Introduzione
In questo saggio discuterò il ruolo dell’abolizione e delle riforme
nella rivoluzione. Discuterò anche i problemi connessi alle storie
di successo e al sensazionalismo come costruzioni narrative che indeboliscono
e inibiscono la rivoluzione. Partendo da questi due temi affronterò
l’importanza di destrutturare l’idea di criminale e come ciò
contribuisca al modo in cui si costruisca una vita al di fuori dello stato.
Infine nell’epilogo affronterò i problemi legati al linguaggio
con cui mi scontro come studente, ma anche semplicemente come persona che
prova a farsi un’idea concreta riguardo ciò di cui si parla quando
si fa riferimento all’incarcerazione e ai suoi legami con la questione
razziale.
Il ruolo dell’abolizione e delle riforme nella rivoluzione
Le riforme tendono a migliorare i servizi e introdurre una legislazione che
rafforzi lo stato e con buona probabilità accresca il numero di persone
che credono in esso. Quando uno storico e un politologo come Matthew J. Mancini
e Marc Mauer nei loro rispettivi lavori One Dies, Get Another (Uno
muore, avanti un altro) e Race to Incarcerate (Razza da incarcerare,
ma anche Corsa a incarcerare) fanno riferimento a prescrizioni riformiste
nei confronti del lavoro coatto*
(o della sua abolizione) e dell’espansione carceraria, risulta che il
loro convincimento è che le riforme, e solo le riforme, possano realizzare
il cambiamento necessario. Ma le prescrizioni per le riforme non prendono
in considerazione che lo stato è fondato sul razzismo e respingono,
attraverso politiche e aggiustamenti strutturali, sistemi alternativi che
potrebbero essere anch’essi validi. Io penso invece che sia possibile
analizzare approfonditamente l’azione limitata svolta dalla riforme
e dall’abolizione quando esse siano esaminate non come prescrizioni
uniche e definitive, ma come tattiche all’interno di un più ampio
obiettivo rivoluzionario. Discuterò tali limiti delle riforme e dell’abolizione
e poi il loro ruolo potenziale all’interno della rivoluzione.
Mancini e Mauer prescrivono il cambiamento attraverso quelle che per loro
sono semplici implicazioni delle riforme, negando nel frattempo la necessità
di uno spazio necessario a smantellare la fondazione razzista dello stato.
Conseguentemente prescrivono il suo rinforzamento più di qualsiasi
altra cosa. Anche se in maniera limitata le riforme possono trovare spazio
all’interno di un più ampio obiettivo rivoluzionario come esemplificato
dall’attuale campagna del Black Radical Congress (Congresso Nero Radicale)
presentata nei giorni 9-11 marzo 2001 alla conferenza intitolata Critical
Resistance East: Beyond the Prison Industrial Complex (Resistenza Critica
Orientale: Oltre il Complesso Industriale Carcerario).
In One Dies, Get Another (Uno muore, avanti un altro) Mancini traccia
la storia e l’abolizione del lavoro coatto che coinvolgeva lo stato
e le compagnie private negli Stati uniti meridionali dopo la schiavitù
e prima del sistema carcerario come lo conosciamo oggi. Egli sostiene che
l’incentivo economico è ciò che in fin dei conti ha spinto
coloro che detengono il potere statale ad abolire il lavoro coatto e che questo
è il meccanismo attraverso cui avvengono i cambiamenti. Mentre le sue
argomentazioni evidenziano come lo stato capitalista esista solo per il profitto,
Mancini solo indirettamente critica l’umanitarismo dopo l’abolizione
del lavoro coatto concludendo che “l’intenzionalità umana
resta il più fallace ed elusivo tra gli argomenti storici”. Mancini
non mette mai in discussione la democrazia quale valore di fondo attualmente
praticato negli USA e solamente in un interrogativo finale allude alla discrepanza
tra retorica e azione. Egli non mette mai in discussione lo status quo e così
facendo confina la propria attenzione sul carcere come qualcosa che dovrebbe
funzionare esattamente come se esso fosse concepito per essere giusto.
La discussione di Marc Mauer sulla razza come indicato dal titolo del suo
lavoro Race to Incarcerate (Razza da incarcerare, ma anche Corsa
a incarcerare) si limita a dimostrare statisticamente che le persone povere
e le “minoranze” sono maggiormente a rischio qualora il sistema
di giustizia penale sia “disumano”. Analogamente a Mancini egli
mostra anche che le riforme sarebbero economicamente vantaggiose. Di nuovo
l’azione riformatrice verso un sistema più umano prescrive che
la razza non costituisca il punto centrale della crisi; infatti l’analisi
del problema della razza da parte di Mauer si limita a convalidare il fatto
che le persone di colore sono sproporzionalmente colpite dal sistema come
se non si trattasse di un fenomeno intenzionalmente previsto da questo sistema.
In altri casi tuttavia le idee di riforma e abolizione non sono del tutto
inutili, dal momento che possono svolgere un ruolo costruttivo, ovviamente
limitato, all’interno di un’idea più ampia di rivoluzione.
Un esempio di ciò potrebbe essere la campagna a molte sfaccettature
del Black Radical Congress (BRC) (Congresso Nero Radicale). Manning Marable
afferma, discutendo dell’approccio del BRC, che “non ci possono
essere compromessi con capitalismo… razzismo, patriarcato, omofobia
e imperialismo”. Con tale assunzione di fondo il BRC sta attualmente
organizzando cinque campagne: (1) una petizione per rendere la brutalità
poliziesca e i maltrattamenti un crimine federale (2) rafforzare le organizzazioni
sindacali, specialmente quelle che assicurano lavoro per gente di colore (3)
boicottare la Sodexo-Mariott, uno dei maggiori investitori nel complesso industriale
carcerario (4) opporsi alla privatizzazione dell’educazione pubblica
e (5) porre attenzione sulle donne e su come sempre più siano esse
vittime della violenza di stato. L’attuale campagna va da boicottaggi
concreti a petizioni a uno sforzo legislativo che contrasti le tendenze sempre
più diffuse di violenza di stato contro le donne e di privatizzazione
del sistema scolastico pubblico. Le campagne tendono a completarsi l’un
l’altra: la Sodexo-Mariott, per esempio, fornisce i servizi alimentari
per molte scuole pubbliche contribuendo alla loro privatizzazione. Questa
lista non delinea l’obiettivo finale del BRC, ma esprime un’attenzione
più immediata che comprende gli sforzi in termini di riforme.
Quando uno degli studenti della “Gioventù spartachista”
al seminario del BRC ha esclamato “non dovremmo confrontarci con il
sistema… non c’è alcuna giustizia nel sistema capitalista”,
Risma Vesely, la coordinatrice, dopo averli fatti terminare per lasciare intervenire
altre persone, ha risposto a questi signori “la questione è assai
più profonda e tutti noi lo sappiamo”. Il commento della Vesely
indica che la campagna è consapevole dei problemi e dei limiti delle
riforme. Prendere in esame queste campagne isolandole dal più ampio
obiettivo rivoluzionario getta discredito sul lavoro svolto dal BRC. In alcuni
casi se gli attivisti si disimpegnano da talune tattiche riformatrici lo stato
non esiterà ad assumere più spazio nel quale reprimere e controllare.
Per esempio un’opportunità per i lavoratori neri come il sindacato
Charlestown 5 in Carolina del sud rende possibile che una massa di persone
si organizzino attorno a temi specifici legati al loro lavoro e su questo
terreno avanzino richieste specifiche. Pur essendo un sindacato un’organizzazione
con un orizzonte piuttosto ristretto, senza i sindacati e la loro continua
battaglia il diritto a organizzarsi non esisterebbe affatto. L’impegno
della BRC sui sindacati rimane essenziale nonostante quel tipo di riforma
sia limitante rispetto a cambiamenti radicali.
Similmente la campagna della BRC per rendere la brutalità poliziesca
e i maltrattamenti un reato federale non otterrà mai la fine del razzismo.
Tuttavia garantirebbe un peso costituzionale che non c’è mai
stato in termini di politiche federali. Avendo coscienza che la legge è
un’istituzione impositiva utilizzata per mantenere il razzismo e che
quindi non esiste né una fondazione né un’applicazione
della legge in favore di coloro che sono al di fuori di qualsiasi status quo
da mantenere, si potrebbe lo stesso sostenere che l’esistenza di una
tale legge tratterrebbe lo stato – né diffusamente né
in un unico atto - dal precipitare nella repressione assoluta in cui potrebbe
diventare ancor meno possibile l’organizzazione, la comunicazione, la
sopravvivenza delle persone, specialmente quelle di colore. Perciò
sforzi riformistici scelti tatticamente possono servire come strumenti per
mantenere almeno alcuni paletti in cui le persone abbiano il diritto di organizzarsi
per avere maggior peso e criticare (a livelli molto limitati) lo stato. Consideriamo
anche che la costruzione di una rivoluzione crea un maggior “bisogno”
di rinforzare in maniera crescente modelli repressivi brutali e violenti.
Forse una legge federale contro la brutalità poliziesca non funzionerebbe
come strumento utilizzabile dalle comunità per difendersi, ma funzionerebbe
(sia che passi sia che non sia approvata) come dimostrazione simbolica della
falsa “democrazia” negli Stati Uniti.
Riforme come questa – invocata da un gruppo chiamato Congresso Nero
Radicale che si schiera contro il razzismo, l’imperialismo, l’omofobia
o il capitalismo - rimangono limitate nel loro ruolo rivoluzionario, non si
configurano come forze guida centrali in una rivoluzione, ma come una forza
che mette al riparo dalla repressione assoluta e che idealmente potrebbe facilitare
la rivoluzione. In questo senso la BRC punta alla rivoluzione visto che l’ideale
di “nessuna tolleranza” richiede uno smantellamento dello stato.
La logica di una prescrizione riformista isolata dalla rivoluzione non concede
spazio alla messa in discussione dello stato. Tuttavia quando una prescrizione
riformista è costruita quale contributo a un movimento più grande
la rivoluzione diventa qualcosa che può includere l’atto di riforma
fintanto che le persone in azione rimangano autocritiche rispetto alle loro
scelte e priorità.
Anche l’abolizione trova un posto nella rivoluzione dal momento che
l’abolizione del carcere è necessaria per poter creare un nuovo
stato, reclamare comunità, cittadinanza e famiglia. Anche l’abolizione
ha i suoi limiti. La domanda che sorge da una soluzione abolizionista diventa:
bene, cosa ne facciamo allora dei criminali? Dove vanno? Dopo l’abolizione
della schiavitù negli USA i neri erano privati in altre maniere dei
loro diritti – gli schiavi liberati non potevano possedere o lavorare
la loro terra, era loro negato il diritto di voto e fu messa in campo una
nuova forma coercitiva di lavoro, il lavoro coatto. Quando lo stato accetta
l’abolizionismo significa che ha trovato modi alternativi per privare
di diritti, rendendo l’abolizione e la falsa “liberazione”
logiche compatibili con il falso progresso dello stato. Dopo il lavoro coatto
lo stato e i suoi settori privati sono ricorsi alle colonie agricole e poi
al penitenziario. Se il carcere sarà abolito lo stato troverà
un'altra maniera per privare di diritti e far scomparire le persone di colore,
quelle povere, le donne, i gay, le lesbiche, i nativi americani e i leader
politici a meno che le ingiustizie sistematiche o strutturali non possano
essere abolite. Abolire un’istituzione come il carcere non significa
che una realtà più potente come il razzismo sia abolita insieme
ad esso. Il problema che prendiamo in esame come studenti e attivisti ha una
finalità che va oltre il complesso industriale carcerario, come
era intitolata la conferenza, poiché anche senza il carcere il corpo
criminale continua a esistere e la questione rimane cosa farne. Inoltre la
costruzione del corpo criminale, e del suo opposto corpo normato, esiste anche
al di fuori del carcere come un punto di riferimento centrale per l’attivismo
e la rivoluzione. L’abolizione del carcere non prende in considerazione
la questione della decriminalizzazione.
Assumendo la necessità della distruzione di un più grande e
fondamentale contesto di razzismo discuterò il ruolo del sensazionalismo
nelle storie di “successo”, le politiche di ingiusta detenzione
nel movimento a favore dei prigionieri politici e la relazione detenuto/rivoluzionario.
Discuterò anche come il sensazionalismo in molte forme inibisce il
pensiero rivoluzionario e le alternative allo stato.
Il ruolo del sensazionalismo
La costruzione di una storia di successo rappresenta il problema più
significativo riguardo il sensazionalismo nella politica e nella società
– è utilizzata per provare che un sistema è praticabile
anche se il personaggio di successo ha sofferto in quel sistema. In questo
senso una storia di successo verrà sempre raccontata nei termini dello
stato e quindi in definitiva si tratta di una storia falsa. Il riferimento
più diffuso alla falsa storia di successo nella politica americana
è la frase “tirarsi su con le proprie forze” che assume
che se una persona si impegna abbastanza duramente (finanche al punto di soffrire)
allora il sistema, che è senza incrinature, funzionerà anche
per questa persona. La storia di successo è falsa per molte ragioni.
La maggior parte delle persone che si trovano in “fondo” sono
così immerse nella povertà o immobilizzate dal razzismo che
una loro mobilità sociale è impossibile. L’altra falsità
riguardo il successo pone il dubbio se “farlo” o non farlo nel
sogno americano sia veramente ciò che gli elementi inassimilabili vogliono
impegnarsi ad apprendere.
Inoltre la storia di successo non si applica neanche per quelle persone di
colore che “lo fanno”. Nel film Snitch (Informatore)
una donna afroamericana che si fa chiamare “Sally l’ordinaria”
utilizza i risparmi di una vita derivanti dall’insegnamento per comprarsi
una casa insieme al marito. A causa del loro successo economico entrambi vengono
successivamente presi di mira dalla polizia locale e minacciati di essere
incarcerati per spaccio di droga. Lo stato tradisce anche “Sally l’ordinaria”
nonostante “lo avesse fatto” per via del suo essere una persona
di colore. Con riferimento alle persone native colonizzate negli USA Luana
Ross commenta “è stato provato che non c’è accesso
per alcuni sottogruppi alla struttura delle opportunità sociali. Inoltre
ci si deve chiedere se le persone indigene, generalmente coinvolte in sforzi
di decolonizzazione, vogliano assimilarsi”. Continuare a raccontare
storie di successo è prescrivere l’assimilazione alla definizione
dello stato di normato e deviante che per la maggior parte dei gruppi di persone
negli USA potrebbe significare l’estinzione.
Un’altra questione legata al sensazionalismo in tema di incarcerazione
emerge nell’enfasi ricorrente sull’ingiusta detenzione nelle campagne
individuali per il rilascio di prigionieri politici e di guerra. La campagna
per il rilascio di Eddie Conway è stata ampiamente discussa durante
la conferenza e ho avuto la possibilità di vedere sua moglie Janet
Cyril intervenire più volte. Ho un immenso rispetto sia per Eddie Conway
sia per Janet Cyril e per la vita che conducono come attivisti imprigionati
e educatori. Ho lasciato la conferenza provando un senso di urgenza riguardo
il rilascio di tutti i prigionieri. Fermo restando questo mi piacerebbe discutere
il problema legato al sollevare un’attenzione straordinaria su prigionieri
innocenti o ingiustamente detenuti e poi vorrei discutere il problema sul
lavoro dedicato ai prigionieri politici.
In un certo senso selezionare individualità e organizzarsi attorno
al loro rilascio individuale è ciò che gli organizzatori devono
fare per coloro che provano a far uscire dal carcere le persone amate e i
membri delle loro comunità. Dal momento che ci si trova davanti alla
legge si ha diritto all’habeas corpus o al rilascio dal carcere e questo
in buon grado influenza la strategia di organizzazione attorno a questi casi.
Utilizzare la legge per il rilascio di individualità è una tattica
limitata, ma è anche un modo per convogliare in maniera specifica e
mirata le energie verso il rilascio dei leader politici uno a uno.
Un opuscolo sulla storia di Eddie Conway come uomo nero detenuto si concentra
sul COINTELPRO dell’FBI e la mancanza di un giusto processo nei suoi
confronti. Nel concentrarsi su questi dettagli il lettore è messo in
guardia sulla discrepanza tra la legge e la sua applicazione. Dimostrare questa
discrepanza a una corte garantirà a Eddie Conway un nuovo processo
e il rilascio dal carcere. Questa informazione enfatizza inoltre agli occhi
del lettore che sono gli “innocenti” coloro che vengono incarcerati,
mettendo in discussione la costruzione della figura criminale. L’intenzione
esplicita della campagna per Eddie Conway è di far uscire dal carcere
Eddie Conway il più presto possibile, ma la costruzione della sua innocenza
ha due conseguenze. Primo, utilizzando la definizione dello stato di detenuto
“innocente” vi è un’implicita accettazione della
costruzione di un detenuto “colpevole” che potrebbe essere stato
“giustamente” incarcerato e punito. Secondo, si stabilisce una
non intenzionale gerarchia di leadership tra i detenuti e i prigionieri politici
e di guerra. Coloro che sono stati incarcerati per il loro attivismo politico
rappresentano un’urgenza maggiore per quanto riguarda il loro rilascio
e il loro ritorno in società perché sono ritenuti più
meritevoli. Coloro che lottano per il rilascio dei prigionieri politici sono
generalmente i membri delle loro famiglie e i loro compagni. Tuttavia l’attenzione
sui prigionieri politici indebolisce il detenuto che sia senza una comunità
che lo abbia apprezzato e si sia organizzata attorno alle sue convinzioni
politiche. Configura inoltre l’altro tipo di detenuto come apolitico
e quindi come se non fosse una priorità. In questo caso il sensazionalismo
nei confronti della persona ingiustamente detenuta e dei prigionieri politici
crea una difficile dinamica che deve essere gestita quando si pensi a come
decostruire la figura del criminale fino a far cessare la costruzione dei
corpi normato e deviante. La priorità attribuita a queste persone indebolisce
una più ampia urgenza di decriminalizzare le persone di colore, le
donne, le persone lgbt (lesbian, gay, bisexual, transgender; lesbiche, gay,
bisessuali, trangender) e le persone povere. Dobbiamo trovare un’alternativa
per smascherare l’ingiustizia senza ricorrere al sensazionalismo che
racconti una storia che inneschi il cambiamento politico: le storie di successo
incoraggiano l’assimilazione e la validazione di un sistema basato sul
razzismo e neocolonialismo e creano un clima di sensazionalismo attorno ai
prigionieri politici che inibisce la decostruzione della figura criminale.
Una relazione alla conferenza intitolata “Da fuorilegge a rivoluzionari”
ha introdotto un’ulteriore punto di vista nella discussione riguardo
il sensazionalismo. Molti precedenti membri del Black Panther Party (Partito
della Pantera Nera) (compresa Janet Cyril) hanno raccontato storie delle loro
vicende come leader politici che comprendevano la loro trasformazione da fuorilegge
a rivoluzionari. La relazione tra queste idee, queste identità e ciò
che è emerso nel corso del seminario ha sollevato domande che vanno
oltre la separazione semantica dei termini fuorilegge e rivoluzionario.
Il coordinatore del seminario ha spiegato come i relatori e le loro storie
non fossero lì per intrattenere il pubblico e che lo scopo del seminario
fosse quello di comunicare con le giovani generazioni e offrire un aiuto a
coloro che sono abbastanza giovani da partecipare alle lotte. Infine il seminario
intendeva mostrare come la maggior parte dei membri del Black Panther Party
(Partito della pantera nera) e del Black Liberation Army (Esercito di liberazione
nera) siano finiti in carcere prima di identificarsi come rivoluzionari. I
relatori che comprendevano Willie Sundiata Tate, David Johnson, Ronald Freeman,
Thomas Blood McCreary, George Che Nieves hanno discusso con ampio dettaglio
il processo di politicizzazione e scelta rivoluzionaria mentre erano in carcere
da giovani. Di come sono stati capaci di educare se stessi leggendo e frequentando
altri uomini neri che facevano lo stesso e come hanno combattuto le guardie
razziste e come alcuni detenuti, i sei di San Quentin – per esempio
-, diventarono rivoluzionari laddove erano in precedenza fuorilegge.
Vi sono importanti implicazioni nell’idea che molti rivoluzionari siano
stati in precedenza fuorilegge, detenuti o no. Primo, essere rigettati dallo
stato come passo importante nel diventare rivoluzionari fa riferimento all’idea
che i fuorilegge, di cui solo alcuni sono incarcerati, sono semplicemente
persone che sono state giudicate inassimilabili o non riformabili e di rado
sono persone violente. In questo modo il rivoluzionario è un criminale
e il criminale è qualcuno che volutamente o non volutamente è
diventato incompatibile con lo stato. La distinzione tra fuorilegge e rivoluzionario
(in questo esempio) appare simile alla distinzione tra prigionieri politici
e prigionieri non politici: il rivoluzionario si autodefinisce nei termini
della propria consapevolezza “politica” e delle scelte articolate
di ricoprire un ruolo al suo interno, mentre la posizione del fuorilegge è
sì di resistenza, ma non articolata, forse non scelta, nei confronti
dello stato che lo/a rende fuorilegge. Una domanda interessante cui non sono
ancora in grado di rispondere: vi è differenza nella resistenza mostrata
da un fuorilegge e quella mostrata da un rivoluzionario?
Guardare a questa idea di progressione da fuorilegge a rivoluzionario solleva
un’importante domanda dal momento che quelli che sono stati giovani
fuorilegge sono adesso vecchi rivoluzionari che parlano a noi giovani. Nel
corso del seminario molti dei relatori hanno fatto riferimento ai “fuorilegge”
di oggi. L’attenzione è stata meno su queste persone come rivoluzionari,
come se fossero venute alla conferenza per essere riverite o per fornire ispirazione,
ma piuttosto per creare un’opportunità di porre attenzione su
quando erano giovani e sul fatto che questi giovani ancora esistono (incarcerati
o no, presenti o no in quell’aula). I giovani considerati più
pericolosi, più devianti, meno importanti per lo stato, che si considerino
o meno rivoluzionari o lo facciano in futuro, potrebbero e dovrebbero già
essere coloro che danno vita alla rivoluzione. Inoltre non sono persone selezionate,
non c’è bisogno che siano leader straordinari, ma si sono già
posti al di fuori dello stato.
Cosa c’entra questo con il sensazionalismo? Significa che il potere,
il rispetto, il senso di valore conferito ai rivoluzionari non dovrebbe essere
limitato solo a coloro i cui nomi sono conosciuti dal corpo militante. Altrimenti,
così facendo, riconoscendo più potere al rivoluzionario, il
detenuto viene indebolito dal momento che la sua transizione da detenuto a
rivoluzionario potrebbe essere confusa come la necessità di intraprendere
un percorso di successo. L’idea di detenuto non si dissolve, è
semplicemente lasciata indietro. Inoltre, la storia di successo non si adatta
a un gruppo di giovani (a me) sconosciuti la cui identità debba esistere
al di fuori dello stato. Ciò nei fatti non è un fallimento,
ma una conferma della tesi secondo cui la rivoluzione e la documentazione
della rivoluzione vanno oltre l’idea di successo, oltre i singoli individui
e il linguaggio utilizzato per raccontare queste storie.
Conclusione
Nel processo di decostruzione della figura criminale (che ho solo iniziato
a tracciare) e di rifiuto di metodi sensazionalistici, comincio a pensare
a quanto ci vorrà a costruire una convivenza solidale e a creare un’alternativa
allo stato? Dal momento che il corpo normato/deviante viene meno e cessa la
competizione tra individui emerge la complessa questione della collettività.
Il collettivo costituirà un elemento fondamentale per una vita al di
fuori dallo stato.
In questo processo ancora continuo a rifarmi ai versi di una canzone di Sweet
Honey in the Rock (Dolce miele nella roccia):
Would you harbor a Christian a Muslim, a Jew, a heretic, convict or spy? Would you harbor a runaway woman or child, a poet, a prophet, a king? Would you harbor an exile, or a refugee, a person living with AIDS?…a fugitive or a slave? Would you harbor a Haitian, Korean or Czech, a lesbian or a gay? **
La domanda non è cosa fare con i criminali, ma come accoglierli, esprimere
solidarietà nei loro confronti, perché così facendo noi
accoglieremo noi stessi e saremo costretti a trovare una riconciliazione.
Dobbiamo imparare a difendere noi stessi, renderci sicuri, ma dobbiamo anche
chiederci cosa occorre veramente per esserlo visto che la colonia penale,
lo stato, ha manipolato ciò che molti di noi sentono e ciò di
cui abbiamo bisogno per essere sicuri. Ciò è diverso per me
donna bianca alternativa proveniente da una classe privilegiata rispetto a
una persona di colore, una povera, una che vive in un diverso quartiere come
frutto di diversi livelli di sorveglianza e a seconda di come ciascuno di
noi abbia interiorizzato la propria stessa oppressione.
Il sentimento di accoglienza che permette alle persone di condividere uno
spazio comune, uno spazio considerato la propria casa, si lega profondamente
all’idea di sicurezza. L’idea di criminale non può esistere
in un luogo di convivenza e senso condiviso di sé perché il
criminale esiste per giustificare la censura e la violenza contro coloro che
non si conformano a una norma. Una volta che si è in grado di accogliere
coloro che sono considerati minacciosi, pericolosi, sporchi e da buttar via,
le persone che “dovrebbero” essere incarcerate non possono più
essere considerate criminali, esse al contrario sono membri della comunità.
Il modo in cui affrontiamo la violenza e i conflitti tra membri di una comunità
è diverso dal modo in cui affrontiamo la violenza e i conflitti tra
criminali e vittime, inassimilabili e assimilabili, anche se sono membri della
nostra famiglia o della comunità. Nel costruirci una vita al di fuori
dello stato dobbiamo affrontare questioni sulla compassione, la riconciliazione
e modelli alternativi di auto-difesa. L’idea di accogliere un criminale
non ha senso all’interno dello stato e da questo punto di vista la questione
riserva un ruolo centrale al figurare come porre termine ai modi in cui le
persone di colore sono prima trasformate in soggetti devianti e poi uccise.
Epilogo: una questione di linguaggio
La prima cosa che ho digitato sullo schermo quando ho iniziato questo scritto
erano alcune indicazioni a me stessa: non aver paura di scrivere con il
tuo linguaggio. Nel redigere questo scritto devo sforzarmi – per
aver fiducia nelle mie idee, per non aver paura delle loro conseguenze sui
miei stessi sentimenti e su quelli di chi legge quanto vado a scrivere, per
dar forma alle mie idee in maniera che esse abbiano un senso per me anziché
chiedermi cosa sarà accettabile sulla base degli standard dei miei
colleghi studenti e del mio professore (quali sono poi questi standard?).
Parlando con altri studenti nella nostra classe penso che molta altra gente
la pensi così.
Come studente, forse ancor prima come persona, questo mio conflitto con il
linguaggio è diventato molto importante man mano che sentivo di essere
coinvolta nel provare a vedere come vadano veramente le cose riguardo la violenza
di stato, il razzismo, il carcere. Raramente sono d’accordo con le mie
idee per più di un paio di settimane; ho timore a pensare a questa
cosa e a provare a distinguere le idee frutto del mio stesso pensiero da quelle
provenienti dallo stato che ho interiorizzato nella mente e nel corpo. Vi
è un certo grado di ineffabilità nelle cose cui penso, un bisogno
di parole che non possono essere comprese nel linguaggio classificatorio e
razionale del pensiero della tradizione occidentale.
Anche adesso mentre sto scrivendo ritorno sui paragrafi di cui non sono più
tanto sicura. Ciò rappresenta un problema di fronte all’urgenza
dei temi trattati, al fatto che ci sono persone che soffrono, che nessuno
di noi è sicuro, che abbiamo così tante cose cui pensare da
fare per noi stessi. La mia incertezza fa venir meno quel potere che invece
è presente in chi è sicuro delle proprie idee. Mi sento ridicola
per il fatto che le mie opinioni sono transitorie e incerte mentre contemporaneamente
avverto l’urgenza dovuta al fatto di sentire (naturalmente non completamente)
di iniziare a capire come veramente vadano le cose.
In una certa misura ho paura a pensare queste cose e condividere i miei pensieri
con altri. Non riesco a credere di aver paura a rendere le mie idee disponibili
ad altri quando non sono mi sono mai trovata di fronte a minacce fisiche per
i miei pensieri. In effetti guardando a questo sistema repressivo ci sono
così tanti elementi per sentirmi sicura e tuttavia mi intimorisco di
fronte al breve e relativamente automatico passaggio per arrivare a mettere
in discussione lo stato o pensare per me stessa o pensare fuori dalla mia
“scatola”. Immagino che questa paura interiorizzata operi realmente
per rendermi difficile (a me donna bianca alternativa) fare qualcosa di cui
non prevedo l’esito su chi mi ascolta, o coloro sotto controllo o quelli
che hanno diverse esperienze perché appartengono a un corpo razzializzato.
Ci è stato insegnato che è pericoloso pensare al di fuori di
questa non meglio definita scatola e lo sento sul mio corpo.
Non sosterrei che pensare per proprio conto sia di per se stesso rivoluzionario,
ma mi rendo conto che una volta che inizi a porti domande non puoi fermarti
e quando pensi per tuo conto pensi a cose che hanno un significato per te
e provengono da una posizione di amore e compassione. Ciò significa
che non si tratta più di pensieri puramente accademici, ma di pensieri
che conducono all’azione e nel mio caso a una crescente opposizione
allo stato e che potrebbero portare alla mia insicurezza fisica. Mi sembra
incredibile aver paura di rendere i miei pensieri disponibili ad altri quando
non mi sono mai trovata vicina a essere fisicamente minacciata per i miei
pensieri.
Sto anche provando a distinguere la mia voce interiore dalla voce dello stato.
Ho paura che una volta che avrò finito di scrivere mi renderò
conto di essermi concessa di pensare solo all’interno della scatola
di ciò che è accettabile, nei limiti che ho interiorizzato semplicemente
crescendo in una famiglia bianca, della borghesia medio-alta, non accademica,
limiti che a ventun’anni ancora non riesco a individuare in maniera
articolata. Temo di dar retta a una voce oppressiva, complice, non mia propria,
ma interiorizzata, cui inconsciamente presto ascolto. Ancora ho paura dei
pensieri intelligenti che posso avere come donna, giovane, bianca e alternativa.
Pensieri che forse possono avere un senso ed essere in grado di stabilire
legami utili a me o anche a qualcun altro. Forse arriverò a formulare
pensieri intelligenti che allarghino il divario con le idee di fondo in cui
sono così a lungo cresciuta da non poter più tornare a casa
e non sentirmi più un membro della mia famiglia. Ovviamente continuo
a scrivere, ma questi timori influenzano le mie idee.
Imparare a parlare con il proprio linguaggio e avere il diritto di formare
comunità sull’affinità e con persone di cui ciascuno si
può fidare è l’importante lavoro educativo che dobbiamo
svolgere e trovare coi nostri mezzi. La rivoluzione dipende da questo tipo
di educazione, quella che consente alle persone di costruirsi gli strumenti
per pensare per proprio conto, creare nuovi strumenti e i propri strumenti
per riflettere criticamente (la conscientización, secondo Paulo Freire).
L’educazione superiore non prepara necessariamente a ciò, ma
ce lo dobbiamo costruire con le nostre mani.
Nel corso di molte delle notti che ho trascorso mentre stavo scrivendo questo
documento ho fatto molti sogni senza parole in cui mi sentivo che stavo pensando
alle questioni sollevate nella nostra classe e a domande che mi pongo da sola.
In un diverso stato di veglia ci sono molte idee e concetti così astratti
da essere inaccessibili attraverso il linguaggio. Faccio riferimento ai miei
sogni non per esaltare le difficoltà legate ai temi dell’incarcerazione,
della repressione di stato, del razzismo, del capitalismo e dell’imperialismo.
Più che altro voglio evidenziare un elemento riguardo questi problemi
che forse è inafferrabile con il linguaggio che utilizzo adesso. Dal
momento che il pensiero accademico, specialmente quello scientifico, è
utilizzato per classificare ed esercitare il potere, non si può utilizzare
quella tradizione di pensiero cui allacciarsi senza riprodurre quell’esatto
potere e dominio. Per questo prendo in considerazione il pensiero astratto
che non sono in grado di esprimere in uno stato di veglia e credo nel potere
di utilizzare il proprio linguaggio nonostante l’enorme barriera che
ci separa da esso.
* Il lavoro coatto (convict leasing) era un sistema
adottato negli Stati uniti meridionali dopo la Guerra Civile attraverso cui
lo stato dava in affitto i detenuti (soprattutto neri) a compagnie private
(principalmente quelle che gestivano piantagioni e miniere) che in cambio
ripagavano lo stato con una parte dei profitti realizzati dal lavoro dei detenuti.
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** Accogliereste un cristiano, un musulmano, un ebreo, un
eretico, un detenuto o una spia? Accogliereste una donna in fuga o un bambino,
un poeta, un profeta, un re? Accogliereste un esiliato, un rifugiato una persona
che vive con l’AIDS?… un fuggiasco o uno schiavo? Accogliereste
un haitiano, un coreano o un ceco, una lesbica o un gay?
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