Intervista a Luca Nicolotti
di Riccardo Borgogno
Il sistema delle misure alternative
Aprile 1998

Cominciamo con un riepilogo della tua storia dentro e fuori il carcere.
Io sono stato arrestato nel maggio 1980, sono stato nei vari carceri speciali, praticamente li ho girati tutti, Cuneo, Asinara, che è stato chiuso dal ministero di Grazia e Giustizia pochi mesi dopo che sono stato arrestato. Dal 1990 sono ammesso al lavoro esterno (articolo 21).

Forse è meglio spiegare cos'è il lavoro esterno, che molti ritengono sia una misura alternativa al carcere.
Il lavoro esterno, dal punto di vista della normativa penitenziaria, è considerato sostanzialmente alla stessa stregua del lavoro interno. Il detenuto ha la possibilità di lavorare, solo che invece di svolgere un lavoro all'interno del carcere lo svolge all'esterno, quindi esce dal carcere solo nelle ore strettamente necessarie a lavorare, solo i giorni lavorativi, con prescrizioni rigide sul percorso, esclusivamente attraverso mezzi pubblici. Non è previsto nessun altro spazio di mobilità rispetto ad altri interessi affettivi o culturali.

Dove hai svolto il lavoro esterno?
Ho svolto il lavoro esterno in una serie di aziende, inizialmente come operaio professionale in una fabbrica metalmeccanica, poi sono passato in una cooperativa che svolgeva servizi per portatori di handicap che mi aveva coinvolto nel progetto di un'officina per far uscire dal carcere delle detenute delle Nuove, poi ho lavorato come direttore commerciale in una piccola casa editrice di Torino, adesso lavoro in una piccola libreria torinese.

Secondo la legge Gozzini, la semilibertà può essere concessa dopo aver scontato metà pena oppure, in caso di ergastolo, dopo aver scontato vent'anni.
Questi sono i termini previsti dalla legge Gozzini, a cui vanno aggiunti i giorni di liberazione anticipata per "buona condotta". Sulla base di una relazione svolta dagli educatori del carcere, ogni 6 mesi il detenuto può chiedere che gli vengano scontati 45 giorni per cui se il detenuto ha tenuto "buona condotta", se ha dimostrato partecipazione all' opera di "rieducazione, anticipa anche i termini per la semilibertà. Quando questo è avvenuto, ho presentato l'istanza.

Dunque non si va in semilibertà quando scadono i termini, ma quando scadono i termini si presenta l'istanza e comincia il lungo "iter".
Certo, la domanda si può presentare solo quanto scadono i termini. Una volta presentata la domanda si dipanano due pratiche burocratiche parallele. Da un lato il Tribunale di Sorveglianza fissa la data per l'udienza, nel mio caso la data per l'udienza è stata fissata a luglio dell'anno scorso, dall'altro il Tribunale chiede che l'équipe del carcere faccia una relazione sul detenuto in questione. Questa relazione viene svolta da 3 operatori, l'educatore del carcere che incontra il detenuto, uno psicologo che invece è convenzionato con il carcere, è un consulente esterno e viene pagato a parcella, e infine da un assistente sociale che dipende dal Ministero di Grazia e Giustizia, dal Centro Servizio Sociale per Adulti che si trova in quasi ogni capoluogo di provincia. La relazione arriva al Tribunale che inoltre acquisisce tutte le pratiche, le sentenze, le relazioni della Digos, dei carabinieri, la richiesta del datore di lavoro...

La richiesta del datore di lavoro è indispensabile perché la semilibertà richiede formalmente un'«attività utile al reinserimento» che, di fatto, vuol dire un lavoro. Qual è stato l'esito di questa prima udienza?
L'esito è stato un rinvio perché non risultava la relazione dell'équipe. La seconda udienza è avvenuta nell'ottobre '97 e si è tradotta in un secondo rinvio, questa volta la relazione c'era ma il Tribunale ha ritenuto di chiedere una perizia di parte, cioè eseguita da una psicologa nominata dal Tribunale stesso, il che vuol dire che la perita Sandra Sassaroli ha giurato davanti al Tribunale ai primi di dicembre '97 e le sono stati dati due mesi di tempo per svolgere la perizia, che è stata depositata ai primi di febbraio di quest'anno. La terza udienza è stata poi fissata il 31 marzo.

La perizia psicologica di Sandra Sassaroli dice: "Non emerge alcun dato psicologico che potrebbe essere da ostacolo alla sua affidabilità e alla prevedibilità del suo comportamento. II signor Nicolotti dimostra una personalità stabile nelle aree cognitive e sociali e in evoluzione in ambito emotivo. È perciò capace di affrontare con relativo successo la maggiore libertà che si propone di avere." Agli atti c'è anche la nota della Digos del 26/11/97 che dice: "Il Nicolotti non ha posto in essere evidenti condotte antigiuridiche e non ha mantenuto contatti con elementi gravitanti in organizzazioni di criminali o terroristiche". Sembrerebbe che tutto andasse bene.
Invece il Tribunale ha respinto la mia richiesta di semilibertà perché, nonostante i pareri sostanzialmente positivi che sono stati dati dai vari tecnici che hanno svolto la mia osservazione, si dice che io, a livello interiore e morale, non aderisco totalmente a quelle che sono le prescrizioni che vengono richieste. La cosa che mi pare pesante è che viene richiesto a livello giuridico a una persona di rispettare le regole che vengono stabilite mentre di fatto le viene chiesto di aderire interiormente a livello morale o spirituale, chiamiamolo come vogliamo, allo spirito di queste regole. A me sembra che solo i comportamenti concreti possono essere alla base dell'ordinamento penitenziario e di ogni rapporto di tipo giuridico.

Nel caso dei detenuti per lotta armata come te, viene in mente la legislazione sulla "dissociazione", in cui venivano penalizzate o premiate le opinioni vere o presunte, le dichiarazioni ideologiche, indipendentemente dal reato effettivamente commesso, dal comportamento concreto.
Sì, è una storia che noi detenuti per lotta armata ormai ci portiamo dietro da vent'anni. Io non ho mai accettato di percorrere la strada né del "pentimento" né della "dissociazione", perché credo che sia importate per quanto mi riguarda la continuità del mio percorso, per cui nella vita uno fa determinate esperienze e può anche rivederle autocriticamente, ma senza mai rinnegare il proprio passato. In secondo luogo perché credo che abbiamo una responsabilità rispetto ai morti della nostra esperienza, da una parte e dall'altra, e credo che su questo non è mai stato fatto un discorso chiaro. Terza cosa, da quando sono state approvate le leggi sul "pentimento" e la "dissociazione", la condanna di chi come me non ha voluto percorrere queste strade è diventata una condanna puramente ideologica. Ad esempio, nel mio caso siamo stati condannati in 4 per lo stesso reato, uno si è "pentito" e quindi è uscito, altri due si sono "dissociati" e usufruiscono delle misure alternative, e solo io continuo a essere in carcere. A questo punto evidentemente il problema non è la gravità del reato, il problema è la scelta politica ed esistenziale che una persona ha fatto.

Contro questa situazione credi che sia possibile fare qualcosa nell'immediato?
Credo che il lavoro che in generale bisognerebbe fare sulle misure alternative è proprio quello di limitare i margini di discrezionalità che oggi vengono riconosciuti agli organi competenti e fissare termini più chiari. Persone con condanne analoghe possono accedere o no alle misure alternative a seconda del Tribunale davanti a cui si trovano. Io direi che questa discrezionalità rende difficile capire quali sono le vie d'uscita. La mia sentenza dà un quadro di me che non potrà cambiare nel giro di qualche mese, mentre una serie di contributi che io posso dare alla vita quotidiana e sociale di questa città potrebbero svilupparsi meglio se avessi una maggiore libertà di movimento.

Insomma, a te viene chiesto più di quanto viene chiesto ai detenuti comuni, ma nemmeno per i detenuti comuni la situazione è molto facile. Se non sbaglio, ci sono detenuti che hanno tenuto la "buona condotta" e hanno scontato più di metà pena, ma non vanno in semiIibertà solo perché non hanno un lavoro.
In effetti, oggi comunque quello che sta succedendo è una piccola cosa rispetto alla situazione generale del carcere, dove molti detenuti non accedono alle misure alternative solo perché non hanno un lavoro. Questo è vero soprattutto per gli stranieri che ormai sono tra il 20 e il 30 per cento, del tutto privi di un tessuto relazionale, che si ritrovano senza colloqui e sono tagliati fuori a priori dalle misure alternative e, anche una volta che abbiano un lavoro, non hanno una rete di supporto. Paradossalmente quando un detenuto esce e si trova ad affrontare una serie di problemi che in carcere non aveva, si ritrova totalmente solo. Un aspetto importante è il silenzio che oggi c'è sul carcere, sarebbe fondamentale che oggi si riescano a ricostruire canali di comunicazione. Sarebbe già importante anche solo se i detenuti potessero far sentire le loro voci, le loro esigenze, come è già avvenuto sui manicomi. Il primo passaggio della legge 180 è stato che le perone rinchiuse hanno cominciato a esprimere la loro soggettività e creatività, a fare progetti professionali e di vita. Persone allora considerate perdute oggi scrivono poesie, dipingono quadri, lavorano.

L'attuale crisi dell'occupazione in Italia rende difficile trovare un lavoro anche a chi non è mai entrato in carcere. Un ruolo positivo in questo senso l'ha spesso svolto il mondo della cooperazione e del volontariato. Pensi che lo svolga ancora o che possa ancora svolgerlo?
Se potrebbe svolgerlo dipende da chi di questo mondo fa parte. Ancora una decina di anni fa esisteva un attivismo da parte della cooperazione e del volontariato. Oggi l'attenzione è abbastanza scemata, ci sono associazioni che lavorano su singoli casi, che lavorano per creare un piccolo bacino di risorse lavorative all'esterno, ma non esiste un'iniziativa pubblica ampia che riesca a funzionare come cassa di risonanza.
     Credo che l'ultima volta che molte forze sono state attivate è stato contro la legge Scotti-Martelli che revocava le misure alternative con effetto anche retroattivo. Allora l'area del volontariato sia laico che cattolico si è mosso. Sulle cooperative esiste la legge 381, per agevolare i "soggetti svantaggiati", tra essi i detenuti, che prevede che le cooperative di solidarietà sociale che inseriscono detenuti all'interno del loro organico hanno per 2 anni lo sgravio degli oneri sociali. Ma oggi a Torino non esiste nessun coordinamento, nessuna iniziativa pubblica e di ampio respiro, da parte delle cooperative sociali che inseriscono i detenuti.
     Questo mi sembra tanto più grave perché la persona che esce dal carcere ha bisogno sì di un lavoro, sia per campare sia perché è obbligatorio per legge, ma anche di rapporti sociali, e il merito delle cooperative era che non dessero solo un lavoro ma anche rapporti sociali. Oggi invece c'è il silenzio da parte delle cooperative. Nel peggiore dei casi ci sono addirittura cooperative che hanno utilizzato la legge 381 esclusivamente per partecipare agli appalti pubblici con prezzi più bassi.


Fonte: pubblicato su Numero Zero, Torino, Maggio 1998.