Il carcere non è che apparentemente l’eccezione alla regola: il
crimine sfogato o l’innocenza punita sono infatti la società tutta
quanta, dove ciascuno punisce l’altro per la colpa di esserci e dove chiunque
pensi è almeno una volta al giorno attraversato dalla domanda: «perché
mi hanno messo qui? Che cosa ho fatto?» e la voglia di evasione è
la stessa, terribilmente ossessiva, del detenuto. Forse, anche più intensa.
L’evoluzione del sistema penitenziario, con la costruzione di tanti nuovi
spazi della pena, ha un significato che non è soltanto di «più
umanità e rieducazione» invece che di afflizione retributiva: viene
meno la distanza, la separazione, sempre stata fortissima, tra la città
e la sua prigione, perché l’abitante della città somiglia
sempre più (lavoro, famiglia, università, ospedali, discoteche,
teatri, stadi) al detenuto di un carcere-modello al quale vengono dati ogni
tanto dei permessi (fine settimana, ferie, settimane bianche) con l’obbligo
di rientro in giorni fissati, da cui non si sgarra.
Persino la “passeggiata” è specchio di città in carcere,
e di carcere all’interno della città. Guardate la gente nelle isole
pedonali, cintate di fioriere come guardie, il loro monotono e triste entra-esci
dai centri commerciali carichi di acquisti inutili eppure obbligati, la gente
sorvegliata dalle telecamere nei negozi e fuori, costretta a passare per il
metal detector per entrare in banca, costretta a timbrare il biglietto ferroviario,
a bisbigliare in ogni momento quell’ignobile secrezione dell’identità
personale che è il codice fiscale, invenzione da lager. Credete che ci
sia molta differenza da un carcere?
Il cortile di Newgate — dove i prigionieri in un pigiama a righe girano
in tondo, nell’incisione famosa di Doré — me lo vedo ricomparire
ogni volta che percorro qualche isola pedonale, pupilla di sindaci preoccupati
di avere, all’interno dell’immensa prigione urbana da loro amministrata,
un funghetto aromatico, una radura edenica. Siamo davvero usciti dal cortile
di Newgate? Lo abbiamo smesso del tutto, o soltanto portato al lavaggio chimico,
quel pigiama cifrato?
Il modello edenico ispirò nel secolo XIX la provvida inclusione nel nascente
inferno urbano dei parchi, i quali anche nel nome vogliono essere ricordo di
Paradiso (parco è contrazione di paradiso, persiano pardésh =
giardino), degradati poi col nome di “zone verdi”. Ma che cosa sono
diventati, via via, questi bugiardi lembi di paradiso? L’albero urbano
(viale o giardino pubblico) non è foresta, libertà, rifugio, sfogo
d’anima tra vite diverse dall’uomo, è nient’altro che
immagine dell’uomo e immagine dell’uomo significa sempre più
crudelmente quel che aborrivamo di più: mura che chiudono e forzano,
galera.
La nuova edilizia carceraria (meno tetra, talvolta più respirabile) fu
avviata dal regime fascista (sperimentalmente, in città piccole) per
ridurre la separazione tra città e carcere, destinati a formare una sola,
compatta polpetta totalitaria. Vediamo il carcere di Orvieto, costruito nel
1936, anno del massimo trionfo fascista: nulla di diverso dal Foro Italico,
dall’Università di Roma o da una qualunque Casa della Gioventù
littoria. Ma la città totalitaria esemplare, con urbani messi in riga
in cambio della liberazione dell’anofele malarica, fu Littoria (Latina)
dove il carcere, del 1939, è un anonimo edificio di servizio, un vero
e proprio avamposto delle future periferie. E un moderno condominio di periferia
vive una condizione carceraria diffusa; dal pianterreno al decimo piano, la
cucina è dappertutto uguale: spaghetti-bistecca-insalata-panettone a
Natale, tutto come in un carcere normale.
La differenza è che la famiglia condominiale non butta via molto cibo,
conserva gli avanzi, cucina con più intelligenza: il carcere, come la
caserma, come l’ospizio, spreca enormemente, cucina le stesse cose ma
in modo infame, nessuno mai leccherebbe quei piatti, tante volte restituiti
pieni.
Tra gli atteggiamenti delle nostre democrazie liberali di fine secolo c’è
anche questo prodigio: si emenda per quanto è possibile la condizione
carceraria specifica, nell’irreprimibile degradarsi della convivenza e
della socialità in generale all’esterno, nell’abbandono della
città tutta intera alle malattie degenerative, senza che si possa far
nulla per impedire questa ineluttabile trasformazione della totalità
dell’ambiente urbano in un carcere d’altri tempi tuffato nell’elettronica,
riempito di schiavitù carcerarie tipiche come lo stupro, il ricatto sessuale,
lo scambio di favori che finisce per essere più importante e diffuso
di quello per mezzo del denaro.
In qualsiasi punto della città, in ogni ora del giorno e specialmente
nelle ore serali, milioni di detenuti urbani vedono sul teleschermo le stesse
cose dei condannati in giudizio e dei detenuti in attesa. I loro stessi giudici
fanno altrettanto, esultando allo stesso modo per una rete della loro squadra
di calcio.
Oggi tutto lo spazio urbano è spiato, controllato, pattugliato, temuto,
sospettato, perpetuamente minacciato. Nel nome della sicurezza si è arrivati
alla creazione, a poco a poco, di un carcere tecnologico-militare assoluto.
Si può dire che questa lunga guerra non cesserà che per lasciare
il posto ad una specie di mostruoso carcere come forma estrema di una protezione
“necessaria”. E questo sotto una democrazia che, sotto la retorica
egualitaria di cui si ammanta, vuole apparire impotente ad impedire —
perché è questo che vuole e di cui ha bisogno per conservarsi
— che tutta la città dei suoi sogni diventi uno spazio carcerario
di massima sicurezza (dunque, senza respiro), dove la circolazione degli individui
assomiglia sempre più al girare in tondo dei detenuti, a quei cortili
di alte mura senza finestre dove risuonano in cadenza dei poveri passi sfiniti. Il gioco online carcere non è che apparentemente l’eccezione alla regola: il crimine sfogato o l’innocenza punita sono infatti la società tutta quanta, dove ciascuno punisce l’altro per la colpa di esserci e dove chiunque pensi è almeno una volta al giorno attraversato dalla domanda: «perché mi hanno messo qui? Che cosa ho fatto?» e la voglia di evasione è la stessa, terribilmente ossessiva, del detenuto. Forse, anche più intensa.
Fonte: pubblicato on line sul sito Guerra sociale http://www.guerrasociale.org