Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose
Le morti in carcere nell'anno 2002
Morte per cause non chiare: 8 gennaio 2002, Carcere di Pozzuoli (Napoli)
Licia Roncelli, 20 anni, tossicodipendente, muore: forse a causa dell'assunzione
di un "cocktail" di farmaci. Il decesso della ragazza è coperto
dal segreto istruttorio: dopo tre mesi, neanche il risultato dell'autopsia è
stato reso noto ai familiari e all'avvocato di parte. Licia è morta e
non si sa perché. Le voci, sussurrate dal carcere, raccontano di un cocktail
micidiale di farmaci. Già, perché lei aveva deciso di disintossicarsi
e di cambiare vita; aveva scelto di essere libera e felice e progettava viaggi
e passeggiate all'aria aperta, soprattutto negli ultimi mesi, quando il suo
legale, Amedeo Valanzuolo, le aveva prospettato una riduzione di pena. Ma "la
sera dell'8 gennaio Licia si è sentita male. È diventata cianotica,
urlava, chiedeva aiuto, poi si è irrigidita, si muoveva a scatti - ha
raccontato all'avvocato un'amica conosciuta in carcere - un minuto prima era
viva, gioiosa, sana. Dopo poco non respirava più".
Al primo malore il direttore della casa circondariale ha dato l'allarme. Ma
i medici e gli infermieri, provenienti dal vicino ospedale "Santa Maria
delle Grazie", non hanno potuto far nulla. "Dalle carte in nostro
possesso risulta che la detenuta era già morta quando è arrivata
l'ambulanza", dicono i funzionari della direzione sanitaria dell'A.S.L..
Aveva un nome dolcissimo, Licia, e grandi e profondi occhi scuri. Si bucava,
aggrappandosi all'oblio del veleno che si iniettava nel sangue. Per questo rubava
e per questo era stata punita. Oggi sua madre, Gabriella Roncelli, veterinaria,
non vuole che quella storia resti nell'ombra. Così da quattro giorni
protesta, seduta all'ingresso della prigione di Pozzuoli, dove era detenuta
la figlia. "Era pallida e bellissima, quando l'ho vista, distesa sulla
barella dell'obitorio. I capelli scuri e lunghi le sfioravano il volto. Le ho
toccato la testa, come quando era bambina. Sembrava addormentata. Non è
possibile che si muoia così, a vent'anni, in prigione, senza una ragione.
Mia figlia era sana. Da mesi non si bucava, d'altronde era in carcere come avrebbe
potuto acquistare droga?", grida Gabriella Roncelli, che non sa darsi pace.
Naturalmente sulla vicenda è stata aperta un'inchiesta. "La famiglia
si è costituita parte civile, ma ad oggi non c'è stata neanche
la deposizione del referto medico e dei risultati dell'autopsia in Procura -
ribatte il legale - La ragazza stava bene. Risale ai primi di gennaio la mia
ultima visita in carcere. È stato allora che ho incontrato Licia. Era
fiduciosa, sembrava rinata. Aveva iniziato il trattamento di disintossicazione
e sognava di andar via. Dalla sua cella vedeva il mare e mi raccontava che aveva
voglia di correre. Libera". (Il Mattino, 27 aprile 2002).
Morte per cause non chiare: 17 gennaio 2002, O.P.G. di Aversa (Caserta)
Maurizio Marazzi, 51 anni, muore in cella, stroncato da un malore improvviso.
Ex sociologo, autore di 'Inquietudine omicida', scritto insieme al criminologo
Francesco Bruno, Maurizio Marazzi è stato vittima di uno strano scherzo
del destino e internato per aver commesso un omicidio. Maurizio aveva imparato
però a trasferire il suo amore per la scrittura sul giornalino dell'O.P.G.,
'La storia di Nabuc', dimostrando ogni volta il suo interesse per temi d'attualità.
Ed è proprio sul prossimo numero che doveva partire la rubrica 'Profili
Criminali', ideata da lui, con l'intento di raccontare la vita degli internati,
materiale che sarebbe poi servito alla pubblicazione di un suo prossimo libro
durante gli anni di ricovero. (Il Corriere di Caserta, 8 febbraio 2002)
Suicidio: 17 gennaio 2002, Carcere di Sassari
Un giovane slavo, s'impicca con una corda fatta di stracci nel terzo braccio,
quello dove solitamente sono messi i detenuti affetti da qualche problema psichico.
Il giovane aveva già manifestato, in più occasioni, atteggiamenti
da schizofrenico.
L'autoambulanza rimane fuori dal portone dell'Istituto, perché dall'interno
arriva la notizia che "Si è ripreso, ce l'hanno fatta". Invece
il medico del carcere ha già constatato il decesso. Il magistrato di
turno, Roberta Pischedda, apre un'inchiesta e chiede una dettagliata relazione
alla vicedirettrice del "San Sebastiano", dott.ssa Incollu. L'autopsia,
disposta dal giudice, è eseguita il 19 gennaio. (L'unione Sarda, 19 gennaio
2002)
Overdose: 20 gennaio 2002, Carcere di Is Arenas (Cagliari)
Detenuto muore in cella: probabile overdose. Nell'istituto si registrano tensioni
tra gli agenti e i detenuti, ma anche tra le varie categorie di operatori. Accuse
di eccessiva severità nei confronti del direttore. (La Nuova Sardegna,
27 gennaio 2002)
Assistenza sanitaria disastrata: 22 febbraio 2002, Carcere di Poggioreale
(Napoli)
Detenuto muore poco dopo il ricovero all'Ospedale "San Paolo". Da
circa un mese lamentava forti dolori addominali e respirava a fatica. Aveva
più volte chiesto di essere visitato, ma i medici del carcere si erano
limitati a prescrivergli dei sedativi. Era abbandonato dalla famiglia. Un gruppo
di detenuti, che dichiara di avere assistito al suo calvario, invia una lettera
di protesta al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e al
Ministro della Giustizia. (Il Mattino, 4 febbraio 2003)
Morte per cause non chiare: 22 gennaio 2002, Carcere di San Vittore (Milano)
Detenuto algerino muore dopo aver subito l'estrazione di due denti. Non si
conoscono altri particolari sulla vicenda. (La Repubblica, 28 marzo 2002)
Tentato suicidio: 26 gennaio 2002, Carcere di Cassino (Frosinone)
Tony C., 35 anni, di Latina, tenta di impiccarsi. Soccorso dagli agenti e trasportato
all'Ospedale di Frosinone, in Rianimazione. È in coma farmaceutico, indotto
per cercare di limitare i danni al cervello. Condannato per reati contro il
patrimonio, con una pena residua di un anno. Negli ultimi tempi era apparso
depresso, in preda a frequenti crisi di pianto. Inchiesta avviata dalla Direzione
degli Istituti di Pena, già interrogati alcuni detenuti, previsto anche
l'interrogatorio dello staff psicologico e medico del carcere di Cassino. (Il
Messaggero, 28 gennaio 2002)
Suicidio: 30 gennaio 2002, Carcere di Poggioreale (Napoli)
Raffaele Montella, 40 anni, napoletano, si impicca. Due giorni prima l'avevano
"chiuso" dagli arresti domiciliari, per essersi allontanato dalla
sua abitazione; era in attesa di giudizio per reati di droga. I suoi parenti
non credono al suicidio, ma lui, prima di essere riportato in carcere, aveva
detto: "Se torno in cella mi ammazzo". (La Repubblica, 1 febbraio
2002)
Suicidio: 2 febbraio 2002, Carcere di Foggia
Luigi Cavaliere, 24 anni, foggiano, si impicca, poco prima di mezzogiorno, mentre
era in cella di "osservazione". Soccorso dagli agenti e trasportato
in ambulanza al Policlinico di Foggia, vi arriva morto. Era in attesa di giudizio,
per rapina e associazione per delinquere. Gli era stata diagnosticata una patologia
ansioso-depressiva, a causa della quale il suo avvocato aveva chiesto (una settimana
prima del suicidio) che gli concedessero gli arresti domiciliari. Il G.I.P.
ha rigettato l'istanza, nonostante il parere favorevole di una perizia psichiatrica
e, dopo il suicidio del detenuto, è stato denunciato dal legale. (Gazzetta
del Mezzogiorno, 3 febbraio 2003)
Assistenza sanitaria disastrata: 2 febbraio 2002, Carcere di Teramo
Luigi Martera, 36 anni, muore per un'emorragia interna, causata da un paio di
forbicine che aveva ingerito 3 giorni prima. Condannato a 24 anni di reclusione,
per reati di criminalità organizzata, era stato ammesso al programma
di protezione per i collaboratori di giustizia. Però era evaso dalla
detenzione domiciliare e, per questo, l'avevano rimesso in carcere, all'Aquila.
Dopo aver ingerito le forbicine aveva rifiutato il ricovero in ospedale, quindi
era stato trasferito nel carcere di Teramo, che è dotato di un Centro
Clinico. (Gazzetta del Mezzogiorno, 4 febbraio 2003)
Assistenza sanitaria disastrata: 3 febbraio 2002, O.P.G. di Montelupo Fiorentino
(Firenze)
Giovanni Pietro Bonomo, 40 anni, romano, muore durante la notte. Alle 5.30 del
mattino gli agenti se ne accorgono e tentano di soccorrerlo, chiamano l'autoambulanza,
ma il medico può solo constatare il decesso dell'uomo. Bonomo era in
carcere dal 25 novembre 2001 per avere forzato un posto di blocco della polizia,
a Roma. Portato prima nel carcere di Civitavecchia, il 21 gennaio 2002 viene
trasferito all'O.P.G. Montelupo perché "ogni tanto andava in escandescenze",
come racconta la moglie. L'Osservatorio per i diritti dei detenuti, che si batte
per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, denuncia l'episodio
e rivolge un appello al Ministro della Salute e a quello della Giustizia: "Le
persone con problemi psichiatrici andrebbero curate, non incarcerate" (Il
Tirreno, 8 febbraio 2003)
Morte per cause non chiare: 3 febbraio 2002, Carcere Femminile della Giudecca
(Venezia)
Manuela S., 30 anni, muore per "probabile malore". Nessun segno di
violenza sul corpo. Il Sostituto Procuratore di Venezia, Susanna Menegazzi,
ha disposto l'autopsia. (Il Gazzettino, 4 febbraio 2003) Era una ragazza di
origine zingara e sembra avesse perso il sostegno della famiglia a causa dei
suoi problemi di tossicodipendenza. In carcere assumeva molti psicofarmaci.
(Redazione della Giudecca di Ristretti Orizzonti)
Morte per cause non chiare: 3 febbraio 2002, Carcere di Secondigliano (Napoli)
Giovanni Troncone, napoletano, muore nel padiglione "Alta Sicurezza".
Si sospetta il suicidio. La Procura chiede l'archiviazione del caso ma il G.I.P.,
Giuseppe Campa, rifiuta l'archiviazione e chiede che un ispettore di polizia
penitenziaria sia indagato per omicidio. Il Sappe (sindacato autonomo polizia
penitenziaria) protesta, attraverso segretario regionale Emilio Fattorello:
"'a pagare, ancora una volta, è l'anello debole della catena",
l'agente di polizia penitenziaria. (Il Mattino, 4 febbraio 2002)
Suicidio: 6 febbraio 2002, Carcere di Spoleto (Perugia)
Salvatore Damiani, 62 anni, si impicca nella sezione di "Alta Sicurezza".
Era in carcere dal 22 giugno 2001, con una condanna definitiva a 12 anni per
associazione di stampo mafioso. (La Sicilia, 8 febbraio 2002)
Suicidio: 7 febbraio 2002, Carcere di Sassari
Detenuto marocchino, 31 anni, si impicca, usando come cappio un fazzoletto,
dopo aver atteso che i compagni di cella uscissero per "l'aria". Avrebbe
finito di scontare la pena il 15 agosto 2003. Soffriva di esaurimento nervoso
ed era seguito da uno psichiatra: la sua situazione era giudicata "sotto
controllo". (La Nuova Sardegna, 8 febbraio 2002)
Suicidio: 7 febbraio 2002, Carcere di Rebibbia (Roma)
Detenuto di 33 anni, tossicodipendente, si impicca dopo un colloquio con il
Magistrato di Sorveglianza. Aveva manifestato le sue intenzioni sia con il giudice,
sia, sembra, con un ispettore, al quale avrebbe detto "Io mi ammazzo",
ricevendo come risposta "Fai come ti pare". L'uomo era tornato in
carcere da poco, dopo che gli era stata sospesa la semilibertà a causa
della sopravvenienza di una nuova condanna definitiva. Stava aspettando che
il tribunale di sorveglianza verificasse se il cumulo delle pene gli consentisse
di riavere la misura alternativa. (Il Messaggero, 12 febbraio 2003)
Tentato suicidio: 10 febbraio 2002, Carcere di Sassari
A.S., 35 anni, tenta di darsi fuoco in cella. Gli agenti intervengono in tempo,
viene ricoverato al Centro ustioni dell'Ospedale cittadino. Da tempo soffriva
di crisi depressive e, per questo, educatori ed agenti avevano aumentato l'attenzione
intorno a lui. (L'Unione Sarda, 11 febbraio 2002)
Suicidio: 12 febbraio 2002, Carcere di Monza
Detenuto di 25 anni, originario del sud Italia ma residente a Seregno (MI),
si impicca in una cella dell'infermeria, dove stava da solo, dopo un colloquio
con gli operatori del Ser.T.. In attesa di giudizio per una serie di rapine
a tabaccai e benzinai, compiute con una pistola giocattolo, doveva essere interrogato
a giorni. Considerato un giovane "fragile e problematico" era "costantemente
seguito dagli operatori": sembra che l'intenzione di uccidersi fosse legata
alla vergogna per avere deluso la sua famiglia (La Repubblica, 14 febbraio 2003)
Assistenza sanitaria disastrata: 20 febbraio 2002, Carcere di Verona
Carmine Proietto, 57 anni, di origine calabrese ma residente a San Bonifacio
(VR), muore per una crisi cardiaca nell'infermeria del carcere. Era stato arrestato
un mese e mezzo prima, con l'accusa di aver partecipato ad un'estorsione. Aveva
già subito tre infarti e, per questo motivo, il suo avvocato aveva chiesto
che gli fossero concessi gli arresti domiciliari. Il giudice, dopo aver disposto
una perizia medica ' dalla quale risultò che le sue condizioni di salute
erano compatibili con la detenzione ' respinse la richiesta. La Procura ha aperto
un'inchiesta.
Tentato suicidio: 24 febbraio 2002, Carcere di Sanremo (IM)
Gianni Cretarola, 19 anni, tenta di impiccarsi e viene salvato da un agente.
In attesa di giudizio per l'omicidio di un coetaneo, avvenuto all'uscita di
una discoteca, il ragazzo aveva già tentato il suicidio tagliandosi le
vene e, per questo, era stato per qualche tempo nel reparto psichiatrico dell'Ospedale
Civile di Sanremo. Successivamente l'avevano riportato in carcere, dove è
seguito dagli psicologi e sottoposto ad una sorveglianza intensificata.
Morte per cause non chiare: 27 marzo 2002, Carcere di San Vittore (Mi)
Karim Charkaoui, 20 anni, marocchino, muore in una cella di San Vittore, senza una ragione apparente, spiegabile ad un primo esame. È il terzo giovane detenuto, nel giro di un paio di mesi, che esce dal carcere con i piedi davanti. Anche in questo drammatico caso, com'era successo a gennaio, per un algerino che aveva appena subito l'estrazione di due denti, e a febbraio per un ragazzo italiano, sarà l'autopsia a certificare che cosa l'ha ucciso e perché, mentre stava chiuso in galera. Le ipotesi estreme di omicidio e suicidio sembrano già escluse, gli accertamenti subito avviati hanno, per ora, consentito di mettere a fuoco i suoi ultimi, movimentati giorni di vita.
Lunedì Karim, lo spiega la documentazione poi acquisita dalla polizia penitenziaria, finisce al pronto soccorso di un grande ospedale milanese. Racconta che è stato picchiato qualche ora prima, aggiunge che, accidentalmente, ha bevuto dell'ammoniaca e l'ha subito risputata. È un po' rintronato e confuso, sulla testa ha il segno di una ferita non recentissima. E i medici, appena si riprende, a metà pomeriggio, gli rilasciano un certificato con il referto e una indicazione che ieri nessuno era in grado di spiegare con precisione: 'si affida agli agenti delle forze dell'ordine'.
Sta di fatto che la notte successiva, alle 2.30, il ragazzo marocchino rispunta vicino alla stazione Centrale. Gli agenti di una Volante in transito da Viale Lunigiana - è uno dei tasselli del puzzle ricostruiti in questura - all'incrocio con Via Edolo scorgono due stranieri che bisticciano. E si fermano. Quello rimasto lì spiega che il 'rivale' gli ha rubato il cellulare e gli ha tirato addosso dei sassi. Così i poliziotti rincorrono l'altro, Karim. Il ventenne, scappando, viene toccato da una macchina. Cade. Si rialza. Riprende a correre. Ma pochi metri dopo viene acchiappato e identificato. Gli agenti, anche se apparentemente sta bene, chiamano un'ambulanza. Lui, però, rifiuta le cure. Viene allora portato prima in una cella di sicurezza di Via Fatebenefratelli e, la mattina dopo, nell'aula dove è fissato il processo per direttissima per 'tentata rapina'. L'udienza slitta al 29 marzo e Karim, ripassato dalla questura per prendere la sua roba, in attesa di giudizio viene scortato fino a San Vittore. La visita medica d'ingresso e gli esami specialistici non riscontrano alcun problema particolare. Ma alle cinque del mattino un compagno si accorge che non respira più. Una morte, per adesso inspiegabile, che si aggiunge alle due di quest'anno e a quelle contate nei mesi precedenti. Nelle carceri lombarde, l'aggiornamento è stato fatto in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, tra il luglio 2000 e il giugno 2001 si sono contati 7 suicidi, 6 decessi per Aids ed altri 12 per non meglio precisate 'cause naturali'. (La Repubblica, 28 marzo 2002)
Assistenza sanitaria disastrata: 28 febbraio 2002, Carcere di Marassi (Genova)
Mario V., 54 anni, originario di Pesaro, muore mentre attende di essere chiamato
per un colloquio con la moglie. Era in cella con altri otto detenuti, che l'hanno
visto barcollare e poi cadere, sbattendo la testa contro lo spigolo di un tavolino.
Trasferito nell'ambulatorio del carcere, non si è più ripreso.
Mario V. stava scontando una pena definitiva, per il furto in un'abitazione,
e l'avrebbe terminata entro un mese. Nei giorni precedenti aveva lamentato uno
"strano formicolio" ad un braccio, forse segnale di latenti problemi
cardiaci, ma non era stato disposto nessun accertamento sulle sue condizioni
di salute. Sulla morte sono state aperte due inchieste, una dal Provveditorato
regionale alle Carceri e una dalla Procura di Sanremo.
Morte per cause non chiare: 1 marzo 2002, Carcere di Rebibbia (Roma)
Stefano Guidotti, 32 anni, è trovato impiccato alle sbarre del bagno.
Sono i tre compagni di cella a dare l'allarme, ma una serie di particolari fa
sorgere dubbi ai carabinieri del centro investigazione scientifica di Roma,
che conducono le indagini. A cominciare dalle escoriazioni presenti sul suo
volto: ferite inconciliabili con l'ipotesi del suicidio. Poi alcune inspiegabili
macchie di sangue sul pavimento. Infine il cappio - fatto con la cintura del
pigiama ' che per gli inquirenti non avrebbe potuto sostenere il peso del corpo.
Ad alimentare il dubbio anche una lettera, ritrovata tra gli effetti personali
di Guidotti: contiene progetti per il futuro, troppo lontani dall'idea di farla
finita. Era detenuto per associazione mafiosa ed estorsione. Il P.M. Giancarlo
Amato, titolare dell'inchiesta, per ora ha chiesto soltanto gli accertamenti
di rito per un suicidio in carcere. (La Repubblica, 5 marzo 2002)
Suicidio: 10 marzo 2002, Carcere di Castrovillari (Cosenza)
Giuseppe Pirrone, 42 anni, si uccide strangolandosi con una corda. Era in carcere
dal 21 maggio 2001, per scontare un cumulo di pene di un anno e otto mesi per
minacce e lesioni. Verso le dieci del mattino ha fissato la corda all'inferriata
della finestra del bagno; qualcuno, dall'esterno, s'è accorto delle sue
intenzioni ed è subito scattato il "piano d'emergenza", con
l'intervento del medico dell'istituto. Il sanitario, accortosi della gravità
del caso, ha disposto il trasferimento immediato di Pirrone all'Ospedale "Ferrari",
dove è morto poco dopo il ricovero. Il P.M. Carmen Ciancia ha disposto
accertamenti investigativi sul cadavere, mentre tutti si chiedono come abbia
fatto ad entrare nel carcere la corda che Pirrone ha usato come "strumento
di morte". Nei giorni precedenti il suicidio 113 detenuti del carcere di
Castrovillari avevano inviato delle lettere di protesta al Presidente del Consiglio
e al Ministro della Giustizia, per denunciare le difficili condizioni di vita
nell'Istituto. (Gazzetta del sud, 12 marzo 2002)
Tentato suicidio: 14 marzo 2002, Carcere delle Vallette (Torino)
Carmine Aquino, 38 anni, dopo un tentativo di suicidio viene trasferito al repartino
detenuti dell'Ospedale "Le Molinette". L'uomo si è tagliato
le vene dei polsi e si è salvato soltanto grazie al tempestivo intervento
degli agenti penitenziari: si trovava in carcere nonostante sia gravemente malato
e pesi appena 48 chili. Il 26 marzo il Tribunale di Sorveglianza si esprimerà
sulla richiesta di sospensione della pena e sul trasferimento in un ospedale
in grado di prestare le cure adeguate; ma in attesa della decisione l'avvocato
di Aquino, Walter Campini, ha presentato una nuova istanza al giudice di Sorveglianza,
chiedendo l'immediato ricovero del detenuto presso l'istituto riabilitativo
Fatebenefratelli di San Maurizio Canavese, che ha dato la sua disponibilità
ad accogliere il detenuto. (La Stampa, 17 marzo 2002)
Suicidio: 17 marzo 2002, Carcere di Foggia
Ignazio Carpano, 42 anni, detenuto per tentata estorsione e droga, muore nell'ambulanza
che lo trasportava agli Ospedali Riuniti, dopo essersi impiccato alla finestra
della sua cella. L'allarme è scattato alle 12, quando un agente di custodia
ha visto il corpo penzolare: la vittima aveva fatto un cappio usando le lenzuola.
Il medico del carcere ha praticato tutte le tecniche di rianimazione, proseguite
anche sull'ambulanza, ma non c'è stato nulla da fare. Carpano era stato
arrestato il 15 settembre 2000, per scontare 5 anni e 3 mesi di reclusione.
Il primo anno e mezzo di detenzione l'aveva trascorso agli arresti domiciliari
e, dal 7 febbraio 2002, si trovava nel carcere foggiano (Gazzetta del Mezzogiorno,
18 marzo 2002)
Suicidio: 22 marzo 2002, Carcere di Lecce
Gioacchino Sammali, 22 anni, si impicca. Era in attesa di giudizio, con l'accusa
di avere ucciso un'anziana donna, nel corso di una rapina avvenuta nel 1998
e che aveva fruttato 200.000 lire. (Gazzetta del Mezzogiorno, 24 marzo 2002).
Suicidio: 2 aprile 2002, carcere di Trento
Stefano Santolini, 28 anni, si impicca in cella. Ha solo 15 anni quando viene
denunciato la prima volta, uno di più quando partecipa all'omicidio di
un tassista in Valsugana. Quindi la vita di Stefano Santolini è stata
una discesa nel buio, fino all'altro giorno quando si è suicidato nella
sua cella del carcere di via Pilati. Aveva un fisico imponente, ha aspettato
che i compagni di cella si addormentassero e si è impiccato alle sbarre
della finestra.
Dice di lui il cappellano del carcere: "Ha pagato molto, per colpe che
non sono solo sue". Una frase per spiegare una vita che ha avuto solo qualche
breve sprazzo di futuro, pronunciata da padre Bortolotti, che ha parlato per
l'ultima volta con Santolini sabato scorso: "Questi gesti sono sempre una
coda di situazioni difficili, per lui la situazione era diventata pesantissima".
Per capire quanto quel ragazzo soffrisse dietro le sbarre basta ricordare la
lunga serie di evasioni di cui è stato protagonista. Ottobre 1992: fugge
assieme a due compagni dal carcere minorile di Bologna rimuovendo una grata
da una finestra. Maggio 1993: fugge dalla finestra del locale docce del carcere
minorile di Milano, si arrampica su un cornicione e si cala per dieci metri
lungo una corda di lenzuola annodate. Marzo 1994: si allontana mentre gode di
un permesso premio concesso per frequentare un corso di roccia. Aprile 1994:
fugge assieme a due compagni di cella dal carcere minorile di Torino, dopo aver
saltato un muro alto sei metri. Viene sempre ripreso, perché i ragazzi
come lui - per quanto abili a saltare dalle finestre - non sanno dove nascondersi
in una società dove per loro non c'è posto.
Il racconto delle sue evasioni dice quanto Santolini amasse la libertà.
Ma non fu in grado di mantenerla quando, nel 1998, terminò di scontare
la sua pena. Tornò nella sua casa di Levico Terme dove - come spiega
il suo avvocato, Stefano Giampietro - non riuscì mai più ad integrarsi:
nessun lavoro, nessun contatto sociale. Così dopo qualche mese venne
nuovamente arrestato con gravi accuse: sequestro di persona, violenza sessuale,
atti osceni in luogo pubblico, tutto per un episodio in cui si era appartato
con una ragazza in Valsugana. Stefano Santolini aveva provato a rifarsi una
vita con l'aiuto dell'Apas (l'associazione trentina che si occupa della riabilitazione
dei detenuti). Solo che la sua situazione personale e familiare era troppo difficile,
terribilmente complicata. Una volta in carcere il suo equilibrio era peggiorato,
tanto che per alcuni periodi era stato detenuto nell'ospedale psichiatrico giudiziario
di Montelupo Fiorentino.
Da un anno era tornato in via Pilati in attesa degli ultimi processi per le
sue scorribande, in corte d'appello a Trento. L'altra notte l'ultimo gesto disperato,
ma non il primo. Altre volte Stefano Santolini aveva tentato il suicidio e negli
ultimi tempi non voleva vedere nessuno, nemmeno i genitori, nemmeno una ragazza
che in passato gli aveva scritto lettere disperate in carcere. Quando voleva
parlare con il suo legale scriveva lunghe lettere in un italiano corretto in
modo sorprendente, almeno per uno che con le scuole non aveva avuto un buon
rapporto. I giornali l'avevano chiamato "Faccia d'angelo" perché
nelle redazioni circolava una vecchia fotografia di quando venne arrestato la
prima volta, ancora ragazzino. Ma la sua faccia in realtà non era più
angelica da tempo.
Nel settembre 2001 si era tolto la vita il fratello di Stefano, Massimo Santolini,
in una stanza del convento di Cles dove era agli arresti domiciliari. L'anno
precedente si era tolto la vita Eduard Bellin, compagno di cella di Santolini.
In precedenza aveva scelto la stessa estrema soluzione Andrea Rinaldo (uno dei
giovani condannati per l'omicidio del tassista). Giovani per cui non c'era posto
né fuori, né dentro il carcere. (L'Alto Adige, 4 aprile 2002).
Suicidio: 24 aprile 2002, Ospedale "Maria Vittoria" di Torino
Fabrizio Linetti, detenuto nel carcere delle Vallette, dice di aver ingerito
un tagliaunghie. È una scusa (come accerterà l'autopsia) per andare
in ospedale. Al pronto soccorso s'impadronisce di una specie di taglierino usato
in ambulatorio. C'è una colluttazione con un agente penitenziario e Linetti
riusce ad afferrare la pistola dell'agente, con la quale poi si uccide, quando
vede inutile ogni tentativo di fuga. Un fatto anomalo, dicono gli inquirenti,
perché Linetti non aveva alcuna possibilità di scappare, ma anomalo
è anche il suicidio, che non sembra avere una giustificazione precisa.
(La Stampa, 25 aprile 2002).
Tentato suicidio: 1 maggio 2002, Carcere di Udine
"Nordafricano di 30 anni", da alcuni anni detenuto nel carcere udinese,
si ferisce alla gola con una lametta per la barba. I compagni di cella danno
l'allarme e, fortunatamente, vicino c'è un agente che fa scattare i soccorsi.
La rapidità, in questo caso, è decisiva: al pronto soccorso i
medici possono intervenire prima che la situazione diventi critica. (Messaggero
Veneto, 3 maggio 2002).
Tentato suicidio: 2 maggio 2002, Carcere di Udine
"Detenuto friulano di 35 anni" tenta di impiccarsi, utilizzando delle
lenzuola appese ad un letto a castello. I compagni di cella, svegliati dal rumore,
lo soccorrono e chiamano gli agenti. L'uomo è trasportato al pronto soccorso
del "Santa Maria della Misericordia", dove i medici lo sottopongono
alle terapie del caso. Il trentacinquenne si riprende, tanto che non si rende
nemmeno necessario il ricovero. (Messaggero Veneto, 3 maggio 2002).
Suicidio: 4 maggio 2002, Carcere di Marassi (Genova)
Antonio D. S., di 30 anni, si impicca in una cella nel Centro Clinico con una
rudimentale corda, ricavata da un lenzuolo tagliato a strisce. Su quest'ultimo
particolare gli accertamenti saranno rigorosi: gli inquirenti non riescono a
spiegarsi come e quando Antonio D. S. abbia formato la "corda" senza
essere visto da alcuno. In proposito si ipotizza comunque una giustificazione:
l'assoluta carenza di personale; in quel reparto la sorveglianza per una ventina
di detenuti è affidata a un solo agente. Una situazione paradossale,
che però alleggerirebbe la posizione delle guardie carcerarie. L'uomo
stato condannato a 15 anni, per un omicidio commesso in provincia di Taranto.
(La Repubblica, 24 maggio 2002).
Suicidio: 5 maggio 2002, Carcere di Marassi (Genova)
Fabio B., di 38 anni, residente a Sestri, si uccide nel Centro Clinico del carcere
di Marassi. Poco prima delle 14, le guardie carcerarie hanno trovato il detenuto
impiccato, con la cintura dei pantaloni usata come cappio. Era stato arrestato
la sera del 15 febbraio 2002 nella casa dei genitori, con i quali aveva avuto
una violenta lite. Sarebbe stata una lettera della sua fidanzata a fare crollare
Fabio B. in una depressione ancora più profonda di quella che lo affliggeva:
lo ha rivelato Giorgio P., il compagno di cella: la scoperta dell'amico penzoloni
da un cappio formato dalla cintura dei calzoni, ebbe effetti negativi anche
su di lui, tali da indurre i medici delle Case Rosse a trasferirlo all'Ospedale
"San Martino". Fabio B., dopo avere letto la missiva, si sarebbe chiuso
in un mutismo assoluto. Tentativi di farlo parlare non avrebbero avuto successo.
Rimasto momentaneamente solo perché Giorgio P. era stato accompagnato
alle docce, entrò nel cucinino della cella e attuò così
il gesto disperato. Non è dato conoscere ancora il contenuto della missiva:
il P.M. Biagio Mazzeo ne ha disposto il sequestro; lo stesso magistrato ha chiesto
alla direzione del carcere anche un memoriale che il suicida aveva scritto.
È il terzo suicidio, in cinque mesi, a Marassi e il secondo in due giorni
nel Centro Clinico della Casa Circondariale. (La Repubblica, 24 maggio 2002).
Assistenza sanitaria disastrata: 5 maggio 2002, Ospedale "Hesperia"
di Modena
Domenico Di Gioia, 39 anni, muore in ospedale, dove era stato ricoverato per
una crisi cardiaca che lo aveva colto nel carcere "S. Anna" di Modena.
Il 25 aprile Di Gioia ha un edema polmonare ed è ricoverato in ospedale,
ma opta per le dimissioni volontarie e torna in carcere. La notte del 30 aprile
ha un arresto cardiaco e, dopo un massaggio cardiaco di 30 minuti, viene nuovamente
portato in ospedale e sottoposto ad intervento chirurgico. L'operazione riesce,
ma l'arresto cardiaco ha già prodotti danni irreparabili al cervello,
che poi conducono al decesso.
L'avvocato Roberto D'Errico, presidente della Camera penale di Bologna, ha annunciato
che presenterà un esposto dettagliato sulla vicenda. D'Errico, che aveva
chiesto più volte al G.I.P. e al Tribunale della Libertà di Bologna,
gli arresti domiciliari per Di Gioia, chiederà nell'esposto che "se
sono sussistenti responsabilità di ogni ordine - amministrative, disciplinari
ed eventualmente penali - vengano individuate e perseguite". L'uomo era
stato arrestato nell'ottobre 2001, su ordinanza di custodia cautelare del P.M.
di Bologna Elisabetta Melotti, per un traffico di droga tra la Puglia e l'Emilia.
Una consulenza del medico legale della difesa, Michele Romanelli, aveva concluso
per l'incompatibilità di Di Gioia con la condizione carceraria. Una perizia
del G.I.P. però aveva concluso per la compatibilità dello stato
di salute dell'uomo con la detenzione.
L'On. Paolo Cento (Verdi) ha inviato un'interrogazione urgente al Ministro della
Giustizia sulla vicenda. "Di Gioia era riuscito a sopravvivere a cinque
gravi crisi cardiache - ha detto il parlamentare - il ministero deve intervenire,
per verificare le eventuali omissioni e le responsabilità di questo decesso".
La perizia del G.I.P., comunque, aveva accertato che Di Gioia si era sottratto
volontariamente alle terapie e che il peggioramento era riconducibile in parte
ad una condotta volontaria. (Il Resto del Carlino, 8 maggio 2002).
Suicidio: 17 maggio 2002, Carcere di Pesaro
Marco Zampetti, 35 anni, bolognese, si impicca con un laccio da scarpe. Era
detenuto dal 27 agosto 2001, per avere ucciso la madre in un raptus di follia.
Il giovane, che aveva interrotto gli studi di Ingegneria a Bologna e aveva svolto
lavori saltuari, era in cura da uno psichiatra ed era stato anche sottoposto
a trattamenti sanitari.
Dopo l'omicidio confessò subito tutto e cercò di spiegare il suo
gesto con una serie di screzi e liti, l'ultimo dei quali una banale discussione
su dove collocare una pianta grassa nel balcone. Dietro le liti continue, uno
stato di oppressione e frustrazione, dovuta anche alla sua condizione di disoccupato,
che lo spingeva a chiedere di continuo soldi alla madre.
Zampetti fu sottoposto anche a una perizia psichiatrica, dalla quale risultò
che i suoi disturbi erano molto gravi e che poteva rappresentare un pericolo
per sé e per gli altri. Da qui la decisione di tenerlo in isolamento,
in regime di "alta sorveglianza". Negli ultimi tempi, a detta dei
familiari, c'era stato un apparente miglioramento: Zampetti aveva anche riallacciato
i contatti con il padre, a cui aveva scritto alcune lettere.
Poco meno di un mese fa, però, il giudice Barberini lo aveva interrogato
di nuovo, sulla base delle ultime perizie psichiatriche. Perizie che lasciavano
pochi dubbi: Zampetti aveva ucciso la madre in uno stato di follia e avrebbe
potuto uccidere ancora, perché le sue condizioni erano gravissime. Di
fronte al giudice, Zampetti non aveva mostrato segni di pentimento e aveva ricordato
che la madre, quella mattina, lo aveva guardato storto e aveva spostato in malo
modo il vaso sul balcone, scatenando la sua reazione. Molto probabilmente, avrebbe
dovuto essere trasferito in un manicomio giudiziario. Non è andata così.
(Il Messaggero, 18 maggio 2002)
Suicidio: 20 maggio 2002, O.P.G. di Reggio Emilia
Kolica Andon, 30 anni, albanese, si uccide, dopo 35 giorni di sciopero della
fame. La notizia trapela solo all'inizio di luglio. "Preferisco morire,
piuttosto che restare qui dentro da innocente": ora, quella frase ripetuta
fino all'ossessione, suona ancora più terribile e accusatoria. Faceva
sul serio, Kolica Andon, si è impiccato in una cella dell'ospedale psichiatrico
giudiziario di Reggio Emilia, dov'era arrivato da pochi giorni, proveniente
dal carcere di Mantova. Due settimane prima del suicidio una sua nipote, Maria,
aveva lanciato un appello pubblico perché la posizione processuale di
suo zio venisse rivista. "È in sciopero della fame da metà
aprile e dice che si lascerà morire, se non verrà accertata la
sua innocenza. Bisogna fare qualcosa, ha già perso 18 chili e non si
fermerà". Arrestato il 22 aprile 2001 a Ponti sul Mincio (MN), insieme
ad un suo connazionale, era stato condannato a quattro anni di carcere per detenzione
e spaccio di cocaina. Nel garage dell’abitazione dove si trovava, i carabinieri
avevano trovato un chilo e 680 grammi di coca.
"Ma io non ne sapevo nulla - ha ripetuto a tutti fino all’ultimo
- in quella casa ero ospite solo per quella notte". Nessun Tribunale però
ha mai creduto alla sua tesi: dopo la condanna in primo grado è arrivata
anche quella in appello, a Brescia. Poi, passando da un legale all’altro,
in una corsa contro il tempo dopo l’inizio dello sciopero della fame,
i suoi familiari le hanno tentate tutte: un’istanza per la sostituzione
del carcere con un’altra misura cautelare, al Tribunale della Libertà,
una seconda istanza, analoga, al Tribunale del Riesame, ma non c’è
stato niente da fare: tutte respinte.
E, mentre gli avvocati stavano preparando una nuova istanza, per chiedere almeno
gli arresti domiciliari per motivi di salute, Kolica ha anticipato tutti sul
tempo. Accanto al suo cadavere, più magro di venti chili di quando era
entrato in carcere a Mantova, i primi agenti che hanno tentato inutilmente di
soccorrerlo hanno trovato una lettera. "Ero innocente", ha voluto
ribadire ancora una volta in punto di morte, prima di dedicare un ultimo pensiero
ai suoi due figli: "Voglio che dei miei due piccoli si occupi mio zio,
che sta in provincia di Brescia". Una morte annunciata, che forse si poteva
evitare? (Gazzetta di Mantova, 2 luglio 2002)
Suicidio: 25 maggio 2002, Carcere di Sassari
Patrizia Piu, 23 anni, detenuta per reati di droga, si è impiccata nella
cella del carcere di San Sebastiano, approfittando dei pochi attimi in cui la
vigilatrice penitenziaria incaricata di controllare ogni sua mossa si era allontanata
per soddisfare un bisogno fisico. Forse Patrizia ha maturato la sua decisione
in quel maledetto pomeriggio di sabato, trascorso a pensare e a scrivere su
alcuni fogli protocollo una lunga lettera. Senza indirizzo. Una sorta di memoriale.
Sequestrato dalla magistratura.
Sul fronte delle indagini la situazione è in un momento di stallo. Il
Procuratore della Repubblica, Giuseppe Porqueddu, sta esaminando tutti gli elementi
raccolti durante il sopralluogo che gli esperti della polizia scientifica hanno
eseguito nella cella, ma si sarebbe soffermato soprattutto sulle due lettere
che Patrizia Piu ha lasciato sulla branda prima di togliersi la vita. Quella
più breve sarebbe un vero e proprio atto d’accusa, contro qualcuno
che avrebbe avuto un ruolo determinante nella tragica, quasi obbligatoria, scelta
fatta da Patrizietta e dal suo amato Alessandro. Anche lui era morto impiccato.
E proprio questo particolare potrebbe aver indotto la ragazza a fare la stessa
scelta.
Durante la sua breve latitanza, Patrizia non avrebbe pensato a nascondersi e
a sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine, ma soltanto a cercare
la verità sulla morte di Alessandro Vitiello. Avrebbe affrontato a muso
duro, come era sua abitudine, anche personaggi pericolosi e incontrato gente
che sapeva che lei sapeva che volevano farle del male. Ma lei non si era mai
tirata indietro, non era nel suo carattere. Voleva sapere la verità su
Alessandro ed era disposta a tutto. Anche a morire. Forse l’aveva già
messo in preventivo quando si era data alla latitanza, inspiegabilmente, a metà
marzo. Stava finendo di scontare la pena, ma era stanca di subire minacce e
intimidazioni continue per qualcosa legato alla fine del fidanzatino. E allora
aveva preferito sparire. Per capire.
Si era arresa venerdì pomeriggio in piazza Tola a tre carabinieri del
nucleo radiomobile che l’avevano avvicinata e fermata senza alcuna difficoltà.
Forse perché Patrizia si era stancata di fuggire. Ma soprattutto perché
era convinta di aver capito il motivo della morte del "suo" Alessandro.
E stava maturando l’ipotesi di accusare chi glielo aveva portato via in
quel modo così assurdo. Forse avrebbe collaborato con la giustizia, forse
avrebbe affidato al suo diario il racconto della verità, forse l’avrebbe
raccontato all’amatissima Nonna Michela, nelle tante lettere che le spediva
dal carcere. (La Nuova Sardegna, 28 maggio 2002).
Suicidio: 27 maggio 2002, Carcere di Pavia
Miguel Bosco, 30 anni, nomade, si uccide infilando la testa in un sacchetto
di plastica riempito con il gas della bomboletta da camping. Era stato arrestato
nel tardo pomeriggio del 26 maggio, per il furto di una motocicletta. Non ha
resistito nemmeno 24 ore.
Il suicidio ha provocato un intervento della CGIL, che ha chiesto un incontro
con il direttore. "La morte nel carcere - si legge in un comunicato della
CGIL - ci lascia carichi di dubbi e perplessità: è stato fatto
tutto il possibile per evitarla? Lo stesso evento si sarebbe verificato anche
fuori dal carcere? Il suicidio del nomade Miguel Bosco impone alle istituzioni
carcerarie una riflessione sulle condizioni di vivibilità, ma richiama
anche i cittadini ad aumentare il controllo su quanto accade dietro quelle mura.
Qualche giorno fa il direttore di un carcere simbolo, come è quello di
San Vittore, sollevava il problema dei suicidi. Il tono provocatorio e la novità
delle proposte lanciate dal dottor Pagano, non ci devono distogliere dalla gravità
del problema. La CGIL di Pavia chiede alla direttrice della Casa Circondariale
un incontro per analizzare la situazione carceraria". (La Provincia Pavese,
30 maggio 2002).
Morte per cause non chiare: 4 giugno 2002, Carcere di Rimini
Roberto Muccioli, 36 anni, ex tossicodipendente, muore in cella durante la notte. Nessuno si accorge di nulla, neppure i compagni di cella: solo quando la guardia carceraria passa, per un normale controllo, lo trova privo di vita. Roberto Muccioli, un passato di tossicodipendente, era stato arrestato l’ultima volta all’inizio dell’anno per una serie di scippi messi a segno in sella ad uno scooter rubato. L’ipotesi più accreditata è che l’uomo sia morto per infarto. Il magistrato ha disposto l’autopsia sul corpo, per l’esito degli esami tossicologici occorreranno 2 mesi. (Il Resto del Carlino, 6 giugno 2002).
Tentato suicidio: 4 giugno 2002, Carcere di Parma
"Trentenne, originario della Sicilia", tenta di uccidersi impiccandosi nella propria cella. È salvato in extremis dagli agenti della polizia penitenziaria e dagli operatori di Parmasoccorso, che lo hanno trasportato all’ospedale Maggiore di Parma. Visitato dai medici del pronto soccorso, le sue condizioni non sono parse particolarmente gravi. (Gazzetta di Parma, 6 giugno 2002)
Assistenza sanitaria disastrata: 10 giugno 2002, Reparto Detenuti dell’Ospedale di Salerno
La notizia della morte del detenuto è stata diffusa dal consigliere regionale Franco Specchio (Rifondazione Comunista), che ha effettuato un’ispezione al Reparto dell’Ospedale incontrando il dirigente Salemme e verificando uno stato di carenza strutturale preoccupante: "La divisione versa in condizioni pietose, gli standard igienico - sanitari non sono rispettati, le celle sono prive di bagni e lavandini, in estate le temperature sono sahariane, d’inverno antartiche, con spazi troppo angusti per gli operatori sanitari. Mancano pavimenti, campanelli per le emergenze, riscaldamenti e addirittura defibrillatori - ha spiegato Alessandro Longo - soprattutto la dignità del carcerato è calpestata, in quelle piccole celle non possono portare neanche indumenti intimi o libri". Il Reparto Detenuti è al quarto piano dell’edificio centrale: l’ascensore ferma al terzo piano. Per accedere al quarto esiste una chiave in dotazione solo agli agenti di custodia. Morale: in caso d’emergenza, è difficilissimo garantire celerità ed efficienza medica. Salemme ha promesso un intervento sollecito, garantendo l’attivazione di un presidio medico permanente ed i tanto auspicati lavori di ristrutturazione dell’edificio. Rifondazione Comunista chiederà alla Regione Campania l’approvazione immediata del progetto "Salute in carcere", esigendo la previsione di adeguate risorse finanziarie per la ristrutturazione dei reparti detenuti. (La Città. Quotidiano di Salerno, 15 giugno 2002).
Suicidio: 18 giugno 2002, Carcere di San Vittore (Milano)
Detenuto marocchino si impicca. La notizia viene data dal direttore dell’Istituto, Luigi Pagano, durante un incontro con dei giornalisti: "Ieri si è impiccato un marocchino: il suicidio rimane la nostra vera sconfitta". (Panorama, 19 luglio 2002).
Suicidio: 18 giugno 2002, Carcere di Tolmezzo (Udine)
Renzo Carraro, 45 anni, si uccide con il gas. A trovarlo, verso le 19.30, è il compagno di cella: ha un sacchetto di plastica in testa, e accanto la bomboletta del fornello a gas. Ha fatto in modo che il gas riempisse il sacchetto, lasciandosi stordire fino a perdere conoscenza e poi morire. Il medico di turno, intervenuto tempestivamente, fa risalire il decesso ad un quarto d’ora prima. Carraro era in carcere da poco più di un anno, con l’accusa di omicidio. Da mese fa era stato trasferito da Vicenza a Tolmezzo e non aveva mai dato segni di sofferenza o manifestato intenzioni suicide, assicura la direzione del carcere: "Non ha mai chiesto assistenza medica o di parlare dei suoi problemi con qualcuno. Tra l’altro aveva un avvocato molto attento e presente, che lo seguiva costantemente". All’inchiesta amministrativa, che sarà aperta dalla direzione del carcere, si affiancherà quella avviata dalla Procura di Tolmezzo. (Il Gazzettino, 20 giugno 2002)
Morte per cause non chiare: 30 giugno 2002, Carcere di Cuneo
Mauro Fedele, 33 anni, muore in carcere. La versione ufficiale parla di "arresto
cardiocircolatorio" ma Giuseppe Fedele, padre di Mauro, lancia accuse contro
gli agenti di custodia. "Il corpo di mio figlio è pieno di lividi:
ha la testa fasciata e ha segni blu su collo, sul petto, specialmente a destra,
come uno zoccolo di cavallo; e poi sui fianchi e all’interno delle cosce,
sia a destra sia a sinistra. È chiaro che lo hanno riempito di botte,
forse con i manganelli, e che è morto per questo. Chiederemo che un nostro
medico di fiducia assista all’autopsia, perché dopo quello che
abbiamo visto non possiamo subire passivamente e credere a quello che ci hanno
detto e cioè che Mauro è morto per arresto cardiocircolatorio.
Il nostro avvocato presenterà una denuncia per omicidio, perché
pensiamo che sia morto in seguito ad un pestaggio".
Mauro Fedele era in carcere alle Vallette di Torino, in attesa di giudizio per
reati connessi allo spaccio di stupefacenti. Una decina di giorni prima della
sua morte ne è stato deciso il trasferimento al carcere di Cuneo, per
ragioni legate al sovraffollamento della Casa di reclusione torinese. Sabato
un fratello e una sorella lo avevano potuto incontrare nel parlatorio del carcere
di Cuneo. "Stava bene - racconta Franco Fedele -, sono certo che non aveva
ferite, non mi ha detto che aveva problemi. Sono stato anch’io in carcere
a Cuneo; so che il regime è un po’ più duro, ma se avesse
avuto guai me lo avrebbe detto". Non passa un’intera giornata: a
casa della famiglia Fedele, in via Fratelli Garrone, a Torino, alle dieci di
ieri mattina arriva una pattuglia dei carabinieri.
"Ci hanno spiegato - dice la madre di Mauro Fedele, Santina Di Fazio -
che avevano ricevuto un fax che diceva che Mauro era morto, per arresto cardiocircolatorio,
all’alba, verso le 5". "Abbiamo telefonato al carcere - prosegue
il padre Giuseppe - dove ci hanno detto che potevamo andare direttamente all’obitorio
dell’ospedale. Siamo partiti subito per Cuneo, ma quando siamo arrivati
per più di un’ora non ci hanno permesso di vedere nostro figlio:
gli addetti dell’impresa di pompe funebri ci hanno detto che dovevano
ancora sistemarlo. Abbiamo iniziato a protestare, fino a quando si sono decisi
a farcelo vedere. È allora che ci siamo accorti di come era ridotto".
Le circostanze della morte di Mauro Fedele, al momento, non sono chiarite da
uno scarno referto medico, tecnicamente ineccepibile, che dice che il suo cuore
si è fermato, ma non spiega le cause di questo arresto. Forse le chiarirà
l’autopsia, già disposta dal procuratore aggiunto della Repubblica
a Cuneo Guido Bissoni. Resta l’accusa dei parenti: "Mio fratello
è morto perché qualcuno lo ha picchiato - dice Franco Fedele -,
e lui non aveva mai avuto problemi con gli atri detenuti". (La Stampa,
1 luglio 2002)
Assistenza sanitaria disastrata: 3 luglio 2002, Carcere di Torino
Remo Bartoli, 55 anni, romano, colpito da infarto durante una visita medica, muore. L’uomo, apparentemente in buone condizioni, si è accasciato mentre un medico gli stava visitando una banalissima cisti sul collo. Il direttore sanitario del carcere, Remo Urani, non si è ancora pronunciato, "anche se tutto fa pensare a un infarto acuto". Remo Bartoli aveva alle spalle un passato di ladro, con qualche episodio di relativa violenza. L’ultimo arresto, nel giugno 2001, alla darsena di San Bartolomeo a Mare, vicino Imperia, mentre cercava di introdursi in un cabinato. Dopo un anno nel carcere di Imperia, Bartoli era stato trasferito alle Vallette il primo di luglio: nessun problema di salute. Il primo e l’ultimo ieri: aveva chiesto di essere visitato, per poi farsi togliere la cisti sul collo. La magistratura ha aperto un’inchiesta. (La Stampa, 4 luglio 2002).
Suicidio: 8 luglio 2002, Carcere di Sanremo (Imperia)
Ibrahim Nazgas, 23 anni, marocchino si impicca nella cella dove era rinchiuso da qualche settimana. Quando i compagni di detenzione, rientrati dall’ora d’aria, lo vedono immobile in quella posizione, accasciato al muro e con quel terribile cappio intorno al collo, danno subito l’allarme ma per lui, purtroppo, non c’è ormai più nulla da fare. L’intervento della polizia penitenziaria e il trasporto immediato nel centro sanitario del carcere di Valle Armea, non hanno permesso di salvare la vita al giovanissimo detenuto extracomunitario. Un rapporto sull’accaduto è stato trasmesso in serata al procuratore della Repubblica Mariano Gagliano, che questa mattina scioglierà la riserva sull’eventuale autopsia (una scelta condizionata alla necessità di fare chiarezza sulla morte del nordafricano). Secondo quanto si è appreso il detenuto non aveva dato particolari segni di problemi psichici. Insomma, nessuno avrebbe potuto prevedere un epilogo così drammatico dell’esperienza carceraria. (La Stampa, 9 luglio 2002).
Suicidio: 8 luglio 2002, Carcere di Siracusa
Claudio Scala, 26 anni, tossicodipendente, si uccide al terzo giorno di carcere.
Divideva la stanza con altri due detenuti, ma questi non si sono accorti di
nulla: il giovane è entrato nel bagno, ha legato la cintura dell’accappatoio
alle sbarre della finestra, si è passata l’altra estremità
attorno al collo, e si è lasciato soffocare. Quando é stato trovato
in quello stato non era ancora morto e, per quasi un’ora, si è
avuta la speranza di poterlo salvare. La scoperta è stata fatta verso
le 3. A quell’ora le guardie eseguono "la conta", verificano,
cioè, la presenza nelle celle dei detenuti. L’agente entrato nella
stanza di Scala ha notato subito l’assenza del giovane e ha chiesto notizie
agli altri due reclusi, trovati entrambi che dormivano. Hanno avuto subito la
sensazione che fosse accaduto qualcosa di grave, visto che Claudio Scala, sin
dal momento in cui era entrato in carcere, era apparso particolarmente depresso
e aveva anche manifestato intenzioni suicide. La guardia e i due detenuti sono
corsi nel bagno e hanno trovato Claudio Scala impiccato. Immediatamente lo hanno
liberato dal cappio che gli stringeva il collo. Il giovane era ancora vivo,
anche se non riprendeva conoscenza. A bordo dell’ambulanza fatta intervenire
per trasportarlo in ospedale, si è tentato di rianimare il detenuto,
ma è stato tutto inutile. Lungo il tragitto, il cuore del povero Claudio
Scala ha cessato di battere. Quando è arrivato al pronto soccorso dell’Ospedale
Umberto I° i medici non hanno potuto fare altro che constatare l’avvenuto
decesso.
Claudio Scala era finito in cella sabato scorso. Due le condanne che doveva
scontare: una ad un anno, tre mesi e 24 giorni di reclusione, per spaccio di
droga, un’altra a quattro mesi, per avere disertato quando era stato chiamato
a svolgere il servizio militare. I carabinieri avevano avvertito la direzione
della Casa di Reclusione dello stato di profonda depressione dell’arrestato.
La raccomandazione non era caduta nel vuoto: "Vista la situazione - afferma
il direttore pro tempore del carcere di contrada Cavadonna, Giovanni Mazzone
- gli avevamo dato la possibilità di scegliere in quale cella stare.
Aveva scelto quella dove si trovava un suo conoscente di Pachino ed era stato
accontentato. I compagni di stanza erano stati anche informati delle sue condizioni,
affinché lo aiutassero. Purtroppo, tutte queste attenzioni non sono servite
a niente".
Claudio Scala, più volte arrestato per droga, in carcere non ci voleva
tornare e poteva riuscirvi. Aveva, a quanto pare, le carte in regola per chiedere
la sospensione dell’esecuzione della pena e l’affidamento al Ser.T.
Ma non ha mai presentato alcuna domanda. Aveva contattato il Ser.T. di Noto,
che è il più vicino a Pachino, dove abitava, ma si era poi posto
il problema di come vi si doveva recare ogni giorno, visto che non aveva un
mezzo e - diceva - nemmeno i soldi per l’autobus. Insomma, davanti a tanti
problemi, apparentemente piccoli ma che lui sarebbero sembrati insormontabili,
si sarebbe arreso, aggrappandosi solo all’impossibile speranza che la
Giustizia si dimenticasse di lui. Una speranza che si è dissolta sabato
scorso, quando a casa sua si sono presentati i carabinieri per eseguire il provvedimento
di carcerazione. (Gazzetta del Sud, 9 luglio 2002)
Tentato suicidio: 9 luglio 2002, Carcere di Viterbo
Fabio Ciaralli, 40 anni, tenta di impiccarsi in una cella del carcere di Viterbo.
Un agente di custodia vede il suo corpo che penzola. Sta ancora respirando,
quando viene dato l’allarme: trasportato all’ospedale, lo strappano
alla morte.
Il 24 novembre 2000 Ciaralli uccise la moglie, ferendo gravemente anche il nuovo
compagno di quest’ultima. Il 5 marzo 2002 si era concluso il processo
in Corte d’Assise e Ciaralli era stato condannato a 28 anni di carcere.
Era stato giudicato in grado di intendere e di volere. In pratica, era stata
accolta la tesi dell’accusa, che aveva sostenuto la lucidità dell’omicida
al momento del tragico evento. Dopo la sentenza aveva chiesto di essere trasferito
dal carcere di Pisa a quello di Roma, dove abitano i suoi genitori.
La domanda era stata accolta, ma in parte. Invece di Rebibbia, per Ciaralli
si apre la possibilità di andare a Viterbo. Così, negli ultimi
giorni di giugno, Ciaralli lascia il Don Bosco per una cella del carcere viterbese.
Ma alla quarta notte crolla. Vuole mettere la parola fine alla propria vita.
È il quinto tentativo di suicidio dal giorno della tragedia. La prima
volta ci tentò quel terribile 24 novembre tagliandosi la gola e i polsi;
per ben due volte, mentre era in terapia intensiva al "Santa Chiara",
aveva manomesso la cannula dell’ossigeno procurandosi due broncospasmi;
nel luglio dell’anno scorso rifiutò il cibo per diversi giorni.
Per contrastare questo grave stato depressivo, al carcere di Pisa, era sotto
cura ed i medici gli somministravano gli psicofarmaci.
"Quando è stato trasferito a Viterbo - afferma Ezio Menzione, legale
di Ciaralli - non è stato posto sotto controllo continuo e non gli sono
stati dati i farmaci necessari. Se fosse stato soccorso un minuto più
tardi, sarebbe morto. Ciaralli è rimasto quattro giorni in rianimazione.
Quest’ultimo grave episodio, purtroppo, avvalora quello che la difesa
ha sempre sostenuto. Ovvero che Ciaralli al momento dell’omicidio non
era in grado di intendere e di volere".
Dopo essere stato dichiarato fuori pericolo dall’ospedale di Viterbo,
la procura viterbese ha chiesto il trasferimento di Ciaralli all’ospedale
psichiatrico giudiziario di Montelupo. Ma la Corte d’Appello di Pisa si
è opposta poiché Ciaralli è ritenuta una persona in grado
di intendere e di volere, come - del resto - è stato affermato nella
sentenza di condanna. Pertanto, Fabio Ciaralli è stato inviato alla clinica
psichiatrica "Santa Chiara" di Pisa dove è stato curato. Successivamente,
è stato trasferito al centro clinico del carcere Don Bosco. In pratica,
è tornato dove si trovava. (Il Tirreno, 17 luglio 2002).
Morte per cause non chiare: 13 luglio 2002, Carcere di Cagliari
Luca Saba, 31 anni, muore in cella dopo una settimana dall’arresto. La
madre è andata al colloquio, ma Luca non poteva esserci: "Suo figlio
è morto", l’hanno liquidata sul portone di "Buoncammino",
a Cagliari. C’è voluto l’arrivo di un avvocato, per riuscire
a saperne di più. Poco di più: "Il detenuto Saba Luca, di
anni trentuno, nato e residente a Carbonia, è deceduto per arresto cardiocircolatorio".
Secche e brutali, le informazioni della polizia penitenziaria si sono fermate
qui. Per riuscire ad avere altri particolari, è stato necessario raccogliere
indiscrezioni non confermate. Di sicuro si sa che è stata aperta un’inchiesta.
La segue il sostituto procuratore Giangiacomo Pilia, che ha fatto eseguire l’autopsia
nell’istituto di medicina legale. Luca è stato probabilmente stroncato
da un infarto, ma ci sono alcuni dettagli poco chiari.
Tossicodipendente, un passato tempestato di piccoli reati (soprattutto furti),
Luca doveva scontare tre anni di reclusione. Venerdì aveva ricevuto la
visita del padre e, prima ancora, quella del suo avvocato: "Era tranquillo,
sembrava finalmente sereno". Sabato mattina, improvvisamente, è
morto. Alle 17 del pomeriggio un fax della direzione del carcere è arrivato
ai carabinieri di Carbonia. Chiedevano di informare i familiari. A nessuno è
venuto in mente che, forse, sarebbe stato meglio informare la caserma con una
telefonata: i fax che piovono al centralino sono una quantità infinita
e s’è perso in mezzo a mille noticine e ordini di servizio. Solo
lunedì mattina i carabinieri di Carbonia si sono recati a casa dei familiari
di Luca, in via Mazzini. Hanno bussato ma non ha risposto nessuno, perché
da qualche tempo si sono trasferiti in una villetta a Punt’e Trettu.
In quel momento, comunque, non avrebbero potuto rintracciare la madre. Che era
a Cagliari, in sala attesa-colloqui a Buoncammino. Quando ha chiesto di parlare
col figlio, la donna si è sentita rispondere nel peggiore dei modi, senza
un minimo di tatto: "Suo figlio è morto, non lo sa?". A quel
punto ha cominciato a gridare ed è stata allontanata. Nel giro di una
mezz’ora l’ha raggiunta il marito, ma anche per lui il portone del
carcere è rimasto implacabilmente chiuso. L’avvocato Aste è
arrivato in un meno di un’ora: "Così ho saputo dagli agenti
di polizia penitenziaria che la madre di Luca era stata cacciata perché
gridava. Cos’altro avrebbe potuto fare una madre che apprende in quel
modo la morte del figlio?"
La morte, per quel poco che si è riusciti a sapere, è dovuta a
cause naturali. Sul cadavere non sarebbero stati riscontrati traumi o altro
che possa far pensare a tragiche conseguenze di una lite. All’ufficio-matricola
di Buoncammino, Luca aveva dichiarato di essere tossicodipendente e come tale
ha chiesto assistenza medico-farmacologica. Non c’è ragione di
ritenere che gli sia stata negata. Anzi. I dubbi sono altri. Nonostante il fisico
debilitato, le sue condizioni generali erano buone. Mai avuto problemi cardiaci,
né fastidi che potessero in qualche modo segnalare l’arrivo di
un infarto. Ecco perché il difensore vuole vederci chiaro e ha chiesto,
per questa ragione, l’aiuto di un perito. Il P.M. disporrà, intanto,
nuovi accertamenti. Nell’arco di qualche giorno il giallo, se di giallo
si tratta, dovrebbe essere risolto. (L’Unione Sarda, 17 luglio 2002)
Suicidio: 17 luglio 2002, Carcere di Salerno
Antonio Rinaldi, 31 anni, tossicodipendente, si impicca. Avrebbe terminato
la pena entro pochi giorni. Era da solo in una cella del reparto "comuni",
è stato un agente a dare l’allarme, ma inutilmente. Antonio Rinaldi
aveva un passato di tossicodipendenza, era noto alle forze dell’ordine
per numerosi reati quali detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti e diversi
furti, ma suo debito con la giustizia era già quasi saldato. Aveva scontato
sette mesi e qualche settimana di carcere ed, ora, stava per ritornare ad essere
un uomo libero, ma forse la prospettiva di tornare in libertà e poter
ricadere nell’errore lo ha spinto ad un atto così estremo.
Forse la vita del carcere, forse il timore del giudizio degli altri, il rimorso
per il dolore provocato ai genitori hanno soggiogato Antonio, che ha deciso
di farla finita, con un cappio attorno al collo. Un attimo ed il suo giovane
cuore ha cessato di battere. Un attimo ed una famiglia, già tristemente
provata, è stata distrutta dalla tragica morte del loro congiunto. (La
Città. Quotidiano di Salerno, 19 luglio 2002).
Suicidio: 18 luglio 2002, Carcere di Sassari
Samuele Catta si impicca con il cavo della televisione in una cella del "San
Sebastiano". Dopo sei mesi di indagini il sostituto procuratore Paolo Piras
ha ipotizzato, nei confronti del sovrintendente della polizia penitenziaria
C.A., 42 anni, di Castelsardo, il reato di omicidio colposo. Un’accusa
molto pesante, che va oltre quella "tradizionale" di negligenza nella
sorveglianza, che viene formalizzata solitamente in queste situazioni. Secondo
il titolare dell’inchiesta quel sovrintendente, capoturno al momento della
tragedia, aveva avuto un incarico preciso, dopo che il medico del carcere aveva
disposto nei confronti di Samuele Catta la precauzione dell’altissima
sorveglianza. Il giovane, infatti, era stato portato in infermeria dopo un atto
di autolesionismo e, in quella sede, aveva manifestato propositi suicidi.
L’ordine era quello di condurlo in una cella priva di suppellettili, con
le quali potesse attuare quei propositi o anche ripetere gli atti di autolesionismo,
e venne eseguito: la stanza dove fu condotto, però, aveva il cavo dell’antenna
appeso al muro, anche se a poco più di un metro di altezza, e Samuele
Catta lo usò come patibolo impiccandosi con una garza. Secondo il magistrato,
C.A. avrebbe disatteso le disposizioni provocando così la morte del giovane,
sulla quale all’inizio ci furono due teorie: suicidio, appunto, o un tragico
scherzo degenerato poi in una tragedia. La decisione di indagare il capoturno
sembra chiaramente indicare che è stato un suicidio e che, secondo il
magistrato, la morte di Samuele Catta si poteva evitare.
L’inchiesta ha avuto così una svolta imprevista, dopo che qualche
settimana fa sembrava avviata verso una semplice archiviazione. L’episodio
aveva però suscitato un enorme clamore, sia per la vittima (Samuele Catta
era figlio di Marco, il musicista scomparso a causa di un’esplosione al
centro storico e anche in quel caso qualcuno parlò di suicidio), sia
perché si trattava del quarto suicidio a San Sebastiano nel giro di poche
settimane. Il provveditore aveva chiesto più volte l’autorizzazione
per un’inchiesta interna, ma la magistratura l’aveva sempre rifiutata:
evidentemente la procura voleva esaminare il caso più da vicino e a breve
ci saranno nuovi sviluppi. (La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2003).
Suicidio: 19 luglio 2002, Carcere di Pavia
G.S., 36 anni, originario di Como, muore inalando il gas. Il corpo senza vita
è stato trovato verso le 20. L’ipotesi nettamente prevalente è
quella del suicidio, anche se non si può escludere che G.S abbia voluto
inalare il gas solo per stordirsi, in un momento particolarmente negativo, e
sia stato stroncato dall’eccessiva quantità respirata. Sempre in
base a quanto risulterebbe dai primi accertamenti, G.S. era solo nella sua cella,
quando ha inalato il gas butano contenuto in una bombola, che il regolamento
carcerario consente di utilizzare per alimentare i fornelli portatili. Il detenuto
è stato trovato privo di conoscenza: i soccorsi sono stati attivati immediatamente,
ma il medico del 118 non ha potuto fare altro che constatare la morte.
"Era un ragazzo fragile, molto sensibile". Parla l’avvocato
Piercostante Ferrari, che aveva difeso G.S. ad un processo per furto, celebrato
il 4 aprile scorso. "Dopo aver commesso qualche errore in passato, aveva
trovato un lavoro e cercava di condurre una vita più tranquilla. Finché
non ha commesso l’errore che purtroppo l’ha riportato in carcere,
con una condanna a due anni e un mese". "È stata respinta -
ricorda il legale - anche la richiesta di semilibertà, che gli avrebbe
consentito di conservare il lavoro". (La Provincia Pavese, 21 luglio 2002).
Morte per cause non chiare: 22 luglio 2002, Carcere di Udine
Sergio Franceschinis, triestino, è stroncato da un infarto mentre consuma il pranzo. (Gazzettino del Friuli, 2 agosto 2002).
Assistenza sanitaria disastrata: 22 luglio 2002, Carcere di Torino
Fabio Benini, 30 anni, muore per infarto cardiaco. Era stato trasferito da
dieci giorni, proveniente dal carcere di Forlì, al centro psichiatrico
del carcere "Le Vallette" di Torino. Soffriva di anoressia, aveva
perso 50 kg negli ultimi mesi, collassava due volte al giorno, l’altra
mattina l’hanno trovato morto nel suo letto.
Benini era stato condannato, in primo grado di giudizio, per l’omicidio
di Daniele Dall’Ara, avvenuto il 14 febbraio 2001 dopo una lite. L’avvocato
Veniero Accreman, ha inviato ieri mattina un esposto alla Procura della Repubblica
di Torino, chiedendo non solo un responso diagnostico sulla morte del suo ex
assistito, ma una vera e propria autopsia. L’autopsia verrà eseguita
domani, giovedì.
"Vogliamo capire - spiega Accreman - se il comportamento medico tenuto
nei confronti del detenuto sia stato conforme alle regole. Ci sarà anche
un nostro perito, il professor Francesco Zanetti".
Secondo la famiglia e i pochi amici che ancora circondavano Benini no, non è
stato conforme alle regole, questo comportamento, e quindi non è da escludere
in un secondo momento una denuncia contro le autorità penitenziarie.
A più riprese Accreman aveva chiesto una misura detentiva diversa dal
carcere per Fabio: gli arresti domiciliari, una clinica privata: "Non gliel’hanno
mai concessa - piange oggi Giorgio Benini, il padre - il mio Fabio non si reggeva
più in piedi e loro avevano paura che scappasse. È una vergogna,
ma adesso mi dispiace io non starò più zitto. Non hanno neanche
voluto fargli vedere la nonna, che l’aveva cresciuto".
Il "caso Benini" è finito anche a Palazzo Madama. Il senatore
Sauro Turroni (Verdi) ha presentato un’interrogazione al ministero della
Giustizia. Turroni chiede, in sostanza: 1) se il ministro ritenga accettabile
che nel 2002 si possa ancora essere lasciati morire in carcere, condannati solo
in primo grado; 2) per quale motivo non sono state adottate adeguate misure
nei confronti di una persona notoriamente malata; 3) perché si è
tardato tanto a trasferirlo a Torino; 4) se giunto in Piemonte è stato
sottoposto a tutte le cure necessarie; 5) quali determinazioni il ministro abbia
assunto per accertare se da parte della direzione delle due carceri vi siano
stati ritardi od omissioni; 6) se il ministro non intende avviare un’inchiesta
interna volta ad accertare eventuali responsabilità. (Il Resto del Carlino,
24 luglio 2002).
Suicidio: 3 agosto 2002, Carcere di Bari
Gianluca Frani, 31 anni, paraplegico, si uccide impiccandosi. Una morte "annunciata",
con le lettere scritte alla famiglia, in cui chiedeva di non essere seppellito
sotto terra e di aver con sé la maglia della sua squadra, la Roma. L’uomo,
che stava scontando una condanna di 8 anni e 9 mesi per un cumulo di pene relative
ad una serie di reati, si è suicidato nel carcere di Bari, dove era stato
trasferito due anni fa perché paraplegico. Uno dei pochi istituti di
pena, secondo il ministero della Giustizia, dotato di un centro clinico per
gente malata come lui.
Ma la famiglia accusa: era depresso, veniva curato solo con il valium e nessuno
ne ha impedito il suicidio. Come può un carrozzellato - si chiedono i
parenti - riuscire ad impiccarsi al tubo dello scarico del water senza che nessuno
si accorga di nulla? Gianluca Frani aveva subito una lesione al midollo spinale
nel ‘97: qualcuno gli sparò contro, proprio sotto casa, e man mano
le sue condizioni erano peggiorate fino a costringerlo alla sedia a rotelle.
Poi erano andati a stringersi anche i nodi della giustizia, con l’arresto
per il cumulo di pena. E il trasferimento a Bari, dove la famiglia poteva raggiungerlo
saltuariamente, aveva acuito la sua malattia fino a spingerlo alla morte. "Ci
siamo costituiti parte civile - dice l’avvocato Luca Colaiacomo, legale
della famiglia Frani - nel procedimento avviato sulla morte, soprattutto per
capire la complessa dinamica dei fatti. Abbiamo fiducia nell’operato della
magistratura, che sta indagando per chiarire quanto è accaduto".
Sotto sequestro la cella, sentito anche il detenuto che aveva il ruolo "accompagnatore"
di Gianluca Frani, data la sua difficoltà a muoversi. E il rammarico
della famiglia per il fatto che le richieste di avvicinamento a casa siano sempre
state rigettate dal Tribunale di Sorveglianza. Certo, le pene detentive vanno
scontate, ma qualcuno doveva accorgersi che in questo caso si era imboccata
la via del non ritorno. (Il Messaggero, 9 agosto 2002)
Suicidio: 3 agosto 2002, Carcere di Opera (MI)
A.M., 40 anni, tossicodipendente si uccide mentre era in una cella di "osservazione". S’era ripresentato in carcere, non trovandosi bene in una comunità terapeutica. Grazie all’imminente cumulo di due pene, tra meno di 2 anni sarebbe uscito. (Corriere della Sera, 6 agosto 2002).
Tentato suicidio: 7 agosto 2002, Carcere di Vicenza
"Giovane cinese", detenuto da quasi due mesi, per ricettazione, cerca di togliersi la vita per due volte in un pomeriggio. In entrambe le occasioni viene salvato dall’intervento degli agenti della polizia penitenziaria. Il primo episodio accade poco prima delle 15.30. Il ragazzo, con un lenzuolo, forma un cappio e tenta di impiccarsi alla finestra della cella. La guardia interviene subito e lo blocca. Mezz’ora più tardi, il cinese utilizza del detersivo, in dotazione per la pulizia delle celle. Memori di quant’era accaduto poco prima, gli agenti lo sorvegliano a vista e intervengono accompagnandolo in infermeria. Le sue condizioni fisiche non sono preoccupanti. Quelle psicologiche, invece, parrebbe di sì. (Il Giornale di Vicenza, 8 agosto 2002)
Tentato suicidio: 8 agosto 2002, Carcere di Sanremo (Imperia)
Omar Talala, 35 anni, marocchino, tenta di uccidersi bevendo l’intero contenuto di una confezione di ammorbidente "Coccolino". Durante il giro d’ispezione notturna gli agenti lo trovano steso a terra, privo di sensi, con la bava alla bocca. Ricoverato all’Ospedale cittadino e sottoposto a una lavanda gastrica e a terapie disintossicanti, è fuori pericolo. (La Stampa, 9 agosto 2002).
Suicidio: 9 agosto 2002, Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia
Franco Valinetti, 32 anni, veronese, si impicca in cella. La notizia è data dal cappellano dell’O.P.G., che si rivolge al vescovo di Reggio Emilia, Adriano Caprioli, e al sindaco della città, Antonella Spaggiari, con una drammatica lettera aperta. In pochi mesi quello di Franco Valinetti è il quinto suicidio che avviene nella struttura. (Gazzetta di Reggio, 15 agosto 2002).
Morte per cause non chiare: 13 agosto 2002, Carcere di Rebibbia (Roma)
Massimo De Rossi, 39 anni, tossicodipendente, muore nel suo letto e viene trovato senza vita dai compagni di cella, all’alba. Malore, oppure overdose: sono queste le due ipotesi sulla sua morte. Ma neanche l’autopsia, effettuata all’istituto di medicina legale della Sapienza, ha ancora chiarito le cause: sul corpo dell’uomo non sono stati trovati segni di violenza e sono stati disposti esami tossicologici per capire se si sia trattato di un’overdose. Il primo ad escludere il suicidio è il direttore del Nuovo Complesso, Carmelo Cantone: "Al momento non si può escludere alcuna ipotesi, ma non abbiamo elementi per supporre il suicidio. È stato trovato morto steso nel suo letto, non aveva segni di violenza, né ha lasciato lettere. Poi sarebbe stato scarcerato il prossimo febbraio". L’associazione Papillon chiede di chiarire i motivi della morte, sostenendo che "È ugualmente grave sia se Massimo è morto per overdose, per l’assunzione di un mix di droghe, o a causa delle carenze del sistema sanitario". (Il Nuovo on line, 23 agosto 2002).
Morte per cause non chiare: 16 agosto 2002, Carcere di Poggioreale (Napoli)
Vittorio Montescuro, 39 anni, muore in carcere 9 giorni prima del termine della pena. Il fratello lo scopre solo dopo diversi giorni, quando già stavano eseguendo l’autopsia. Sulla vicenda - resa nota ieri dall’avvocato Vittorio Trupiano, che ha raccolto la denuncia dell’uomo - la Procura della Repubblica di Napoli aveva già aperto un’inchiesta giudiziaria. La scoperta del decesso sarebbe stata fatta da due detenuti di colore. Nessuno degli organi preposti, secondo Carmine Montescuro, lo avrebbe però avvertito della morte di suo fratello, e la notizia sarebbe arrivata tre giorni dopo, grazie ad alcuni conoscenti. Nessuno gli avrebbe inoltre detto se il fratello si sia suicidato, se è morto per cause naturali, o se è stato ucciso. Quando si è rivolto ai carabinieri della caserma Arenaccia, per chiedere spiegazioni, afferma Montescuro nella denuncia, i militari gli avrebbero risposto che lo avevano cercato già una volta e che "non erano dei postini". Nella denuncia Montescuro ha scritto di aver "trovato il corpo di Vittorio sottoposto ad autopsia e immerso in una vasca piena d’acqua gelida, con il torace aperto in due". (Il Mattino, 30 agosto 2002).
Tentato suicidio: 30 agosto 2002, Carcere di San Gimignano (Siena)
F.S., 35 anni, di origine nordafricana, cerca di togliersi la vita, probabilmente con un vetro o una specie di lametta, tagliuzzandosi entrambi i polsi. I compagni di cella sono i primi ad accorgersi delle ferite. Lo straniero è subito soccorso dagli agenti, per le prime cure, poi viene trasferito al pronto soccorso di Campostaggia. Non si conoscono i motivi all’origine del disperato gesto: depressione o trasferimento negato? (La Nazione, 31 agosto 2002)
Assistenza sanitaria disastrata: 2 settembre 2002, Carcere di Forlì
Umberto Tubelli, 54 anni, muore durante la notte nel letto della sua cella.
Una morte che scotta. Per vari motivi. Di certo perché s’è
subito innescata un’inchiesta giudiziaria, coordinata dal sostituto procuratore
Filippo Santangelo. Che ha disposto l’autopsia al cadavere di Tubelli,
che pare soffrisse di diversi disturbi da alcuni giorni: avrebbe pure chiesto
di uscire per essere visitato e curato adeguatamente fuori dal carcere. Permesso
non concesso. Ci sarebbero comunque già degli indagati. Il riserbo è
massimo. Tutti si tengono in equilibrio sopra evasivi "non so".
L’autopsia sarà, comunque, un passo decisivo per stabilire eventuali
responsabilità di questa morte. L’esame dovrebbe stabilire le esatte
cause della morte. E da lì sarebbe poi possibile risalire ad eventuali
responsabilità. Tuttavia, codice alla mano, sarebbero già partite
informazioni di garanzia. E questo perché l’autopsia giudiziaria
è considerata dalla legge un "accertamento tecnico non ripetibile":
in previsione di un eventuale processo, è stabilito che i probabili soggetti
imputabili siano già individuati con nomi e cognomi per poter essere
presenti all’accertamento e potersi quindi successivamente difendere.
Chi e quanti siano gli indagati non è però ancora chiaro. (Il
Resto del Carlino, 4 settembre 2002).
Assistenza sanitaria disastrata: 7 settembre 2002, Carcere di Rebibbia (Roma)
S.P., cardiopatico, muore per una crisi respiratoria. È il terzo morto, in poche settimane, a Rebibbia. La denuncia arriva dell’Associazione Papillon: ci sarebbero stati ritardi nella somministrazione dell’ossigenoterapia, di cui l’uomo aveva bisogno. "La cosa più incredibile è che tutto questo è accaduto durante la visita di due rappresentanti politici, Deiana e Bonadonna, del PRC - afferma Vittorio Antonimi, di Papillon – e la direzione, che li accompagnava, ha fatto in modo che i due non si accorgessero di nulla". Sulla vicenda è intervenuto anche il deputato verde Paolo Cento, vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera: "Stamane mi sono recato in visita a Rebibbia e sono venuto a sapere di quello che è successo. Presenterò un’interrogazione parlamentare su questa grave vicenda". (Il Nuovo on line, 8 settembre 2002).
Assistenza sanitaria disastrata: 23 settembre 2002, Carcere di Pisa
Adolfo Nocchi, 30 anni, muore durante la notte. Era arrivato a Pisa da poco, dal carcere di Livorno. A stroncarlo, pare nel sonno, sarebbe stato un infarto: la salma però è stata composta all’istituto di medicina legale dell’università, a disposizione dell’autorità giudiziaria. Sarà sottoposta ad autopsia. Il giovane, un passato purtroppo legato alla tossicodipendenza, potrebbe avere avuto un malessere, culminato nell’attacco cardiaco che ha posto fine alla sua esistenza. (Il Tirreno, 24 settembre 2002).
Assistenza sanitaria disastrata: 5 ottobre 2002, Ospedale "Fazzi" di Lecce
Sotaj Satoj, 40 anni, albanese, muore nel reparto Rianimazione dell’Ospedale di Lecce dopo tre mesi di sciopero della fame. Gli agenti continuano a piantonarlo per ore, da morto: credevano fosse un éscamotage per tentare la fuga. Era arrivato in Italia su un gommone, attraversando il Canale di Otranto. All’arrivo aveva trovato la Guardia di Finanza, che non aveva creduto fosse un "semplice" clandestino, sbarcato assieme ad altri 50, e che aveva pagato circa duemila dollari agli scafisti. Sul gommone c’era della droga e lui era stato arrestato, assieme ad altri sei connazionali, per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Per ribadire la sua innocenza aveva deciso di adottare l’unica forma di protesta possibile: lo sciopero della fame. "Sono turbata e amareggiata – ha detto il suo difensore, l’avvocato D’Amuri – perché la magistratura non si è resa conto della gravità della situazione. Avevo chiesto da tempo una perizia medica. Quell’uomo, colpevole o innocente che fosse, si è consumato come una candela, arrivando a perdere tutte le difese immunitarie. Qualcuno avrebbe dovuto impedire che arrivasse a quel punto. Mi resta l’amaro dubbio che, se fosse stato italiano, la storia di Sotaj non sarebbe finita così". (Il Manifesto, 6 ottobre 2002).
Suicidio: 6 ottobre 2002, Carcere di Cagliari
Paolo Santona, 48 anni, cagliaritano, collaboratore di giustizia, si impicca. È ancora vivo, quando gli agenti lo soccorrono, ma il loro intervento non serve a nulla: asfissia da soffocamento, sentenzia il medico legale. Stava scontando una condanna di tre anni, per droga. Non era ritenuto "pericoloso" né era tossicodipendente. Sembra, addirittura, che avesse da poco superato senza problemi il test con la psicologa del carcere, nell’ipotesi di essere assegnato in affidamento ai servizi sociali. Sul tragico episodio la Procura ha aperto un’inchiesta. (L’Unione Sarda, 9 ottobre 2002).
Suicidio: 7 ottobre 2002, Carcere di Cagliari
Sandro Fanari, 45 anni, si uccide poco prima dell’alba. Gli agenti di guardia lo trovano agonizzante nel bagno della cella, con il capo infilato in un cappio rudimentale legato alla finestrella. Il giovane viene subito trasportato nel Centro Clinico, ma tutto è inutile. "Direi che era un detenuto abbastanza tranquillo - ha commentato il direttore Gianfranco Pala - e questo ci dispiace molto. Stava in una stanza doppia, quindi lontano dall’affollamento di cui si parla. Né aveva denunciato malattie. Purtroppo, sono gesti imprevedibili, su cui non si può dire molto". (L’Unione Sarda, 9 ottobre 2002).
Suicidio: 17 ottobre 2002, Carcere di Marassi (Genova)
R.F., 33 anni, genovese, ex tossicodipendente e malato di AIDS, si è uccide mettendosi un sacchetto di plastica in testa e aprendo la bomboletta di gas per cucinare. Era ricoverato nel reparto malattie infettive del carcere. Il suo compagno di cella si è svegliato per il forte odore di gas, ha visto la scena e ha chiesto aiuto. Inutili sono stati i tentativi di rianimazione. Il PM Nicola Piacente ha disposto l’autopsia. È il terzo suicidio, in poco tempo, che avviene nel reparto infettivi di Marassi. R.F. faceva il falegname e come hobby suonava il basso. La musica era la sua grande passione. Aveva grossi problemi caratteriali ed era ben conosciuto dai servizi sociali. (Libertà – Quotidiano di Piacenza, 18 ottobre 2002).
Suicidio: 24 ottobre 2002, Carcere di Sondrio
Roberto Mainetti, 22 anni, si impicca in cella. Doveva scontare una condanna a dieci anni di reclusione, con l’accusa di quindici tentati omicidi. Il giovane, assieme ad un coetaneo (condannato a otto anni), era stato ritenuto autore di numerosi lanci di sassi dai cavalcavia della Valtellina. (Messaggero Veneto, 25 ottobre 2002).
Suicidio: 30 ottobre 2002, Carcere del Piemonte (?)
Maurizio Blancato, 26 anni, collaboratore di giustizia, si impicca. Era legato a un clan mafioso catanese e, lo scorso anno, aveva chiesto di parlare con il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia, Francesco Puleio, che ha coordinato le indagini contro la mafia della zona di Calatabiano, cominciando così la sua collaborazione. Era stato più volte preso a verbale, ma ancora la sua collaborazione non era considerata del tutto convinta. Forse doveva raccontare altro, forse doveva alzare il tiro per narrare le conoscenze che aveva in seno al sodalizio criminale dove era considerato "picciotto" di rilevo. Ma, da qualche mese, Maurizio Blancato era caduto in depressione. Era rimasto in un carcere del Piemonte, mentre ai suoi parenti era stata data la protezione, affidata ai carabinieri. Ha avuto un crollo psicologico e non parlava più con nessuno. Si sentiva abbandonato ed era in crisi poiché era ancora ristretto in carcere, pare lo stesso dove qualche anno addietro si è suicidato - sempre impiccandosi - un altro collaboratore di giustizia catanese. (Gazzetta del Sud, 31 ottobre 2002).
Suicidio: 2 novembre 2002, Carcere di Ancona
Alfredo Vargas Sanchez, peruviano, muore all’ospedale di Ancona, dopo essersi impiccato in cella. Era in carcere da circa un mese, prima a Camerino, dove aveva compiuto gesti autolesionistici e tentato il suicidio, poi nella casa circondariale di Ancona, dove si è impiccato, legando un lenzuolo alle sbarre della finestra della cella. Gli agenti gli hanno praticato il massaggio cardiaco, facendolo poi trasportare in ospedale, ma nonostante le cure l’uomo è deceduto. Era ricercato per un omicidio commesso in Perù (secondo l’accusa, avrebbe ucciso un connazionale durante una rissa in un bar) però era regolarmente in Italia e lavorava, come badante, a Macerata. (Il Messaggero, 3 novembre 2002).
Assistenza sanitaria disastrata: 9 novembre 2002, Carcere dell’Aquila
Francesco Mangion, 66 anni, originario di Catania, muore per collasso cardiocircolatorio nel carcere dell’Aquila, dove era detenuto per scontare la pena dell’ergastolo in regime di 41 bis (carcere duro). Mangion, ritenuto per molti anni il braccio destro di Nitto Santapaola, era stato condannato alla massima pena dalla Corte d’Assise di Catania: scarcerato il 14 maggio del 1999, rimase fuori del carcere per soli 12 giorni, poi fu nuovamente ammanettato, su ordine di carcerazione della procura della Repubblica di Catania. (Il Centro, 10 novembre 2003).
Suicidio: 11 novembre 2002, Carcere di San Vittore (Milano)
Eugenio Podio, 44 anni, si impicca nella sua cella. Doveva essere trasferito, entro pochi giorni, nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia. Aveva annunciato agli psichiatri che avrebbe ucciso il figlio di 6 anni e ha mantenuto la parola. Poi ha annunciato che si sarebbe tolto la vita e, anche in questo caso, è stato sincero. L’omicidio risale a maggio, quando Podio, in preda ad una crisi mistica, soffocò con un cuscino il figlio Nitai, coprendo poi il corpo con immagini di divinità indù. Giudicato seminfermo di mente, era stato destinato all’O.P.G. di Reggio Emilia, per essere sottoposto a una terapia, ma anche per poter essere controllato più agevolmente, visto l’annuncio dei proponimenti suicidi. (Gazzetta di Reggio, 13 novembre 2002).
Tentato suicidio: 15 novembre 2002, Carcere di Como
Un romeno, di 27 anni, è ricoverato in condizioni disperate nel reparto rianimazione dell’ospedale "Sant’Anna", dopo che ha tentato di togliersi la vita impiccandosi nel bagno della cella. Se ne sono accorte le guardie carcerarie, nel momento in cui hanno fatto la conta dei detenuti. Il giovane romeno non ha risposto all’appello. Oltre agli agenti di polizia penitenziaria, a soccorrere il ventisettenne, in carcere dall’agosto scorso per scontare un anno di reclusione per rapina, sono stati anche gli altri detenuti della sezione. (Il Giorno, 19 novembre 2002).
Suicidio: 25 novembre 2002, Carcere di Bologna
L. Celeste, 27 anni, tossicodipendente, si infila in testa un sacchetto di plastica e poi si impicca. Era entrato alla "Dozza" solo due giorni prima, rimesso in carcere perché aveva contravvenuto agli arresti domiciliari, in attesa di giudizio per furto e rapina. Per essere sicuro di farla finita, il giovane si è messo un sacco in testa, poi si è legato una corda al collo e si è impiccato. La fune, oltre alla gola, gli stringeva addosso il sacco di cellophane. Neppure un filo d’aria per lui. A trovarlo ciondolante è stato un agente della polizia penitenziaria. Ha aperto l’uscio della prigione in fretta, ha preso quel corpo penzoloni per le gambe e l’ha sollevato con forza, chiedendo aiuto ai colleghi. Purtroppo non è servito. Al padiglione giudiziario del carcere della "Dozza", secondo piano, sono accorsi in tanti, ma per Celeste nessuna speranza di ripigliare fiato. È arrivato anche un medico, vana anche la sua corsa. Il detenuto era già morto per asfissia. Ai soccorritori allora non è rimasto altro da fare che avvisare il P.M. di turno, Walter Giovannini, che è immediatamente andato in carcere per il sopralluogo. Nessuno, almeno all’inizio, poteva escludere, ad esempio, l’omicidio del giovane, eventualità poi risultata priva di ogni fondamento. (Il Resto del Carlino, 26 novembre 2002).
Morte per cause non chiare: 27 novembre 2002, Questura di Roma
Maurizio Scandura, 28 anni, tossicodipendente, muore nella camera di sicurezza di una Questura. Era stato arrestato al termine di un inseguimento in moto culminato con una caduta, sua e dei due poliziotti che cercavano di fermarlo. Dopo la caduta dalle rispettive moto sia Scandura sia i poliziotti erano stati medicati in ospedale e il giovane era stato dimesso con una prognosi di sette giorni, dopo che la TAC non aveva individuato alcun problema neurologico. Dopo essere stato portato in Questura, visto il suo stato molto agitato, aveva ottenuto una dose di metadone, somministrata da un medico di Villa Maraini (associazione che a Roma si occupa del recupero dei tossicodipendenti). La sera aveva avuto anche una dose di Valium, prescritta dallo stesso medico di Villa Maraini e poi, per tutta la nottata, sembrava essersi tranquillizzato. Invece la mattina seguente i due agenti che avrebbero dovuto scortarlo in Procura, per il processo per direttissima, lo hanno trovato morto. Immediata è stata l’apertura di un’inchiesta e l’avvio degli accertamenti medico-legali, che nella stessa giornata hanno escluso ogni dubbio e ogni incertezza sulla morte di Maurizio Scandura. È morto per arresto cardiocircolatorio, forse provocato anche dalla sua mole – circa 130 chili – e non ci sono elementi che possono far pensare a fatti traumatici che abbiano determinato il decesso. (L’Eco di Bergamo, 29 novembre 2002).
Suicidio: 29 novembre 2002, Carcere di Voghera
S.A., 30 anni, marocchino, si impicca in cella, dopo aver legato un laccio di scarpe alla maniglia del bagno. Una fine orribile e in qualche modo inspiegabile, se la si collega al regime di detenzione, visto che il giovane nordafricano avrebbe finito di scontare la pena fra pochi mesi: sarebbe tornato in libertà nel luglio 2003. A nulla sono valsi i tentativi di salvarlo messi in atto dai rianimatori del 118. Il suicidio è avvenuto appena tre giorni dopo l’insediamento ufficiale del nuovo direttore, Roberto Festa, subentrato a Massimo Parisi. (La Provincia Pavese, 1 dicembre 2002).
Suicidio: 4 dicembre 2002, Carcere di Modena
Maria Laurence Savy, belga, claustrofobica, si impicca tre giorni dopo l’arresto. Era detenuta al "Sant’Anna" dopo essere stata arrestata per aver portato a Modena dal Belgio, insieme al marito, cinque chili di cocaina: lascia in Belgio una figlia 16enne e un figlio di 31 anni. La donna, incensurata, ha approfittato di trovarsi da sola nella cella per impiccarsi alla finestra con un lenzuolo. Un modo di togliersi la vita che non lascia scampo. E, infatti, i sorveglianti, che hanno trovato il suo corpo alle 19, quando il dramma si era appena consumato, nulla hanno potuto per soccorrerla. La donna non aveva mostrato in precedenza alcun segno di depressione. Il marito, Nello Cremonesi, ha dichiarato che la moglie al momento dell’arresto ha scritto di suo pugno una dichiarazione, nella quale elencava i propri problemi di salute. La lettera, scritta in francese, sarebbe poi stata tradotta e letta. La stessa traduttrice - secondo le dichiarazioni di Cremonesi - avrebbe poi consigliato alla Savy di consegnarne una copia all’infermeria del carcere. Esiste davvero questo documento? Dov’è finito? L’interprete può confermare? È stato consegnato ai responsabili del "Sant’Anna", agenti di polizia penitenziaria o personale medico? In caso affermativo, la successiva domanda sarà: la detenzione per tre giorni in cella singola e senza sorveglianza continua era compatibile con la claustrofobia e gli altri eventuali disturbi dichiarati dalla donna? (Il Resto del Carlino, 6 dicembre 2002).
Overdose: 6 dicembre 2002, Carcere di Busto Arsizio
Giancarlo Speroni, 28 anni, muore dopo aver “sniffato” del gas da una bomboletta. Il giovane è stato trovato senza vita dai compagni di cella: si era pensato, sulle prime, ad un decesso per cause naturali, ma la successiva autopsia disposta dal sostituto procuratore Roberto Craveia ha accertato che Speroni aveva tracce consistenti di butano negli organi e nel sangue. Il detenuto, già tossicodipendente prima di finire in manette, dietro le sbarre si dopava col gas. Era finito dietro le sbarre da poche settimane, per scontare una condanna divenuta definitiva di 4 mesi, per spaccio di stupefacenti. (Corriere della Sera, 10 dicembre 2002)
Morte per cause non chiare: 25 dicembre 2002, Carcere di Regina Coeli (Roma)
Marco Russo, 25 anni, tossicodipendente, muore nel pomeriggio del giorno di Natale, inalando il gas di una bomboletta da campeggio. Il giovane, nel tentativo disperato di drogarsi con il gas, si è intontito fino al punto di cadere a terra. È stato soccorso da un agente e poi dal medico del carcere, ma purtroppo non c’è stato niente da fare. Non era la prima volta che M.R. faceva ricorso al gas pur di riuscire ad estraniarsi dalla realtà della prigione. Proprio per questo gli era proibito sia di acquistare che di tenere le bombolette, usate normalmente dai detenuti per scaldare i pasti. Inoltre su di lui era stata disposta una maggiore sorveglianza. Ma il giorno di Natale, forse proprio per la festività, il livello di attenzione deve essere sceso e M.R. è riuscito a procurarsi la bomboletta che gli è stata fatale. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta e disposto l’autopsia. (Il Messaggero, 27 dicembre 2002).
Overdose: 30 dicembre 2002, Carcere di Isernia
Nicola Caramanico, 30 anni, muore dopo essersi iniettato una dose di eroina, che gli sarebbe stata consegnata durante l’ultimo incontro con la moglie, il giorno precedente la morte. A lei, Romina Graziani, il magistrato titolare dell’inchiesta contesta i reati di omicidio colposo e cessione di sostanze stupefacenti. Ma la procura della Repubblica ipotizza anche il reato di favoreggiamento, al momento a carico di ignoti. Di questa seconda accusa potrebbero essere chiamati a rispondere alcuni degli agenti del servizio di vigilanza del carcere, se dovesse emergere che non sono state rispettate le norme in materia di controllo durante le visite ai detenuti o nelle celle. In qualche modo quindi sul banco degli accusati finirà l’intera struttura carceraria, definita quasi modello fino a pochi giorni fa ma, evidentemente, con qualche grave inadeguatezza nel sistema di sorveglianza. Nel tardo pomeriggio di ieri, intanto, si è svolta l’autopsia sul cadavere del giovane, le cui risultanze ufficiali saranno note solo fra alcune settimane, ma che avrebbe sostanzialmente confermato la prima ipotesi, avanzata dal medico del carcere subito dopo la scoperta del cadavere, accanto al quale c’erano un cucchiaino annerito dal fuoco e una siringa, cioè una crisi cardiorespiratoria causata da assunzione di stupefacenti. Le analisi di laboratorio diranno poi se la crisi è stata "naturale" o provocata da sostanze da taglio. Il giovane recluso, che doveva scontare due anni per reati connessi con lo spaccio, era stato trasferito ad Isernia da poco più di tre mesi. Nell’istituto molisano il giovane sembra avesse tenuto un atteggiamento tranquillo, pur senza nascondere il malumore per la distanza da casa e quindi le poche opportunità di incontro con la moglie, con la quale un anno e mezzo fa diede vita a una protesta per chiedere un alloggio. (Il Centro. Quotidiano dell’Abruzzo, 31 dicembre 2002).
Le morti in carcere nell'anno 2003
Tentato suicidio: 2 gennaio 2003, Carcere di Catania
Salvatore Gravina, 30 anni, ex collaboratore di giustizia, è ricoverato
in coma profondo al reparto di Rianimazione del Policlinico universitario. Avrebbe
tentato il suicidio, per impiccagione, mentre si trovava all'interno della casa
circondariale: non è sopraggiunta la morte cerebrale ma la speranza di
un recupero è quasi inesistente, anche perché il danno provocato
dalla momentanea mancanza d'ossigeno è stato devastante per il suo organismo.
Cosa è successo quel pomeriggio? Gravina è stato "avvicinato"
da qualcuno oppure - e sembra questa l'ipotesi più probabile -, ha tentato
il suicidio? Era sottoposto ad un regime di sorveglianza specifico? C'è
un retroscena che porta alla sua "carriera" precedente? Ha influito,
nella sua situazione psicologica, il trasferimento di reparto - all'interno
del Centro Clinico del carcere - dalla Medicina alla Chirurgia? Non ci sono
ancora risposte a questi interrogativi, ma con tutta probabilità saranno
chiariti dall'inchiesta interna e dagli accertamenti disposti in Procura dal
magistrato di turno. (Gazzetta del Sud, 4 gennaio 2003)
Suicidio: 4 gennaio 2003, I.P.M. Casal del Marmo (Roma)
Nell'Istituto Penale per Minori di Casal del marmo un ragazzo si uccide. La
direttrice ne parla a fatica. "È stato terribile, è accaduto
all'improvviso, senza che quel ragazzo ci avesse mai dato modo di capire a che
punto fosse arrivata la sua disperazione. Non riesco a perdonarmelo". (La
Stampa, 9 gennaio 2003).
Tentato suicidio: 7 gennaio 2003, Carcere di Avezzano (AQ)
M.U., 28 anni, algerino, tenta di uccidersi per non essere rimpatriato: nei
suoi confronti il prefetto aveva infatti emesso un decreto di espulsione. L'immigrato,
prima di lasciare il carcere di Avezzano, ha tentato di togliersi la vita tagliandosi
le vene dei polsi con una lametta. È stato salvato in extremis: soccorso
del personale del carcere, è stato portato prima all'ospedale di Avezzano
e successivamente a quello di Tagliacozzo. I medici lo hanno dichiarato guaribile
in dieci giorni. Ieri però è stato dimesso e accompagnato dalla
polizia di Avezzano al centro di permanenza Pontegaleria, nei pressi di Roma,
in attesa del rimpatrio. Il suo gesto pertanto non è servito a nulla.
Tentando il suicidio, il giovane sperava di potere restare in Italia. Invece
non c'è stato nulla da fare. Appena il giovane sarà completamente
guarito, dovrà lasciare il nostro paese e tornare in Algeria. (Il Centro,
8 gennaio 2003).
Suicidio: 9 gennaio 2003, Carcere di Castrovillari (Cosenza)
Ilir Kakri, 38 anni, albanese, si impicca durante la notte. A scoprire il corpo
dell'uomo sono gli agenti di polizia penitenziaria che, all'ora della sveglia,
trovano l'albanese ormai privo di vita. Ilir Kakri era stato arrestato nei primi
giorni dello scorso mese di ottobre, a La Spezia, dove era "emigrato"
da oltre un anno per sfuggire a un'ordinanza cautelare emessa dal GIP di Castrovillarri,
Assunta Napoliello, su richiesta del PM Livio Cristofano. Dopo l'arresto l'uomo
era stato condannato, col rito abbreviato, a quattro anni e otto mesi per un
tentato omicidio perpetrato nell'aprile del 2001 nella cittadina di Firmo. La
salma dell'uomo è stata trasportata nell'obitorio dell'ospedale civile
di Castrovillari, dove sarà sottoposta ad esame autoptico che stabilirà
le effettive cause del decesso. Sul caso è stata aperta un'inchiesta
della magistratura per accertare le modalità del suicidio e, nello stesso
tempo, chiarire i motivi che hanno spinto l'albanese nel portare a compimento
un gesto così disperato. Ricordiamo che, dal 2000 ad oggi, è il
terzo suicidio che avviene nella casa circondariale castrovillarese. (Gazzetta
del Sud, 10 gennaio 2003).
Assistenza sanitaria disastrata: 14 gennaio 2003, Carcere di Rebibbia (Roma)
Claudio M. muore durante la notte nella Sezione d'Osservazione Psichiatrica.
L'Associazione "Papillon" accusa la gestione del reparto: "Niente
permessi premio e poca assistenza sanitaria: questi ragazzi devono essere assistiti
e curati, non solo contenuti". (Corriere della Sera, 18 gennaio 2003).
Suicidio: 21 gennaio 2003, Carcere di Cagliari
Alessio Inconis, 25 anni, si impicca in un gabinetto del carcere di Buoncammino
servendosi di un asciugamano. Ci aveva provato già un mese addietro,
con la stessa tecnica. Finito alla rianimazione del "Santissima Trinità",
l'avevano salvato per un pelo. Tossicodipendente, carattere piuttosto ingovernabile,
Inconis stava scontando una condanna a un anno e otto mesi per furto ed estorsione.
Sarebbe uscito a marzo. Ma era da tempo che mostrava segni d'inquietudine, sfociati
giorno per giorno in episodi manifesti di autolesionismo. Dopo il tentativo
di un mese fa i medici del carcere avevano chiesto e ottenuto per lui il regime
di stretta sorveglianza: due detenuti - pagati per questo - lo piantonavano
a tempo pieno, seguendolo ovunque andasse. Nel giro di quattro settimane l'avevano
sentito tre volte gli psichiatri del penitenziario e altrettante gli operatori
del Ser.T.: rispondeva, ma si lamentava genericamente di tutto.
Domenica 19 sembrava tranquillo, era in cella insieme ad altri detenuti. Ha
chiesto di andare al bagno, l'hanno accompagnato i suoi due angeli custodi.
S'è chiuso dentro, accostando la porta: i minuti passavano e Alessio
non veniva fuori. L'hanno chiamato, non rispondeva. Non restava che entrare.
Brutto spettacolo: s'era appeso alle sbarre, annodando un asciugamano. I due
piantoni l'hanno tirato giù, uno ha urlato di chiamare il medico. Ma
quando sono riusciti ad adagiarlo sul lettino dell'infermeria Alessio Inconis
non respirava più. Tempo un'ora e sono arrivati a Buoncammino il magistrato
di turno e il medico legale, Giuseppe Paribello.
Ispezione del corpo, in attesa della perizia. Tutto chiaro: suicidio per auto-strangolamento.
Difficile che l'inchiesta giudiziaria aperta dalla Procura della Repubblica
possa aggiungere altro. Il solo interrogativo riguarda "l'uscita"
della notizia: a diffonderla sono stati il segretario regionale dei Radicali
e i consiglieri regionali del gruppo diessino, in una conferenza stampa. Nessuno,
tantomeno il direttore del carcere Gianfranco Pala, aveva pensato di trasmettere
una nota alle agenzie di stampa. Al contrario, sembrerebbe che la direzione
abbia provato a tenere la cosa sotto silenzio: tre suicidi in tre mesi sono
troppi, anche per un girone infernale com'è considerato il carcere di
Buoncammino. Dove ora tira aria di cambiamenti. Un po' perché Roma gradisce
poco le morti dietro le sbarre, un po' anche perché si va delineando
un conflitto di competenze - e di responsabilità - fra ministero della
Giustizia e Aziende Sanitarie Locali. Nel frattempo si parla di malessere e
di rivolte interne al penitenziario meno amato dai sardi: in realtà,
la situazione viene descritta dagli operatori come assolutamente normale. Ammesso
che sia normale un sovraffollamento di detenuti tossicodipendenti, tenuti in
condizioni di immobilità e spesso di astinenza. (La Nuova Sardegna, 23
gennaio 2003)
Suicidio: 22 gennaio 2003, Carcere di Padova (Reclusione)
Salvatore Sanfilippo, 35 anni, condannato all'ergastolo per reati di mafia,
si impicca con dei lunghi lacci da scarpa legati alla finestra. A dare l'allarme,
alle otto di mattina, è l'agente di custodia che ha appena iniziato il
suo turno di lavoro. Sanfilippo si trovava nella sezione cosiddetta dei "protetti"
ed è stato, tra gli anni '80 e '90, un personaggio emergente nella mafia
della Sicilia centrale. Apparteneva ad un clan della "Stidda", che
aveva la base a Mazzarino, in provincia di Caltanissetta. Ha partecipato attivamente
anche agli scontri interni della mafia contro Pippu Madonia, il boss arrestato
a Longare, in provincia di Vicenza, alcuni anni fa. Negli ultimi mesi Sanfilippo
appariva molto nervoso. (Il Mattino di Padova, 23 gennaio 2003)
Suicidio: 1 febbraio 2003, Colonia Penale di Is Arenas (Cagliari)
Roberto Sirigu, 33 anni, tossicodipendente, si impicca nella lavanderia dell'Istituto.
Avrebbe finito di scontare la pena a dicembre. La notizia è trapelata
con difficoltà all'esterno del carcere: è stato il consigliere
regionale Nazareno Pacifico, membro della Commissione consiliare per i Diritti
civili, a divulgare l'accaduto dopo averne avuto conferma da fonti certe. L'amministrazione
penitenziaria, secondo quanto dichiarato dal consigliere regionale ad un'agenzia
di stampa, non ha voluto fornire particolari sulla vicenda trincerandosi in
un imbarazzato silenzio. (La Nuova Sardegna, 5 febbraio 2003).
Suicidio: 1 febbraio 2003, Carcere di Caltanissetta
Biagio Graci, 24 anni, sancataldese, si impicca in una cella del carcere "Malaspina".
Soccorso da un compagno di cella e trasportato all'Ospedale "S. Elia",
giunge al pronto soccorso ormai privo di vita ed i medici di turno non possono
constatarne il decesso per impiccagione, comunicando la notizia alle guardie
carcerarie che hanno scortato l'ambulanza fino all'ospedale. Adesso sarà
il magistrato a decidere se restituire la salma ai familiari o effettuare l'ispezione
cadaverica. Biagio Graci era in carcere da meno di due mesi, con l'accusa di
tentato omicidio: aveva ferito il fratello, con una coltellata, al culmine di
un litigio scaturito dalla scelta del programma televisivo. Aveva anche dei
precedenti penali per droga ed a luglio del 2002 venne arrestato dai carabinieri
perché trovato in possesso di alcuni grammi di eroina. Tre settimane
prima del suicidio il tribunale della libertà gli aveva negato la scarcerazione
e questo lo aveva fatto cadere in uno stato di assoluto sconforto. (La Sicilia,
6 febbraio 2002)
Assistenza sanitaria disastrata: 7 febbraio 2003, Carcere di Padova (Reclusione)
Riccardo Tonicello, 56 anni, muore all'Ospedale Civile di Padova. Soffriva di
grave insufficienza epatica e, nella notte tra il 6 e il 7 febbraio, un improvviso
aggravamento delle sue condizioni spinge i medici del carcere a chiederne il
ricovero urgente in ospedale Muore dopo poche ore. (Redazione di Ristretti Orizzonti).
Diversa la versione ufficiale dei fatti: il detenuto Riccardo Tonicello, 56
anni, di Carpenedo, stava scontando una pena per piccoli reati nella Casa di
reclusione di via Due Palazzi. A fine gennaio si era sentito male ed era stato
trasferito all'Ospedale civile di Padova, dove però le sue condizioni
si erano improvvisamente aggravate. Fino al decesso, avvenuto venerdì
7 febbraio. Il lunedì successivo, a casa dell'anziano padre arriva una
telefonata. A chiamare è un'assistente sociale del carcere che chiede
la data dei funerali di Riccardo. "I suoi compagni di detenzione vorrebbero
inviare una corona di fiori", dice.
Oreste Tonicello, 83 anni, di salute cagionevole, si sente male. Lui non sapeva
nulla del decesso del figlio. Nessuno lo aveva informato. "È un
fatto gravissimo - spiega Girolamo Quintavalle, cognato di Riccardo e consigliere
comunale di Forza Italia a Carpenedo - Non ci hanno nemmeno avvertito che era
ricoverato. Mio suocero poi, ha rischiato un infarto". Quintavalle dice
di non conoscere ancora la causa della morte. "Ho chiamato al telefono
la direzione del Due Palazzi - spiega - e mi hanno detto di scrivere una lettera
e di aspettare la risposta, per sapere se e quando sarà possibile avere
un colloquio". A quel punto, indignati, i famigliari di Riccardo Tonicello
hanno informato dell'episodio il deputato verde Luana Zanella che ha presentato
un'interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, che dice: "È
inaudito che una persona anziana venga a sapere con quattro giorni di ritardo
ed in questo modo, del decesso del figlio. È chiaro che chi straparla
delle carceri, senza avere esperienze dirette, dovrebbe riflettere". La
parlamentare verde ha chiesto al ministro della Giustizia che vengano individuati
i responsabili dell'increscioso episodio. (Il Gazzettino, 12 febbraio 2003).
Tentato suicidio: 9 febbraio 2003, Carcere di Udine
Alket Pekra, albanese, tenta di impiccarsi nel bagno della cella. Da due giorni,
cioè quando era salito su uno dei muri interni del cortile della Casa
Circondariale di Via Spalato, era rinchiuso in una cella da solo. L'agente di
sorveglianza, non avvertendo la sua presenza, l'ha chiamato più volte
senza ricevere risposta. A quel punto la guardia si è insospettita e
ha dato l'allarme. L'agente è entrato nel bagno insieme ad un collega
e si è trovato di fronte a una scena drammatica. Il detenuto, che aveva
tentato di togliersi la vita usando i lembi della tuta che indossava, giaceva
in condizioni disperate. Immediati i soccorsi. L'uomo è stato rianimato
dal medico di guardia del carcere e poi affidato alle cure del personale del
118. Erano appena passate le 12.30. La situazione è apparsa subito grave
ai primi soccorritori, che l'hanno messo nelle mani dei sanitari dell'ospedale
Santa Maria della Misericordia, dove è tuttora ricoverato, nel reparto
di Terapia intensiva.
Due giorni prima del tentativo di suicidio, durante l'ora d'aria, l'uomo si
era arrampicato su uno dei muri interni del cortile della Casa circondariale
di via Spalato. Notato dagli agenti di sorveglianza, l'albanese aveva preferito
scendere a terra senza opporre resistenza. In quell'occasione, il direttore
del carcere, Francesco Macrì, non aveva parlato di tentata evasione perché
dalla zona dove era salito il detenuto era "praticamente impossibile arrivare
all'esterno del carcere". Alket Pekra è in attesa di giudizio, dovrà
rispondere di tentato omicidio perché a novembre ha colpito al petto
con un cacciavite un connazionale procurandogli lesioni gravi. Le sue condizioni
restano gravissime: piantonato dalle guardie carcerarie, è ricoverato
nel reparto di terapia intensiva nel nosocomio udinese. (Messaggero Veneto,
10 febbraio 2003).
Suicidio: 15 febbraio 2003, Carcere di Oristano
Mauro Saba, 38 anni, tossicodipendente, si uccide dopo 20 giorni di detenzione.
Avrebbe dovuto scontare un residuo pena per maltrattamenti in famiglia e spaccio
di hascisc. Mauro S. aveva moglie e due figli, una vita sfortunata passata alla
ricerca di un lavoro, segnata da disavventure giudiziarie per piccoli reati,
un periodo di terapia al servizio psichiatrico dell'Ospedale di Oristano e una
parentesi in affidamento alla comunità per il recupero dei tossicodipendenti
di Sanluri. Una vita tormentata, quella di Mauro, conclusa violentemente e,
come spiegano anche i medici, forse in un posto sbagliato: la prigione. Una
storia simile a quella dei due detenuti che si sono suicidati negli ultimi venti
giorni in altre due prigioni della Sardegna. (L'Unità, 17 febbraio 2003).
Morte per cause non chiare: 28 febbraio 2003, Carcere di Forlì
Michael Hadà, 28 anni, nigeriano, muore sul pavimento della cella. Durante
il normale giro di controllo un agente di polizia penitenziaria trova il corpo,
ormai senza vita. L'allarme scatta in piena notte, proprio quando nella struttura
non vi è il medico, che invece presidia durante il giorno. Dai primi
accertamenti sembra si tratti di un decesso naturale: un malore e il successivo
infarto avrebbe stroncato l'extracomunitario che, comunque, riportava anche
una ferita alla testa. Probabilmente la lesione è stata causata dall'impatto
con il pavimento, quando il giovane straniero colto da malore ha perso i sensi.
Sul caso è stata aperta un'inchiesta della Procura della Repubblica di
Forlì. Il pubblico ministero, Filippo Santangelo, ha disposto un'autopsia
proprio per togliere ogni dubbio. Il senegalese, in carcere a Forlì da
pochi mesi per una vicenda legata al mondo delle sostanze stupefacenti, occupava
una cella al secondo piano della Casa circondariale di via della Rocca, nella
sezione ordinaria. Era un tipo tranquillo, che non aveva mai creato problemi
agli agenti di polizia penitenziaria. Soltanto l'autopsia potrà chiarire
le cause esatte della morte, avvenuta in una struttura nel mirino dall'estate
scorsa, per il decesso di un 60enne e i sospetti su un altro decesso, avvenuto
alle Vallette di Torino dopo il trasferimento da Forlì. (Corriere della
Romagna, 1 marzo 2003).
Overdose: 8 marzo 2003, Carcere di Aurelia (Roma)
Manuela Contu e Franca Fiorini, rispettivamente di 42 e 37 anni, muoiono per
overdose. Le trovano, abbracciate, in un lettino della loro cella, che non danno
segni di vita: l'allarme scatta immediatamente, ma ormai non c'era più
nulla da fare. Le indagini, coordinate dal procuratore capo Consolato Labate
e dal sostituto Pantaleo Polifemo hanno portato rapidamente a risolvere il caso,
con l'arresto di Benito Leofreddi, di 41 anni, originario di Ardea.
Manuela Contu, di Roma, aveva avuto in passato dei legami con la banda della
Magliana e da tre anni era ospite della sezione femminile di Aurelia, per scontare
una pena per spaccio di sostanze stupefacenti. Franca Fiorini, di Sezze, era
in carcere per furto da circa due anni. La mattina dell'8 marzo la Contu ha
ricevuto la visita del Leofreddi (col quale ha avuto un bambino) ed è
stato questo elemento ad indirizzare immediatamente le indagini sull'uomo che,
con precedenti per furto, ricettazione, spaccio e rapina, era uscito dal carcere
il 19 febbraio.
Nell'abitazione del pregiudicato è stata trovata una lettera della Contu,
con tutte le istruzioni per fare entrare la droga in carcere. "Metti due
grammi di eroina - scriveva la detenuta all'amico appena tornato in libertà
- in un palloncino e tienilo in bocca. Se ti perquisiscono e vedi che butta
male, ingoialo, non ti succederà nulla. Se è tutto ok avvicinati,
dammi un bacio e passami la droga. Vestiti con questo e quello... io capirò
che hai la roba".
Le agenti della polizia penitenziaria che hanno assistito al colloquio hanno
avuto qualche sospetto, e appena finita la visita hanno perquisito la donna
prima di riportarla in cella. Niente. Sia la Contu che la Fiorini si sono comportate
in modo insolito nel pomeriggio e la cella è stata perquisita da cima
a fondo e lo stesso è stato fatto per le due detenute. Non è stato
trovato nulla. In serata, intorno alle 20, è stato scoperto il dramma.
Gli inquirenti ritengono che le due detenute non assumessero sostanze stupefacenti
da circa sei mesi e quindi un grammo di eroina a testa, assunto per inalazione,
sia stato fatale. Si ritiene che il decesso sia avvenuto tra le 19 e le 19.30,
ma per averne la certezza occorrerà attendere l'autopsia, che non verrà
effettuata prima di due o tre giorni. (Il Messaggero, 11 marzo 2003).
Suicidio: 9 marzo 2003, Carcere di Camerino (Macerata)
Abed El Sfina, 32 anni, tunisino, si impicca dopo poche ore dall'arresto. Arrestato
all'alba, con l'accusa di avere ucciso la moglie, si suicida nel pomeriggio
dello stesso giorno. Maria Vito, 32 anni, era stata trovata strangolata nella
notte tra l'8 e il 9 marzo nell'abitazione di Civitanova Marche del marito (da
cui era però separata). Immediato l'arresto dell'uomo, che però
si è tolto la vita impiccandosi in cella. (La Repubblica, 10 marzo 2003).
Assistenza sanitaria negata: 9 marzo 2003, Carcere di Marassi (Genova)
Leo L., 44 anni, ex tossicodipendente, è stroncato dall'AIDS nel Centro
Clinico della Casa Circondariale. Trasferito d'urgenza all'Ospedale "San
Martino", muore dopo due ore dal ricovero. Leo, originario del quartiere
San Fruttuoso, era una vecchia conoscenza dei poliziotti di Marassi: a causa
della malattia, negli ultimi anni, andava avanti e indietro fra le celle e i
letti della divisione di malattie infettive del "San Martino". (Corriere
Mercantile, 14 marzo 2003)
Morte per cause non chiare: 11 marzo 2003, Carcere di Marassi (Genova)
Un detenuto è trovato privo di sensi, nella sua cella, la mattina del
7 marzo. Ricoverato all'Ospedale "San Martino", le sue condizioni
appaiono subito disperate e, dopo 4 giorni di agonia, muore nel Reparto di Rianimazione
del nosocomio. (Corriere Mercantile, 14 marzo 2003)
Suicidio: 12 marzo 2003, Carcere di Marassi (Genova)
Santo R., 50 anni, si uccide ingerendo una massiccia dose di tranquillanti.
L'uomo, accusato di avere violentato una famigliare, non riusciva a parlare
con un magistrato: questo sarebbe il motivo che lo ha portato al gesto suicida.
(Corriere Mercantile, 14 marzo 2003)
Suicidio: 16 marzo 2003, Carcere di Viterbo
Luigi Diana, 27 anni, si uccide aspirando il gas di una bomboletta e completando
l'opera coprendosi il volto con una busta di plastica. A trovarlo sono stati
gli agenti della polizia penitenziaria che erano in servizio. Sono stati loro
stessi a cercare di prestargli le prime cure. Ma, purtroppo per il detenuto,
non c'era più nulla da fare. Immediatamente è stato dato l'allarme
e nella cella di Luigi Diana si è recato anche il medico di servizio,
che non ha potuto far altro che constatarne il decesso, avvenuto poco prima.
Dell'accaduto è stato avvertito il magistrato di turno, Carlo Maria Scipio,
che ha disposto l'autopsia per avere un quadro preciso di quanto avvenuto all'interno
del penitenziario viterbese. (Il Messaggero, 18 marzo 2003)
Assistenza sanitaria negata: 17 marzo 2003, Carcere di Catania
Maurizio Gallucci, 42 anni, muore di infarto. Il sostituto procuratore Francesco
Testa, che procede d'ufficio, ha aperto un fascicolo contro ignoti (ma i familiari
della vittima, difesi dall'avv. Maria Caterina Caltabiano, presenteranno al
più presto una denuncia) per accertare eventuali responsabilità.
L'autopsia sul cadavere del Gallucci è stata già eseguita dal
dott. Giuseppe Ragazzo, affiancato dal tossicologo Guido Romano (entrambi nominati
dal PM) e dal dott. Carlo Rossitto (nominato dalla parte offesa) e sembrerebbe
confermare la diagnosi iniziale, che ad uccidere Gallucci sia stato un infarto.
A loro volta i detenuti del carcere di piazza Lanza hanno scritto una lettera
in cui, dopo avere ripercorso i momenti in cui il loro compagno si è
sentito male, aggiungono: "Il medico si è visto arrivare solo verso
le ore 20.45, orario in cui il Gallucci è stato portato presso l'infermeria
del carcere aiutato da un altro detenuto, che lo ha dovuto ripulire, visto che
gli infermieri si schifavano... Gallucci è morto ed è stato fatto
morire privo di quella dignità di cui ogni essere umano, anche se detenuto,
ha diritto. In questo carcere ammalarsi è un rischio, dato che possiamo
segnarci una visita medica solo un giorno la settimana; se poi hai bisogno di
uno specialista i mesi di attesa sono incredibili, le medicine a disposizione
sono limitate e per potere acquistare dei farmaci per conto proprio bisogna
avere l'autorizzazione della direzione e ci vuole un altro mese. Qui ci sono
detenuti che per un esame al cuore aspettano da cinque mesi. Siamo abbandonati
a noi stessi e privi di poterci ammalare come tanti altri essere umani, perché
ognuno di noi potrebbe fare la fine di Gallucci, che per inciso era in attesa
di giudizio. Adesso noi chiediamo: e se Gallucci fosse stato innocente?".
(La Sicilia, 26 marzo 2003)
Assistenza sanitaria negata: 22 marzo 2003, Carcere di Poggioreale (Napoli)
Luigi Giusti, 59 anni, sofferente di una forma grave di diabete - che lo aveva
portato alla cecità - muore nel carcere di Poggioreale. La notizia arriva
dagli avvocati Alfonso ed Alberto Martucci, che hanno espresso "sgomento
e sdegno" per "questa morte annunciata". "Più volte
- affermano i legali di Giusti - erano state evidenziate, inutilmente, al magistrato
di sorveglianza le gravi condizioni di salute del nostro assistito". Giusti
era detenuto perché accusato di avere aperto alcuni punti vendita di
mozzarelle, a Pietralcina e San Giorgio del Sannio (Benevento), con l'aiuto
patrimoniale di un presunto camorrista. Sulla morte sono stati registrati gli
interventi dell'eurodeputato radicale Maurizio Turco e del segretario dell'associazione
"Nessuno tocchi Caino" Sergio D'Elia, nel corso di un dibattito sull'articolo
41 bis alla Camera Penale di Napoli. (Il Mattino, 23 marzo 2003).
Suicidio: 25 marzo 2003, Carcere di Biella
Maurizio Di Cuonzo, 27 anni, si impicca in cella. Il giovane, soffriva da tempo
di crisi depressive e pare che la sera prima del suicidio avesse chiesto di
andare in "isolamento". "La famiglia chiede chiarezza sull'episodio
- precisa l'avvocato Luigi Florio - come mai sono state lasciate le lenzuola
nella cella. Ci sono state omissioni nelle norme di sorveglianza? La notizia
della morte del giovane in questi giorni non è trapelata, nonostante
sia stata aperta un'inchiesta e anche questa è una anomalia. Si voleva
tenere l'episodio coperto?". Maurizio Di Cuonzo è stato protagonista
di numerosi episodi di cronaca nera. Nel 1998 si era presentato in questura
chiedendo di essere arrestato "altrimenti faccio una follia". Nel
marzo del 2002 ha rapinato un barista, in piazza San Secondo, con un coltello.
Bottino pochi euro, fu preso dai carabinieri. (La Stampa, 28 marzo 2003).
Suicidio: 30 marzo 2003, Carcere di Ancona
Loris Costarelli, 20 anni, in attesa di giudizio per l'omicidio di un amico
di 17 anni, si impicca nella doccia. Verso le 14 Loris Costarelli chiede di
potersi fare una doccia. Richiesta che è accolta. E quando rimane solo
tira fuori una striscia di stoffa e la annoda alla doccia. Un rapido gesto e
quel pezzo di stoffa si trasforma in un cappio. Un agente penitenziario si accorge
della tragedia che si sta consumando ed interviene immediatamente. Il giovane
è subito trasportato in ospedale dove i sanitari, constatate le gravi
condizioni, ne dispongono il ricovero in rianimazione. Il ragazzo, piantonato
da un agente di custodia, è in coma. Il 2 aprile è dichiarato
clinicamente morto. (Liberazione, 3 aprile 2003).
Il gesto di Loris Costarelli è, in qualche modo, annunciato: il padre,
Gianfranco Costarelli, aveva manifestato come un uomo sandwich davanti al Palazzo
di giustizia di Ancona, chiedendo che il figlio venisse riconosciuto seminfermo
di mente, al contrario di quanto stabiliva invece la perizia che, nello stesso
momento della protesta, veniva discussa di fronte al giudice per le indagini
preliminari. "Loris non si rende conto di quello che ha fatto a Matteo,
non ha rimorsi. Mi ha detto che, se gli daranno una pena troppo alta, non l'accetterà,
si ucciderà. È una persona debole". Loris era seguito da
uno psicologo e, secondo quanto ha affermato il Dipartimento regionale per l'amministrazione
penitenziaria, il suo stato psicologico sembrava stabile. Era però sotto
stretta sorveglianza, anche se detenuto nella sezione comune (in una cella con
un altro recluso). Sull'episodio verranno aperte due inchieste: una penale e
una interna al carcere. Carcere dove, in base alla perizia psichiatrica, Loris
sarebbe dovuto rimanere in attesa del processo vista la "potenzialità
di pericolosità sociale". Perizia che ha definito il ventenne affetto
"di un disturbo della personalità di tipo narcisistico e antisociale
che comunque non farebbe scemare la sua capacità di intendere e di volere".
(Il Messaggero, 31 marzo 2003)
Assistenza sanitaria disastrata: 5 aprile 2003, Carcere di Poggioreale (NA)
Mariano Maestrino, 35 anni, muore per un collasso cardiaco. Si tratta del secondo
detenuto deceduto a Poggioreale in poco più di due settimane e sulla
sua fine avrebbe influito negativamente la carenza di cure appropriate, che
non gli potevano essere prestate a Poggioreale. Il 26 marzo Maestrino - sofferente
di soprappeso e che proprio per questo accusava problemi respiratori e cardiaci
- aveva partecipato all'udienza per la sospensione della pena, richiesta per
il suo delicatissimo stato di salute. La sua obesità non aveva influito
sul regime carcerario, tant'è vero che fino al suo ricovero nel centro
diagnostico terapeutico della casa circondariale di Poggioreale, era rimasto
in regime carcerario ordinario. Il suo difensore ha richiesto l'immediato intervento
della Procura per ottenere la punizione di chi ha concorso per omissione, negligenza
o imperizia alla morte del giovane detenuto. (Il Mattino, 7 aprile 2003).
Suicidio: 20 aprile 2003, Carcere di Pesaro
Roberto Salidu, cagliaritano di 41 anni, si uccide impiccandosi con una sciarpa
legata a un'inferriata, nel bagno del carcere di Pesaro. Prima di uccidersi
scrive un biglietto, poche righe per spiegare i motivi del gesto: non sopportava
l'idea di non poter uscire dal carcere, di dover rinunciare alla semilibertà.
I problemi per Roberto Salidu iniziano qualche settimana fa, quando l'uomo litiga
con un fratello. La sua famiglia risiede da tanti anni a Fano, una cittadina
a venti chilometri da Pesaro. Salidu stava scontando una condanna a venticinque
anni di reclusione, per un omicidio commesso in Lombardia. Qualche anno fa i
giudici del tribunale di Pesaro hanno deciso di concedere al detenuto la semilibertà.
L'uomo ha trovato lavoro nella falegnameria gestita da una cooperativa. Tutto
sembrava filare liscio. Di giorno al lavoro e di sera il rientro in carcere
per dormire. Qualche settimana addietro però Roberto Salidu litiga con
il fratello e viene denunciato con l'accusa di minacce. L'episodio gli complica
la vita. Il giudice del tribunale di sorveglianza sospende i benefici di legge
e Roberto Salidu è costretto a rientrare in carcere. Non può uscire
per andare in falegnameria, deve restare in cella. Passa qualche giorno e per
il detenuto arriva una vera e propria mazzata: il magistrato revoca la semilibertà.
L'uomo però non sopporta l'idea di tornare in carcere dopo tanti anni:
quando il compagno di cella esce per l'ora d'aria, Roberto Salidu decide di
rinunciare "alla socialità" con gli altri detenuti. L'uomo
resta in cella, prende carta e penna, scrive un messaggio ai suoi familiari,
poi lega una sciarpa alle inferriate del bagno e si lascia andare nel vuoto.
Lo ritrovano le guardie del penitenziario dopo qualche minuto, ma i soccorsi
sono inutili. Arrivano anche i medici del carcere, ma non possono far altro
che constatare la morte del detenuto. Sull'episodio è stata aperta un'inchiesta,
coordinata dal procuratore della repubblica di Pesaro Stefano Celli. Ieri il
magistrato ha disposto la perizia necroscopica sul cadavere dell'uomo. Si tratta
di una prassi che viene sempre rispettata quando un detenuto si toglie la vita
in cella. (L'Unione Sarda, 22 aprile 2003).
Suicidio: 22 aprile 2003, Carcere di Verbania
Khezzane El Jilali, 43 anni, originario del Marocco, si impicca con la cintura
dei pantaloni, approfittando del momento in cui i compagni di cella sono fuori
per l'ora d'aria. La Procura della Repubblica non ha disposto l'autopsia. Il
sostituto procuratore Marco Mescolini, sulla scorta dei rilievi dei periti di
medicina legale, ha ritenuto esauriente l'ispezione esterna del cadavere. Non
vi sarebbero dubbi sulle cause del decesso: morte per soffocamento e arresto
cardiaco da impiccagione. El Jilali era stato arrestato due anni fa dai carabinieri
di Trofarello (Torino) per violenza sessuale nei confronti di una giovane di
29 anni e, per questo, era detenuto nella speciale sezione protetta, allestita
poco più di un anno fa nella Casa Circondariale verbanese. Avrebbe dovuto
scontare ancora un paio d'anni. (La Stampa, 24 aprile 2003).
Suicidio: 23 aprile 2003, Carcere di Livorno
Giovane turco si uccide impiccandosi con le stringhe delle scarpe, legate alle
inferriate della cella. Un gesto disperato dettato, sembra, da problemi affettivi.
La Procura in queste ore sta verificando alcuni aspetti della vicenda. Rigoroso
è il riserbo sull'indagine volta a sapere se la morte del giovane poteva
essere evitata. Il magistrato titolare dell'inchiesta, Mario Profeta, sta acquisendo
ulteriori elementi, dopo aver acquisito una sorta di biglietto scritto pare
in lingua turca. Il cadavere del giovane è stato trasferito all'obitorio
dell'ospedale, in attesa delle decisioni della magistratura. (La Nazione, 27
aprile 2003).
Morte per cause non chiare: 25 aprile 2003, Carcere di Verona
Antonio Barbato, 25 anni, napoletano di origine, muore nel letto della sua cella.
L'improvviso decesso si è subito tinto di giallo, anche perché
il magistrato di turno, Beatrice Zanotti, ha disposto l'autopsia per verificare
le cause della morte di quel detenuto. Da un primo esame esterno, l'uomo potrebbe
essere deceduto per cause naturali. A fare la triste scoperta è stato
il personale di polizia penitenziaria, che stava eseguendo l'ispezione del mattino.
Il corpo dell'uomo era ancora caldo, a significare che la morte aveva colto
il detenuto poco tempo prima della macabra scoperta. E gli altri due detenuti
che dividevano la cella con lui, hanno detto alla polizia penitenziaria, che
li ha sentiti a verbale, di non essersi accorti di nulla. Barbato, secondo quanto
s'è appreso godeva di ottima salute, ma in passato aveva fatto uso di
sostanze stupefacenti. Quando venne arrestato, nel settembre del 2002, assieme
al complice Antonio Abramo, al giudice che ne aveva convalidato l'arresto, i
due dissero che avevano deciso di compiere una rapina perché avevano
bisogno di denaro per acquistare droga. (L'Arena di Verona, 26 aprile 2003)
Suicido: 30 aprile 2003, Carcere di Rebibbia (Roma)
Alluad Abdel Rahim, 20 anni, marocchino, si impicca alle sbarre della sua cella,
nel reparto G12. Arrestato per furto, sarebbe dovuto uscire il 16 aprile, però
sembra che gli fosse stato notificato un nuovo cumulo di pene per effetto del
quale la sua detenzione si era prolungata di un anno. Secondo la direzione del
carcere, però, la notizia gli era già arrivata a febbraio e, dunque,
non sarebbe la causa immediata del suicidio. Secondo il tam tam di "radio
carcere", invece, al ragazzo sarebbe stato impedito di vedere il suo avvocato.
(Il Manifesto, 3 maggio 2003)
Suicidio: 1 maggio 2003, Carcere di Rebibbia (Roma)
Marco De Simone, 41 anni, si impicca in una cella del reparto minorati psichici,
48 ore dopo essere arrivato a Rebibbia. Era stato dichiarato incompatibile con
il regime carcerario. L'uomo, ha riferito il suo legale, era già stato
ricoverato nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli e anche nel reparto
psichiatrico dell'Ospedale "Sant'Eugenio" di Roma. Avrebbe dovuto
scontare un cumulo di pene per un totale di 8 mesi e 15 giorni. (Corriere della
Sera, 3 maggio 2003).
Suicidio: 5 maggio 2003, Carcere di San Vittore (Milano)
Chamorro Morocho, 30 anni, ecuadoriano, si uccide nel reparto "nuovi giunti".
Era stato arrestato due giorni prima, per avere ucciso la moglie e ferito il
figlio, investendoli con un'auto. Alla visita medica risulta ammalato di tubercolosi,
però nel reparto infermeria non c'è posto e quindi rimane in una
cella del reparto "nuovi giunti", con altre nove persone. Il giorno
seguente lo trovano in bagno, impiccato. Dopo due mesi di accertamenti, la Procura
non si limita a escludere qualsiasi responsabilità degli agenti, per
la mancata sorveglianza dell'arrestato, ma elogia la direzione per "l'innegabile
attenzione" al problema dei suicidi, fino a concludere che i problemi oggettivi
di San Vittore sono tanto gravi da mettere in dubbio perfino l'obiettivo minimo
della sopravvivenza: "Le condizioni di sovraffollamento e la cronica mancanza
di mezzi in cui versa il carcere rendono sostanzialmente impossibile attuare
una politica di reale ed efficace prevenzione degli atti autolesivi e dei suicidi
(...) Si tratta di condizioni di detenzione non degne di un Paese civile".
Il 4 maggio Chamorro Morocho, nella visita di routine dello psicologo, "non
dichiara propositi autolesivi", ma il medico, come per ogni protagonista
di delitti familiari, dispone comunque "massima sorveglianza, con controlli
ravvicinati". Il detenuto risulta malato di tubercolosi, ma "per mancanza
di celle idonee" viene rinchiuso in una stanza di fortuna, ricavata nella
sala d'attesa. Il pericolo di contagio ne imporrebbe "l'isolamento sanitario",
ma in quella "piccola cella con i materassi a terra" sono ammassati
altri nove detenuti stremati dall'afa. Alle 13.20 del 5 maggio il recluso ecuadoriano
s'impicca in bagno "con una stringa delle sue scarpe, lunga 107 centimetri".
È questo particolare a far partire l'inchiesta: com'è possibile
che a un detenuto a rischio sia stata lasciata la corda per impiccarsi? Per
cominciare, il P.M. Marco Ghezzi accerta che "non esiste una normativa
sul punto": ci sono generiche "circolari sull'autolesionismo",
ma "nessuna affronta il problema del vestiario". Poi, in una testimonianza
definita dal magistrato "sconfortante" ma "illuminante",
il direttore di San Vittore, Luigi Pagano, spiega che il carcere avrebbe "una
capienza massima di 800 detenuti", ma quel giorno dietro le sbarre ce ne
sono 1.326 e solo perché "un reparto e mezzo sono chiusi":
la media ordinaria è di "oltre 1.600" reclusi.
Motivando l'archiviazione, il P.M. aggiunge che "mancano personale e mezzi:
in particolare la direzione non dispone di vestiario che eviti rischi di suicidio",
nemmeno per i detenuti per cui questo è "elevato". Le guardie,
insomma, non hanno scelta: se pretendessero di sequestrare a tutti "i capi
a rischio", gli arrestati "circolerebbero seminudi". "Pur
apparendo auspicabile che non vengano più lasciate stringhe" così
lunghe, conclude il P.M., "non sembra che la morte di Chamorro si possa
attribuire alla responsabilità del personale carcerario".
Il vero problema è che la stessa struttura del carcere non rispetta "l'incoercibile
diritto" di ogni detenuto "di essere custodito in un ambiente che
rispetti la sua dignità, oltre che la sua salute e sicurezza". Già
nel novembre scorso la Procura, chiudendo un'altra inchiesta sul suicidio di
due detenuti a massimo rischio, aveva spedito al ministero della giustizia una
relazione su che denunciava "l'evidente violazione dei diritti umani dei
detenuti di San Vittore". (Corriere della Sera, 18 luglio 2003).
Tentato suicidio: 16 maggio 2003, Carcere di Nuoro
Detenuto di 79 anni tenta il suicidio dopo aver saputo dell'imminente trasferimento
in un altro carcere e viene salvato in extremis dagli agenti. (La Nuova Sardegna,
17 maggio 2003).
Tentato suicidio: 17 maggio 2003, Carcere di Pesaro
Napoletano, 40 anni, tenta il suicidio impiccandosi in cella. L'uomo sarebbe
stato indotto alla disperazione a causa del rifiuto, oppostogli dalla magistratura
competente, a una sua richiesta di sospensione della pena a causa di motivi
di salute: ha tentato di impiccarsi all'interno della sua cella ma l'intervento
repentino, prima del compagno, poi delle guardie carcerarie, ha permesso di
salvarlo. Trasportato dal 118 al Pronto soccorso dell'ospedale "S. Salvatore",
versa in condizioni serie ma non è in pericolo di vita. (Il Resto del
Carlino, 18 maggio 2003)
Tentato suicidio: 18 maggio 2003, Carcere di Perugia
Un detenuto del carcere circondariale di piazza Partigiani a Perugia, è
stato ricoverato al centro rianimazione di uno dei due ospedali perugini. La
prognosi, secondo indiscrezioni, sarebbe riservatissima. L'uomo, di cui non
si conosce praticamente nulla, avrebbe tentato di togliersi la vita impiccandosi
nella propria cella. Ma il tentativo del gesto estremo del recluso è
stato evidentemente scoperto in tempo, perché, benché in condizioni
gravissime, se non addirittura disperate, l'uomo è ancora vivo. (La Nazione,
19 maggio 2003)
Suicidio: 19 maggio 2003, Carcere di Macomer (Nuoro)
Ivan Ditriiev, 22 anni, bulgaro, si impicca. Era nel carcere di Macomer da una
decina di giorni. Il giovane, tossicodipendente dall'età di nove anni
(sarebbe uscito dal carcere nel luglio del 2004 dopo aver scontato una condanna
per tentata rapina), è stato trovato intorno alle 15.30 da un agente
della polizia penitenziaria, lo stesso con cui poco prima aveva scambiato due
parole senza che nulla facesse presagire le sue intenzioni. Il ragazzo bulgaro,
ancora agonizzante, era appeso all'inferriata della finestra della cella con
una striscia di lenzuolo. I tentativi di salvarlo, scattati immediatamente con
l'intervento del personale in quel momento in servizio, sono stati inutili.
Ivan Ditriiev ha sicuramente approfittato dell'assenza del compagno di cella,
che si trovava in un'altra parte del carcere, impegnato in un lavoro, per farla
finita. Ha chiuso così con una vita di sofferenze, fatta di solitudine,
piccoli episodi di criminalità, carcere e processi. Una vita scandita
dalla solitudine, che nemmeno i periodici colloqui con il personale specializzato
addetto alla cura dei detenuti sono riusciti a cambiare. Pare che Ivan avesse
più volte detto di non trovarsi bene a Macomer e avesse chiesto più
volte di tornare nel carcere di Milano, da dove era stato trasferito. Descritto
come un tipo introverso e taciturno, poco prima del suicidio aveva avuto un
colloquio con un'educatrice della Casa circondariale. Dell'episodio è
stato immediatamente informato il magistrato di turno presso la procura del
Tribunale di Oristano che ha autorizzato la rimozione del cadavere, anche se,
secondo alcune indiscrezioni, non sarebbe stata disposta l'autopsia ma un semplice
"esame esterno". Sulla vicenda è stata comunque aperta un'inchiesta
da parte dell'autorità giudiziaria, che ha affidato gli accertamenti
al comando di Polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Macomer. Occorrerà
stabilire i motivi che hanno indotto il giovane originario dell'Est a un gesto
così estremo. (L'unione Sarda, 21 maggio 2003)
Morte per cause non chiare: 22 maggio 2003, Carcere di Alba (CN)
C.A., 28 anni, si sente male in cella e muore poco dopo nell'infermeria del
carcere. Sul decesso è in corso un'indagine, coordinata dal sostituto
procuratore della Repubblica, Federico Bressan, che ha subito disposto l'autopsia,
già eseguita nella giornata di ieri. Dai primi accertamenti sarebbe emerso
che il giovane non aveva fatto uso di droga, né di sostanze alcoliche,
così come non sono risultati atti di violenza contro la sua persona.
L'ipotesi formulata è che sia stato vittima di un rigurgito, che gli
è stato fatale. Per stabilire con esattezza le cause della morte si attendono
il pronunciamento del medico legale e i risultati dell'autopsia, mentre proseguono
le indagini da parte degli inquirenti. Secondo alcune indicazioni, sarebbe stata
una persona debilitata nel fisico, nonostante la giovane età. Pare che
fosse in carcere per un furto, ma che avesse già alcuni precedenti. (La
Stampa, 24 maggio 2003).
Suicidio: 27 maggio 2003, Carcere di Sassari
Giovanni Cabras, 28 anni, si uccide impiccandosi nel bagno della cella. Il giovane,
che scontava una condanna per reati contro il patrimonio, è stato trovato
morto dai compagni di cella. In passato si era tagliato le vene, era stato ricoverato
in reparti psichiatrici. Dopo un'udienza in tribunale era apparso prostrato,
al rientro in carcere: un suicidio annunciato, dunque. (Liberazione, 28 maggio
2003).
Morte per cause non chiare: 28 maggio 2003, Carcere di Como
Giuseppe Romeo, 51 anni, viene trovato senza vita dalle guardie. Ancora tutte
da chiarire le circostanze della morte: l'ipotesi più accreditata è
quella del suicidio, ma occorrerà attendere lo svolgimento delle indagini.
Proprio per questo motivo, la data dei funerali non è ancora stata fissata.
Da tempo noto alla giustizia, Romeo era stato più volte condannato, per
droga e anche per rapina. L'ultima volta era finito in carcere a febbraio quando,
in seguito ad un controllo dei carabinieri, presso la sua abitazione in Corte
Marforio era stata rinvenuta una pistola e alcune cartucce. La libertà
l'aveva riacciuffata pochi mesi prima, dopo avere scontato la condanna per una
rapina a mano armata compiuta nel Vimercatese. (La Provincia, 30 maggio 2003).
Suicidio: 29 maggio 2003, Carcere di Prato
S.B., 68 anni, ergastolano in regime di semilibertà, si uccide in cella.
La dinamica della morte è ancora in fase di accertamento da parte della
polizia penitenziaria: in un primo momento sembrava che l'uomo avesse utilizzato
una delle piccole bombole del gas in dotazione nella struttura carceraria, poi
che abbia usato un sacchetto di plastica per soffocarsi. Il sostituto procuratore
Sergio Affronte ha disposto accertamenti. Serviranno parecchi giorni per conoscere
i risultati dell'autopsia: il suicidio non sembra essere in discussione, anche
se rimane inspiegabile il gesto di un uomo che, dopo anni di prigione, stava
per tornare libero. (La Nazione, 31 maggio 2003).
Suicidio: 9 giugno 2003, Carcere di Cagliari
Roberto Sanna, 37 anni, tossicodipendente, si impicca alle sbarre della cella
mentre i compagni erano fuori per l'ora d'aria. Un suo compagno di cella lo
soccorre, poi arrivano gli agenti, ma le sue condizioni appaiono subito gravissime.
Viene ricoverato nel reparto di rianimazione del "Santissima Trinità",
dove muore il 12 giugno. Era in carcere da poche ore, dopo un tentativo di furto
di un'auto. (L'Unione Sarda, 13 giugno 2003).
Suicidio: 15 giugno 2003, Carcere di Bologna
Paride C., 29 anni, accusato di spaccio di banconote false, si uccide perché,
non gli era stato concesso il premesso per andare al funerale della fidanzata.
Il deputato Verde Paolo Cento, vicepresidente della Commissione giustizia della
Camera, ha annunciato la presentazione di un'interpellanza urgente al Ministro
della Giustizia sul suicidio di Paride C.. "Il suicidio del detenuto è
purtroppo la conferma di una situazione penitenziaria ormai non più sostenibile,
ha scritto il parlamentare Verde, d'altra parte vi sono gravi inadempienze e
violazioni dei diritti dei detenuti". (Il Resto del Carlino, 16 giugno
2003 - Corriere della Sera, 24 giugno 2003).
Overdose: 17 giugno 2003, Carcere di Torino
Giovane originario della Costa d'Avorio muore di overdose alle Vallette. (La
Stampa, 18 giugno 2003).
Suicidio: 23 giugno 2003, Carcere di Rebibbia (Roma)
Gennaro Di Gennaro, 40 anni, sieropositivo, si uccide riempiendo un sacchetto
di gas fatto uscire da una bomboletta e poi chiudendosi la testa dentro quel
mortale involucro. Era ricoverato nel reparto G14, che funge da infermeria per
i malati più gravi. Di Gennaro era ammalato, non ce l'ha fatta a resistere
dentro quella gabbia di celle bianche che è il G14 di Rebibbia. A dare
la notizia è stato il vicepresidente della commissione comunale sul carcere,
Eugenio Iafrate, responsabile per Villa Maraini del progetto sulle tossicodipendenze
in carcere. Nessun commento dalla struttura, dove ieri il direttore Carmelo
Cantone veniva dato come assente e dove erano altrettanto irrintracciabili i
suoi sostituti. Il problema del trattamento degli ammalati, e in particolare
degli ammalati di Aids, è una delle questioni più annose che hanno
a più riprese focalizzato il dibattito sulla questione dell'incompatibilità
tra carcere e malattie gravi. La Consulta permanente penitenziaria del Comune
di Roma, attraverso il vicepresidente Eugenio Iafrate, ha espresso ieri tristezza
per la vicenda ribadendo "le precarie condizioni psicofisiche dei detenuti
negli istituti di pena". Per Iafrate è "estremamente necessario"
il passaggio dalla medicina penitenziaria a quella pubblica del Servizio Sanitario
Nazionale. L'associazione dei detenuti "Papillon" ha aggiunto: "Il
suicidio di Di Gennaro è l'ennesimo caso di persone che non trovano un
sostegno psicologico adeguato e che quindi finiscono in questo brutto modo".
(Corriere della Sera, 25 giugno 2003).
Overdose: 2 luglio 2003, Carcere di Civitavecchia (RM)
Un detenuto del carcere di Civitavecchia è ricoverato in gravissime condizioni
nel reparto di rianimazione del San Paolo per un'overdose di eroina. L'uomo
è stato trovato privo di sensi nella sua cella. Un altro recluso è
nello stesso ospedale per le ferite che si è inferto in varie parti del
corpo. (Il Corriere della Sera, 3 luglio 2003).
Suicidio: 3 luglio 2003, Carcere di Marsala (TP)
S.B., 33 anni, si uccide al secondo giorno di detenzione. Era accusato di aver
violentato una bambina di nove anni, sua lontana parente. Dopo l'arresto aveva
respinto l'accusa di aver abusato della bimba; è morto mentre veniva
trasportato in ambulanza dal carcere al pronto soccorso dell'ospedale di Marsala.
(Panorama, 9 luglio 2003).
Suicidio: 4 luglio 2003, Carcere di Secondigliano (Napoli)
Ciro Castaldo si impicca mentre è chiuso in una "cella liscia".
Era detenuto dal 25 agosto 2001 e avrebbe terminato la pena nel 2008. (Newsletter
n° 1 dell'Associazione Antigone, luglio 2003).
Suicidio: 5 luglio 2003, Carcere di Regina Coeli (Roma)
Nicola Cozzolino, 20 anni, muore dopo aver aspirato gas da una bomboletta. Era
in carcere da circa due mesi, dopo che gli erano stati revocati gli arresti
domiciliari. Il giovane aveva chiesto di essere inserito nei piani di assistenza
del Ser.T. interno al carcere, la struttura di sostegno per i tossicodipendenti,
ma la sua domanda era ancora in corso di valutazione. Cozzolino, residente a
Centocelle, era stato arrestato un anno fa dopo essere stato riconosciuto da
numerosi ragazzi che erano stati derubati di cellulari, portafogli, catenine.
A denunciare la sua morte è stato il parlamentare Paolo Cento, dopo una
visita all'Istituto di Pena di Via della Lungara. La Procura di Roma ha aperto
un'inchiesta, che dovrà stabilire se la morte di Cozzolino sia stata
conseguente all'uso di gas per scopo stupefacente, oppure se si è trattato
di suicidio. (Corriere della Sera, 6 luglio 2003).
Suicidio: 6 luglio 2003, Carcere di Piacenza
Giosuè Matera, 25 anni, originario di Foggia, si uccide in cella, strangolandosi
con la cintura dell'accappatoio. Si trovava in carcere dal mese di febbraio
2002, con l'accusa di avere partecipato ad una rapina. Da pochi giorni ERA stato
trasferito dal carcere di Parma a quello di Piacenza e, per disposizione dei
magistrati, era in cella d'isolamento. Il 9 luglio sarebbe dovuto comparire
davanti al G.U.P. del Tribunale di Parma, per l'udienza preliminare. La Procura
ha incaricato un medico legale di Pavia di effettuare l'autopsia sulla salma
del giovane, ma non vi sarebbero però dubbi sugli intenti suicidi del
detenuto che, secondo quanto si è appreso, sarebbero stati espressi anche
per iscritto, nelle pagine di un'agenda ritrovata nella sua cella ed acquisita
agli atti. I genitori del giovane hanno nominato un legale per seguire le fasi
degli accertamenti. Si vuole in sostanza accertare se vi siano delle responsabilità
sulla morte del detenuto da parte di qualcuno. (Libertà. Quotidiano di
Piacenza, 13 luglio 2003).
Suicidio: 17 luglio 2003, Carcere di Bergamo
Vittorio Damiani, 62 anni, parroco di Villa di Serio (BG), si impicca in una
cella della sezione di isolamento. Era detenuto dal 6 maggio 2003, con l'accusa
di concorso in abusi sessuali si minori. Il sacerdote si proclamava innocente
e pronto a ribaltare ogni addebito ma poi, forse, ha pensato che la vergogna
non si cancella mai, anche quando nasce da accuse non vere. Tutto era partito
dalla magistratura di Chiavari, che aveva poi passato gli atti a quella di Bergamo.
Un primo ricorso al Tribunale della libertà di Genova era stato respinto.
La scorsa settimana il legale del sacerdote ne aveva fatto un secondo, al Tribunale
del Riesame di Brescia, col quale faceva notare che nessun provvedimento restrittivo
era stato emesso dalla magistratura di Bergamo e, visto che l'ordinanza emessa
dal giudice di Chiavari era ormai decaduta, chiedeva il suo rilascio. Tesi accolta
dai giudici del riesame di Brescia, che hanno disposto la scarcerazione del
sacerdote. Ma nello stesso momento il P.M. Carmen Pugliese ha emesso un ordine
di fermo giudiziario, temendo che don Damiani fuggisse. Costretto a restare
in cella? sopraffatto dal dolore, dal rimorso, dalla vergogna, non si saprà
mai? don Vittorio ha preferito la morte. (Il Giornale, 19 luglio 2003).
Suicidio: 21 luglio 2003, Carcere di Cagliari
Damiano M., 26 anni, si uccide inspirando il gas di una bomboletta. Due compagni
di cella notano che il giovane è sul letto, quasi rannicchiato, in una
posizione insolita. Un detenuto lo chiama, ma Damiano M. non risponde. A quel
punto chiede l'intervento delle guardie penitenziarie, che chiamano il medico.
Damiano M. è trasportato in ospedale, ma ogni tentativo per rianimarlo
si rivela inutile. Stava scontando una condanna per lesioni. In passato era
stato arrestato anche con l'accusa di furto. Secondo le poche notizie filtrate
negli ultimi tempi il giovane aveva problemi di salute. Non si conoscono i motivi
che lo hanno spinto al suicidio, ma è chiaro che anche questo episodio
testimonia la situazione di estremo disagio all'interno del vecchio penitenziario.
Nei giorni scorsi un altro detenuto avrebbe cercato di togliersi la vita, sempre
inspirando del gas. Ma, in questa circostanza, l'intervento delle guardie penitenziarie
avrebbe scongiurato l'ennesima tragedia. Nel 2003 a "Buoncammino"
si sono suicidati altri tre detenuti. (L'unione Sarda, 23 luglio 2003).
Suicidio: 24 luglio 2003, O.P.G. di Aversa (NA)
Angelo Vallone, 23 anni, si impicca nella Sezione "Staccata" dell'Ospedale
Psichiatrico Giudiziario. (Newsletter n° 1 dell'Associazione Antigone, luglio
2003).
Tentato suicidio: 27 luglio 2003, Carcere di Ancona
Giovane detenuto albanese tenta di uccidersi in cella e viene salvato dal pronto
intervento delle guardie carcerarie. Il ragazzo, in carcere per reati non pesanti,
ha cercato di impiccarsi ad una sbarra: subito soccorso e trasportato al pronto
soccorso di Torrette è stato giudicato fuori pericolo. Si tratta del
secondo caso di tentativo di suicidio, nel giro di pochi giorni, nel carcere
di Ancona. Nel caso precedente un detenuto italiano aveva bevuto un flacone
di detersivo per l'igiene della casa. (Il Messaggero, 31 luglio 2003).
Suicidio: 28 luglio 2003, Carcere di Agrigento
Antonino Frenna, 50 anni, si impicca in cella. Era in carcere da un mese, arrestato
dopo avere vibrato una coltellata al suo futuro genero. I legali di Frenna,
Salvatore Re e Monica Malogioglio chiesero per lui la riqualificazione del reato
da tentato omicidio in lesioni aggravate, chiedendo anche l'immediata scarcerazione
del loro assistito. In attesa del pronunciamento del giudice, Frenna è
rimasto chiuso nella sua cella, con la possibilità di vedere ogni tanto
i propri cari, durante le ore di colloquio permesse dalla direzione del carcere.
Lunedì scorso Frenna si incontrava con la madre e un fratello, anch'esso
detenuto a Petrusa: al termine del faccia a faccia, il cinquantenne ha fatto
ritorno nella sua cella, avendo già in mente di uccidersi. Annodatosi
un lenzuolo al collo si è strozzato. Un attimo dopo è scattato
l'allarme.
La salma di Frenna è stata trasportata nella camera mortuaria dell'ospedale
di Agrigento, dove ieri, su disposizione del sostituto procuratore Camillo Poillucci,
il medico legale Gianfranco Pullara ha effettuato l'ispezione cadaverica. Al
magistrato non è rimasto altro da fare che aprire l'inchiesta, per stabilire
eventuali responsabilità per la morte del detenuto. Uno dei reati ipotizzati
è istigazione al suicidio. Dal carcere giunge il commento pieno di rammarico
del direttore, Laura Brancato, la quale ha evidenziato come "d'estate in
molte carceri può accadere che qualcuno si lasci andare allo sconforto".
(La Sicilia, 30 luglio 2003).
Assistenza sanitaria disastrata: 13 agosto 2003, Carcere di Catanzaro
Emiliano Mosciaro, 47 anni, muore di peritonite. Stava scontando una pena di
sette anni, per il reato di associazione a delinquere. Il 4 agosto telefona
alla madre, per dirle che non si sente bene e che le cure dei medici del carcere
non funzionano. Emiliano soffre di crisi depressive e quei dolori addominali,
che accusa da qualche giorno, sono forse scambiati per effetti di una qualche
forma di somatizzazioni. Il giorno dopo la telefonata alla madre Emiliano viene
trasferito d'urgenza all'Ospedale di Catanzaro, su richiesta di un medico esterno
che lo ha visitato in carcere.
Troppo tardi. Mosciaro viene operato d'urgenza ma l'appendicite si è
ormai trasformata in peritonite acuta, con stato di necrosi avanzata. Emiliano
combatte per sette lunghi giorni con la morte, ma senza risultati positivi.
Muore la mattina del 13 agosto. I famigliari, da quel giorno, non riescono a
darsi pace per quella che ritengono una morte assurda e assolutamente evitabile.
Il giorno dopo, infatti, viene sporta denuncia presso la Procura della Repubblica.
La dottoressa Pezzo, nel chiedere l'autopsia, ha aperto un'inchiesta per stabilire
e verificare colpe o negligenze da parte di qualcuno e nei prossimi giorni si
potrebbero conoscere gli esiti e gli sviluppi di tale inchiesta. (Il Quotidiano
di Calabria, 25 ottobre 2003)
Suicidio: 18 agosto 2003, carcere di Pesaro
H.J., 30 anni, si impicca utilizzando un lenzuolo di stoffa - carta. Si tratta
di un tunisino, anche se non vi è certezza sull'identità da lui
asserita, in quanto era sprovvisto di documenti. L'uomo era in carcere da dieci
giorni, per spaccio di stupefacenti. Non ha lasciato tracce o manoscritti dai
quali si possa risalire alle motivazioni del suo gesto. Il fatto - avvenuto
quasi certamente poco dopo le 16, immediatamente dopo il cambio del turno -
è stato scoperto dall'agente di polizia penitenziaria in servizio nel
reparto, il quale, accortosi dell'accaduto, ha immediatamente avvertito il personale
medico e paramedico; ogni tentativo di rianimazione è però risultato
vano. La vicenda è al vaglio del magistrato pesarese Massimo Di Patria.
(Il Messaggero, 19 agosto 2003).
Tentato suicidio: 26 agosto 2003, Carcere di Ancona
N.M., di nazionalità algerina, tenta di uccidersi ingoiando una lametta.
L'uomo è trasportato al pronto soccorso dell'ospedale di Torrette, da
dove viene dimesso poche ore dopo. I medici ritengono che le dimensioni della
lametta non sono in grado di provocare lesioni. (Corriere Adriatico, 8 settembre
2003).
Suicidio: 1 settembre 2003, carcere di Busto Arsizio
Faif Meyah, marocchino, 30 anni, si impicca con un lenzuolo alla maniglia del
bagno della sua cella. Era detenuto per rapina e, da diversi giorni, si trovava
in cella in isolamento. (Liberazione, 2 settembre 2003).
Morte per cause non chiare: 2 settembre 2003, carcere di Massa Carrara
F.M., 29 anni, affetto da problemi mentali, muore nella sua cella durante la
notte. Era entrato in carcere due giorni prima, dopo essere stato fermato da
una pattuglia di carabinieri perché evaso dalla struttura in cui era
agli arresti domiciliari. Il direttore del carcere dichiara alla stampa che
si è trattato di un malore, determinato dal fatto che il ragazzo era
dedito all'uso di sostanze stupefacenti, ma le sue parole sono smentite con
forza dai parenti e dal tutore del giovane carcerato. "Non era un drogato
- afferma l'avvocato Pasquali - era solo un ragazzo con problemi comportamentali
e mentali, che non sapeva distinguere il bene e il male, le situazioni di pericolo
e le azioni malvagie". F.M. da bambino aveva subito un grave incidente
stradale che gli aveva procurato una perdita di parte del lobo frontale del
cervello, la sede della "capacità decisionale". Un ragazzo
comunque sano fisicamente, giovane, non dedito a droghe, la cui morte per malore
"suona" all'avvocato Pasquali in modo davvero strano. Una risposta
più certa ai dubbi sollevati dalla famiglia e dal tutore del ragazzo
deceduto arriverà dall'esito dell'autopsia, disposta dal Pubblico Ministero
Alberto Dello Iacono ed eseguita dal dottor Di Paolo dell'università
di Pisa. A tutela del defunto è stato nominato anche un perito di parte
per un'altra disamina degli elementi dell'autopsia. Saranno questi dati che
permetteranno di ricostruire la storia di quella misteriosa notte in cui un
ragazzo di 29 anni, con disturbi mentali, è morto, da solo, in carcere.
(La Nazione, 15 settembre 2003).
Suicidio: 6 settembre 2003, Carcere di Poggioreale (Napoli)
Gennaro Pecchia, 23 anni, si uccide impiccandosi. Era in carcere da meno di 24 ore, arrestato dopo un tentativo di rapina ad un benzinaio. Sull'episodio è stata immediatamente aperta un'inchiesta interna al carcere partenopeo, ma anche la procura della Repubblica di Napoli vuole vederci chiaro, per conoscere le cause che hanno spinto il giovane a chiudere così tragicamente i suoi giorni. Gli inquirenti, in questa direzione, avrebbero già ascoltato il compagno di cella. (Il Mattino, 9 settembre 2003)
Assistenza sanitaria disastrata: 7 settembre 2003, Carcere di Sassari
Detenuto tossicodipendente, 52 anni, muore di tubercolosi due settimane dopo
il ricovero nel reparto malattie infettive dell'ospedale di Piazza Fiume, a
Sassari. Il suo era stato il quarto ricovero, per sospetto caso di tubercolosi,
individuato nel carcere di San Sebastiano. Prima di lui erano finiti nel reparto
di malattie infettive un altro detenuto e un agente di polizia penitenziaria,
mentre il terzo caso si è registrato a Nuoro nel mese di agosto e riguardava
un detenuto appena trasferito dal carcere di Sassari. (L'Unione Sarda, 24 settembre
2003).
Tentato suicidio: 7 settembre 2003, Carcere di Ancona
S.I., 24 anni, di origine slava, tenta di impiccarsi, ma le guardie carcerarie
intervengono prima che il giovane riesca stringere il cappio attorno al collo.
S.I. viene trasportato al pronto soccorso dell'ospedale di Torrette, da dove
viene dimesso dopo poche ore. Con tutta probabilità voleva compiere un
gesto dimostrativo. (Corriere Adriatico, 8 settembre 2003).
Suicidio: 16 settembre 2003, carcere Castrovillari (CS)
S.S., 50 anni, di nazionalità jugoslava, si uccide durante la notte.
Gli agenti di polizia penitenziaria lo rinvengono, ormai privo di vita, verso
le tre di mattina: si è legato un lenzuolo attorno al collo fissandone
un capo alla grata della cella e poi si è lasciato cadere nel vuoto.
Nonostante gli immediati soccorsi ai medici non è rimasto che constatarne
il decesso: il corpo è stato quindi trasportato all'ospedale di Castrovillari.
Tuttora si trova nella camera mortuaria del nosocomio, in attesa di essere rimpatriato.
Nell'arco di quattro anni è il quinto suicidio che avviene nel carcere
di Castrovillari: l'ultimo era avvenuto a gennaio, quando si uccise Ilir Kakri,
un detenuto albanese di 38 anni. (Gazzetta del Sud, 17 settembre 2003).
Tentato suicidio: 24 settembre 2003, O.P.G. di Aversa (NA)
Donato Greco, 32 anni, tenta di impiccarsi. Solo il tempestivo intervento degli
agenti di custodia gli impedisce di togliersi la vita, realizzando un piano
studiato nei minimi dettagli. Era solo da qualche giorno, in osservazione, all'O.P.G.
Filippo Saporito, proveniente dal carcere di Taranto. Condannato in primo grado
a 26 anni di detenzione (e in attesa del giudizio d'appello), per l'omicidio
dell'amante incinta, Greco era certo di essere innocente, ma era altrettanto
sicuro di non essere in grado di sopportare i tempi lunghi della giustizia.
"Capisco che la legge deve fare il suo corso per stabilire la mia innocenza,
ma - ha scritto nella lettera lasciata sul letto per spiegare le ragioni del
gesto - vi assicuro che sono innocente e per fare un processo il tempo è
lungo ed io non ce la faccio ad aspettare". Così l'altra notte ha
deciso di togliersi la vita. Coperto con uno straccio lo spioncino che permette
il controllo del bagno, dopo aver aspettato che il compagno di cella si addormentasse,
preparato il cappio, Greco è salito su un tavolino e si è lasciato
andare. Sembrava fatta, ma il rumore lieve del tavolo caduto sul pavimento ha
dato l'allarme permettendo l'intervento degli agenti di custodia, guidati dall'ispettore
di sorveglianza Raffaele Briotti. Insieme ai colleghi Garofalo, Sanseverino
e Di Sero ha liberato Greco, portandogli i primi soccorsi in attesa dell'arrivo
del medico di turno. Per fortuna, questa volta, il tentativo di suicidio è
stato scongiurato ma l'episodio la dice lunga sulle condizioni di vita dei reclusi
e, probabilmente, solo il fatto che tutto sia avvenuto in una struttura all'avanguardia
e "umana" come l'O.P.G. di Aversa ha permesso il pronto intervento
della polizia penitenziaria e del medico. (Il Mattino, 25 settembre 2003).
Morte per cause non chiare: 1 ottobre 2003, Carcere di Livorno
Marcello Lonzi, 29 anni, muore in cella: sarebbe deceduto per collasso cardiaco,
dopo essere caduto battendo la testa. La madre non crede a questa ricostruzione
e sospetta si sia trattato di un omicidio, anche perché il corpo del
figlio era coperto di lividi. Chiede al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio
Ciampi, un aiuto per impedire che "venga nascosta la verità".
Marcello Lonzi stava scontando una pena di otto mesi, per un tentato furto,
ed era in attesa di usufruire dell'indultino. (Liberazione, 3 ottobre 2003)
Overdose: 6 ottobre 2003, Carcere di Vigevano (PV)
Detenuto italiano muore dopo aver inalato del gas da una bomboletta. Nel mese
di settembre era finito in infermeria, sempre per aver inalato del gas, e il
direttore del carcere aveva disposto tassativamente che non fosse rimandato
nella stessa cella. Una disposizione che, però, non sarebbe stata rispettata:
il Pubblico Ministero ha chiesto il rinvio a giudizio di due agenti per omicidio
colposo. (Il Giorno, 26 ottobre 2003)
Suicidio: 8 ottobre 2003, Carcere di Iglesias (CA)
Domenico Frau, 36 anni, si uccide impiccandosi. Aveva chiesto di scontare la
pena residua (meno di tre mesi) in detenzione domiciliare, ma gli era stata
negata questa possibilità. Una settimana prima di uccidersi, per rimarcare
il suo disagio, si era tagliato le braccia con una lametta. Piccole ferite per
esternare un dolore molto, troppo forte. Per chiudere definitivamente la partita
con la vita ha aspettato che tutti gli altri detenuti, alla fine della giornata,
rientrassero in cella e gli agenti penitenziari chiudessero i cancelli. Ha strappato
il lenzuolo e, dopo averlo legato alla grata della finestra e al collo, si è
lasciato andare. L'ha trovato, intorno alle 22, uno degli uomini di guardia
al corridoio. Ogni tentativo di soccorso, compreso l'intervento degli uomini
del 118, è stato inutile. Domenico Frau è morto subito dopo. Stava
scontando una condanna per uno scippo compiuto nel suo paese, Arbus, a ottanta
chilometri da Cagliari. Il tentativo fallito per procurarsi un po' di soldi
con cui "andare avanti". La fine tragica di un'esistenza non proprio
felice, segnata dalla povertà della sua famiglia ed i problemi della
droga. "Non è stata una vita facile e questo disagio se lo portava
appresso come un peso, racconta don Salvatore Benizzi, parroco del carcere.
Qualche giorno fa, inoltre, che non volesse più stare o, meglio, che
non si trovasse bene, l'aveva fatto notare tagliandosi le braccia".
Non un tentativo di suicidio, come precisa il parroco da tempo impegnato a difendere
i diritti dei detenuti, ma un segnale per rimarcare un disagio che, dietro le
sbarre, era cresciuto. "Uno dei tanti atti di autolesionismo che si registrano
in carcere". Un atto, forte e violento, per rimarcare un disagio cresciuto,
nonostante l'impiego di "spesino". Da un anno si occupava di raccogliere
le richieste degli altri detenuti per poi girarle agli agenti della polizia
penitenziaria che si occupano degli acquisti. "Probabilmente in cella o
nella stessa struttura è successo qualcosa che l'ha turbato profondamente,
dato che negli ultimi due giorni pareva più triste. Turbato, appunto".
Anche il tentativo di un rientro a casa, dalla madre e i quattro fratelli, alcune
settimane prima, era fallito. Tramite il suo avvocato aveva chiesto che gli
venissero dati gli arresti domiciliari. Un modo per stare vicino ai famigliari,
andato però a monte. "Non c'era una condizione economica che potesse
garantirlo - aggiunge il parroco -, una possibilità sconsigliata dall'assistente
sociale che ha, alla fine, negato questa opportunità". Un'altra
sconfitta per quel giovane che dal carcere sarebbe dovuto uscire prima della
fine dell'anno.
Aveva presentato anche la domanda per i benefici e gli sconti di pena - continua
il cappellano che più volte ha contestato il sovraffollamento della struttura
penitenziaria (quasi cento in una struttura che ne può ospitare al massimo
60) - ma non aveva ancora ricevuto risposta". Un'attesa che, alla fine,
si è trasformata in un vero e proprio incubo. "È la classica
reazione di chi ha questi problemi e dovrebbe stare altrove - spiega Nazareno
Pacifico, medico e responsabile della Commissione diritti civili alla Regione
- l'implosione che da un anno sta decimando i detenuti, in particolare quelli
sardi. Il suicidio diventa la via di fuga più facile da percorrere per
uscire da un incubo". Il risultato di una miscela esplosiva che mette assieme
"la mancanza di strumenti per la riabilitazione", il recupero e il
reinserimento nella società e i tagli al sistema carcerario.
Un cocktail distruttivo che, come denunciano i medici e gli addetti ai lavori,
si scarica sulla parte più debole dell'intero sistema. "Il fatto
è che questi giovani che stanno in carcere pagano un prezzo molto alto
che deve essere attribuito a una politica scellerata - continua il medico, che
da anni difende i diritti dei detenuti - tesa soprattutto a misurare chi resiste
di più dietro le sbarre". L'accusa è anche più forte.
"Il fatto vero, per questi signori che ci governano - conclude Pacifico
- è che un morto dietro le sbarre è un detenuto in meno da mantenere".
Domenico Frau, probabilmente, era uno di questi. (L'Unità, 10 ottobre
2003)
Morte per cause non chiare: 8 ottobre 2003, Carcere di Fuorni (Salerno)
Michele Barba, appena uscito dal carcere di Fuorni (Sa), muore nella stazione di Salerno. Al riguardo Marco Cappato, Deputato europeo radicale - Lista Emma Bonino, ha dichiarato: 'Nell'esprimere il cordoglio dei radicali per la morte di Michele Barba, avvenuta ieri in circostanze da verificare presso la Stazione di Salerno, vogliamo ridare la parola allo stesso Michele. Riportiamo qui il suo intervento sul Periodico 'Il filo d'Arianna', scritto dopo la morte nel carcere di Fuorni (il carcere dove per 8 anni è stato negato il diritto dei detenuti a proseguire all'interno del carcere le terapie metadoniche) di Rosario Imparato. Rosario Imparato fu trovato morto nel carcere di Fuorni il 24 ottobre 1999. Dopo 4 anni ancora si attende che verità sia fatta sulla morte di Imparato. Alla luce delle notizie pubblicate sui giornali, secondo i quali non sarebbero state trovate siringhe o altri indizi vicino al corpo di Michele Barba, riteniamo necessario che sia effettuata l'autopsia.
In memoria dell'amico Rosario Imparato: Pensiero ad un amico: 'Addio fratello!', a cura di Michele Barba. 'Ciao Rosario, oggi dal giornale ho appreso la notizia della tua morte, la morte di una persona tossicodipendente la quale non fa notizia, non suscita attenzione, passa inosservata. Ormai siamo abituati a queste disgrazie che quotidianamente sono riportate dai servizi d'informazione. È normale morire di crisi d'astinenza in un carcere dove la violenza, la coercizione, l'umiliazione sono fatti normali, eppure c'è chi parla ancora di riabilitazione, reinserimento, recupero, ma abbiamo veramente capito il significato di queste parole? Oggi ti faranno l'ultimo controllo, l'ultima perquisizione, ma questa volta non per guardarti nelle tasche, te la faranno per guardarti dentro per cercare di capire perché sei morto e, bravi come sono, sicuramente troveranno il modo di incolparti pure del tuo decesso, ma questa volte non potrai appellarti a nessuna corte, sì, passerai subito in giudicato, e forse per la prima volta sarai felice di espiare la tua pena, non in un carcere, ma nell'immensità del Paradiso, questo sarà il tuo futuro, mentre quello di chi è colpevole di questo agito istituzionale sarà quello di continuare a fare i conti con la propria coscienza, ammesso che ce l'abbiano. Avrei ancora tanto da dire, ma mi fermo, cercando di rispettarti. Addio fratello veglia su di me'. (http://coranet.radicalparty.org, 9 ottobre 2003)
Suicidio: 12 ottobre 2003, Carcere di Sulmona (AQ)
Diego Aleci, 41 anni, originario di Marsala, si toglie la vita nella sua cella
nel carcere di massima sicurezza di Sulmona. Stava scontando una condanna all'ergastolo,
con sentenza ormai definitiva; era stato dapprima un killer della 'Stidda',
una scheggia della mafia poi, cambiando direzione, era passato sotto le 'insegne'
di Cosa Nostra. Secondo le prime indiscrezioni Diego Aleci si sarebbe tolta
la vita soffocandosi con i lacci delle scarpe; una maniera veramente orribile
per porre fine ai propri giorni. Ma di questo particolare aspetto fino ad ora
non è filtrato nulla; c'è da aggiungere, però, che è
abbastanza difficile immaginare che un uomo di 41 anni, nel pieno vigore delle
sue forze, possa riuscire a togliersi la vita con un paio di lacci delle scarpe.
Sicuramente su questa stranissima vicenda è stata aperta un'inchiesta
da parte della Procura della Repubblica per accertare le reali cause della morte
e per ricostruire gli ultimi giorni e le ultime ore di vita di quest'uomo, per
conoscere quale fosse il suo stato d'animo e per capire se lo stesso possa essere
compatibile con un suicidio e scartare definitivamente anche l'ipotesi che i
fatti possano essere andati in tutt'altra maniera, come quella, ad esempio,
di un regolamento di conti. (Il Messaggero, 16 ottobre 2003)
Tentato suicidio: 14 ottobre 2003, Carcere di Como
James Canali, 22 anni, tenta di impiccarsi nella sua cella. È in carcere
da dieci giorni, con l'accusa di omicidio, e si trova in "solitudine sorvegliata",
regime simile all'isolamento, proprio per timore che possa compiere un gesto
disperato. Gli sono stati anche tutti gli oggetti pericolosi. James, però,
riesce a fare a strisce i suoi jeans, trasformandoli in una corda. A sventare
il suicidio sono gli agenti di polizia penitenziaria. Le condizioni fisiche
del giovane non destano preoccupazioni. (Avvenire, 15 ottobre 2003)
Suicidio: 15 ottobre 2003, Carcere di Ragusa
Detenuto italiano di 26 anni si suicida nel carcere di Ragusa. (Radio Radicale,
21 ottobre 2003)
Assistenza sanitaria disastrata: 18 ottobre 2003, Carcere di Ancona
Francesco Iengo, 46 anni, viene ritrovato morto, steso sul pavimento della cella.
Sul suo corpo non ci sono segni di violenza. Sono circa le 7.45 di mattina quando,
dal carcere, arriva la segnalazione alla centrale operativa del "118".
L'equipaggio sanitario in servizio all'ex pronto soccorso interviene in una
manciata di minuti, ma per Iengo non c'è più nulla da fare: soffriva
di problemi cardiaci e di preoccupanti livelli di diabete, un malessere che
si era riacutizzato da una decina di giorni ma, nonostante avesse chiesto una
visita, le cure non gli erano state praticate. Per questo motivo sarà
importante stabilire se la detenzione in carcere fosse la soluzione migliore,
viste le sue condizioni. Iengo era in carcere dall'inizio di giugno, in seguito
ad un'inchiesta su un grosso giro di cocaina che riforniva la città.
(Il Messaggero, 19 ottobre 2003)
Assistenza sanitaria disastrata: 21 ottobre 2003, carcere di Pagliarelli
(PA)
Pietro Sinatra, 61 anni, muore di infarto in cella. Era in carcere da un anno
e negli ultimi tre mesi aveva avuto due principi di infarto e il 16 gennaio
2004 i giudici avrebbero dovuto valutare la sua richiesta di scarcerazione per
motivi di salute. 'Presenteremo un esposto alla Procura ' dice il legale di
Sinatra, l'avvocato Giovanni Castronovo ' chiediamo di verificare se ci siano
state omissioni da parte dei medici dell'amministrazione penitenziaria'. Sul
caso interviene pure Maurizio Turco, presidente degli europarlamentare radicali:
'Anche i cittadini detenuti hanno diritto alla salute, tutelato dalla Costituzione,
eppure molto spesso non è così'. (La Repubblica, 24 ottobre 2003)
Suicidio: 22 ottobre 2003, Carcere di Opera (MI)
Gioacchino Giustiniano, 33 anni, si impicca nella cella dove era detenuto da
solo. Soffriva di un forte stato di depressione, aggravato da motivi famigliari.
Giustiniano ha lasciato una lettera ai famigliari per spiegare il motivo del
suo gesto. Era in carcere dal 2000 e doveva scontare una condanna a 11 anni
e 4 mesi, per sequestro di persona. (Avvenire, 24 ottobre 2003)
Overdose: 25 ottobre 2003, Carcere di San Vittore (MI)
Maurizio Pintabona, 20 anni, muore dopo aver inalato il gas da una bomboletta
da camping. Un embolo, provocato dal gas inalato, lo stronca nel giro di pochi
minuti. Inutili i tentativi di soccorso dei suoi stessi compagni di cella, che
hanno tentato la respirazione artificiale, e quelli del personale sanitario
del carcere, subito accorsi. Nemmeno il tempo di trasportarlo a braccia al pronto
soccorso e il giovane detenuto era già morto. Doveva scontare un residuo
pena di sei mesi, per rapina, ed era detenuto nel sesto raggio, quello dei "protetti".
La Procura ha già aperto un'inchiesta sull'accaduto, ma dai primi elementi
raccolti appare difficile attribuire responsabilità a chi doveva sorvegliare.
Maurizio Pintabona non era un tossicodipendente, né accusava problemi
psichici. E tantomeno aveva timori o preoccupazioni. L'altro ieri mattina aveva
perfino avuto un colloquio con lo psichiatra, passandolo regolarmente. In caso
contrario, non avrebbe avuto l'autorizzazione a tenere la bomboletta del gas.
Infatti a tutti i tossici del carcere e alla sezione femminile, dove ci sono
i trans, sono state da tempo tolte le bombolette e fornite piastre elettriche
per cucinare. E presto, quando saranno ultimati i lavori di rifacimento del
quadro elettrico generale, questa disposizione dovrebbe essere estesa a tutto
il penitenziario.
Anche la cella di Pintabona era considerata tranquilla. Il giovane era recluso
insieme ad altri cinque detenuti, un paio dei quali extracomunitari, nel sesto
raggio del carcere, quello che comprende donne, pedofili, transessuali, detenuti
che fanno pulizie e che attendono di essere interrogati. Insomma tutti quelli
che hanno necessità di essere in isolamento. Pure lui, piccolo rapinatore,
aveva chiesto di stare nel braccio "protetto" e anche se non ce n'era
particolare motivo, era stato accontentato. Ed è qui che, la notte scorsa,
ha trovato la morte. Una morte che va ricercata nell'alienazione del carcere,
nel bisogno di evadere, almeno psicologicamente, dall'angoscia delle sbarre.
E per trovare un po' di euforia artificiale è ricorso alla droga che
più va di moda tra i detenuti: lo "sniffo" del gas. Lo ha fatto
insieme ai suoi compagni di cella, durante una cena allegra. Un'annusata via
l'altra, finché non lo hanno trovato riverso in bagno, che faticava a
respirare. Gli altri detenuti, sconvolti per quello che stava accadendo, hanno
tentato di rianimarlo, ma tutto è stato inutile. Un embolo aveva già
fermato il suo cuore. (Il Giorno, 26 ottobre 2003)
Suicidio: 25 ottobre 2003, Carcere di Rebibbia (RM)
Pasqualina C., 38 anni, si impicca in cella. Due compagne la ritrovano, agonizzante,
e dopo averla adagiata a terra danno l'allarme. Ma la corsa in autoambulanza
all'Ospedale "Pertini" si rivela inutile: i medici possono solo constatarne
il decesso. La donna, originaria della provincia di Caserta, era detenuta per
reati legati alla droga. La magistratura ha aperto un'inchiesta per far luce
sulle circostanze e la dinamica esatta dell'accaduto: il pubblico ministero
di turno, Carlo Lasperanza, ha disposto l'esame autoptico, che sarà eseguito
all'istituto di medicina legale dell'Università "La Sapienza".
(Il Messaggero, 26 ottobre 2003)
Tentato suicidio: 26 ottobre 2003, Carcere di Ancona
Massimiliano Valanzano, 26 anni, tenta di impiccarsi. A fermarlo sono le guardie
carcerarie che, entrate nella sua cella, lo soccorrono in tempo. Il giovane
confessa d'avere anche ingerito degli aghi. Senza perdere un minuto i vigilanti
accompagnano Massimiliano Valanzano al pronto soccorso dell'ospedale regionale
di Torrette, dove i medici gli prestano le prime cure ed eseguono tutti gli
accertamenti del caso. (Corriere Adriatico, 27 ottobre 2003)
Suicidio: 13 novembre 2003, Carcere di Iglesias (Cagliari)
Miguel Chavez, 22 anni, cileno, s'impicca in cella. Il corpo del giovane, nonostante siano trascorsi venti giorni da quando il suo cuore si è arreso, si trova ancora nell'obitorio dell'ospedale Santa Barbara. Chiuso dentro una cella frigorifera, in attesa di sepoltura. Una vicenda ai limiti dell'assurdo, ma reale. Realissima. Colpa della burocrazia, di documenti che ancora mancherebbero per dare un nome certo, un'identità sicura a quel corpo. Miguel Chavez, infatti, non è il vero nome del ragazzo. L'aveva scelto, sostituendolo al suo, quando era arrivato in Italia. I problemi sono sorti dopo la sua morte. Due giorni dopo, a Iglesias è arrivata la madre del giovane che, identificando il figlio, ha svelato il vero nome. Così sono cominciati i problemi per l'identificazione, la richiesta di documenti che attestassero i reali dati anagrafici. Il riconoscimento della madre non bastava. La donna era arrivata direttamente dal Cile assieme alla fidanzata del ragazzo, grazie ad una colletta organizzata da alcuni amici di Genova: nel capoluogo ligure Miguel si era stabilito dal suo arrivo in Italia, sei anni fa, e lì aveva cercato di costruirsi una nuova vita con la fidanzata. Contava di costruirsi una famiglia. Ma le cose non sono andate come sperava.
Dopo l'arresto per piccoli reati e una breve detenzione nel carcere di Marassi, è stato deciso il suo trasferimento. 'Per ragioni di sovraffollamento', era stata la motivazione. Destinazione: Iglesias. Lontano dalla fidanzata, dagli amici. Troppo lontano per poter usufruire dei colloqui settimanali, di quelle brevi chiacchierate che servivano a farlo sentire meno solo. E forse proprio perché privato di queste occasioni il carcere alla periferia di Iglesias (80 i reclusi a dispetto dei 60 previsti e dove pochi giorni fa la commissione Diritti civili ha fatto un'ispezione) è diventato il suo capolinea.
Lì ha deciso di farla finita, scegliendo la strada più dolorosa che, pochi giorni prima, aveva percorso anche un detenuto di Arbus. Quindici giorni di agonia nel reparto rianimazione dell'Ospedale Santa Barbara, poi il decesso. Che non ha ancora posto fine alle sue pene. 'Una vicenda difficile da commentare - dice Nazareno Pacifico, consigliere regionale Ds che fa parte della commissione Diritti civili - ai confini dell'umanità, mi sembra davvero inspiegabile'.
Lo è anche per don Salvatore Benizzi, per tanti anni cappellano del carcere: 'Prima di lasciare l'incarico ho avuto modo di conoscere il ragazzo, di scambiare qualche parola. Devo dire che mi era sembrata una persona triste, molto chiusa'. La vicenda del giovane cileno ha suscitato molta commozione, tanto che alcuni gruppi di volontari si sono mobilitati per dare un sostegno ai parenti. La Caritas e il cappellano del carcere stanno organizzando una colletta per fare in modo che, non appena arriverà il via libera, si possa contribuire al trasporto della salma fino a Genova. Saranno, poi, gli amici che il giovane ha lasciato nel capoluogo ligure a fare in modo che Miguel possa compiere l'ultimo tragitto per ritornare in Cile. In quella terra lasciata qualche anno fa per trasferirsi in Italia. In cerca di fortuna. (L'Unione Sarda, 2 dicembre 2003)
Suicidio: 16 novembre 2003, I.P.M. Casal del Marmo (Roma)
Mirko, 16 anni, rumeno, si suicida impiccandosi. L'avevano arrestato per una
scazzottata. In tre giorni è finito nel carcere minorile di Casal del
Marmo a Roma e, dopo neppure ventiquattrore dentro, lunedì notte, si
è impiccato. La sua storia inizia alla stazione di Pescara venerdì
scorso. Insieme ad altri tre ragazzi, tutti minorenni come lui e tutti di nazionalità
rumena, aveva avuto da ridire con un passante. Ne era nata una lite, poi la
rissa, quindi l'intervento della polizia che aveva portato tutti e quattro davanti
al giudice minorile dell'Aquila. Questo ha deciso di trasferire i ragazzi in
galera, probabilmente perché le strutture di accoglienza che generalmente
ospitano i minorenni in questi casi erano tutte piene: due di loro sono finiti
nel carcere dell'Aquila egli altri due a Roma. Sembra che lui, il giovane che
si è tolto la vita due notti fa, avesse detto "portatemi pure dentro,
ma non separatemi dai miei amici". Sembra, perché durante l'incontro
con il giudice minorile le sue parole non sono state tradotte da un mediatore
culturale ma da una donna, rumena pure lei, che lavora nel tribunale come addetta
alle pulizie. Niente mediatori culturali e niente psicologi con cui parlare,
dunque, dato che i tagli ai fondi dedicati alla giustizia per i minorenni voluti
dal ministro Castelli non hanno fatto sconti a nessuno.
Se le cose fossero andate come prevede la legge, il giovane rumeno non sarebbe
mai finito in carcere. Il testo del Dpr 448, infatti, prevede che l'arrestato
minorenne incontri il giudice entro quarantotto ore dal fermo e che quest'ultimo,
salvo reati particolarmente gravi, lo affidi a un centro di accoglienza, o alla
famiglia, con un provvedimento di "messa alla prova", che è
quasi sempre la partecipazione ad un progetto sociale, come l'assistenza agli
anziani, la partecipazione ad un corso di avviamento al lavoro o simili. Se
il giovane rispetta la prescrizione, molto spesso il processo non si celebra
del tutto. La notizia della morte del ragazzo è stata diffusa dall'assessore
al lavoro del comune di Roma, Luigi Nieri, dal garante dei diritti dei detenuti,
Luigi Manconi e da Patrizio Gonnella, portavoce dell'associazione Antigone.
"Nonostante tutti i progetti educativi attivi a Casal del Marmo - ha spiegato
Gonnella - il carcere non potrà mai essere una struttura adatta agli
adolescenti. Per questo motivo bisogna lavorare ad una riforma che renda residuali
queste strutture". (Il Manifesto, 19 novembre 2003)
Morte per cause non chiare: 25 novembre 2003, Carcere di Aurelia (Roma)
Detenuto rumeno, 40 anni, muore a causa di profonde ferite alla testa. Secondo una prima ricostruzione l'uomo avrebbe battuto ripetutamente il capo contro le pareti della cella dove era rinchiuso. Venerdì della scorsa settimana il rumeno finisce in manette, con l'accusa di tentato furto, e quindi associato al carcere di Aurelia. Lunedì si tiene l'udienza di convalida dell'arresto. Il giudice per le indagini preliminari accoglie la richiesta di convalida dell'arresto e l'extracomunitario è costretto a rimanere in carcere. Qualche ora dopo, degli agenti di polizia penitenziaria lo ritrovano riverso a terra dentro la sua cella, con profonde ferite al capo. Subito viene trasportato all'ospedale San Paolo e le sue condizioni appaiono decisamente serie. Il rumeno si aggrava di ora in ora ed allora i medici del nosocomio locale decidono di trasportarlo in eliambulanza presso un ospedale della capitale, dove il suo cuore cessa di battere nella tarda serata di giovedì. La prima ipotesi che emerge è quella del suicidio. In pratica l'uomo si sarebbe scagliato più volte contro la parete. Ipotesi avvalorata anche dal fatto che il rumeno sembra soffrisse di problemi psicologici. Evidentemente la sentenza che confermava il suo arresto è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma il sostituto procuratore Elena Neri, titolare dell'indagine, vuol vederci più chiaro, e quindi ha aperto, come da prassi, un fascicolo contro ignoti. È chiaro che nelle intenzioni del magistrato ci sia la volontà di verificare se si sia trattato davvero di un suicidio, oppure se i colpi alla testa siano stati provocati da qualcun altro. Non si sa, al momento, se l'extracomunitario fosse solo in cella o la dividesse con altri detenuti. (http://www.papillonrebbibbia.org, 6 dicembre 2003)
Suicidio: 27 novembre 2003, O.P.G. di Montelupo Fiorentino (FI)
Paolo Vidale, 44 anni, originario della provincia di Vicenza, s'impicca. Il
suo compagno di cella si accorge di quel che sta succedendo, lo prende e lo
sgancia dal cappio al quale si è appeso, ma troppo tardi: Paolo Vidale
muore in seguito ai traumi riportati. Era stato giudicato incapace di intendere
e di volere e socialmente pericoloso, nel processo per i maltrattamenti cui
sottoponeva la madre, e quindi internato al manicomio giudiziario. (Il Giornale
di Vicenza, 1 dicembre 2003)
Suicidio: 28 novembre 2003, carcere di Cagliari
Gabriele Pusceddu, 35 anni, si uccide. Alle due del mattino i compagni si accorgono
che si è impiccato: gli tolgono subito il cappio dal collo e urlano per
richiamare l'attenzione degli agenti di polizia penitenziaria, che si prodigano
per cercare di salvargli la vita. Ma oramai è tardi. Non resta che informare
il sostituto procuratore di turno, Giangiacomo Pilia, e soprattutto i familiari
di Pusceddu. Gabriele aveva una sfilza di precedenti penali, ma tutti per reati
di poco conto. Il penultimo arresto era stato il 20 settembre dello scorso anno,
per un tentativo di furto, ma il suo avvocato era riuscito a fargli ottenere
i domiciliari. Di stare a casa, però, Pusceddu non aveva alcuna voglia:
una settimana dopo l'arresto uscì, e le forze dell'ordine lo sorpresero
dove non avrebbe dovuto essere, cioè per strada. Gli arresti domiciliari
furono trasformati nella detenzione in carcere e, da allora, il giovane cagliaritano
aveva iniziato a scontare condanne vecchie e nuove.
Non si sa mai che cosa passa per la mente di chi vuole farla finita con la vita,
ma il problema è completamente diverso se succede in un penitenziario,
e con una frequenza tanto preoccupante. "In Sardegna abbiamo il tristissimo
record europeo di suicidi in carcere", sbuffa Nazareno Pacifico, consigliere
regionale dei Ds ed ex vice presidente della commissione Diritti civili, "e
Buoncammino non sfugge a questa regola. Le nostre carceri sono sovraffollate,
qui a Cagliari cinquecento detenuti sono ammassati per 23 ore al giorno nelle
celle, poi hanno un'ora d'aria nei cosiddetti quartini, che sono grandi come
le celle ma non hanno il soffitto". Un anno fa, quand'era ancora in carica
come vice presidente della commissione del Consiglio regionale, Nazareno Pacifico
prese carta e penna e scrisse al ministro della Giustizia, Castelli: "Mi
rispose che le carceri non sono alberghi a cinque stelle e lì si chiuse
la questione", si lamenta il consigliere.
La situazione a Buoncammino è sempre più esplosiva: Pacifico parla
di "volontariato" da parte dei pochissimi agenti della polizia penitenziaria,
che oltretutto sono gravati anche da numerosi compiti amministrativi "perché
il ministero svolge i concorsi, ma poi non manda il personale in Sardegna".
Il consigliere dei Ds denuncia anche che nel penitenziario cagliaritano "lavorano
solo due educatori per cinquecento detenuti, non esiste assistenza psicologica
e psichiatrica soprattutto per il sessanta per cento di reclusi tossicodipendenti,
non c'è possibilità di fare attività fisica". Quattro
mura, insomma, tra le quali scontare la propria pena senza alcuna speranza di
riabilitazione. (L'Unione Sarda, 30 novembre 2003)
È successo di nuovo, nell'invivibile carcere di Buoncammino, al solito
sovraffollato oltre ogni limite. Ancora uno, ancora un detenuto che, per dirla
con Adriano Sofri, sceglie di evadere per altra via. Ancora un uomo all'antica,
Gabriele Pusceddu 35 anni, che ieri per andarsene ha scelto un lenzuolo annodato.
Ancora un suicidio nel carcere di Buoncammino. Il quarto in questo penitenziario
e il nono nell'isola solo nel 2003, brutta, bruttissima conferma di una Sardegna
record italiano per numero di suicidi. Triste primato da mantenere. Segnale
da cogliere se solo ci si ricordasse che il modo nel quale costringiamo a vivere,
a morire, i nostri detenuti indica il grado, o il degrado, della
civiltà del nostro paese. Troppe volte abbiamo denunciato lo stato vergognoso
in cui versano i penitenziari sardi per struttura e organico, troppe volte abbiamo
assistito a dismissioni e ricostruzioni virtuali a seguito di promesse politiche
e a null'altro.
Il carcere, i suoi morti per suicidio, ma anche malasanità (non dimentichiamoci
della morte per Tbc a San Sebastiano nel settembre di quest'anno) sono puntualmente
rimossi dall'agenda politica e anche dall'informazione. La notizia del suicidio
di Gabriele ha più o meno lo stesso spazio sulla stampa, che pure ha
il merito di denunciare la cosa, del traffico in tilt in via Marconi e dei chioschi
abusivi.
Speriamo di non essere costretti a continuare a contare, speriamo che ci si
ricordi dello stato vergognoso delle carceri sarde senza quest'orribile stillicidio,
speriamo che l'unica immediata risposta non sia la limitazione delle lenzuola
in cella. (Giovanna Salis - Comitato nazionale Radicali Italiani)
Suicidio: 11 dicembre 2003, Carcere di Ragusa
L.L., 50 anni, s'impicca in cella. Madre di due figli, di professione dentista, era in carcere per tentato omicidio. Aveva sparato al marito, anche lui medico, dal quale si era separata da diversi anni per poi trasferirsi a Milano. Una vita e una famiglia come tante, afflitta da normali e quotidiani alti e bassi. Otto mesi fa l'ex marito è andato a Milano per alcuni giorni, a trovare uno dei due figli. Un pomeriggio in cui l'uomo stava poco bene, L.L. è andata a trovarlo, ha chiacchierato con lui preoccupandosi delle sue condizioni di salute. Prima di uscire, però, ha tirato fuori dalla borsa una calibro 9 e, sotto gli occhi del figlio, gli ha scaricato addosso 14 colpi che lo hanno ferito al torace e alle braccia. Poi si è seduta sui gradini della scala davanti all'ingresso dell'abitazione e ha aspettato l'arrivo della polizia. L'uomo, gravemente ferito, è rimasto vivo per miracolo. L.L. non ha opposto alcuna resistenza all'arresto. Ha soltanto affermato che, prima o poi, avrebbe fatto del male all'ex marito, ai figli o a se stessa. Il suo sicuramente fragile equilibrio e una separazione probabilmente vissuta male, l'avevano spinta a superare il sottile limite che divide la razionalità dalla follia. Alla fine però è a se stessa che ha scelto di fare del male. E si è tolta la vita. (La Sicilia, 13 dicembre 2003)
Suicidio: 13 dicembre 2003, carcere di Siracusa
Francesco Aletta, 29 anni, si uccide impiccandosi. Arrestato alla fine di ottobre, perché accusato di estorsione a danno della propria madre, Francesco Aletta ha usato come cappio una striscia di un lenzuolo, la cui estremità era stata legata all'inferriata della finestra. Il giovane detenuto, dopo essere salito sulla spalliera del letto, si è quindi lasciato cadere con violenza nel vuoto e, nonostante fosse finito con le ginocchia sul pavimento, è riuscito ugualmente a centrare l'obiettivo autolesionistico che si era prefissato, a causa del nodo scorsoio che gli ha serrato la gola. La morte per asfissia potrebbe essere avvenuta tra le 16.30 e le 16.45 di domenica pomeriggio.
Così ha stabilito il medico legale Francesco Coco, dopo aver effettuato l'ispezione cadaverica sul corpo del ragazzo di Carlentini, recandosi all'obitorio dell'ospedale 'Umberto I', dove il suicida era stato trasportato dalla polizia penitenziaria. Sulle cause della morte nessun dubbio, così come sulla scelta autolesionista effettuata da Francesco Aletta. Il detenuto di Carlentini, che aveva sempre respinto l'accusa di aver estorto delle somme di denaro alla madre, aveva minacciato in più di un'occasione di commettere un non meglio precisato gesto autolesionistico e, per evitare che attuasse quanto preannunciava, la direzione del carcere aveva predisposto nei suoi confronti una costante sorveglianza. (La Sicilia, 16 dicembre 2003)