Estratti
da: "L'evasione impossibile" di Sante Notarnicola
L'evasione impossibile è il racconto,
scritto quasi in presa diretta, della nascita e del percorso di
quel gruppo che attraversò i fugaci onori della cronaca alla fine
degli anni '60 come banda Cavallero. Era una banda di rapinatori
di banche che aveva mantenuto per anni la propria salvaguardia
evitando qualsiasi rapporto con la malavita, rendendo così inutile ogni sforzo e spiegazione
degli investigatori dell'epoca. Un'anomalia che ne fece allora una
leggenda, ma che si spiega con l'origine niente affatto malavitosa
dei suoi componenti, radicati nel mondo del comunismo torinese,
delle boite e delle officine della ricostruzione industriale del
dopoguerra [dall'introduzione all'edizione del 1997 di
Odradek]
1
Da un po di tempo mi stavo risvegliando e tutto diventava più
doloroso il bisogno m'assaliva che mi parlassero della libertà,
degli errori che gli uomini compiono nel rincorrerla, affinché potessi
capirli e non commetterli mai più. Ecco, così un giorno senza ironie,
senza scherzi, imparare ad amare anche con le parole, ad amare gli altri.
Queste cose sono possibili. Sì lo so, magari avrebbero detto, momento di
scoramento, sentimentalismo di merda, ma nel fondo sapevo per esperienza
che a certe persone piace atteggiarsi a duri e invece sono così
vulnerabili Basta trovare la chiave e aprire lanimo e nelluomo,
in tutti gli uomini, trovi meraviglie. Vivevo tra gente dura, provata
dalle sventure più tremende; tanti troppi non avevano neppure un
ideale a cui affidare una residua speranza, gente che vegetava eppure,
sotto sotto, se sapevi scavare, se sapevi trovare largomento esatto e
il momento esattobeh, allora vincevi e ritrovavi luomo. Avevo
provato tante volte e lo sapevo. Per questo credevo in ciò che stavo
facendo, al di là degli insuccessi e delle delusioni.
Certo, a volte prendevo delle cantonate, era fatale, ma la colpa era solo
mia che non trovavo la chiave giusta. C'era solo un tipo di uomo
che mi spaventava e lo conoscevo troppo bene, perché anch'io un
tempo ero stato così: il fanatico. E di fronte a questi mi
arrendevo: in questi casi come nel mio solo la vita e
l'esperienza li fanno cambiare se non sono in cattiva fede.
Qualche giorno prima di Natale vennero alle celle di punizione altri 6
detenuti: penso che fosse lunico carcere in Italia a tenere detenuti
puniti in quei giorni. Finalmente il mio isolamento ebbe termine e potei
tornare fra i compagni e riprendere i contatti con gli altri detenuti.
Una mattina, con A e C. mi trovavo nel corridoio quando arrivò C., un
sardo piccolo di statura ma tutto nervi; notai qualcosa di strano in lui,
anche gli altri compagni se ne accorsero. Quando ci passò vicino gli
chiedemmo: "Cosa hai?". Non terminammo la domanda che si appoggiò
al muro e si mise a piangere. Era un uomo duro e questo atteggiamento ci
preoccupò. Lo portammo in cella cercando di calmarlo. Poi finalmente
incominciò a raccontare; parlava a fatica, portandosi le mani sul volto:
"Poco fa, passavo in cortile sapete che ho l'abitudine di
tenere in bocca un fiammifero spento non fumo il fiammifero mi
piace masticarlo un po', poi lo sputo via ecco, un'abitudine
allora passavo nel cortile e c'era il maresciallo Busti con quel
brigadiere grosso che non so come si chiama ero soprappensiero
pensavo ai casi miei e manco li avevo visti ho sputato il
fiammifero dopo un po di passi mi sono sentito chiamare Busti e
l'altro mi hanno portato nell'ufficio e mi hanno obbligato a a
mettermi in ginocchio per baciargli le mani".Dovemmo tenerlo
forte, era scosso per l'umiliazione subita. "Mi restano solo
due anni da fare. Ho capito subito che mi avrebbero denunciato io
voglio uscire, mia madre è ormai vecchia e la pena l'avrei
scontata già da un pezzo questi anni che sto pagando sono tutti
oltraggi presi in galera non vogliono farmi uscire sti bastardi:
mi provocano continuamente".
Raccontai ai compagni del nucleo le mie esperienze milanesi. Lì a
Volterra invece le novità erano poche e tutte negative. La direzione
manteneva il pugno di ferro, seppi anche di parecchi pestaggi; proposi di
mettere insieme una documentazione, al mio ritorno a Milano
l'avrei inviata a Andrea, che nel frattempo aveva creato una
rivista: Re Nudo. Su questo giornale c'era una rubrica con
l'invito ai militanti a corrispondere coi detenuti e ad aiutarli
con libri e periodici. Furono in parecchi a raccogliere l'invito
tra cui Irene e Candido, due attivi militanti di Lotta Continua;
man mano provvidi a smistare ad altri compagni gli indirizzi e
cominciò così una fitta corrispondenza con i compagni. "Lotta
Continua" iniziò la pubblicazione di una serie di
testimonianze dal carcere, poi ci assegnò due pagine fisse il lavoro
cominciò ad assumere un volto politico.
Vi erano infatti molti obiettivi intermedi da formulare e da raggiungere
in attesa di quello più importante che è la soppressione totale delle
galere. Era necessario conquistare il diritto al lavoro nelle prigioni con
retribuzione sindacale, il diritto di avere contatti sessuali con le
nostre donne, il diritto di avere tutti gli strumenti difensivi così come
detta la costituzione, per porre termine alla sconcezza di certe condanne
propinate solo perché l'imputato non ha i mezzi per difendersi. E
infine volevamo conquistarci il diritto di non compiere più reati,
volevamo avere la certezza che la società accogliesse un proletario
pronto a reinserirsi nella vita del paese e non un uomo carico di odio e
di risentimento da tenere emarginato in attesa di rinchiuderlo nuovamente
in carcere. Lavoravamo per uscire da questa spirale. Ero convinto che la
politica, l'interesse sociale fosse una molla importante in grado
di dare risultati positivi. La gente che in passato si era
occupata di noi in modo paternalistico aveva miseramente fallito
la sua missione, e non poteva essere diversamente dato che
offrivano carità e rassegnazione. Questa gente non poteva vantare
un solo detenuto redento. Noi, da soli, avevamo deciso che è
possibile il nostro reinserimento. Imparavamo dalle lotte operaie,
le nostre erano analoghe, e gli operai, sempre più numerosi,
dimostravano simpatia per i nostri sforzi, anche se tutta la
stampa borghese cercava di influenzarli in senso opposto. Dagli operai
avevamo capito la lezione che sta nell'unità e nel rivendicare quelle
cose che il sistema deve darci perché siamo creditori. Stavamo imparando
a non staccarci dalla lotta comune, ora c'eravamo dentro fino al collo e
questo era un punto a nostro favore. Le nostre rivendicazioni
diventavano sempre più di natura strettamente politica e
clamorosamente questo veniva a dimostrare che in carcere non ci
sono solo delinquenti, ma che la massa è formata da proletari, e
ciò giustificava l'interessamento delle avanguardie esterne che si
occupano di colmare certi spazi del paese, così come fanno con i
baraccati, le borgate e tutti quei punti di intervento dove
esplodono lotte politicamente valide.
L'interesse di Re Nudo e Lotta Continua e tutto il lavoro
che facevamo non potevano sfuggire alla direzione del carcere e molte
lettere furono bloccate fino a quando trovammo canali clandestini.
Nell'aprile del 1971 ci fu un'ennesima sommossa nel carcere di
Torino, le "forze dellordine" ebbero la meglio dopo una
dura lotta, ma si trovarono fra le mani un carcere completamente
distrutto. I compagni detenuti avevano preso alla lettera la
parola d'ordine "Il carcere si abbatte, non si cambia".
Il procuratore generale della repubblica di Torino, il famoso
dottor Colli, aveva dato l'ordine di sparare a vista su quei
detenuti che si fossero avventurati nelle vicinanze del muro di
cinta, il quale del resto era completamente circondato dai poliziotti.
Pare che si sia sparato contro gente inerme che aveva come arma solo
qualche sasso e un mucchio di disperazione. Trenta furono trasferiti a
Volterra. Non erano quelli che si chiamano "caporioni",
infatti arrivarono con tutta la loro roba, erano tra gli ultimi
evacuati e lo avevano fatto con tutto comodo. In genere i
"caporioni" vengono trasferiti via via che vengono
catturati e nello stato in cui si trovano, a volte anche con le
sole mutande. Questi trenta arrivarono alle due di notte e furono
inquadrati nel grande cortile del castello: ad accoglierli c'erano
tutte le guardie al gran completo. Li fecero denudare
completamente e dopo all'improvviso piombarono loro addosso con calci,
pugni e cinghiate. Molti di noi si svegliarono: il mio finestrino
costituiva un ottimo piazzamento e assistetti così a una delle scene più
rivoltanti che ricordi. L'azione era comandata dal maresciallo Cesare
Busti. Alcuni detenuti scappavano dalle cinghie degli aguzzini e
correvano lungo il grande cortile inseguiti dalla luce dei
riflettori dove era piazzata una mitragliatrice Breda 20 mm. Ma le
guardie erano troppe e giocavano come fossero gatti contro dei
topolini. Sentivamo le urla: "mamma aiuto sbirri",
gridavano. Durò mezz'ora: alla fine si sentivano solo i movimenti
sordi della colluttazione, poi più nulla. Quella notte giurai di
farla pagare a Busti e al direttore Restivo, che era al corrente
dei linciaggi di massa.
Tra di noi il
malumore cresceva di giorno in giorno, ci furono alcune proposte
che subito arrivarono alle orecchie della direzione. Presto tutto
il nostro gruppo si trovò nelle celle di punizione, alcuni furono
menati, bastava un nonnulla per finire "ai topi".
All'aria si andava solo dopo avere subito una perquisizione
completa e altrettanto avveniva al rientro. Le guardie erano tutte
consegnate, nei raggi invece di un solo agente ne montavano cinque
o sei. Il prete venne a trovarmi all'isolamento, gli proposi di
denunciare ciò che accadeva, non se la sentiva, aveva paura e lo
disse chiaramente, si sentiva a suo agio solo quando ritirava lo
stipendio. Eravamo soli. Fui chiamato in direzione, Busti mi
accusò di preparare la rivolta e minacciò stragi e uccisioni. Mi
rinfacciò alcuni miei corrispondenti minacciando di tagliarmeli, ma
subito diventò "ragionevole": in quello stesso momento mi
veniva notificato il decreto di citazione del processo d'appello: ormai
la mia permanenza a Volterra era solo questione di giorni. Il
mattino della partenza per Milano mi portarono in matricola dove
mi fecero spogliare per la perquisizione; c'era una guardia con la
faccia da culo che mi disse di togliermi le mutande; disse poi
"Gìrati", mi girai, "Piégati". Mi girai di
scatto e rivestendomi gli dissi sul muso: "Se credi che nel
culo nasconda qualcosa, chiama un medico; questo gesto lo
pagherete". Stavano per saltarmi addosso quando arrivarono i
carabinieri a togliermi da quella situazione.
Per tutto il viaggio fino a Milano non dissi una sola parola,
tanto che la scorta era a disagio. Mi godevo il panorama, gli
alberi e tutto il verde. Guardavo l'orizzonte che da molti mesi
non vedevo. Era il 1° maggio 1971. A San Vittore raggiunsi Adriano
e Piero, mi avevano preceduto, e proposi loro di rendere pubblico
lo scandalo di Volterra. Presentai un documento alla corte
d'appello di Milano. Attraverso i soliti canali clandestini feci
una relazione ai compagni; alcuni stralci furono pubblicati su 'Lotta
Continua' e su 'Re Nudo'.
Speravamo che ci denunciassero per calunnia per poter tirar fuori al
processo tutto quello che non potevamo scrivere, ma anche quando la stampa
borghese riportò la notizia, la denuncia non venne. Un risultato positivo
comunque fu raggiunto: Restivo, il direttore di Volterra, fu rimosso
dall'incarico e ora dirige, con i soliti metodi appresi nel famigerato
carcere di Palermo, l'Ucciardone, il piccolo giudiziario di Agrigento.
Pare che ora sia cambiato qualcosa anche a Volterra. Ma certamente non per
merito dei borghesi "illuminati", sempre così attenti alle cose
d'oltre cortina, ma grazie a un gruppo di giovani che dall'esterno ci
hanno consigliato e aiutato. E grazie soprattutto a tanti oscuri detenuti
che, rischiando grosso, hanno avuto il coraggio di affrontare una lotta
che sapevano persa in partenza.
Alla procura di Pisa giacciono decine di denuncie contro Volterra con
precise indicazioni, date, fatti, nomi. Fino a ora la magistratura non le
ha prese in considerazione. Pur di essere trasferiti da Volterra i
detenuti ingoiavano chiodi, cucchiai aghi, lampadine, si tagliavano le
vene, si squarciavano il ventre, pur di sfuggire alle grinfie di Busti e
Restivo. Essi venivano allora trasportati all'ospedale del carcere di Pisa
e poi rimandati a Volterra.
2
Arrivai nel penale di Lecce il 18 marzo. L'ambiente era nettamente
diverso, ostile. Pochi giorni prima, in seguito a una lettera di denuncia
pubblicata su 'Lotta Continua' gli agenti si erano scagliati contro un
gruppo di compagni che dopo essere stati malmenati in isolamento furono
sparpagliati in altre prigioni. Il direttore, Vito Siciliano, non nascose
il suo malumore per il fatto che il ministero mi avesse destinato nel
"suo" carcere. "Mando via Rovoletto e mi arriva Notarnicola",
commentò sconsolato. In effetti la repressione che colpiva l'avanguardia
del movimento, facendoci viaggiare continuamente, ci permetteva di creare
in ogni centro un punto di riferimento. Era la repressione in un certo
senso a renderci le cose più facili e a contribuire alla nostra crescita.
3
Giudiziario di Lecce
8 aprile 1972
Caro compagno,
non so ancora se leggendo la tua lettera devo arrabbiarmi o indignarmi per
gli insulti e le calunnie. Senti, caro, non so assolutamente di dove vieni
fuori, mentre sai benissimo di dove io vengo. Non sono nato ieri, neppure
politicamente; ho alle spalle dieci anni di attività di partito e un paio
d'anni di impegno interno al carcere, dove non mi sono limitato solo a
compilare lettere o reclami più o meno rivoluzionari. Ho lavorato sodo, e
quando se ne è presentata l'occasione, non mi sono mai tirato indietro.
Leggendoti, dopo la giusta indignazione, ho ripensato a tutte queste
esperienze (i cattolici direbbero "esame di coscienza"). Bene,
sarò presuntuoso, ma non ho rimproveri da farmi e, dovessi rifare la
strada, non la cambierei di una sola virgola, salvo nel chiarire i
rapporti con voi. C'è stato un equivoco enorme, vedo. Il movimento nel
carcere avrebbe potuto chiamarsi con un qualsiasi nome, ma è
l'impostazione che doveva essere diversa e te l'ho detto chiaramente: il
movimento deve essere autonomo. Il perché è semplice: non conoscete
questa realtà che solo noi conosciamo. Una realtà che non si capisce
dopo tre soli giorni di carcere o attraverso una serie di lettere, quindi
neppure le vostre "avanguardie" venute qui dentro per pochi
giorni vi possono dare un quadro che solo noi conosciamo. E anche per
questo non mi stupisco di alcune iniziative fatte piovere
dall'"alto" e destinate al fallimento, quali l'amnistia e il
Natale rosso; iniziative buone, ma imposte al momento meno opportuno.
Speravo che interessando e facendo intervenire altra gente, formando un
collettivo esterno di cui facessero parte compagni convinti dell'utilità
del nostro lavoro, ce ne venisse un aiuto per sviluppare l'attività
tutta. Ma vi siete rifiutati e a ogni timido contatto con compagni che noi
vi indicavamo, rispondevate indignati attaccando tutti. Evidentemente
credete che la sola "verità" è la vostra. Mi permetterai di
cominciare a dubitarne. Certe tue critiche assolutamente fuori luogo alla
campagna del fanfascismo fatta (bene) dal 'Manifesto'. Il fatto che tu
scambiassi 'Re Nudo' per un pericoloso gruppo controrivoluzionario, mentre
in realtà è un gruppo di giovani che ha fatto un giornale, criticabile
finché vuoi per certe posizioni, come per esempio la droga, ma che
tuttavia è in buona fede e non solo, ha dimostrato tanta buona volontà
da accettare critiche. E come vedremo in seguito pure verso singoli
compagni hai usato l'arma della diffamazione e della calunnia. Ora, se
allarghiamo il discorso a tutto il movimento rivoluzionario, questo
diventa molto grave. Cioè se vi comportate allo stesso modo verso le
fabbriche, i quartieri, i baraccati e tutti gli altri punti di intervento,
cercando solo di egemonizzare, beh, allora siete in errore voi. Ho
collaborato con voi per lungo tempo perché ritenevo che foste delle
avanguardie coscienti e che il vostro obiettivo fosse quello di collegarvi
con le masse per sviluppare al massimo il movimento, non solo, ma che
cercavate veramente una unione con chi è impegnato in questo lavoro. Invece all'interno del movimento non avete avuto apertura
alcuna e vi limitate a colpire tutte quelle forze che non si
identificano con voi accusandole di essere controrivoluzionarie. E
parlando di "forze" intendo pure piccoli gruppi di
persone che vogliono fare qualcosa o compagni di base che non
hanno la presunzione di essere i "rappresentanti" delle
masse Accettasti la collaborazione di M. per stroncarla alla prima
iniziativa (iniziativa giusta e condivisa da tutti all'interno)
dimostrando chiaramente che non intendevi collaborare con alcuno.
Vedi, lei non ha fatto, come te, l'errore di dire: fate così. Lei
ha fatto una proposta, se ne è discusso con altri, e è stata
accettata come la si poteva rifiutare. A decidere siamo stati noi.
Quindi il suo e il tuo intervento se non altro ci hanno chiarito
un po' le idee. Per il voto sei in errore per tre motivi almeno:
1) siamo stati io e M. a fare contemporaneamente la proposta; 2)
altri compagni esterni nello stesso periodo proponevano la stessa
cosa; 3) all'interno sono stati tutti d'accordo sull'iniziativa
ritenuta utile anche se non ci crediamo. (Te lo spiegai). Ma,
ripeto, questa è solo una scusa premeditata, in realtà non intendi
collaborare in nessun modo né con M., né con nessun altro. Tu hai
deciso che il movimento deve essere fatto da voi e basta. Non sono
daccordo, anche perché allesterno avete dimostrato di non essere
in grado di appoggiarci a parte i libri e i giornali. Nessuna
iniziativa di appoggio seria è stata presa e non avete detto una
parola chiara nei nostri confronti (certi articoli), ma avete
chiesto. In sostanza sbagli se credi che qui si aspetta l'ordine
dall'alto, ma ti rendi conto che se avessimo una testa del genere
saremmo alla FIAT e non in galera? Qui il lavoro da fare è insegnare
alla gente a pensare e a risolvere le cose in senso giusto, senza
anarchia, ma anche senza imposizioni, ne abbiamo già troppe. Solo
così si può sviluppare il movimento. Tu stesso, poco tempo fa, mi
invitavi ad agire e a decidere senza influenza alcuna. Ma questa,
carissimo, è una lezione che ho imparato sulla mia pelle; e oggi
ti sono contro perché non ritengo giusta la tua posizione. Noi
oggi si doveva essere più forti, ora che si è già scatenata la
repressione (lo sai vero? Gli ultimi trasferimenti sono avvenuti
ieri; dove io arrivo, dove si forma un gruppo, questo è subito
trasferito; non è un caso, la direzione l'ha detto chiaramente; e
tante avanguardie cominciano a rompersi le palle). Non lo siamo anche
perché il vostro aiuto è risultato insufficiente. Bada che qui è facile
influenzare la gente, ma se la deludi è meglio scomparire e qui,
proprio a Lecce (anche altrove - mi dicono) oggi siamo in una posizione
delicata. Molti di noi sono guardati con diffidenza da una parte dei
detenuti "montati" dalla direzione. In sostanza a questa gente
si tenta di dare una coscienza di classe e il periodo più semplice è già
passato senza che noi ci rafforzassimo. Sarebbe un grosso errore credere
che siamo strumentalizzabili - può esserci qualcuno in condizioni
critiche che si lascerebbe fare - tuttavia non si fa politica così. In
un momento rivoluzionario ognuno dà secondo le sue capacità, che
molti di noi hanno, ma bisogna per prima cosa sviluppare la
coscienza, altrimenti si rischia di comportarsi come quelli
"dell'altra sponda".
Noi dobbiamo cercare di formare quanti più buoni compagni è
possibile, poi fuori, starà a quella coscienza che noi avevamo
dato loro far sì che lottino non più da soli ma insieme al
proletariato tutto. Noi da soli non si può far nulla, è chiaro, ma
neppure gli operai o un qualsiasi gruppo rivoluzionario può nulla
da solo ;se siete avanguardie il vostro compito è saldare tutto il
fronte della classe che è spezzettato e settario e diviso, e
l'antagonismo tra i vari gruppi fa solo l'interesse dei padroni.
Tu dici che "sono d'impiccio"; bene, se fossi con voi
chiederei che ti rimuovessero dall'incarico, ma non lo sono e quindi ti
dico che - malgrado te - il mio impegno continua dentro il carcere e che
sono disposto ad ogni apertura, purché non si perdano di vista gli
interessi generali, interni ed esterni. E pazienza se non essendo con
voi perdo un "terno al lotto della rivoluzione"
Ma, caro, nessuno ti ha insegnato che la
rivoluzione non è una lotteria? Le esperienze altrui non ti dicono
nulla? Amico mio, non si può perdere, sai, oltre tutto correrei il
rischio di averti in cella con me per anni. Lasciamoci così, la
discussione è aperta all'interno. Io ho deciso ormai, gli altri lo
faranno e sta' certo che nessuno cercherà di influenzarti,
valuteranno volta per volta il da farsi.
Ti ho risposto globalmente, se avessi dovuto rispondere alla tua lettera
punto per punto, sarei sceso sul tuo stesso piano di insulti, ma ho ancora
rispetto di me stesso.
Riflettete. Siete ancora in tempo, voi.
4
Nel carcere niente viene fatto. Non c'è un direttore che possa vantare di
avere "redento" un solo detenuto: la stragrande maggioranza di
essi è colpevole di recidiva. Questa è una delle cose che mi colpì
maggiormente quando entrai nel carcere: il completo abbandono in cui viene
lasciato il detenuto. Spesso mi sono chiesto cosa succederebbe se uno di
questi funzionari dovesse lavorare nel settore industriale e magari gli
fosse affidata un'officina e questa sfornasse il 100 per 100 di pezzi
difettosi; indubbiamente perderebbe il posto per incapacità. Ebbene, nel
carcere non si fa caso a questi insuccessi, solamente perché essi sono
premeditati. Stando così le cose quindi, solo il proletariato può
risolvere questa situazione perché è lui che paga in prima persona: di
qui la validità di tutto il lavoro politico nel carcere. Comunque non è
che tutti nel carcere siano disposti a sentire il discorso che si porta
avanti; a molti la società, così come è formata, va benone, per esempio
i lenoni, certa malavita organizzata in racket; quindi anche nel nostro
interno c'è una linea di demarcazione che generalmente viene tracciata
lasciando da una parte i requisitori cioè i ladri e i rapinatori e
dall'altra gli sfruttatori della prostituzione, i truffatori, e è coi
primi che noi si agisce e si parla.
Il lavoro è diverso a seconda dei posti in cui si è rinchiusi. In un
grosso carcere giudiziario, tipo Le Nuove o San Vittore, cè un lavoro
più rivendicativo da fare. I motivi sono diversi. Ci sono più giovani,
cè più caos, più contatto con lesterno, dato il continuo via vai
dei detenuti, poi cè la presenza costante degli avvocati, anche dei
magistrati, e la stessa città da cui non ci si sente sradicati come
succede qui nei penali. Inoltre nei giudiziari delle grandi città entrano
continuamente le avanguardie rivoluzionarie, che a volte con la sola
presenza creano un ambiente più politicizzato e sono quindi di grande
aiuto ai compagni interni che da tempo lavorano. Poi si lavora con gente
che in gran parte esce subito, magari dopo pochi mesi e psicologicamente
anche questa è una spinta.
Nei penali invece tutto è più tranquillo, più sonnolento: manca pure
quellansia per il processo, nemmeno se ne discute più e, dato che la
maggior parte ha alle spalle condanne pesanti, in gran parte cercano il
posticino di lavoro più comodo, che spesso può anche diventare fonte di
ricatto da parte della direzione. Qui, in condizioni diverse da quelle dei
giudiziari, il compito del compagno cambia: non si lavora più sulla
massa, gran parte della quale per i lunghi anni passati in carcere è
amorfa, ma si lavora sui singoli detenuti, in genere si scelgono compagni
che hanno inclinazioni al dibattito, che hanno pure determinate
caratteristiche tecniche notevoli. In genere è bene conquistare il
personaggio perché questo ha attorno a sé della gente, è
circondato di simpatia allinterno e si arriva attraverso lui con più
facilità alla costruzione di un gruppo. In passato il lavoro è stato più
facile fino a che le direzioni non si sono rese conto di ciò che si stava
creando. I primi tempi i nostri gruppi erano guardati con ironia e
sufficienza, oggi le cose sono diverse, sono cambiate. Dopo alcune
iniziative di denuncia compiute dalle nostre avanguardie attraverso i
giornali ci guardano con più diffidenza e la repressione è già
cominciata.
I primi a farne le spese sono stati naturalmente i giornali, i giornali
dei gruppi extraparlamentari; ormai in parecchi penali è stato proibito
l'ingresso della stampa rivoluzionaria, di quest'arma formidabile
di formazione e d'informazione e con essa anche i libri che prima
entravano con relativa facilità. Ma il mezzo più usuale che hanno
adottato è quello di spostare continuamente i compagni più attivi,
quelli più preparati. Cè gente che in questi ultimi tempi è stata
trasferita 4-5 volte nel giro di pochi mesi da un carcere
allaltro, anche di più, mi dicono. Praticamente non lasciano il
tempo di abituarsi a un posto, non so, di cominciare a stabilire i
contatti con i compagni interni ed esterni, che già è l'ora di
ripartire altrove e a lungo andare questi viaggi diventano pesanti
e stancano i compagni. Ogni trasferimento comporta nuovi problemi
e sono poi sempre i carceri peggiori e quelli più lontani che ci
toccano. In altri posti le direzioni mettono in moto la
provocazione per dividerci e isolarci dalla massa. Generalmente ci
mettono contro i locali, che logicamente hanno tutto linteresse a
non essere trasferiti lontano dalle famiglie e spesso si
assoggettano a uningiustizia pur di evitare il trasferimento. Per
esempio il maresciallo Forte di Augusta un giorno ha radunato il
gruppo dei detenuti più vivaci, più ribelli e ha detto loro: Su
300 detenuti, guardate che 250 sono con me, oltre alle guardie,
quindi se volete la guerra io ve li scaglio contro tutti. Vedete,
per la direzione è sufficiente ridurre lorario dei colloqui e
togliere alcune piccole agevolazioni perché una parte dei detenuti
si metta contro di noi. È quello che succede qui a Lecce negli
ultimi tempi. Vengono presi individualmente e magari diffidati dal
passeggiare con noi o dal parlarci, in breve si cerca di
emarginarci. In questo carcere si è arrivati a far circolare voci
calunniose su un nostro compagno proprio per colpirlo nella sua dignità
e metterlo in condizione di non fare più niente, tanto che è stato
costretto a chiedere lui stesso di essere trasferito. Poi esiste
unaltra arma che viene spesso adoperata, quella di frenare la
corrispondenza, di annullarla fra carcere e carcere, coi compagni
esterni, quindi tutto il lavoro subisce un rallentamento, una
sosta e bisogna allora ricorrere a sostanziali modifiche
espressive, proprio per evitare che sia cestinata. Pensate poi che
quaggiù sono i preti a censurare le lettere. Col tempo prevedo che
questo stato di cose potrà peggiorare e non sappiamo ancora quali
sviluppi possa avere. Comunque abbiamo messo in moto una macchina
che non sarà più possibile fermare. Ormai in quasi tutte le
carceri possiamo contare su piccoli gruppi che operano e quindi
fra poco anche la tecnica dei trasferimenti improvvisi non sarà più
valida e per ora noi che la subiamo ladoperiamo per incontrare nuovi
compagni, per scambiarci le opinioni e le esperienze.
Di gran lunga più difficile il lavoro politico nelle carceri
del sud, dove lassenza di una tradizione operaia si riflette pure
allinterno del carcere, ma più grave è la psicosi del fascismo. Al
nord, anche il più qualunquista e meno impegnato quando sente
parlare di fascismo arriccia il naso, qui invece è diventato il
pensiero delirante, specie fra le guardie di custodia; e anche tra
qualche detenuto, ma questi ultimi è più facile farli tacere! Un
sottufficiale delle guardie di custodia, proprio qui a Lecce,
tempo fa ha minacciato: Se il 7 maggio vinciamo, vi facciamo un
culo così a voi comunisti! Chi l'ha sentito mi ha assicurato che
era convinto di ciò che diceva. Malgrado tutte le difficoltà molti
di noi hanno preso coscienza e abbiamo capito che ognuno di noi da
solo non è niente, che noi tutti non siamo pazzi, o tarati o
anormali, siamo solo dei ribelli che abbiamo perduto a volte la strada,
sbagliato strada, ma in quanto sfruttati e oppressi. Noi siamo il
prodotto inevitabile di questo tipo di società. Non si tratta di
eliminare noi o il reato individuale: è impossibile; si tratta
invece di cambiare le condizioni sociali che determinano questo
stato di cose per cui tutti noi dobbiamo unirci a tutti gli
oppressi e agli sfruttati per creare un mondo migliore senza
badare se la nostra sorte personale ci permetterà poi di godere i
frutti del nostro lavoro. Questo è possibile anche nel carcere,
dove cè tanta gente psicologicamente e moralmente repressa, regredita,
a causa delle condizioni di vita precedenti e successive
allarresto.
Fonte: Sante Notarnicola, L'evasione impossibile, Odradek Edizioni
1997 [I edizione Feltrinelli editore, 1972].