giuridico si è subito richiuso. Non consente neppure di porre la questione a gradi superiori di giudizio.
Mi rivolgo a questo tribunale, alle specifiche competenze del giudice di sorveglianza perché ritengo che il problema da me posto non richieda affatto nuove leggi, ma rientri nei diritti previsti da quelle esistenti e dalla stessa Costituzione.
La sorte vuole che io sia stato incarcerato insieme a mia moglie Nadia Ponti lo stesso giorno, con le stesse condanne per reati analoghi quando non proprio gli stessi. Con il trascorrere degli anni, di fronte alle notevoli difficoltà insorte già solo per avere colloqui con lei andando a scontare la pena in uno stesso carcere (com'è oggi), ho dovuto rendermi conto che l'espiazione della pena viene di fatto applicata su una persona astratta, quando invece il compito della legge penitenziaria e dei giudici di sorveglianza dovrebbe essere quello di ovviare all'inevitabile astrattezza di quella parte delle leggi che giudica e condanna l'individuo arrestato, tenendo conto più del reato che della persona. Ma quando i reati sono passati in giudicato, legge penitenziaria e giudice di sorveglianza incontrano la persona concreta che sconta la pena. E questa persona è anzitutto un'unità di relazioni umane, non tutte necessariamente criminali perché pure queste, come tutte, sono soggette a modificazioni (evolutive o meno a seconda dei casi). Considero per esempio il mio legame con mia moglie non criminale e indissolubile, ossia un rapporto d'amore. Voglio dire che il rapporto d'ognuno col prossimo non è né deve essere ridotto a quello con oggetti interscambiabili. Eppure, è proprio questa realtà che di fatto e generalmente costruisce il mondo penitenziario. Sarebbe più logico pensare che se, in un individuo, le relazioni umane vengono distrutte dalle separazioni, costui finirà per pensare solo a se stesso, per esaltarsi nel suo io. Finirà, al fine di sopravvivere, per considerare gli altri come delle casualità precarie, occasionali, aventi lo stesso valore di un qualsiasi oggetto "usa e getta". Per questa via, il carcere, deputato come luogo per la prevenzione e la repressione del crimine, crea un suo clamoroso fallimento, diventando anzi fabbrica criminogena che costruisce individui fatalmente cinici e asociali attraverso una lenta opera di disumanizzazione che consiste nel distruggere le relazioni sociali su cui si è fondata la personalità individuale.
Con estrema franchezza dirò quindi che, per non diventare un �criminale� dentro di me, ossia un individuo isolato, risentito e strumentale verso tutto e tutti, io devo criticare il carcere e non già accettarlo, ponendo l'attenzione sui limiti d'applicazione che la legge penitenziaria rivela rispetto ai suoi fini dichiarati. Se, dunque, nella mia particolare situazione affettiva, io accettassi di chiedere qualcuno dei benefici previsti dalla cosiddetta legge Gozzini, differenzierei anzitutto la mia sorte da quella di mia moglie, tradirei di fatto un legame che costituisce il senso profondo della mia vita. In altri termini, mi avvierei coscientemente sul cammino di un cinico individualismo: la legge, infatti, presuppone implicitamente una persona di sesso maschile le cui relazioni affettive, familiari, sono tutte fuori dal carcere. Non ha previsto che nel carcere possano esserci pure delle donne e che perciò possano esistere relazioni affettive di coppia al suo interno. E in effetti, un tempo, poche erano le donne recluse e, per lo più, prostitute e uxoricide, figure tra le più emarginate dalla dimensione coniugale. Ancora oggi il caso di una coppia di coniugi in carcere costituisce indubbiamente un caso minoritario. Ma sostengo che questo caso solleva importanti questioni di principio. Se io, per esempio, non volendo separare la mia sorte da mia moglie, pretendessi oggi di presentarmi a voi (onde ottenere la liberazione anticipata o un permesso premio) non più come individuo ma come parte di un soggetto costituito dall'unità inscindibile tra me e mia moglie, sembrerei un pazzo, ossia una persona diventata incapace di fare i conti con la realtà secondo il senso comune, dato che nessuna delle istanze previste dalla legge prevede un simile soggetto duale. Mia moglie e io siamo assegnati a giudici diversi perché i nostri cognomi iniziano con lettere diverse: persino la casualità determinata dall'ordine alfabetico è più importante del vincolo affettivo. È chiaro tuttavia che non è mia intenzione fare una richiesta considerata pazzesca... La mia attenzione si rivolge altrove: i benefici previsti dalla legge, oltre a prevedere come soggetto la singolarità umana, fanno riferimento all'uscita dalla condizione di reclusione e non già al modo in cui si vive questa condizione nella sua quotidianità. Su questa zona continua ad esserci silenzio nonostante l'esistenza di legami d'affetto tra persone entrambe recluse. Grazie a questa zona d'ombra, l'unica soluzione esistente per dare piena realizzazione all'affetto in un caso come il mio, sembra essere il ricorso a un duplice �escamotage�, ottenibile attraverso una duplice richiesta (mia e di mia moglie) di un permesso premio. In questo modo, infatti:
Attraverso questa confusione, sottoporremmo però anche l'amore alla logica premiale cui è sottoposta la libertà materiale. Disonoreremmo i nostri sentimenti facendo diventare oggetto di premio non già la nostra sola liberazione materiale, ma anche il nostro amore per l'altro. Uccideremmo nel modo peggiore quello che stiamo cercando di difendere sopra ogni cosa.
Orbene, la mia situazione mi porta a preferire un'ora di più d'incontro con mia moglie, a rinunciare senza esitazioni alla prospettiva di anni di libertà che potrei ottenere solo se prescindessi dal mio legame con lei, solo cioè se accettassi di presentarmi come singolarità umana nelle varie istanze previste dalla legge penitenziaria.
Se è ovvio che io non possa chiedere ciò che non è previsto dalla legge (rispetto alla liberazione), mi pare invece legittimo e possibile chiedere ciò che la legge non vieta (rispetto alla condizione reclusa).
Pur non essendo un giurista, posso notare anzi che tutte le leggi esistenti al riguardo, nonché l'Ordinamento Penitenziario e la Costituzione, affermano di doversi favorire il rapporto familiare senza escluderne l'uomo e la donna reclusi. Non c'è del resto alcuna legge che vieti l'amore tra le sbarre. Questo diritto, molto semplicemente, non viene concesso. Un esplicito divieto significherebbe dover negare che il rapporto uomo-donna costituisce, piaccia o meno, la struttura fondamentale dello stesso genere umano. Non sta dunque alla legge penitenziaria (per quanto concerne le procedure di liberazione) e, intanto, al compito dei giudici di sorveglianza (per quanto concerne le condizioni di reclusione) risolvere questa contraddittorietà?
Ripeto che non sono un giurista, ma mi pare che mentre per il primo ordine di problemi, attinente alla liberazione, si pongono questioni che spero i giudici pongano alla Corte Costituzionale, per il secondo ordine di problemi, invece, attinente alle condizioni di reclusione, mi pare che ci si possa già oggi rivolgere a voi, come sto facendo, nell'ambito delle possibilità garantite dalle leggi attuali per quanto inattuate.
Per affrontare questa contraddizione senza venir
meno al nostro sentire o ai nostri principi, mia moglie e io rinunciamo dunque
a chiedere ogni beneficio previsto dalla cosiddetta legge Gozzini, dato che
essa ci impone di presentarci come singoli individui. Al tempo stesso, però,
i1 4 luglio 1990 abbiamo chiesto al Ministero di Grazia e Giustizia, tramite
la direzione del carcere, 45 giorni di permesso all'anno per incontrarci in
carcere in condizioni non premiali e senza controlli visivi, in alternativa
ai permessi premio concessi in condizioni di libertà. Se la nostra
coscienza, nelle condizioni legislative attuali e nel nostro caso particolare,
ci impedisce di affrontare separatamente le nostre sorti rispetto alla libertà
materiale, nessuna legge prevede però che il nostro legame non debba
essere favorito in carcere, tanto più che compito della legge penitenziaria
è quello di prevedere le condizioni di vita in carcere e non solo quelle
per la graduale uscita da esso.
Se, inoltre, chiediamo oggi questi 45 giorni d'incontro fra coniugi in carcere è perché, essendo ergastolani che hanno scontato più di dieci anni di pena effettivamente sofferta, abbiamo maturato il diritto di chiedere ciò che di solito è concesso attraverso il permesso premio: uno degli scopi dichiarati per i permessi premio è quello di favorire affetti e ricostruzione dei rapporti familiari del recluso.
Fino ad oggi, il Ministero di Grazia e Giustizia non ha risposto alla nostra richiesta. Posso pensare che il silenzio sia la continuazione di una pratica secolare che in carcere nega senza vietarla la struttura fondamentale del genere umano, anche quando i due coniugi si trovano entrambi reclusi. Ma, con minor pessimismo, si può anche dedurre - visto che la richiesta non è stata dichiarata illegittima - che la direzione generale delle carceri considera che altri debbano pronunciarsi in merito.
Rinnovo perciò a voi la mia richiesta, nella vostra qualità di giudici, dopo aver preso atto del silenzio delle autorità amministrative penitenziarie. Distinti saluti".
Gli aspetti sui quali vale invece la pena di riflettere mi sembrano molti.
È significativo che non ci sia mai stato nessuno scandalo contro un simile livello di prostituzione dei sentimenti. Al contrario, lo schieramento "progressista" difende questa legge insieme alla stragrande maggioranza dei reclusi contro uno schieramento forcaiolo che la giudica troppo permissiva (non dimentichiamoci, in fin dei conti, che questo paese ha prodotto il fascismo, le stragi senza autori, eccetera). Senza scandalo, il giudice, l'operatore penitenziario (in una parola lo Stato) invadono la sfera "etica". Lo Stato moderno, a partire dal carcere, non si limita a intervenire nella sfera della "politica", riguardante i rapporti fra gruppi di individui, ma pretende per legge d'intervenire sulla realtà del singolo individuo in rapporto a se stesso, campo che veniva formalmente lasciato a Dio dopo il ridimensionamento della Chiesa inquisitoriale.
E questa realtà individuale viene toccata fino a condizionare il sentimento d'amore.
Come si è reso possibile un tale salto?
In Italia, un'immensa responsabilità politica immediata è da imputare all'irresponsabilità dello schieramento di sinistra. Esso ci ha ossessionati con l'apparentemente benevolo concetto di "recupero".
Recuperare vuol dire ricondurre a sé. Quindi non ascoltare l'altro, non cercare di capire le sue ragioni. Il concetto di recupero dell'altro è perciò utilissimo per non mettere in discussione se stessi. È l'opposto dell'ascolto e del dialogo, in cui l'uno e l'altro possono ridefinirsi.
Questa filosofia porta a dichiarare addirittura l'inesistenza dell'altro. L'ex onorevole Gozzini, del quale la legge penitenziaria porta il nome, scrisse per esempio un giorno del 1988 su "L'Unità" (allora ancora organo ufficiale del PCI) che in Italia non esistevano detenuti politici. Essendo l'Italia un paese democratico, argomentò, era ovvio che non potessero esserci dei detenuti politici. Di conseguenza, i presunti tali erano solo dei criminali comuni.
Altri su quel giornale (nel frattempo non più "comunista") aggiunsero a questo punto che noi non avevamo neppure quelle giustificazioni che vanno concesse al criminale comune, costretto dal bisogno, dalla disperazione. Eravamo dunque dei criminali assoluti, evidentemente motivati da sete di sangue e potere?
Di schieramento opposto, il presidente della Repubblica Cossiga, nell'estate del 1991, ha fatto in pratica il ragionamento più logico, quello opposto: dato che in Italia esistono dei detenuti politici, bisogna riconoscere che la democrazia italiana era imperfetta e va considerata perfettibile. Si è preso più o meno del pazzo. Soprattutto, è stato accusato di avere malevoli e oscuri secondi fini.
È così emerso in modo plateale quello che alcuni di noi sanno: il semplice fatto di riconoscere l'esistenza altrui viene ormai visto come una "legittimazione" delle sue ragioni, quasi un'identificazione!
L'individuo "recuperabile" è perciò soltanto colui che accetta la propria inferiorità. Se egli provasse a spiegare le proprie ragioni, si scatenerebbero i fulmini. È accettata (e premiata) solo la "sofferta autocritica". In questa concezione:
Simili meccanismi sembrano a volte segnare il trionfo totale dell'ottusità oltre che dell'indifferenza umana. Spesso ci si stupisce di come possano svilupparsi a tal punto, per esempio quando vediamo certe assurde menzogne propinate all'unisono dai mass media. Ma la forza di tali processi, la loro diffusione prorompente nella società ufficiale, stanno nell'essere il necessario corrispettivo di un nuovo rito gratificante postosi a fondamento, quasi, della società moderna: la "caccia ai vinti".
Il cacciatore di vinti è l'estremo opposto dell'antico (e, direi, umanissimo!) cacciatore di teste. Questi si pigliava il capo dell'avversario ucciso in guerra per onorarne lo spirito. In tal modo riconosceva di avergli fatto del male, di non esser poi stato tanto migliore di lui. Non era diverso dall'altro. Il rito religioso serviva dunque a moderare il ricorso al conflitto nel futuro, invitando il vincitore a riflettere su se stesso a partire dalla scoperta dell'Altro nell'avversario. Una volta sconfitto, quest'ultimo non veniva demonizzato, ma capito fino all'onoranza religiosa. Oggi invece l'uomo che subisce una sconfitta viene trasformato in "vinto": l'uomo senza più ragioni. In questa veste egli non si limita ad essere il capro espiatorio per i mali trascorsi della società (con la sua espiazione); ma soprattutto vedrà demonizzata la sua figura per spiegare tutti i guai che succederanno: "se oggi siamo a questo punto, se saremo costretti a far questo e quello, sarà stato per colpa tua". In questo modo, la società ufficiale ogni volta si assolve ed è pronta a compiere nuove nefandezze in una spirale senza più riti che fungano da freno, sempre più distruttiva.
Tornando a noi, l'istituzione penitenziaria si pone nei confronti dell'individuo come l'uomo si pose storicamente verso la donna nell'istituto matrimoniale. Ignorando la soggettività venuta a capitare nelle sue mani, è come se ne presupponesse la mancanza: si darà da fare per distruggerla. La legge penitenziaria è individualizzante, cioè spersonalizzante. Individualizzante perché il trattamento non vede più una legge formalmente uguale per tutti, bensì diversa per ognuno; spersonalizzante perché questo è lo scopo ovvio di una esasperata differenziazione del trattamento, resa per fortuna in parte inefficace, oltre che dalla resistenza delle coscienze, dalle carenze delle strutture che non consentono di moltiplicare all'infinito i carceri nel carcere fino a uno stato ideale di un carcere per ognuno modificantesi giorno per giorno!
Questo strano utopismo ai limiti della follia è una caratteristica del cosiddetto "emergenzialismo". Gozzini ha affermato più volte che la legge penitenziaria è nata da una riflessione sull'esperienza avuta con i "dissociati": quei militanti della lotta armata degli anni '70 e '80 i quali, con un'apposita legge, ricevettero forti sconti di pena come premio per l'abiura. Mentre l'antico inquisitore era, se vogliamo, un fanatico delle regole, nello spirito emergenziale c'è una filosofia funzionalista. Essa non è affatto un eccesso repressivo dovuto alla rigidità mentale reazionaria che sorga in una situazione ritenuta eccezionale; ma, al contrario, un sistema che non conosce più regole ma solo pratiche funzionali.
Emergenza è ogni nuova circostanza che, in quanto
tale, giustifica l'esistenza di una nuova regola! Cosicché, l'�emergenza�
è, ormai da molti anni, la nuova normalità. Non conosce rigidezze
ma una sregolatezza assoluta. È moderna spregiudicatezza.
Perché stupirsi allora se lo Stato etico realizzatosi a partire dal carcere giunge al tentativo di regolamentare l'eros con criteri premiali? Ecco anzi il punto più alto della nuova normalità. Se l'individuo è trattato più da robot che da persona, è naturale che l'amore diventi una faccenda tecnica, di sesso da regolamentare, è naturale che lo Stato neppure si accorga di essere diventato una maitresse, è naturale persino che la società neppure s'accorga di questo se non per considerarlo, magari, come una "liberalizzazione" (benvenuta secondo alcuni "progressisti", eccessiva per i "reazionari", entrambi parodie del passato).
Il rapporto uomo-donna, diventando nel suo incontro sessuale oggetto di una politica delle coscienze da parte dello Stato, avrà cessato di poter essere considerato un momento interno alla comunicazione amorosa. Ora il rapporto sessuale dovrebbe servire a fondare anch'esso uno Stato etico che nella sua prassi conservativa vuole... purificare l'amore. Sì, ridurre cioè il rapporto uomo-donna alla Purezza del Sesso quale momento fondante dell'omologazione, al più alto livello possibile dell'offesa alla libertà di pensiero, dato che avviene sul primo e più alto grado di violenza possibile all'interno dei rapporti sociali.
Malgrado tutti i massacri già subiti, l'amore è rimasto finora uno degli ultimi retroterra possibili di un diverso rapporto con l'altro da sé. Il "conosciuto" (il sé) si offre allo "sconosciuto" (l'altro) invece di aggredirlo o ridurlo a prosecuzione di sé. Mentre il "noi" è solo una moltiplicazione degli Io, può esserci qui la tensione ad un "me-te" che allude all'oltrepassamento dell'Io. È questo diverso rapporto sociale il grande nemico.
Il permesso premio dimostra definitivamente, senza possibilità d'equivoco, che il nemico da combattere non è, per la prigione, la libertà di movimento del criminale, ma l'autonomia della relazione sociale dalle regole prefissate. Il divieto d'amare continua a qualificare il carcere in quanto tale, mentre è il recluso che può uscire temporaneamente dal divieto pur continuando a scontare la pena. Egli riacquista dunque libertà di locomozione mentre ancora sconta la pena, accettando di ridurre l'amore a sesso premiato.
La vera funzione distruttiva della reclusione moderna risiede, dunque, nel potenziare quest' altro carcere invisibile, questo "carcere nel carcere" volto a distorcere o eliminare il mondo relazionale su cui si fonda la personalità d'ogni individuo.
Volere meno carcere dovrebbe perciò portare a descrivere anzitutto questa dimensione "invisibile" per ridurre quanto più possibile il carcere alla sola funzione di paralizzare la locomozione. Se si vuole arrivare un giorno a un mondo senza galere, bisogna essere abolizionisti, anzitutto, del "carcere nel carcere".
Disgraziatamente, tutti i "riformatori" e la stessa maggioranza dei prigionieri partono dalla coda cercando di diminuire il carcere visibile, quello misurabile in quantità di ferro o di anni di pena. Cosicché notiamo che il carcere invisibile va invece aumentando sempre di più, via via che sembra diminuire quello fatto di muri (ma non è vero neanche questo).
Con l'adozione di misure diverse dalla detenzione totale, con le parentesi premiali, da un lato la pena non finisce mai, dall'altro la struttura invisibile si diffonde lealizzando coscienze, distruggendo sensibilità, espandendosi nella società, spostando l'invadenza dello Stato dalla politica all'etica. Possiamo vedere il caso di alcune (poche!) persone che escono dopo un tempo relativamente breve dalle mura, rimanendo tuttavia drammaticamente invischiate in un labirinto di ricatti legali per anni e anni, ai limiti dell'impazzimento. E il privilegio concesso a costoro serve come valvola di sfogo per mantenere un sistema draconiano di pene che rimangono in Italia tra le più alte del mondo e che troppi devono percorrere fino in fondo.
I princìpi precedono il diritto.
La libertà di coscienza va posta, per esempio,
al di sopra delle stesse regole della democrazia di cui tanto si parla oggi;
è il vincolo supremo cui dovrebbe obbedire persino la maggioranza,
al di là del proprio parere. In questo senso, l'eccesso di elogi alla
democrazia sta elevando e confondendo la regola politica col principio, attuando
una dittatura della maggioranza, un regime dei diritti senza princìpi.
La vera libertà non si ha tanto nel fare ciò che si vuole, quanto
riuscendo a rispettare l'esistenza dell'altro. In mancanza di princìpi,
ogni lotta sui diritti è inquinata a monte, così come i bisogni,
sempre più indotti, sviliscono la coscienza di chi li porta avanti.
Gli operai anarchici che preferivano rimanere disoccupati piuttosto che produrre
armi, anteponevano un principio ad ogni diritto.
La difesa d'un principio può perciò
comportare l'autorinuncia a dei diritti, il sacrificio volontario di bisogni.
In questo non c'è nessun astratto idealismo, la pratica fondamentale
è quella della non-collaborazione, dell'obiezione di coscienza. Si
smette di rendersi complici di un modo di vivere. Si è qualcos'altro
qui e ora invece che domani, in un tempo ideale.
Noi, finora, in Occidente, abbiamo conosciuto soprattutto
proteste volte a ottenere nuovi diritti per la realizzazione di bisogni sempre
più indotti, artificiosi e numerosi, tanto da qualificare un modo di
vivere che è da mettere in discussione dalle sue radici. L'idea di
protestare per quello che ancora non c'è ha finito, nelle metropoli
"avanzate", per porsi in alternativa alla difesa di quell'�altro�
che si è oggi e qui, per il suo sviluppo. La rivendicazione (dei diritti)
si pone spesso in alternativa all'affermazione (dei principi).
In nome del Progresso Umano, per esempio, vari esponenti
politici presentano in parlamento progetti di legge per garantire il diritto
all'amore fra le sbarre. Una legge che consenta ciò che nessuna legge
ha mai vietato: è quello che mi spaventa. L'amore non è da sottoporre
a nuove leggi, ma da sottrarre ad esse quanto più possibile. Non vi
sono diritti da conquistare, ma semmai ipocrisie da abrogare.
Nel caso specifico, c'è da dire che, al massimo,
si tratta di far luce contro un'interpretazione restrittiva di un piccolo
comma di uno dei tanti articoli di un semplice "Regolamento d'attuazione"
della legge. Esso stabilisce il controllo visivo sui colloqui. Deve attuarsi
sempre quel controllo? Noi sappiamo bene che quando stiamo in cella, le guardie
non ci stanno mica sempre addosso dallo spioncino. La relazione omosessuale,
per esempio, è sempre teoricamente possibile.
Tu e io, poi, non chiediamo neppure dei colloqui
riservati. Non chiediamo dei miglioramenti rispetto alla situazione attuale,
ma meno di quant'è previsto dalla situazione attuale.
Voler trasformare ogni aspetto delle relazioni umane
in "campo del diritto", oggetto di legge, rientra - quale che sia
l'intenzione - nella logica che omologa e toglie personalità agli esseri
umani. È la violenza di un sapere astratto inteso in contrapposizione
al concreto. È l'atto che favorisce una regressione dell'homo sapiens
verso l'ominide tecnologico.
Al contrario, ogni sviluppo della coscienza è
una diminuzione della necessità del ricorso alle leggi, ogni progresso
della libertà è un pezzo di Stato in meno.
Certo, questi progetti legislativi aumentano il potere
dei politicanti del Tutto, degli assistenti Vari, degli esperti del Cazzo.
Aumenta pure la prostituzione delle vittime: perché va sottolineato
che da sempre la più forte e prima arma d'ogni dominio è data
dalla collaborazione dei dominati, conscia o inconscia. Lo diceva sempre Gandhi,
ancor più di Marx.
Abbiamo già avuto esempi di queste "nuove
lotte".
Tempo fa, alcuni dissociati scoparono per
avere figli. Mi capitò di leggere articoli su questi piccoli prima
ancora che nascessero. Essere delle mamme e dei papà vuol dire essere
una brava famiglia che ha bisogno di tempo per stare accanto al "nuovo
interesse", cioè lontano dalla galera.
Altri detenuti hanno chiesto, ottenendo pubblicità
sui giornali, di poter inseminare una donna. In questo modo la donna,
prima ancora che una persona è un contenitore per la prosecuzione del
cognome maschile. Tanto che, non a caso, è stato chiesto, a pari merito
o in subordine, di poter mettere il seme in provetta se l'uso diretto della
donna non fosse stato concesso. La sequenza concettuale di questi ragionamenti
è piuttosto semplice quanto altamente tecnologica: donna = contenitore
= strumento = provetta.
Ma l'altro non è strumento, è il senso
della nostra vita. È per questa via - la "scoperta" del nostro
simile - che l'individuo si munisce nell'infanzia della coscienza di sé
specificamente umana. Questa coscienza della propria esistenza ci distingue
dagli animali. Il senso dell'Io nasce dalla scoperta dell'Altro. Non viene
prima, ma dopo.
È una conseguenza! Vedo te, scopro me. La
base della coscienza umana della propria esistenza è altruistica. Nella
specie e nel bambino. L'amore può essere lo sviluppo di tutto questo
verso nuovi confini.
Il legislatore, volendo regolare i nostri sentimenti,
viola il principio del libero arbitrio. E, dal momento in cui, nei suoi progetti,
regolamentando dovrà differenziare, colpirà pure il principio
d'uguaglianza. La legge Gozzini, fingendo di non vedere il comma di un articolo
di un regolamento di una legge, vanifica tutte le affermazioni di principio
formalmente onorate in tutte le leggi.
Tu e io ci siamo trasformati, da contestatori politici,
in obiettori di coscienza della legge. A molti la cosa pare paradossale: "siete
voi che rinunciate alla libertà". La diffusa mancanza di principi,
oscurando la differenza esistente fra amore e sesso, ci rende spesso incomprensibili.
Forse c'è un esempio che può chiarire meglio le cose: la strana
castità di Gandhi.
Nella tradizione occidentale, come abbiamo visto,l'ascetismo
maschile è colorato di misoginia: per elevarsi verso quel bene che
è il Cielo-Intelletto, bisogna allontanarsi da quel male che è
la Terra-Donna. Nel contesto indiano della sua epoca, Gandhi piuttosto si
soffermò sul fatto che il rapporto sessuale riduceva la donna a una
preda, era un atto di puro impossessamento. Si vergognò di quello che
aveva fatto sopportare alla moglie. Scegliere la castità volle dire,
nel suo animo, liberare la moglie, iniziare a rispettare le donne. Con questo
comportamento intese scoprire un corpo violentato, e non allontanarsi da una
realtà da disprezzare come avveniva e avviene in Occidente. Si mosse
dunque secondo il principio di un movimento amoroso, perché è
indubbio che il rispetto è la premessa necessaria - anche se non sufficiente
- d'ogni amore.
In Italia, alla fine del ventesimo secolo e in carcere,
diversamente da Gandhi e insieme, tu e io vogliamo ridare rispetto alla sessualità
per onorare il nostro amore. A costo di sacrificare una sedicente libertà
che per noi sarebbe fatale, che non sarebbe più quella del nostro legame,
dei nostri pensieri, ma solo di due cadaveri col nostro nome.
Mentre il diritto è un campo infinito che
propone rivendicazioni e dispone alle mediazioni, la non collaborazione sul
terreno della coscienza, dietro le sue rinunce, ha fissato un obiettivo minimo
e, perciò, irrinunciabile.