Gli israeliani lo chiamano “barriera di sicurezza”. I palestinesi lo chiamano “muro della vergogna”. Il risultato è lo stesso: una barriera alta otto metri di cemento armato, rete elettrificata, trincee, filo spinato e sensori che rilevano i movimenti dei corpi umani. Intervallato da torrette di guardia.
La decisione di costruirlo è stata votata dal Consiglio dei ministri israeliani nel maggio del 2001, in base a una proposta dell’ex premier laburista d’Israele, Ehud Barak. Il muro è uno dei pochi argomenti su cui la destra e la sinistra israeliana sembrano essere d’accordo. Divergono solo le modalità della costruzione: per il Likud di Sharon bisogna comprendere nella zona della barriera anche gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, con penetrazioni fino a 20 km nel territorio che le Nazioni Unite riconoscono come futuro stato palestinese. I laburisti vorrebbero attenersi al tracciato dei confini stabiliti dalla pace del 1967, la cosiddetta Linea Verde. Per entrambi gli schieramenti politici israeliani è fondamentale per fermare gli attacchi terroristici.
Hanno cominciato a costruirlo da Jenin il 14 giugno del 2002 e, ad oggi, ne sono stati completati circa 150 chilometri. Il progetto finale prevede un percorso totale di 350 chilometri, esattamente quanto la Linea Verde e dovrebbe essere terminato per il 2005, ma su questo non ci sono dati certi. Non esiste un piano regolatore del muro o un progetto ufficiale del governo israeliano: le uniche informazioni disponibili sono le notifiche di esproprio che i palestinesi si vedono recapitare dall’esercito israeliano.
Questa barriera rischia di imprigionare, tra la Linea Verde e quella del muro, 275mila palestinesi che abitano 122 tra villaggi e centri urbani. Di questi palestinesi, 70mila circa, non godono del diritto di residenza in Israele e questo significa niente scuola, niente servizi sociali e niente libertà di movimento. Inoltre 31 pozzi d’acqua, in un paese che muore di sete, sono stati confiscati e più di 102mila olivi sono stati sradicati. Oltre al muro, infatti, restano tutte le cosiddette by-pass roads, strade riservate agli israeliani per motivi di sicurezza. Un altro pezzo della Cisgiordania finirebbe di fatto annesso ad Israele, rendendo il futuro Stato palestinese una specie di macchia di leopardo senza nessuna continuità territoriale.
Un movimento che si oppone alla costruzione di questa barriera è nato immediatamente e, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, è composto non solo da palestinesi, ma anche da israeliani, entrambi contrari a farsi rinchiudere in una “prigione a cielo aperto”. Le 21 associazioni che si oppongono al muro si sono unite in un network chiamato Pengon. Hanno lanciato una campagna internazionale, chiamata Stop the wall, che ha organizzato una grande manifestazione contro la barriera il 9 novembre 2003. La data non è stata scelta a caso: il 9 novembre 1989 cadeva il muro di Berlino.
Quando si parla di questo muro ricorre spesso il paragone con quello che divise Berlino dal 1961 al 1989, che più di una città divideva il mondo in due blocchi contrapposti. In realtà, oltre che diversi fisicamente (il muro israeliano risulterà tre volte più alto e due volte più largo di quello tedesco), le due costruzioni partono da un presupposto diametralmente opposto: quello di Berlino si basava su un trattato internazionale, quello d’Israele viene costruito contro qualunque norma di diritto internazionale.
"La costruzione del muro fra Israele e Cisgiordania viola la legge internazionale e potrebbe danneggiare le prospettive di pace a lungo termine". Queste le parole pronunciate da Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite, il 28 novembre 2003 all’assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il 9 dicembre 2003, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deciso che la questione del muro venga trasferita alla competenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, massimo organo giuridico dell’Onu per risolvere le controversie tra Stati. La risoluzione, che non ha potere coercitivo, è passata con 90 voti favorevoli, sette contrari (tra cui quello di Israele e degli Stati Uniti) e 74 astensioni (compresi i Paesi dell' Unione Europea, guidata dalla presidenza di turno dell'Italia). Segue di pochi mesi un'altra risoluzione di condanna dell’assemblea dell’Onu, quella del 22 ottobre 2003, votata da 144 stati e bocciata da 4 (Israele, Usa, Isole Marshall e Micronesia), 12 le astensioni.
La costruzione va avanti comunque e costa un milione di dollari al chilometro. Israele attraversa una delle crisi economiche più gravi della sua storia, è costretta a dolorosi tagli allo stato sociale, ma il governo di Sharon è assolutamente convinto della necessità di questa barriera per fermare gli attentatori suicidi che, nel corso della seconta Intifada, hanno causato la morte di 854 israeliani. La casistica degli attentati sembra però dargli torto: Hanadi Jaradat, la ventinovenne che si è fatta esplodere nel ristorante Maxim di Haifa il 4 ottobre 2003, uccidendo 19 persone e ferendone 50, veniva da Jenin. Aveva attraversato il muro.
Da più di un anno Israele sta costruendo un muro lungo il confine della
Cisgiordania per impedire ai kamikaze palestinesi di farsi esplodere nelle strade
di Gerusalemme o Tel Aviv. Il muro, una volta terminato, sarà lungo circa
600 km contro i 350 km della linea verde.
I lavori sono cominciati nel giugno del 2002 intorno al distretto della città
di Zububa , estremo nord della Cisgiordania, e nel luglio 2003 è stato
completato il settore nord che giunge poco più a sud della città
di Qalqilya. La parte settentrionale del tracciato è lunga 145 km: 132
km costituiti da un recinto elettronico mentre i restanti 13 km sono in cemento
armato.
Il muro è alto 8 metri, è circondato da fossati (larghi dai 60
ai 100 metri) e da reti di filo spinato, ed ha torri di controllo ogni 300 metri.
Lungo il tracciato sono state costruite strade di aggiramento per soli coloni,
41 varchi agricoli e sono stati eretti 9 check-point per pedoni e veicoli. Per
la realizzazione di questo tratto settentrionale è stato annesso l'1,6%
della Cisgiordania nel quale si contano 11 colonie, dove vivono 19.880 ebrei,
e nel quale risiedono circa 10 mila palestinesi.
Il costo complessivo dell'operazione è di un milione di dollari al chilometro.
Il 1°ottobre 2003 il governo israeliano ha approvato con 18 voti favorevoli,
4 contrari e un astenuto, la fase due della costruzione della "barriera
difensiva", definita dai palestinesi "muro dell'apartheid". Contemporaneamente
alla prosecuzione del tracciato principale sarà costruito un tracciato
separato che ingloberà 5 insediamenti ebraici: Ariel, Beit Arieh-Elkana,
Nili-Naaleh, Gush Etzion-Efrat and Yatir-Sussia.
I due tracciati potrebbero comunque in futuro unirsi ma per il momento il premeir
israeliano Ariel Sharon ha preferito rimandare la questione in un momento successivo.
Non esistono comunque mappe ufficiali della parte meridionale del muro e ciò
significa che sono possibili cambiamenti dell'ultima ora. Secondo il quotidiano
israeliano Haaretz, la barriera difensiva avvolgerà la città di
Gerusalemme ma per inglobare la città santa degli ebrei, dei cristiani
e dei mussulmani, Israele sarà costretto ad annettere sul versante occidentale
del muro i popolosi insediamenti Maaleh Adumin, Givon e Har Homa.
Alla fine dei lavori circa 200 mila palestinesi di Gerusalemme est si troveranno
separati dai connazionali in Cisgiordania. Anche la città di Betlemme
subirà l'impatto traumatico della costruzione del muro. Il tracciato,
anche se non è ancora ufficializzato, dovrebbe assicurare a Israele l'annessione
della Tomba di Rachele, luogo santo anche per i mussulmani. Stessa sorte toccherebbe
alla città di Hebron dove i Luoghi Santi della città sembrano
essere destinati a collocarsi sul versante occidentale del muro.
Ciò che Israele sta realizzando sulla West Bank non è né un muro né una barriera. È qualcosa di molto diverso. Non si tratta di separazione, ma di una sistematica e intenzionale distruzione delle basilari condizioni di vita. Ghetti? Prigioni all’aria aperta? Una rete di gabbie per uomini? Non sono sicuro ci sia un nome per definirlo; non sono sicuro che ci siano dei precedenti simili nella storia umana.
Un anno fa, avevo esortato i lettori a dimenticare la “Road Map” per la pace del Presidente Bush – sul quale si sprecava così tanta attenzione in quel periodo e che al giorno d’oggi non è stato messo in pratica – e a concentrarsi sull’effettiva mappa della Palestina, modificata radicalmente dalla costruzione dell’Apartheid Wall di Israele virtualmente ignorato dai media internazionali. Un anno è passato e il silenzio è stato rotto: grazie al lavoro di alcuni giornalisti coscienziosi, grazie agli sforzi dei palestinesi i quali hanno rimesso la questione del Muro alla Corte Internazionale di Giustizia, e – per ultimo ma non di minore importanza – grazie alle migliaia di attivisti palestinesi, israeliani ed internazionali di Ta’ayush, Gush Shalom e di molti altri gruppi, le cui quotidiane manifestazioni non violente vengono disperse con spietata brutalità dall’esercito israeliano.
Discussioni sui termini
Fin dall’inizio si è discusso sul termine da usare: “l’Apartheid
Wall” è il nome palestinese per quello che Israele definisce ufficialmente
“Barriera di Separazione” oppure “Barriera di Sicurezza”.
Io ho preferito il termine palestinese: tanto per iniziare, una barriera suonava
come un ridicolo eufemismo per un muro di cemento alto 8 metri) e con una “striscia
di sicurezza” larga 100 metri. Attualmente l’arsenale di sorveglianza
include non solo pattuglie e videocamere ma sono in via di sviluppo anche dei
mitra telecomandati i quali, come riportato orgogliosamente dai media israeliani,
permetteranno ad alcune gentili donne soldato di sparare a “movimenti
sospetti” (ad esempio esseri umani) da dietro un monitor in un ufficio
dotato di aria condizionata, a varie miglia di distanza.
Non esistono limiti per l’industria della morte.
A conti fatti, entrambi i termini – Barriera o Muro – sono fuorvianti. Sebbene la maggior parte delle persone ormai sappia che il Muro non è costruito lungo la Green Line ma è incluso nel territorio palestinese, annettendo di fatto gran parte di esso a Israele (un terzo?), entrambi i termini, Barriera e Muro, suggeriscono una specie di linea contigua con i palestinesi da un lato e gli israeliani dall’altro. “Noi quaggiù e loro laggiù”, come proclamava lo slogan per l’elezione di Barak. Ma è questo che sta succedendo davvero? Non proprio. La realtà è di gran lunga più terribile.
Cosa rappresenta davvero il Muro
Date un’occhiata a questa mappa, adattata da un recente articolo di Amira
Hass (Ha’aretz, 25 giugno 2004). È raffigurato solo un piccolo
dettaglio del Muro, nel cosiddetto Christian Triangle a sud di Gerusalemme.
Le linee rosse rappresentano il muro- in parte già realizzato, in parte in fase di costruzione, in parte ancora da costruire. Ora date un’occhiata ai quattro villaggi palestinesi sulla sinistra: Nahalin, Hussan, Batir e Walaja. Da che parte del Muro si trovano?Ovviamente si tratta di una domanda sbagliata. In effetti quei villaggi sono circondati e intrappolati dal Muro. Batir e Hussan insieme, Nahalin e Walaja singolarmente. Considerate la scala: l’attraversamento di qualsiasi enclave, da muro a muro, richiederebbe una camminata di 10-20 minuti. Qualsiasi abitante di quei villaggi non è mai lontano dal muro più di un chilometro (0.6 miglia). Non solo la terra coltivabile ma anche le scuole, gli ospedali, le cliniche, i mercati, i negozi, il lavoro, per non parlare degli svaghi, sono tutti al di fuori di quel territorio. Per uscirne, devi passare attraverso un cancello e attraverso un posto di controllo dell’esercito israeliano. Il cancello probabilmente è chiuso – perché è aperto solo un paio d’ore al giorno, oppure perché qualcuno dall’altro lato ha dichiarato lo stato di massima allerta, oppure a causa di una festa ebraica, oppure perché il soldato di guardia non è svegliato in tempo. E se capita che il cancello sia aperto, il soldato potrebbe farti passare (se possiedi i permessi necessari) oppure no (per qualsiasi ragione o per nessuna in particolare), oppure potrebbe chiederti qualcosa in cambio: un piccolo regalo, oppure una bestemmia verso Maometto, Gesù o Arafat, o forse un’informazione sul tuo vicino o su tuo fratello. Se il tuo lavoro, la tua salute o la vita di tuo figlio dipendono dal fatto di riuscire ad oltrepassare il cancello, fari qualsiasi cosa. Lo stesso accade se vuoi entrare nel villaggio – come ospite, autista di carro, elettricista o dottore.
Esistono numerosi villaggi circondati in questo modo lungo tutta la West Bank.
Danny Rubinstein ha riferito di 200.000 palestinesi che vivono al nord di Gerusalemme,
molti dei quali in possesso di carte d’identità israeliane, tutti
dipendenti totalmente dalla città per le scuole, gli ospedali e il lavoro:
per raggiungerli sono obbligati a passare il posto di controllo di Calandia,
sporco e sovraffollato:
“I residenti di questi quartieri sono inoltre stati informati riguardo
l’ulteriore costruzione di barriere interne che permetteranno il passaggio
dagli insediamenti. Queste barriere, che rappresentano la seconda fase del progetto
della barriera di separazione, creeranno cinque grandi isole in cui la popolazione
palestinese verrà concentrata in una sorta di ghetti”.
(Ha’aretz, 27 giugno 2004)
A volte le case vengono recintate individualmente: il canale televisivo israeliano Channel 2 (25 giugno 2004) ha recentemente riportato di due case al confine di un villaggio palestinese intorno alle quali si è sviluppato un insediamento di ebrei. Le due famiglie sono state, quindi, circondate dalla “loro stessa barriera” che le separa per tre lati dall’insediamento ebraico e per il quarto lato dal resto del loro stesso villaggio (circondato).
Perciò questa non è un’eccezione, ma la regola. Tutti i palestinesi dovrebbero finire col venire rinchiusi in queste barriere; alcuni di loro, i più fortunati, potrebbero disporre di una gabbia più grande. L’ubicazione del muro dovrebbe seguire la legge del pollice promossa da Israele, ossia la minor quantità di terra ai palestinesi e la massima agli israeliani. Le mura verranno costruite ad appena qualche metro di distanza dalle ultime case del villaggio ma, in molti casi, le case verranno distrutte per dare spazio al muro. Anche i campi coltivati e i pozzi d’acqua rimarranno al di fuori del muro, per cui non saranno più accessibili ai loro proprietari. Sulla mappa, è possibile notare che tutte le zone aperte sono assegnate agli insediamenti israeliani di Gilo, Har Gilo o Betar Illit, mentre per i villaggi e le città arabe non rimane un solo millimetro disponibile.
“Muro”, un termine improprio
Ora, questo non è né un Muro né una Barriera. Allo stesso
modo in cui non definiamo un libro con il termine “carta” o il pane
con “farina”, non si può chiamare questo un Muro. Ciò
che Israele sta realizzando sulla West Bank, è costituito da mura e barriere,
ma non è né un muro né una barriera. È qualcosa
di molto diverso. Non sono sicuro del nome esatto: ghetti? Centri di detenzione
extra-giudiziari? Prigioni all’aria aperta? Una rete di gabbie per uomini?
Non sono sicuro ci sia un nome per definirlo; non sono sicuro che ci siano dei
precedenti nella storia umana. Non solo tutto ciò non ha nulla a che
vedere col Muro di Berlino, che in paragone è solo una miniatura, ma
ha anche palesemente pochissimo a che vedere con gli Apartheid Bantustan (ossia
le riserve indigene in Sud Africa) ognuno dei quali comprendeva decine di migliaia
di chilometri quadrati. Le gabbie sul West Bank spesso comprendono solo pochi
ettari, il che è una cosa del tutto diversa.
Alcuni decenni fa, una diffusa tesi israeliana affermava che il West Bank e Gaza costituivano uno spazio troppo piccolo per un possibile stato palestinese. Se così fosse, nessuno potrebbe sostenere che una gabbia interamente di 2x2 chilometri, senza servizi pubblici, senza riserve di terra per alloggiare, senza campi e con un cancello sorvegliato da un esercito ostile, sia un possibile posto in cui vivere. Le autorità israeliane lo sanno molto bene; dopotutto la loro passione per la terra è insaziabile. La loro intenzione è palese: presto o tardi la disperata popolazione in gabbia sarà costretta a scappare per non morire di fame. Si tratta di pulizia etnica, rendere la vita impossibile ai palestinesi in modo da convincerli ad andarsene. Più ci si avvicina alla Green Line e agli insediamenti maggiori, più piccole diventano le gabbie. Queste sono le zone che Israele desidera maggiormente, quindi le condizioni di vita dovrebbero allontanare la popolazione palestinese il prima possibile.
Coloro che sono interessati alla pace in Medio Oriente dovrebbero trovare un giusto termine per la rete di gabbie che stanno costruendo in questi giorni sulla Bank West, un termine che rifletta la sua vera natura e dovrebbero lanciare una grande campagna per spiegarne il significato. Non si tratta di separazione, ma di una sistematica e intenzionale distruzione delle più basilari condizioni per la vita umana che porta inevitabilmente alla miseria o alla pulizia etnica.
Fonte: http://www.antiwar.com/hacohen/?articleid=2898. Tradotto da Loredana Stefanelli per Nuovi Mondi Media.