Il MeTe imprigionato
Storia di un amore carcerato

di Vincenzo Guagliardo

6. Un appello

Ultime novità. Ormai è chiaro che il nemico non è il sesso, ma la passione per qualcuno che non sia se stesso. L'orribile marmellata può perciò avanzare superando la stessa legge Gozzini con nuove concessioni.
     Sulla rivista carceraria "Ora d'aria" (estate 91), il responsabile per la DC della Commissione Giustizia alla Camera, on. Enzo Nicotra, è favorevole agli incontri sessuali in carcere. Con queste premesse:
"... i guasti a cui si porrebbe rimedio sono maggiori delle perplessità che la novità potrebbe suscitare. Basti pensare alle pratiche sodomitiche così diffuse all'interno delle carceri che le statistiche o i rapporti ufficiali ignorano «necessariamente»! Basti pensare alle conseguenze dell'alta percentuale di Aids! Senza dire poi delle turbe mentali che derivano proprio dall'impossibilità di poter dar corpo alle proprie esigenze fisiologiche... La detenzione è sì punizione, afflizione, ma deve portare anche ad una redenzione".
Il discorso è guidato da una tesi molto semplice: alle bestie diamo qualcosa che sennò è peggio. Inoltre, si crede, tanto per cambiare, che all'interno delle carceri l'omosessualità sia più diffusa che fuori, secondo un'equazione in cui omosessualità = bestialità = criminalità = reclusi. Difficile spiegare, di fronte a un simile concentrato di pregiudizi che somma duemila anni di storia, che, in una comunità chiusa come il carcere (e non in un convento, dove l'individuo non vuole l'altro sesso per scelta!), l'individuo omosessuale è più esposto ai diffusi pregiudizi sulla sua diversità e perciò tenderà a nascondersi ancor più che fuori. Ragion per cui in carcere c'è meno omosessualità che fuori.
     Dulcis in fundo, l'amore è definito un'esigenza fisiologica.
     Spero che preti e suore s'indignino. Essi insieme, e in modo molto diverso, alle persone innamorate - sono l'esempio vivente che l'amore sessuale individuale è una cosa diversa. Riescono infatti a praticare liberamente la castità, ma non certo a smettere di mangiare, dormire o defecare.
     Il signore che dice queste cose pensa di denunciare una situazione, in realtà sta descrivendo le infondate fantasie del proprio immaginario, le quali riassumono bene i luoghi comuni che il carcere evoca nel pensiero comune per la rimozione del suo significato reale. Tuttavia, proprio da una simile visione nasce un progetto di legge che giace in parlamento e che così promette:
"Agli imputati che hanno tenuto regolare condotta ai sensi del comma 8 dell'art. 30-ter e ai condannati e agli internati che, oltre ad aver tenuto regolare condotta, hanno collaborato attivamente all'osservazione scientifica della personalità e al trattamento rieducativo attuato nei loro confronti, quando abbiano ottenuto il permesso di colloquio ai sensi del nono comma del presente articolo, il direttore dell'istituto può concedere, non più di una volta ogni due mesi, che il colloquio si svolga con il coniuge, oppure con il convivente maggiorenne, previo il loro assenso, senza alcun controllo e con le modalità e le cautele stabilite dal regolamento".
Il progetto presentato dal partito radicale non è molto meglio. Anche qui il colloquio è tempo dell'esigenza fisiologica (concessa ogni 45 giorni!), ovviamente subordinato alla "regolare condotta".
     Agli animali rinchiusi negli zoo si riconosce molto di più. Quando parlano di esseri umani, ai politici sfugge il concetto di far trascorrere una giornata insieme a due persone, così come il principio di non discriminare in materia d'affetto.
     Continueremo a chiedere loro meno di quanto vorrebbero darci, affinché qualcuno finisca per capire di che cosa stiamo parlando.
     Solo che abbiamo esaurito le possibilità giuridiche. Il giudice non ha dichiarato la propria incompetenza sulla nostra richiesta, ma l'inimpugnabilità del suo parere negativo. Possiamo solo dimostrare a tutti, prove alla mano, che attualmente nessuno spazio reale è offerto alla questione primaria del genere umano.
     Dobbiamo fare opinione e non più istanze. Ma dove e come? A chi potersi rivolgere? A tutti, a partire dal primo cittadino della Repubblica, al quale abbiamo così riassunto la nostra vicenda i1 3 dicembre 1991:
"Signor Presidente,
     siamo Vincenzo Guagliardo (nato nel 1948 in Tunisia) e Nadia Ponti (nata nel 1949 a Torino), coniugi ed entrambi ristretti nella casa di reclusione di Opera (Milano). Avendo fatto parte delle Brigate Rosse, siamo stati arrestati assieme nel 1980 e condannati all'ergastolo.
     Per ragioni etiche non abbiamo voluto collaborare alle leggi sul «pentimento» e la «dissociazione».
     Le scriviamo per ragioni formali e sostanziali. Formalmente, Lei è primo magistrato dello Stato italiano; sostanzialmente, Lei presta attenzione al valore in sé della dignità personale, anche nell'avversario politico o nell'individuo recluso.
     È proprio su un aspetto del genere che vogliamo sollecitare il suo interesse.
     Abbiamo infatti chiesto, essendo ergastolani che hanno espiato più di dieci anni di reclusione effettiva, di poter trascorrere insieme 45 giorni all'anno in carcere, in sostituzione dei permessi premio previsti in condizione di libertà.
     L'indubbia singolarità della nostra proposta deriva dalla particolare situazione che ci vede contemporaneamente coniugi e reclusi. Essa ci ha posto un problema di coscienza che proveremo così a riassumere:
  • è impossibile all'uno affrontare la propria sorte separatamente dall'altro;
  • questo ci porta a rifiutare di subordinare a una sorte premiale e individualizzata il legame che ci unisce;
  • pertanto rinunciamo a chiedere qualsiasi beneficio previsto dalla legge penitenziaria in materia di liberazione.
Dopo varie insistenze, abbiamo ricevuto un'ordinanza del Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, dott. A. Maci, che stabilisce il non luogo a provvedere per una richiesta considerata «abnorme in quanto palesa un netto rifiuto delle norme dell'Ordinamento penitenziario che regolano la materia». Né possiamo ricorrere ad altri gradi di giudizio perché il provvedimento del magistrato è stato dichiarato inimpugnabile.
     La nostra richiesta sarebbe abnorme se volessimo avere altro o un «di più» rispetto a quanto è comunemente concesso, per esempio degli incontri in carcere da aggiungersi ai permessi premio. Ma noi chiediamo quant'è già previsto nei consueti permessi, salvo rinunciare volontariamente alla condizione di libertà materiale in essi compresa. Vogliamo perciò un «di meno». In questo modo, riteniamo che il carattere premiale e individualizzato delle licenze diventerebbe, nel nostro caso, di secondaria importanza dato che la presunta pericolosità sociale sarebbe resa inoffensiva dal permanere della condizione reclusoria.
     Ai fini di un legame d'affetto, diventerebbe superabile la necessità di subordinare l'osservazione scientifica delle nostre personalità al vaglio di un «programma di trattamento» individualizzato, e si potrebbe egualmente realizzare la condizione di momenti di vita comune fra coniugi.
     Del resto, spesso, gli stessi permessi convenzionali sono concessi in condizioni di particolare sicurezza, ossia agli arresti domiciliari. Noi non facciamo altro che offrirci a questa prassi fino al punto in cui la premialità che ci separa venga meno nelle sue ragioni d'esistenza perché, a maggior ragione, in stato di reclusione gli scopi della premialità legati alla sicurezza vengono meno.
     Nessuna legge, tra l'altro, afferma che il legame d'amore vada soggetto a premi o a particolari condizioni di ravvedimento, come avviene in modo scontato per la liberazione materiale nella cosiddetta legge Gozzini.
     Il Presidente del Tribunale di sorveglianza ha altresì affermato che noi palesiamo un rifiuto delle norme esistenti in materia.
     Da quanto abbiamo già detto è chiaro invece che siamo convinti che la legge penitenziaria, la quale nella sua massima applicazione prevede la concessione di periodi di libertà materiale, sia comprensiva di tutte le sue applicazioni meno estese (come dimostrano le licenze agli arresti domiciliari). Se così non fosse, dovremmo concludere che un principio primario come l'unità del genere umano non si possa affrontare nell'ambito delle norme esistenti.
     Chi chiede meno di quant'è previsto dalle norme solitamente, non sta attuando una contestazione, sta solo vivendo una questione di coscienza. Va ricordato che, fino a prova contraria, la richiesta di premio è sì prevista dalla legge Gozzini, ma non è obbligatoria. Perciò, se noi due anteponiamo il rispetto del nostro sentimento reciproco e il principio dell'unità del genere umano alla nostra libertà materiale individuale, questo riguarda esclusivamente la nostra realtà interiore e non il nostro rapporto con le norme attuali.
     In questa specifica vicenda, è investita una zona profonda delle nostre coscienze che non va ricondotta o ridotta a una sfera meramente politica e puramente rivendicativa. Il nostro comportamento non riguarda la critica delle norme ma, semmai, il modo in cui esse vengono vissute o interpretate dalla realtà degli uomini.
     Ci pare anzi di essere in pieno accordo con lo spirito che anima tutte le leggi del mondo perché non ce n'è una che neghi valore all'unità del genere umano, genere che è tale solo se si vede nella coppia uomo-donna la sua struttura fondamentale.
     Non abbiamo neppure delle particolari regole d'attuazione da contestare, ma soltanto delle rinunce volontarie da effettuare per separare, in tal modo, ciò che riguarda la nostra coerenza interiore da ciò che riguarda le nostre libertà materiali. Se non rinunciassimo a tutti i benefici previsti dalla legge, non potremmo affatto dimostrare il carattere peculiare della nostra richiesta, la mancanza di interessi trasversali in essa. E, invece, proprio in quest'altro caso faremmo confusione, verremmo a trovarci in quella posizione di rifiuto di cui ci si accusa nella citata ordinanza perché staremmo cercando di rifiutare certe norme in favore di altre.
     Il non luogo a provvedere sulla nostra istanza è stato, anche, dichiarato inimpugnabile.
     Pensiamo di trovarci in una situazione paradossale. Questa interpretazione delle norme prospetta una situazione in cui risulta normale e accettabile il rischio di restituire temporaneamente alla libertà chi sta scontando la pena e, al tempo stesso, inaccettabile una richiesta minore priva di rischi sociali. Inoltre, a questo punto, si deve dedurre che il permesso premio (in forma piena) va inteso come necessità di subordinare anche l'amore a una logica premiale, non solo la libertà materiale. E questo è l'aspetto che troviamo più inquietante.
     Ci rendiamo conto di quanto ci sia difficile spiegarci con chiarezza in una materia, come quella dei sentimenti e della dignità personale, che di solito vive nella riservatezza degli individui. Crediamo perciò di dover offrire un esempio di cosa intendiamo per «rifiuto delle norme esistenti» e come una tale pratica contrasterebbe inevitabilmente con la sensibilità e i valori vissuti nel nostro legame.
     Vari esponenti politici, per esempio, vanno approntando dei progetti di legge per dare diritto all'affettività tra le sbarre. Sono semmai questi progetti a porsi in termini di rifiuto delle norme e regolamenti attuali. Vogliono farlo in un modo, tuttavia, che continua a subordinare l'amore all'analisi della personalità del singolo (logica premiale), e che si limita a vedere l'amore come incontro sessuale da concedere nel tempo di un colloquio (un'ora o due) ogni 45 o 60 giorni.
     Noi due, intendendo l'amore come condivisione di vita (e pertanto come momenti di vita in comune in cui comunicare e continuare a conoscere e a conoscersi), riteniamo che l'attuale castità onori molto di più l'unità del genere umano che non questo tipo di visione fisiologica e premiale progettata da alcuni politici.
     Abbiamo esaurito i passi giuridici per affrontare la nostra causa. Con questa lettera intendiamo, speriamo di continuare a difendere e onorare princìpi ancora impliciti nelle vecchie norme, anche se soffocati dal silenzio o da interpretazioni restrittive che tendono, con antichi dinieghi o nuovi progetti, a ridurre il coniuge a strumento di una «fisiologia» soggetta a premi, a mescolare le ragioni d'affetto e di coscienza con il terreno delle libertà materiali.
     Distinti saluti".