Il MeTe imprigionato
Storia di un amore carcerato

di Vincenzo Guagliardo

Note apocalittiche 1993

Per chiarire meglio chi siamo, per spiegare la storia che ci ha portati fin qui, ossia il rapporto esistente fra la nostra attuale vicenda e il nostro passato, sarà opportuno che io sprechi due parole di politica e una decina di... religione. Potranno sembrare a volte uno sfogo astioso, ma non è così.
     Anche se può sembrare assurdo, anche se in pochi anni di calendario sono trascorsi secoli di storia dai fatti che ci hanno portati qui, abbiamo dovuto raggiungere la pacata coscienza di essere diventati dei sepolti vivi; purtroppo, in una situazione carceraria che si promette ogni giorno più barbara, allucinante e sovraffollata.
     La sinistra ha voluto rabbiosamente e schizofrenicamente questo, la destra ha maliziosamente e democraticamente lasciato fare. Anzi, ogni volta che un uomo del Palazzo ha espresso timide parole di aggiornamento per superare la cosiddetta emergenza anti-terrorismo, a sinistra si è alzato un coro di proteste: Chi vuoi coprire? Che vuoi nascondere? Ci sono dei misteri, dei segreti... E così ogni volta Occhetto o Dario Fo, Libertini o Violante eccetera, ci ricoprono di sbarre e cemento, pur dicendo che non ci pensano nemmeno.
     Noi anni fa, scegliendo per il comunismo una strategia di lotta armata, siamo stati nella sinistra degli eretici. Ora, gli eretici sono quelli che vogliono essere coerenti più degli altri, più autentici con se stessi. Gli altri sono gli ortodossi: quelli che uccidono lo spirito riducendolo a smorta regola. Essi non ci perdoneranno mai. Anche l'amico di sinistra spesso ci odia nel suo inconscio, e perciò ci dice in qualche modo: "fai come tutti gli altri, come la stessa maggioranza dei tuoi compagni". Quando gli diciamo: "non potremmo, neanche se volessimo: è questione di visceri", dopo un po', magari scompare (qualcuno però è rimasto, e a queste persone sono dedicate con affetto queste pagine).
     Mi è capitato di leggere sulle colonne del "Venerdì" di Repubblica una rubrica del giullare estremista di lusso Dario Fo. Per l'occasione era esperto di questioni militari, super-detective in concorrenza col capo della polizia, e spiegava il Mistero del Quarto Uomo che interrogò Aldo Moro, la Trama delle Sedici Macchine Riparate, con la consueta Teoria degli Oscuri Complotti... È così che la sinistra ha rafforzato quella cultura del sospetto che dall'Inquisizione a Freud, da questi a Dario Fo, dalla tragedia alla farsa, dopo aver segnato pesantemente la storia europea, ha finito per invadere il costume italiano come nuova normalità della vita quotidiana. Noi che c'indignammo per le stragi di Stato, per esempio, siamo ormai creduti da molti ragazzi come quelli che con esse ebbero a che fare. In un immaginario ormai comune, manipolato nei suoi stessi simboli, fondato sulla disinformazione, risultiamo al servizio di quelli contro cui ci ribellammo, mentre invece cercavamo di denunciare la terribile e pluridecennale mancanza di un'opposizione reale. E così ora dei giudici prendono il posto dei guru, dei giornalisti sostituiscono gli storici, un giullare fa il detective e qualche idiota il tuttologo. La tecno-burocrazia invade la vita quotidiana dell'individuo in ogni particolare, affinché la popolazione sia ridotta a un esercito di assistiti, oggetti espropriati da mille deleghe quali portatori volontari di handicap mentale, che chiedono sempre nuovi diritti per nuovi bisogni sempre più indotti, organizzati da sempre nuovi esperti. Tutto questo invece di costruire condizioni per l'autonomia delle persone, autogestione della vita per riaprire la corsa verso i suoi gioiosi misteri, gli unici veri, gli unici che meritano di essere inseguiti, al di là di questo mondo.
     È stato un candidato della sinistra a Milano ad aver detto tranquillamente: "sono uomo di Stato, il mio primo atto sarà quello di mettere il tricolore sul palazzo del Comune". E così è stato il candidato del nuovo moderatismo in formazione a poter parafrasare il mitico linguaggio, evocatore di simboli, delle tradizioni libertarie e comuniste, dicendo, altrettanto tranquillamente: "sono anti-statalista, federalista...".
     Ora, tu e io, di questo nostro passato senza misteri salviamo proprio l'inquietudine più profonda che ci mosse: l'aspetto ereticale, cioè la ricerca del "non luogo", la fedeltà allo spirito dell'utopia, quel senso dell'oltre altrimenti detto religiosità.
     L'eretico infatti è quello che nel bene o nel male previsto per la sua strada, va in fondo, là dove invece l'altro, l'ortodosso, vuole stare solo a metà. Perciò solo il primo si mette in condizione di vedere e far vedere i limiti della strada percorsa perché non si rinunci ad andare più in là o altrove. Mentre l'ortodosso fa esattamente il contrario: sta a metà perché non ci si oltrepassi mai: è il fariseo d'ogni fede, il conformista eterno che prova a svuotare ogni nuovo impulso dentro qualche rituale.
     Sotto il profilo politico, irriducibili sono proprio quelli che ci tengono qui dentro dicendo che eravamo frutto di misteri provocazioni e manovre ancora e sempre da chiarire. Devono difendere il loro orticello. Mentre noi, già in quell'orto eravamo inquieti... La morale di questa favola è semplice: chi è fedele a se stesso sa cambiare idea e deve farlo per continuare a rispettare i propri ideali. Chi è senza fede non sa ridiscutersi. Chi difende un'irriducibilità etica conosce la discontinuità politica. Viceversa, l'irriducibilità politica (di cui siamo stati accusati) appartiene a chi si ferma davanti alle soglie dell'etica, spiegandoci, magari dal suo salotto, le virtù del "laicismo" e i pericoli dell'atteggiamento religioso.
     Per noi, lo sconosciuto è il conoscibile. Per loro è la fonte del sospetto. Ora, tutta questa gente che uccide lo spirito per difendere l'esistente, credere solo in esso, ritagliarsi uno spazio in esso, come può rispondere alla nostra battaglia di oggi se non con il silenzio?
     Noi stiamo infatti difendendo qualcosa di sacro, qualcosa che non ammette tolleranza, non si può né misurare né contrattare, perché va al di là della stessa persona. L'impersonale non va consegnato alla legge, agli esperti, alle zone grige, al sacrilegio... Va sottratto quanto più possibile a tutto ciò, e lasciato alla libertà della coscienza. Ecco allora che sono ancora valide più che mai, purtroppo, le parole che già Simone Weil dovette pronunciare nel 1942:
"Immaginiamo che il diavolo stia comprando l'anima di uno sventurato, e che qualcuno avendo pietà di questo sventurato, intervenga nel dibattito e dica al diavolo: «È vergognoso da parte vostra offrire solo questo prezzo; l'oggetto vale almeno il doppio». Questa sinistra farsa è quella recitata dal movimento operaio, con i suoi sindacati, i suoi partiti, i suoi intellettuali di sinistra".
La scelta della lotta armata voleva essere, nelle nostre ingenue intenzioni d'allora, un'alternativa alla crisi della sinistra. È stata invece uno dei più significativi sintomi di questa crisi: quella su cui non vuole riflettere chi, pur di non ridiscutersi, non vuole farci uscire da qui, e dalla crisi va verso la catastrofe.
     Come la Chiesa ufficiale verso Cristo e i primi cristiani, così la sinistra ha agito verso le tensioni utopiche che segnarono la nascita del movimento operaio in Europa. Tutti i movimenti sociali rivoluzionari hanno sempre avuto una carica "apocalittica", cioè di rivoluzionaria rivelazione rispetto alle sorti possibili della condizione umana. Contro ciò, la sinistra è diventata la chiesa che ha costruito la religione i cui riti hanno imbrigliato e ucciso la religiosità che ha preteso di rappresentare. Oggi il pensiero ufficiale di sinistra, dei suoi intellettuali di professione, è lo scimmiottamento moribondo e servile della povertà del razionalismo borghese. Lo spirito è stato immiserito scegliendosi un miserevole avversario (come diceva Ersnt Bloch): soltanto il capitalismo, organizzando l'oblìo e la "prudenza scientifica" su tutto quello che lo produce.
     Criticando soltanto il 5% dell'esistente, per paura di sembrare "metafisici" si finisce per ignorarne il 95 %, se ne rimane schiavi nell'inconscio, complici nella pratica, e si chiudono le porte al mistero. Ce ne siamo accorti, questa è la storia della nostra sconfitta di ieri. Con una valigia che era il bagaglio fornitoci dalle varie esperienze di sinistra da cui venivamo, la lotta armata fu la scelta di voler prendere per la rivoluzione un biglietto di andata senza possibilità di ritorno. La nostra sconfitta, la nostra incapacità di metterci in discussione, derivavano dal fatto che ci eravamo messi insieme soltanto intorno a quel 5% contenuto in valigia. Così, invece di cambiare sentiero per affinare la meta, questa diventava sempre più vaga mentre si irrigidiva il cammino. Quello che cacciavamo dalla porta rientrava dalla finestra. Finché la persona amica con cui avevi rischiato la vita non ti si rivelava come l'estraneo che ti tradisce. A questo punto eri costretto a dirti: come minimo ho un armamentario che non mi consente di scegliere e capire chi mi è amico... Ma c'era un aspetto ancora più grave. Noi avevamo ucciso: non durante un raptus, o in stato d'ubriachezza, non per ragioni di odio personale. È ovvio pensare, al di là di ogni giudizio morale, che l'omicidio politico richieda un alto grado di convinzione ideale. Ma qui, ora, c'era gente che si diceva "pentita" come se avesse ucciso senza troppo pensarci su: l'arma estrema del dar morte era stata dettata da convinzioni tanto fatue da potersi rinnegare in un attimo... La morte della persona uccisa perde, con chi si pente a questo modo, tutto il suo dramma, ogni tragica ragione. La sua vita già finita ora perde valore anche nella morte. E si diffonde un sistema di valori che, "deprezzando" la morte, per questa via incoraggia la facile uccisione, la banalizzazione del male.
     C'era una verità tanto elementare quanto difficile da accettare al fondo di questi "pentimenti" a pagamento. Dietro le stesse parole, si era arrivati ad agire insieme per motivi diversi: il "pentito" aveva ucciso riducendo la giustizia a vendetta, il sentimento a risentimento: Non voleva un altro mondo, era invidioso di chi aveva più spazio e potere di lui in questo mondo.
     E io gli avevo dato parole e aiuto per uno scopo opposto al mio, lottando al suo fianco, perché le mie parole erano insufficienti, il mio sguardo ancora troppo pigro. Non dicevo anch'io che ero per un altro potere invece che per il non potere? Per il potere politico in una prima fase, e quello dell'anima in una seconda? In un dopo del chissà quando?
     Oggi questi "pentiti" hanno vinto la loro piccola battaglia. È la filosofia dello Stato che ha ridotto la giustizia a vendetta. Avendo banalizzato il male, il "pentito" è libero, la coscienza è oggetto di vendetta.
     Ad aver reso ancora più vasta la portata di questa riflessione, c'è questo fatto: quando parlo di "chi ha ucciso", dato che parlo di un'esperienza politica, mi riferisco all'intero movimento politico di cui ho fatto parte e non solo agli esecutori materiali, la cui responsabilità è puramente casuale. In un movimento politico, la volontà parte dal consenso e non dall'esecutore. Chi da volontario porta consenso a una guerra, potrà dire che non ne farà un'altra, ma non può affermare di aver pensato che soldati e generali andassero a raccogliere margherite.
     Scoprivamo, avendo voluto andare più a fondo di altri, che eravamo al 95 % degli sconosciuti fra noi... Il 5 % di critica dell'esistente che ci aveva uniti era servito da rappresentazione comune dello scopo ideale volta a mascherare scopi reali diversi.
     Eravamo ancora troppo simili al mondo che volevamo combattere.
     Nessuno ha frugato, dunque, meglio di noi, in quella valigia. Gli oppressi sono stati ammaestrati a rivendicare un miglior posto in questo mondo, invece di liberarsi per abbandonarlo. In queste nostre metropoli, molti di loro, schiavi di un frigorifero o di una TV (il cui basso costo, tra l'altro, proviene dalla rapina del Terzo Mondo e ne produce il tragico esodo verso qui), non sanno più che lottare significa organizzare le condizioni dell'esodo da questo mondo, da questo modo di vivere. Non sanno più, come i mistici contadini del Cinquecento, come il profetico apocalittico primo movimento operaio, che noi esseri umani ancora non siamo e che possiamo e dobbiamo diventare ciò che va al di là di questo mondo.
     E poi qualcuno si stupisce che razzismo, disprezzo per vecchi e donne "risorgano", o che la droga pesante e il mass media aiutino tanto a uccidere la coscienza. Ma questi sentimenti e queste pratiche non sono nati col capitalismo, ma prima; hanno i cinque o seimila anni della civiltà del dominio e hanno dato luogo al capitalismo come l'albero al frutto. Tutto questo bisogna abbandonare. Già il Cristo aveva detto che in questo regno degli uomini lui veniva a predicare e sobillare un oltre: quello del "figlio dell'Uomo", quello dei tanti cristi. Ma questo desiderio, questa possibilità della coscienza di superare l'incompiutezza umana, è ancora nella prigione che mise in croce lui, e ha proclamato la falsa salvezza nell'esistente.
     Da allora, chi lotta veramente, lotta per la nascita di questo figlio, per l'uscita da questa lunga preistoria.
     Al di là di tutti gli dei falsi o cattivi che ci hanno fatto conoscere, nel cuore della Storia umana, alberga la scintilla di una luce ancora debole, lontana, ma irrinunciabile.
     Ersnt Bloch ricordava una storiella lituana. Lui dice a lei: "Anche Dio mi ha abbandonato". Lei, più forte e amorevole di questo dio, risponde: "Io non ti abbandono". È ben per questo che nel Canto del Cantici un umile pastore non ha nulla da invidiare al re Salomone, il quale ha anzi tante volte meno di lui quante sono le sue mogli e amanti:
"Sessanta sono le regine / ottanta le altre spose / le fanciulle senza numero. / Ma unica è la mia colomba, / la mia perfetta...".
Egli sa che insieme a lei ha qualcosa che ha tanto valore quanto meno ha prezzo, poiché lei canta:
"Se uno desse tutte le ricchezze / della sua casa / in cambio dell'amore / non ne avrebbe che disprezzo".
Allora, in conclusione, tu e io, che rapporto abbiamo col nostro passato?
     Ricordo la storia di quelle prostitute dei primi secoli dopo Cristo che ad un certo punto si ritirarono nel deserto a far le eremite. Sono presentate dalla tradizione cattolica, a partire da un immaginario che vede prima fra esse Maria Maddalena, come il simbolo del pentimento e della contrizione.
     Io vedo le cose in modo molto diverso. Nel loro cambiamento di vita vedo lo sviluppo irriducibile di un loro pensiero di fondo. Perciò non mi stupisco per il loro cambiamento: è stato il segno di un'ulteriore grado di coerenza con se stesse in persone di valore.
     Una donna di quei tempi che per sopravvivere e vivere autonomamente ha dovuto e potuto conoscere gli uomini solo nella prostituzione, è ovvio che ad un certo punto abbia potuto decidere di fuggire da essi, preferendo isolarsi nel deserto, per sognare almeno un amante ideale come Cristo. Perciò preferisco pensare, come nel Vangelo di Filippo, che:
"La consorte di Cristo è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla bocca".
Lei non era una discepola; aveva trovato l'uomo giusto, il suo uomo, dal quale poteva avere ben di più che i soliti quattro soldi. Lui non era un prostituto come quelli che aveva dovuto imparare a conoscere per vivere, non era una mezza cartuccia. Forse, dopo aver perso suo marito a quel modo che tutti sappiamo, ha preferito il deserto.
     Come per queste prostitute, anche per me e per te gli aspetti di questo mondo che ieri disprezzavamo e che determinarono i nostri primi passi, oggi li disprezziamo ancora di più. Ciò che amavamo amiamo ancor di più: non c'è nessun oltre se non a partire dal senso degli altri, esso comincia da chi ti sta davanti.
     Ma siamo più fortunati di quelle nobili indipendenti e coerenti signore. Non siamo in un deserto e non viviamo il miraggio dell'amante ideale. "Cristo", ricordo, significa "unto dal divino". Come ci spiega la storiella lituana, ognuno di noi due trova nell'altra/o la forza amorevole superiore a quella di ogni dio finora conosciuto. Il nostro MeTe, come ogni altro, è il frammento che allude a una possibile umanità androgina, dopo quella del dominio nata dal disprezzo per le donne. E "abbandonare" deriva dall'antico francese "à ban donner" che significa "mettere a disposizione di chiunque".
     Perciò noi comunque continueremo a chiedere: Perché volete farci scopare 45 giorni all'anno fuori dal carcere invece di limitarvi a lasciarci amare 45 giorni all'anno in carcere?
     E restiamo comunisti.