Il MeTe imprigionato
Storia di un amore carcerato

di Vincenzo Guagliardo

4. Princípi e amore

I princìpi sono quei particolari concetti che si riferiscono alla realtà interiore degli esseri umani affinché venga protetta come una "zona franca". In un modo che sta fra l'intuizione e la conoscenza empirica, sappiamo che questa protezione è la condizione per ogni possibile sviluppo della condizione umana.
     Attraverso questi particolari concetti, dunque, riusciamo a considerare l'esperienza interiore come una realtà, riconoscibile tanto quanto l'esistenza di una montagna o di un qualsiasi altro oggetto detto materiale. Per un sentimento si muore o si vive esattamente come si può morire o salvarsi per la caduta d'un masso di pietra. Il grado di realtà è lo stesso.
     I principi raccolgono perciò, sul piano della conoscenza, elementi di generalizzazione superiore. Sono dei super-concetti che intendono abbracciare gli elementi universali della condizione umana. Rispetto ai diritti e ai bisogni, essi operano come i normali concetti rispetto agli oggetti: come elementi di generalizzazione. Così come sappiamo che gli oggetti quercia, pino o tavolo contengono tutti il concetto legno, dovremmo sapere che il principio precede ogni bisogno o diritto.
     Il conflitto oggi spesso ravvisabile tra princìpi e bisogni è mistificato da una teoria che al principio sostituisce il diritto. Questo conflitto è il riflesso di una crisi più generale del nostro modello di pensiero, fondatosi nei secoli sulla falsa opposizione tra concetto e concretezze.
     Concettualizzazioni inferiori, quali i diritti e i bisogni, se assolutizzate, finiscono per contrapporsi alle esigenze reali degli uomini, non essendo più informate da quegli elementi di generalizzazione superiore che sono i princìpi.
     Il mito della legge è il più forte esempio dell'astratto che si contrappone al concreto.
     Esiste tuttavia un'altra possibilità di sviluppo della conoscenza umana, una via che, a partire dai princìpi, sappia esaltare il concreto.
     Oliver Sacks, in "Vedere voci - un viaggio nel mondo dei sordi" (1989), si rifa a Vigotsky, lo psico-linguista sovietico la cui principale opera, "Pensiero e linguaggio", fu pubblicata postuma in URSS nel 1934 e tolta dalla circolazione due anni dopo perché bollata come antisovietica. Vedendo il passaggio all'astrazione come capacità d'imporre strutture che abbracciano il concreto, ecco che per Sacks, "nell'astrarre, nel generalizzare, nel teorizzare intesi in questo senso, il concreto non va mai perso - tutt'al contrario. Dato che lo si vede da una struttura sempre più ampia, vi si scorgono nessi sempre più ricchi e inaspettati; esso mostra una coerenza, un senso, che mai aveva avuto prima.
     Quando si guadagna in generalità, si guadagna in concretezza; è questa la concezione del Lurja maturo, per il quale la scienza è «l'ascesa al concreto»". (Lurja fu allievo di Vigotsky).
    I princìpi, come sono stati qui intesi, non rispondono forse a questo movimento? Ciò che essi attuano, l'individuazione e il rispetto di una realtà interiore umana, risponde - mi pare - allo scopo fondamentale di Vigotsky nella sua ricerca interrotta da una morte prematura: l'acquisizione della coscienza dell'unità del pensiero, cioè della sua vera natura.
"Consideriamo - diceva Vigotsky in «Pensiero e linguaggio» - il rapporto tra intelletto e affettività. La loro separazione come materia di studio è la maggior debolezza della psicologia tradizionale poiché essa fa apparire il processo del pensiero come un flusso autonomo di «pensieri pensanti se stessi», separati dalla pienezza della vita, dagli interessi e dai bisogni personali, dalle inclinazioni e dagli impulsi di colui che pensa. Tale pensiero separato deve essere considerato o come epifenomeno insignificante, incapace di cambiare alcuna cosa nella vita o nella condotta di una persona, o come una specie di forza primordiale che esercita un'influenza sulla vita personale in modo inspiegabile e misterioso. Non esiste soluzione al problema della causa e dell'origine dei nostri pensieri, poiché l'analisi deterministica richiederebbe una chiarificazione delle forze motrici che dirigono il pensiero in questo o quel canale. Nello stesso modo, la vecchia maniera di accostarsi al problema preclude ogni studio fecondo del processo opposto, l'influenza del pensiero sulla vita affettiva e sulla volizione.
     L'analisi per unità indica il modo di risolvere questi problemi di importanza vitale. Dimostra l'esistenza di un sistema dinamico del significato nel quale si uniscono l'affettivo e l'intellettuale. Dimostra che ogni idea comporta un mutamento nell'atteggiamento affettivo verso la parte di realtà cui si riferisce. Ci permette inoltre di tracciare il percorso che va dai bisogni e dagli impulsi di una persona fino alla direzione specifica presa dai suoi pensieri, ed il percorso inverso, dai suoi pensieri al suo comportamento e alla sua attività".
L'astratto contrapposto al concreto non può che combattere i princìpi, aggirandoli e svuotandoli, poiché la sua funzione è quella - come si diceva - di mascherare una volizione aggressiva, distruttiva degli affetti, attraverso l'esaltazione di un presunto puro intelletto (pensiero separato). Da secoli e secoli abbiamo sempre sognato una lingua che non possa mentire. Una trasparenza dell' anima. Ma questa fantasia universale è sorta proprio perché la comunicazione si è andata sempre di più basando su un potere della parola che separava l'intelletto dal corpo, diventando una rappresentazione che ha raggiunto un livello di vera e propria schizofrenia sociale rispetto alla realtà del sentire.
     Noi conosciamo sempre meno i sentimenti che animano l'individuo verso quello che afferma nella sua opera intellettuale. Il caso della scarsa credibilità dei politici di professione, per esempio, è ormai esemplare. Possiamo scoprire la realtà solo "alla fine", magari con amara sorpresa. Nello sviluppo della storia del pensiero, lo scopo ideale è diventato un mezzo, vale a dire una rappresentazione funzionale rispetto allo scopo reale in cui si nasconde il sentimento.
     Scopi reali diversi possono vivere sotto un'unica rappresentazione di scopo ideale, così contribuendo a dividere gli uomini nella realtà dietro un'unità apparente. Sartre notava mezzo secolo fa che la quiete di un vecchio ubriacone può essere più significativa, rispetto alla sincerità dello scopo ideale, del vano agitarsi di un capo popolo.
     L'eccesso della comunicazione verbale-intellettuale finisce per creare un'insufficienza del linguaggio come strumento di comunicazione sociale!
     Per cogliere quanto più possibile la realtà del pensiero, ovvero l'autenticità della persona al di là delle sue stesse intenzioni, non vi sono certo le condizioni ideali. Rispetto ai tempi di Vigotsky, gli uomini sono ancora più schiavi delle strutture linguistiche, delle deviazioni percettive che esse producono. Si è allora portati a cercare di capire il prossimo al di là e al di qua delle parole, scrutando i segni che - come per una legge di compensazione - si liberano in un'involontaria comunicazione extra-verbale. Come se un tempo il linguaggio gestuale avesse avuto ben altra importanza. E, in effetti, è molto probabile che sia stato lo sviluppo del lavoro (e del dominio), portando gli uomini ad avere sempre di più le mani occupate, a favorire lo sviluppo di una comunicazione sempre più verbale, lontana dal "corpo-anima".
     Ogni speranza di mutamento è subordinata al superamento di questa schizofrenia sociale, ormai caratteristica di una struttura della conoscenza.

Se definisco i princìpi come "strutture superiori della conoscenza" in quanto concetti riferiti alla realtà interiore, trovo a questo punto conveniente e corretto condividere una diffusa cognizione popolare quando, di fatto, per sentimenti intende indicare insieme la volizione e gli affetti.
     I princìpi sono perciò il campo della conoscenza in cui concetti e sentimenti non sono più separati nella coscienza che si ha di se stessi. Dove questa separazione sia ravvisabile, si sentirà infatti dire comunemente: "quell'uomo ha pochi princìpi".
     Si può perciò affermare che il principio, essendo il concetto giunto a dotarsi della coscienza del proprio sentimento, è l'embrione di una "esatta" coscienza della realtà del pensiero, della sua inscindibile unità intelletto/volontà/affetti.
     Il dramma della nostra epoca sta tutto nella mancanza di coscienza di questa realtà, della debolezza dei princìpi così intesi. Essi sono stati confinati nella rappresentazione onde essere separati dal sentimento (dalla sua coscienza). In questo modo, la "vuota dichiarazione di principio" è diventata la comune forma di tradimento della più elevata attività pensante. È tipico dei periodi storici eticamente più squallidi sprecarsi in dichiarazioni etiche e morali. La ricchezza del pensiero si traduce invece, nei suoi periodi fortunati, nel non parlare molto di queste cose perché esse vengono agite, assumono un carattere apodittico perché in esse si libera finalmente un alto livello di comunicazione sociale extra-linguistica nella trasparenza della volontà e degli affetti. In questo processo la parola non risulta sminuita ma, al contrario, valorizzata. Nella cognizione popolare, affermare che un uomo è "di poche parole" è come dire che è ricco di princìpi e che quindi la sua parola vale molto.
     Tendendo a esprimersi oltre la parola, il concetto-principio va dunque a rompere il cerchio in cui solitamente vive confinato il cosiddetto linguaggio interiore. Guardando il movimento all'inverso: il linguaggio interiore mentale, silenzioso, praticamente privo di parole - nel momento in cui tende a farsi comunicazione rompe il silenzio riuscendo tuttavia a rimanere ancora in gran parte extra-verbale, esprimendosi nell'evidenza del comportamento in rapporto agli altri. Ritornando (verso l'esterno) come principio, il linguaggio interiore (già nostro "primo pensiero") diventa quel pensiero che comprende la parola ma la supera! La "brutta copia" del nostro linguaggio (pensiero al di qua della parola) rivela di essere anche base del pensiero oltre la parola. Da qui una positiva contraddizione per il nostro modello di pensiero scisso. Tu mi confermi che:

"parlare di princìpi non mi viene mica, potrei dire meglio come «vivo» un principio: per me è sentire che una cosa è giusta e non poterne fare un'altra neanche se volessi perché morirei. Chissà perché c'è chi sente questa cosa e tanti no. Nel corso della mia vita ricordo benissimo che a certe mie piccole manchevolezze, vigliaccherie, reagivo immancabilmente stando male come un cane, e dovevo per forza cambiare registro, non potevo fare diversamente. Quella «voce» dentro dovevo ascoltarla. Fino a non molto tempo fa mi chiedevo come facessero gli altri a non ascoltarla, ma poi mi sono convinta che non ce l'hanno, e quando tu dici «una questione di principio», mi rendo conto che non possono capire che significa «una questione vitale»".
Penso che tu sia troppo drastica in questa lettera. Non so a quali livelli d'inabissamento il nostro linguaggio interiore si spenga del tutto nel singolo individuo. Abbiamo avuto delusioni terribili, ma ho visto anche qualche caso miracoloso. Voglio mantenere una speranza sull'irriducibilità di questa "voce". So che la sua fonte è meno misteriosa di quanto si pensi comunemente (il solito Vigotsky). È l'interiorizzazione dell'esperienza sociale del bambino. Egli, infatti, all'inizio parla da solo ad alta voce. Solo nella vicinanza dell'età scolastica, quando comincia a sentirsi "gettato" tra gli altri, fuori dall'ambiente con cui s'identificava, si scopre poco protetto, conosce il senso d'estraneità. Allora comincia a rendere silenziosa l'esperienza linguistica accumulata. Ma egli ha indubbiamente preso coscienza dal linguaggio, che è comunicazione, rapporto sociale. Dal linguaggio e non dal mistero.
     Ora, si munisce del linguaggio interiore, come se riflettesse il carattere ambiguo e predatorio dei rapporti sociali: la coscienza dell'essere sociale deve rimanere silenziosa, scindere rappresentazione e verità. E ci rimane, per indicare la verità, il linguaggio primario del corpo, dei gesti, degli sguardi (le cose di cui più vive un colloquio carcerario...). È per questo che i sordi (cfr Sacks, op. cit.) hanno sempre affascinato i più sensibili tra gli udenti: evocano ciò che abbiamo perduto. Il loro viso, la loro gestualità, costituiscono un'altra lingua che mente meno delle nostre parole. Ma è pure per questo che i "normali" hanno sempre allontanato i sordi. Sono convinto che gli uomini antichi, i "primitivi", fossero più vicini di noi a questa trasparenza e che dobbiamo riconquistare cose perdute, che possiamo farlo perché per fortuna sentiamo ancora un'inquietudine. La quale, però, non deve diventare "nostalgia", ma riconquista in modo diverso dal passato: memoria dell'uomo per una percezione sempre più ampia della realtà.
     Solo con te mi sento in quella zona libera, volontariamente e felicemente priva di difese, che risponde a quell'inquietudine.
     Una zona per l'incontro che ci è stata ridotta a un'ora alla settimana, a scadenza fissa e non quando vorremmo noi, strapiena d'interferenze, di ostacoli, di limiti invalicabili.
     Allargare questa zona è il compito di tutti gli esseri umani, qui e fuori da qui. Perché è in una zona priva di autodifese che il pensiero si fa corpo visibile, va oltre la parola, riapre la metamorfosi, i sentieri sconosciuti e confusamente desiderati della condizione umana. L'infelicità, meno male in questo senso che esista, è la precoscienza del limite posto a questo possibile cammino.
     L'uomo è quello che fa. Il fare è il primo linguaggio. Ma compito di filosofi e moralisti sembra essere quello di farcelo dimenticare, onde ridurre l'attività pensante a un fenomeno dalla fonte misteriosa e, nei suoi effetti, all'epifenomeno insignificante che esalta uno solo dei suoi tre aspetti, separato dagli altri.
     Lo psicanalista Lacan diceva, per superare il "penso dunque sono" di Cartesio, che l'uomo è là dove non pensa. Insieme a Freud, aveva in parte ragione, ma solo come spiegazione dell'individuo storicamente alienato, non certo come verità dell'uomo in quanto tale. Quando Lacan trasforma la descrizione in concetto, è come se presentasse la necessità come virtù. Quando poi si arriva davanti all'istituzione totale, si assiste a un vero e proprio corto-circuito linguistico. La descrizione del "bianco" viene usata per definire il presunto concetto del "nero" e viceversa. È facile constatare in mille documenti ufficiali che la sorte del recluso è legata a strane teorie secondo le quali la pena serve a rieducare (come dire: più soffri, più sei felice), o che scopo della segregazione è quello di risocializzare (come dire: più sei solo, più capisci la compagnia). È pure un luogo comune sentirsi dire mille volte che la galera aiuta a meditare dandoci un mucchio di tempo libero per pensare (ma concentrarsi per riuscire a pensare in un tempo cadenzato da altri è la prima e più dura forma di resistenza al carcere).
     Tutto questo non è solo (o non tanto) disinformazione totale sul mondo recluso. È la vetta di un modo di pensare in cui l'astratto copre il concreto ai limiti del buon senso. Abbiamo confinato nel "moralismo", nel "sentimentalismo" (esecrati o esaltati poco importa), i due terzi dell'attività pensante. Tutto quello che richiama alla coerenza del fare e all'unità del pensiero non ha il prestigio della scientificità! La comunicazione del sapere è affidata a persone non a caso definite "intellettuali", mica "sentimentali", "volitivi" o "affezionati"!
     Il linguaggio, sviluppandosi per linee interne a una struttura (o grammatica) limitata all'epifenomeno insignificante, dà luogo a un pensiero sempre meno capace di riflettere il resto. Bisogna ignorare che fonte liberante del pensiero è l'interiorizzazione del rapporto sociale, avvenuta proprio attraverso il linguaggio: l'esperienza comunicativa con l'altro che fornisce il senso di sé. Malgrado l'osservazione dei bambini, una forte mentalità continua a confinare le conclusioni pur tratte in ambito specialistico, lontano dalla cultura comune.
     Varie ricerche tendono ormai ad affermare che i nostri antenati, prima ancora dell'homo sapiens, avevano un atteggiamento altruistico: tale non solo verso i piccoli, ma pure verso malati e anziani. L'interesse per un "tutto" (la comunità) rivalorizza l'interesse della "parte" al suo interno. Questo ci distingue dagli animali. Ci si può chiedere sul piano scientifico come nacque questo senso dell'altro da cui deriva la coscienza della propria esistenza, ma non credo che si possa ignorare questa base altruistica della presa di coscienza di sé tipicamente umana.
     Non è forse addirittura banale dire che tramite te ri-conosco meglio me stesso e approfondisco il mio sapere? La frase detta da un genio come Einstein può passarmi da un orecchio all'altro senza che ci faccia alcun caso lì per lì. La "sciocchezza" che mi dici tu può impegnarmi a pensare per giorni interi con tutte le mie fibre finché, improvvisamente, ricordo e capisco la frase del genio che prima mi era come sfuggita. Faccio ora parte di uno stato più ampio della realtà... non mi limito a conoscere ma vivo qualcosa che prima non vivevo e che pure esisteva.

Lo storico francese Jules Michelet, in età matura s'innamorò ardentemente di una donna. Le parole che ci ha lasciato sono l'eco di costei, della sua sensibilità. Quest'amore diventò per lui una nuova luce sul mondo grazie alla quale riuscì a intravedere i veri soggetti della storia, quelle persone e quei fatti che da millenni non fanno notizia, ma che tengono in piedi il mondo malgrado le decisioni distruttive dei potenti, malgrado quei fatti che, pur facendo molta notizia e riempiendo le nostre teste e i libri di storia, non spiegano niente. Michelet scoprì perciò gli oppressi e, tra gli oppressi, le donne. E l'importanza che hanno sugli eventi noti le discussioni, i sentimenti vissuti in tante case sconosciute. Nel 1854, in "Le donne della rivoluzione", scrisse:

"«Così, diranno i saggi, abbandonando il saldo terreno dell'idea, vi siete messo sulle vie mobili del sentimento».
     Risponderò: poche, pochissime idee sono nuove. Quasi tutte quelle che divampano in questo secolo e vogliono trascinarlo, sono apparse tante volte, e sempre inutilmente. L'avvento di un'idea non è tanto la prima apparizione della sua formula quanto la sua definitiva incubazione, quando, accolta nel potente calore dell'amore, sboccia fecondata dalla forza del cuore.
     Allora, non è più parola, è cosa viva; come tale, è amata, abbracciata, come una creatura appena nata che l'umanità accoglie tra le sue braccia. Di idee e sistemi abbondiamo, sovrabbondiamo. Quale ci salverà?
     Più d'uno può farlo. Dipende dall' ora della crisi e dalle nostre circostanze, assai diverse a seconda della diversità dei tempi e delle nazioni.
     L'importante, il difficile, è che l'idea utile, al momento decisivo, trovi un nucleo di buona volontà morale, di calore eroico, di sacrificio... Dove ritrovare la scintilla primitiva nel raffreddamento universale? Ecco ciò che mi dicevo".
La risposta che si diede Michelet fu singolare. Intuì molto, ma non riconobbe fino in fondo il volto della sua compagna:
"Mi rivolgerò alla fiammella indistruttibile, al fuoco che arderà ancora sulle rovine del mondo, al calore immortale dell'anima materna".
A quasi un secolo e mezzo di distanza, mi pare di poter affermare che il sentimento che si vede nell'amor materno è il "residuo" concessoci di una realtà ben più vasta. Ancora oggi molti uomini si limitano a riconoscere, del pianeta femminile, solo la figura materna, lasciando il resto a un'inferiorità resa sconosciuta dal pregiudizio. Sotto il profilo storico, la figura materna ha dovuto perdere molte delle ricchezze di significato attribuitele nel mito antico. È rimasto il luogo in cui la dedizione all'altro non mette in discussione i rapporti sociali esistenti, ma si limita a fornire la "materia prima" affinché essi si ripetano. È rimasto il luogo in cui, visto il carattere indifeso dei piccoli, il senso dell'altro non è inteso dalla cultura generale in contrasto col concetto di possesso. Cosicché l'amor materno, pur alludendo a una potenzialità che comprensibilmente affascinava Michelet, è al tempo stesso e per motivi storici, un terreno non privo d'ambiguità. Sappiamo in che modo è stato utilizzato per ricattare e soggiogare le donne. Sappiamo pure come, spesso, possa portare - col pregiudizio apportatogli dalla storia - a una possessività scarsamente rispettosa della soggettività dei piccoli, per questa via riproducendo quel processo di pensiero di cui si sta qui denunciando il limite.
     Pure, Michelet coglie per molti versi qualcosa di fondamentale. Il rispetto e l'esaltazione del concreto che si riscontrano nella dedizione all'altro, la trasparenza del volere e dell'affetto, sono l'eco di una realtà vasta quanto repressa che qui ha trovato il suo controllabile ghetto e che da altri è stata chiamata principio femminile.
     Questo principio fa capo a tutte quelle attività volte a difendere la vita e la creatività della natura, attività che la società patriarcale ha escluso dal suo orizzonte «produttivo», relegandole nell'«ausiliario» e sessuandole, cioè affidandole alle donne.
     Emerge dunque, ritornando a parlare di princìpi, che accanto a quelli conosciuti, come la libertà di coscienza o l'uguaglianza, anzi dietro a essi, ne esiste un altro, primario. Possiamo così spiegarlo: rispettare tutto quello che può favorire l'unità del genere umano, a partire dalla sua struttura fondamentale, punto cardine di tutti i rapporti sociali: la coppia uomo-donna.
     La necessità di un "recupero del principio femminile" per riunire il genere umano, nelle parole di Vandana Shiva, l'indiana autrice di "Sopravvivere allo sviluppo" (New Dehli, 1988), non ha più una connotazione biologica, anzi, si identifica con tutto ciò che una cultura fondata sul sessismo ha escluso dal privilegiato maschile e relegato in una secondarietà da dominare:
"Per noi il «maschile» e il «femminile» sono categorie costruite socialmente e culturalmente. Per una ideologia sessista, si tratta di categorie determinate biologicamente. Il concetto occidentale di mascolinità che ha dominato lo sviluppo e le relazioni tra i sessi ha escluso tutto ciò che è stato definito come femminile dalla cultura e legittimato il controllo su tutto ciò che passa per tale. La categoria della mascolinità, come prodotto socialmente costruito dall'ideologia legata al sesso, si associa alla nascita del concetto di donna come «l'altro»".
In questa visione tutti i dualismi sono colpiti alla radice. Essa non si contrappone simmetricamente alla "mascolinità", ma supera la sua unilateralità, spiazza il riduzionismo interpretativo che la caratterizza, esaltato dallo spirito scientifico degli ultimi secoli, malgrado lunghe resistenze ereticali come quelle sostenute, ricorda Vandana Shiva, da Paracelso, non a caso amico dei contadini tirolesi in rivolta invece che fondatore di accademie reali come Bacone:
"Per Paracelso, il maschile non domina sul femminile, perché i due princìpi si completano a vicenda, e la conoscenza e il potere non sorgono dal dominio sulla natura ma dalla «coabitazione tra gli elementi», interconnessi a formare un unico organismo vivente. Per Paracelso e i suoi seguaci, «il mondo intero è intessuto e legato in se stesso; poiché il mondo è creatura vivente, ovunque uomo e donna a un tempo», e la conoscenza della natura deriva dalla partecipazione a queste interconnessioni".
In conclusione, per Vandana Shiva:
"L'ideologia sessista ha creato dualismo e distacco tra uomo e donna; al tempo stesso ha associato l'attività e la creatività con la violenza e il maschile, e la passività con la non-violenza e il femminile. Le risposte a questo dualismo basate sul sesso hanno mantenuto quelle associazioni e separazioni, e, all'interno di queste categorie dicotomizzate, hanno prescritto entrambe la mascolinizzazione e la femminilizzazione del mondo".
È vitale rivalutare tutto ciò che è stato relegato nell'ausiliario e sessuato al femminile: le attività della sussistenza umana, diventate oggetto di disprezzo persino nel linguaggio comune delle vittime, contrapposte alla creatività e alla spiritualità.
     Lenin diceva che il socialismo ci sarebbe stato quando si sarebbe vista la cuoca esercitare funzioni di governo. Così dicendo, Lenin finiva per non onorare tanto l'attività della cuoca, ma la funzione del governante che egli voleva democratizzare. Mi pare più giusto affermare che più cuoche (e cuochi!) ci saranno, meno avremo bisogno di governanti. L'aumento di cuoche/i favorisce l'autogoverno...
     Ci hanno presentato la Storia come cosa fatta da re e generali con le loro guerre e massacri vari. Dietro di loro abbiamo potuto intravedere, come semplici comparse, i soldati. Nessuna traccia delle vivandiere. Ma senza di esse non ci sarebbe stato neppure il mondo. Anche i soldati mangiano, come pure i generali e persino i re. Più vivandiere/i ci sono, anzi, meno bisogno c'è di guerre. Diminuiscono generali e re, e ci si può liberare in attività più intelligenti. Nessuna legge naturale ha stabilito che fornire vivande sia l'opposto della spiritualità e della conoscenza, né che dovessero farlo solo le donne e i servi, né che questo compito dovesse risultare subordinato a quello del soldato. Non ci vuole neppure un genio per capire che è più salutare pensare l'opposto.
     Tutto questo può persino risultare abbastanza ovvio finché si parla di ruoli estremizzati come quelli forniti dalla guerra di ieri. Ma la confusione sorge quando si arriva agli esiti sofisticati che la moderna divisione sociale del lavoro ha creato. Eppure, la guerra rimane la matrice di tutto. La moltiplicazione di nuovi ruoli sociali vede ruoli sempre più indotti da quell'antica matrice, sempre più artificiosi rispetto alla vita, tanto da apparire come spreco distruttivo persino ad occhio nudo. Nel loro sviluppo, consumistico o controllore, perdono sempre di più il loro originario carattere sessuato: cooptano donne in ciò che è comunque funzionale alla rete sempre più complessa e assurda della logica del dominio dell'uomo sull'uomo. Vediamo perciò non solo gli uomini, ma anche un numero sempre maggiore di donne sottratte ai sempre più scarsi spazi di vita del "principio femminile". Invece di cooptare uomini al principio femminile, sta avvenendo il contrario.
     Confesso allora che, per me, essere condannato alla galera a vita da una donna o da un uomo non fa nessuna differenza. Neppure essere sparato da una poliziotta o sparlato da una giornalista. Continuo a volere meno giudici, gendarmi, meno monopolio e stupidità dell'informazione. Continuo a volere più vivandieri e meno poliziotte. E meno poliziotti.
     E quando, come mi è capitato di sentire, queste signore si mettono a dire che io, in quanto maschio, sono comunque maschilista, mentre loro, in quanto donne, sono comunque diverse, ci rido sopra. Bene o male, è sempre meglio non confondere il cazzo col cervello o l'ormone col cuore. Simili confusioni sono concedibili solo a replicanti e Frankenstein. Ma quando sento dire che tu, avendo fatto la lotta armata, non sei una "donna", mi incavolo pure. Ci vedo un trionfo eccessivo della logica astratta, l'inizio di un brutto corto-circuito: se delle donne si mettono a ripetere (magari in nome del "femminismo") antichi luoghi comuni degli uomini peggiori, ci vedo un sintomo preoccupante.
     Al tempo stesso, però, mi devo calmare. In galera, agitarsi fa male. So che tutto questo ha lontane radici. C'è tutta un'ideologia, a partire da quel primo manifesto della nostra civiltà che è la Bibbia, dove si comincia a esaltare l'astratto qua e là, ci si spiega che l'inizio di tutto fu la Parola.
     No, non fu la parola. L'uomo è indubbiamente rapporto sociale, quindi comunicazione, quindi linguaggio: ma quello del gesto in cui è presente tutto il corpo. La parola viene dopo.
     Un mondo capace di riesaltare, oltre all'attenzione per i piccoli che è pure di molti animali, il rispetto per la loro soggettività, l'affetto per i vecchi, la cura dei malati, pronto a capire qualcosa da ogni diversità, dovrà vincere molte cose. Le attività oggi esaltate in funzione creativa (come l'arte), non hanno più nessun rapporto con la sussistenza, essendo questa condannata all'asservimento per poter chiamare produttivo ciò che è fonte di profitto. Le funzioni sociali vitali sono state ridotte all'animalità da lavoro, completamente separate dall'«arte». Basta vedere un fast-food...

Il principio femminile potrebbe gettare una nuova luce su tutti gli altri princìpi dichiarati, luce che è il colore della concretezza.
     La libertà di coscienza, per esempio, ha finito per essere intesa in riferimento alla sola volontà. Tant'è che si parla, il più delle volte, di "libero arbitrio". Non c'è più stato spazio per una coscienza della libertà d'affetto. Anzi, abbiamo fin troppo spesso sentito dire di Idee contrapposte ai sentimenti come prova di grande virtù dei princìpi. È dire che l'affetto cosciente è diventato sinonimo di coscienza debole.
     Che dire poi del principio d'uguaglianza? Esso dovrebbe improntarsi al rispetto della diversità come nuova possibilità della specie. Inteso in modo astratto, viene comunemente usato come veicolo d'omologazione.
     Precisiamo dunque che non esistono volontà e intelletto a prescindere dal rapporto con gli altri: dall'affettività. Questo potrebbe insegnarci un recupero del principio femminile attualmente sempre più emarginato malgrado le apparenze.
     Tu e io saremo capiti da chi avrà riflettuto sul fatto che i princìpi non sono semplici concetti morali ma princìpi di realtà nella quale l'uomo fatica ancora ad entrare. O, piuttosto, realtà dalle quali l'uomo resiste a farsi compenetrare. Ed esiste un principio dei princìpi nel rispetto dell'unità del genere umano a partire dal suo punto cardine.
     Chi non vede-vive gli stati di realtà ai quali alludiamo non può capire per quali motivi rifiutiamo le possibilità d'incontro sessuale in libertà offerteci, in teoria, dallo Stato. Vi rinunciamo proprio per onorare la fisicità del nostro amore.
     L'amore non è premio, non è "fisiologia". È il MeTe, il cammino della sua liberazione.
     Quando andiamo al colloquio settimanale di un'ora, siamo reduci da un complesso rito preparatorio durato un'intera settimana per riuscire, in quel momento (davanti al bancone, alla scadenza fissa, al tempo limitato, al controllo visivo, alle interferenze varie, eccetera) ad astrarci dall'ambiente perché si liberi il MeTe imprigionato.
     La fusione fisica e spirituale che esso promette non è allusa solo dall'incontro sessuale negatoci. A volte, si può anche affacciare, parzialmente, in uno sguardo, dietro un silenzio o una parola. A volte riusciamo a convincerlo ad apparire appena appena. L'estasi, checché ne dicano veri o presunti esperti, si realizza nell'incontro più che in una solitudine che, per quanto possa essere mistificata nella sua natura dal soggetto, sarà sempre e comunque soltanto struggente desiderio di un incontro ideale. Il MeTe è la verifica e la costruzione di un diverso stato di realtà possibile e non solo la sua potente allusione, la sua capace imitazione.
     L'incontro sessuale, per esempio, può non far apparire il MeTe se non ci sono le altre condizioni che esso richiede, possibili entro momenti di vita comune coscientemente vissuti in comune.
     Preferiamo rinunciare a rapporto sessuale e libertà piuttosto che rinunciare a volere queste condizioni quando, come oggi, ce le pongono in alternativa. Loro, che hanno trasformato e lasciato trasformare l'incontro sessuale in oggetto premio di una vicenda fisiologica, non sanno nulla del MeTe.