Il MeTe imprigionato
5. L'oltrepassamento dell'io
Storia di un amore carcerato
di Vincenzo Guagliardo
Per adesso, il nostro linguaggio deve inseguire i labirinti del dominio.
Io non so bene quale sia il cammino della ricerca della verità, ma di sicuro il suo primo passo è l'autenticità della persona. La sincerità individuale si realizza bene solo in un caso: quando sei capace di parlare a un altro come e più che con te stesso, come se lui non fosse davanti a te, come se tu fossi solo. Allora, ecco che:
"entrare dentro l'altro, spingersi nel suo sentire, accoglierlo dentro il tuo porta sensazioni sconosciute, libera possibilità non immaginate".
Le parole che usi descrivono un movimento delle nostre menti che ripetono quello di due corpi che fanno l'amore. È solo la mancanza di paura dal diverso da te, l'incontro con lo sconosciuto, che diventa conoscenza oltre te. Ed ecco che succede, sempre secondo le tue parole:
"Si dice anche «delirio dei sensi» per indicare uno stato che
in un amplesso ha condotto oltre i sensi. Ma questo non è affatto un
concedersi il reciproco delirio. Non si tratta di reciprocità, non
ci sono un uomo e una donna che delirano insieme ognuno per conto proprio.
C'è una fusione, per un attimo succede qualcosa come per gli elementi
compatibili in natura, all'attimo dell'unione si dà una mutazione in
altro, si dà origine a qualcosa di completamente diverso dai singoli
elementi che l'hanno prodotto, che non è una sommatoria dei due elementi.
La fusione è altro da ciò che la produce, questo sì oltre
l'immaginario.
Il recluso "medio" - si diceva - viene portato a diventare una persona incapace d'amare e risentita con tutti nell'esclusivismo di un suo Ideale personale che ha sostituito ogni altro reale, in un cammino progressivo che aumenta con i giorni di carcere (non bisogna dimenticare che ogni carcerato vive una prigionia diversa a seconda della condanna che prevede di dover scontare).
La farina mista ad acqua è oltre l'idea di farina e di acqua, diventa pasta, pane. Si esce da se stessi, dal proprio immaginario, quando c'è l'incontro con l'altro, altrimenti si tratta solo di varie forme di manifestazioni dell'Io che in particolari circostanze vengono a galla".
Si può perciò ipotizzare che gli uomini sono sempre in transe, ma, al tempo stesso, che c'è transe e transe. Il pluralismo degli stati di coscienza (e del corpo) non garantisce affatto dalla pietrificazione dell'identità. Nella nostra visione della coscienza, siamo vittime, se vogliamo, di un vuoto gioco di parole perché tutti, in realtà, attraversiamo vari stati di coscienza (e di fisicità). Solo che non ce ne rendiamo conto, essendo posseduti dalla falsa idea del continuum ereditata dal mito dell'Io.
La transe prevista per il recluso porta a una passività relazionale di fatto per produrre il rifiuto dell'incontro. Mentre solo quella che parte dal No porta all'incontro. Nel primo caso è sempre l'Io che attraversa tanti stati di coscienza modificata (e di alterazione fisica), tuttavia sempre volti a far "tutto da solo". L'incontro avviene con l'ideale emanato dall'ideologia misogina e asociale dell'autocontrollo dell'Io, nata contro la "corruzione della ragione" portata dalla passione per la donna (Tommaso d'Aquino). Questi modelli di transe sono una simulazione dell'altro reale, come nella mistica cristiana della com-unione con Dio. Richiedono una solitudine sempre più eremitica, un rapporto sempre più strumentale con l'altro reale. Nel secondo caso, si scopre invece che, così come l'altro è il mio simile, l'Io è l'Altro. Qui - attenzione - anche nella condizione della solitudine (alla quale ci si ribella), il nostro io supera concretamente le distanze che lo separano dagli altri, riesce a mantenere una coscienza della realtà.
Tu e io ci divertiamo vedendo che sempre più spesso le nostre lettere "s'incrociano". In pratica succede che uno risponda alla domanda dell'altro prima ancora di averla ricevuta, quando ancora l'altro gliela sta scrivendo.
Dire "l'Io è l'Altro", insomma, non è un'affermazione ideologica. È un'espressione troppo sintetica a causa del nostro ancora povero linguaggio per alludere a una realtà meravigliosa e poco conosciuta, per provare a definirla come possiamo, ora, a bassi livelli di... sperimentazione rispetto al possibile. Essa indica il farsi strada di una coscienza-corporeità che arriva a sentire l'altro. Questa è la via per il superamento della scissione mente-corpo ancora vissuta dall'intelletto, la via che consentirà la liberazione della metamorfosi negli esseri umani.
Qualche anno fa, durante due processi alle B.R. e a Prima Linea contemporanei e nella stessa città, le autorità, per stimolare la nostra dissociazione ricorsero a un antico e classico richiamo. Ci misero uomini e donne nello stesso edificio carcerario, su due piani diversi. Venni messo nella cella proprio sopra la tua. Potevamo passarci il cibo, vederci con degli specchi e, ovviamente, parlarci parlarci e parlarci dalle finestre. Una notte sogno che mi trovo in un sogno in cui so che sono lì nella mia cella, sulla mia branda, dove sto dormendo. Sto male, so che questo sogno mi farà morire. Nel sogno, provo a uscire dal sogno entrando in un altro in cui perdere coscienza del fatto che sono in quello stato sulla mia branda. Non ci riesco. Provo a svegliarmi da solo e non ci riesco. Allora sento con estrema certezza che se non mi sveglierà qualcuno per farmi uscire da quel sogno, io morirò. Ma so dove sono, nel mio letto, in una cella singola, e non riesco neppure a urlare.
Allora sento bussare proprio sotto di me, sei tu, mi dico, che con la scopa stai battendo il tuo soffitto proprio sotto il mio letto. Mi sveglio pieno di sudore dalla testa ai piedi, i tuoi colpi continuano, non sono un sogno. Riconoscente, mi alzo e corro alla finestra per risponderti. Ma alla finestra, prima ancora che io ti chiami, con mia grande sorpresa, sento la tua voce che mi chiede: "Mi hai chiamato?". "No - dico io -, non sei stata tu?".
Vediamo ora la scena dal tuo punto di vista:
"... eravamo in un momento carico di tensione, in cui il nostro rapporto doveva compiere un salto o morire (non è stato facile salvarlo dal carcere, abbiamo accettato di soffrire molto). Una notte lui vive uno stato particolare (diverso dal semplice sogno, qualcosa che sarebbe successo nella realtà se...), sente che se io, in quell'istante non avessi fatto qualcosa, sarebbe morto. Erano le tre del mattino, mi sono svegliata di soprassalto sentendomi chiamare da lui, ho ascoltato il silenzio ma non c'era nessuna voce, avrei dovuto pensare a un sogno e rimettermi a dormire, invece ho bussato al soffitto, nessuna risposta, a quel punto avrei dovuto rassicurarmi e lasciar perdere e invece inspiegabilmente ho insistito (tra l'altro con il rischio di svegliare pure gli altri e farmi mandare a fare in culo...), finché non si è svegliato e mi ha risposto dalla finestra. Mi avevi chiamato? gli chiedo. In un certo senso sì."
Ci sono due modi di rappresentarsi la resistenza alla situazione che crea sofferenza attraverso la privazione e la distorsione delle relazioni umane. Quello più comune immagina l'individuo come una vita che si rinchiude nel suo guscio, pronta a riemergere in tempi migliori. L'individuo, dunque, si separa dalla situazione, la permanenza in carcere è vista come semi-vita temporanea da abbreviare quanto più possibile. La sopravvivenza nella situazione oppressiva è vista come simile all'organizzazione del letargo: le attività di tipo onirico e fantastico sono, in questa concezione, una sorta di altra vita avente funzione compensativa rispetto alla prima, non sono più l'aspetto integrato di un'unica vita ricca di tutte le sue potenzialità. La vita interiore viene contrapposta a quella esteriore in un dualismo esasperato, è la fuga e libertà possibile.
In realtà, esiste una precisa vita esteriore anche in questo caso. Così com'è assurdo dire che il realismo sia in opposizione all'attraversamento di vari stati di coscienza, che diventi necessariamente la difesa di un'identità ossificata, eccetera. Le donne in carcere, per esempio, conoscono in genere molti più stati di coscienza degli uomini, eppure sono spesso molto più "concrete" degli uomini. Sono però in genere meno malate di protagonismo individuale, la loro concretezza è maggiore sensibilità e senso degli altri.
Perciò osservi che:
"Gli uomini scopriranno anche, in carcere, con lo stupore del neofita che, alle difficoltà del vivere, si può in parte sottrarsi immaginandosi in una situazione diversa, ma in genere per le donne è un vecchio film che le porta sì a vedere altro, ma a cui spesso restano inchiodate in una trappola infernale che le aiuta a sopportare la situazione che vivono, ma anche a vederla come realtà immutabile senza scampo se non nell'immaginario".
Rifiuto in modo radicale la visione dualistica interiore/esteriore. L'Io che si oltrepassa è solo l'Io che si rende conto di che cos'è, che scopre di essere l'Altro e, per questa seconda via, riesce a risentire l'altro reale. Solo così riesce a modificare il proprio stato in modo libero invece che comandato, cosciente invece che inconscio.
L'individuo dall'Io ipertrofico sogna e trasogna, ma non è né cosciente né memore delle sue concrete relazioni umane. Ridotte a strumenti, queste rimangono sovradeterminate dalla cultura dominante. Qui l'individuo vive senza rendersene conto una transe da posseduto: il contrario dell'estasi! Mentre crede di viaggiare liberamente nella sua mente, sta ripercorrendo un antico cammino ben segnato e previsto. La sua fantasia vive una dicotomia sempre maggiore con la realtà. In ogni volontà di dominio c'è una mente prigioniera di sé, c'è miopia dell'Io, per quanto possa essere consapevole dell'esistenza di vari stati di coscienza possibili: al di fuori, tuttavia, di ogni reale comunione e trasformazione.
In carcere vediamo tanti piccoli o grandi esempi di questo modello "eremitico", misantropo o prepotente a seconda dei casi. Questi stati di coscienza che ripercorrono il cammino della formazione storica dell'Io ipertrofico hanno perciò un limite invalicabile: essendo delle tecniche e non dei trasporti amorosi, non escono dalle contrade dell'Io malgrado le escursioni turistiche e, inoltre, distruggono nell'individuo la memoria del proprio passato e il senso degli altri. E in questa devastazione, la solitudine è una libertà, l'ideale una fuga.
Il carcere rivela che transe e oltrepassamento dell'Io non sono necessariamente sinonimi. La più comune transe è proprio quella ignorata come tale, quella chiamata e creduta "stato normale": la coscienza comune dell'Io! E il più alto esempio di delirio dell'Io, generalmente attribuito all'amore, si ritrova invece nella... guerra! La guerra è precisamente quel rapporto che consente all'Io di ridurre l'altro (reale) a strumento del proprio delirio. La guerra vede al tempo stesso una fortissima transe allucinatoria e una massima esaltazione dell'Io. L'altro non va riconosciuto ma distrutto.
Nell'amore (nel vero trans-porto amoroso) succede l'opposto. L'altro non è strumento del mio delirio, sono anzi io che mi de-liro (= "esco dalle righe"), riuscendo a entrare in comunicazione con lui, a sentire anch'io ciò che l'altro sente.
Hai scritto a un amico in libertà:
"Prova a immaginare, stando fuori come stai, potendo cioè andare dove vuoi, vedere chi vuoi, compresa la tua compagna, di avere il solo divieto di stare con lei in intimità, di fare l'amore. Che ne sarebbe del tuo rapporto con lei? E come vivresti, che senso avrebbero tutte le altre cose della vita che puoi avere senza limitazioni? Altro che problema all'altezza dei genitali!".
In fondo, nelle carceri, siamo tutti invitati a fare come il castrato Abelardo nel dodicesimo secolo. Egli venne fatto mutilare dallo zio della sua amante Eloisa, per vendicare l'onore della famiglia. Da quel giorno Abelardo cercò di convincere Eloisa che la castrazione avrebbe consentito una maggiore elevazione spirituale in una coscienza ormai liberata dalle tentazioni della carne. A quei tempi il matrimonio era considerato un ostacolo al cammino della gloria. Senza maschere come oggi, la costruzione storica di quel modello di conoscenza chiamato intelletto si presentava come misoginia dalle conseguenze sessuofobiche (e non ancora consumiste per incoraggiare la mancanza di sentimento come oggi). E, al tempo stesso, era chiaro che questa auto-esaltazione di un Io maschile disamorato era funzionale ai ruoli sociali di una società fondata sul dominio: al contadino non si diceva certo di non sposarsi, mentre la carriera accademica era legata al sacerdozio e, quindi, a un casto celibato. In quella terribile condizione fisica, Abelardo cercò dunque di vivere la sua non-scelta come un colpo di fortuna, dato che era un brillante accademico rivelatosi debole. Chi non ha scelta deve accettare i valori dominanti come chiave dell'unica soluzione realistica...
Ma in questa storia esiste pure la grandiosa irriducibile ottusità di Eloisa che continuò a rivendicare il suo amore per Abelardo. Malgrado lo stesso Abelardo.
Bisognerà riconoscersi popolo di castrati per porsi all'altezza di Eloisa, invece di continuare ad allontanarla, come poveri disgraziati in preda a vanagloria. Ma oggi, ancora dicevi al nostro amico:
"Tutti, dai carcerati in avanti, sanno parlare solo di uscita fisica dal carcere (dopo un po' più di tempo o un po' di meno a seconda di chi lo dice) e mai, dico mai, esce fuori il problema che è il prima che determina chi uscirà. Pare che si parli di un oggetto d'arredamento in cui conta prima di tutto il "luogo" dove farlo stare, non una persona per cui dovrebbero contare di più i rapporti. Insomma, conta di più non poter fare una corsa in moto o un viaggio in Perù un giorno o l'altro (l'altro...) che vivere il più possibile con chi si ama - perché è proprio di questo che non si parla mai!".