Un mondo senza prigioni
di Sergio Onesti

L'abolizione del carcere è un obiettivo per una società che si pretende civile. Ma allora come può la società difendersi da comportamenti criminali e devianti?
Per rispondere a questo interrogativo Sergio Onesti, avvocato di professione e anarchico di vocazione, analizza il sistema penale e l'attività del giudice per arrivare a formulare proposte già oggi attuabili per modificare l'attuale modello sanzionatorio e detenzione carceraria.

Questi sono gli interrogativi: le idee libertarie sono in grado di offrire una chiave interpretativa del modello sanzionatorio nella sua fase dell'esecuzione penale?
     Esistono soluzioni alternative o correttivi alle barbarie della pena? La detenzione carceraria è attualmente uno strumento punitivo irrinunciabile per gli autori di taluni reati? Molto sommariamente: quasi tutti i pensatori libertari si sono occupati di dare una risposta in fieri al problema della devianza e della trasgressione e ciò hanno fatto concependo in astratto un modello sociale idoneo, almeno teoricamente, a limitare le condotte devianti. Con riferimento alla necessità di un sistema penale, i più, ad eccezione in particolare di Pierre Joseph Proudhon, hanno concluso con la sostanziale rinunciabilità alla pretesa punitiva della società contro i rei a fronte di una terapia ideologica che ha assunto, a seconda degli autori, forme diverse: dal recupero (coinvolgimento del reo in un processo di rivoluzione) nel rinnovamento della società alla risocializzazione del deviante per mezzo del potere taumaturgico della comunità, all'isolamento del trasgressore unito alla sostanziale indifferenza della maggioranza (rispettivamente Michail Bakunin, Pétr Kropotkin e Max Stirner).
     Da questa prospettiva si è discostato il solo Proudhon, convinto che proprio una società di liberi e di uguali, ma fra loro unici e diversi, produce necessariamente conflitti traducibili anche in comportamenti "penalmente rilevanti".
     La soluzione suggerita dal pensatore francese è in sintesi la seguente: il problema della sanzione giuridica non va eluso né mediante il dettato di condotte uniformi e il conseguente controllo totalizzante della devianza né attraverso un'appiattente pratica di socializzazione educativa, ma attraverso il superiore progetto di un sistema di relazioni umane e sociali che garantiscano al contempo conflitto e rinnovamento da una parte, sicurezza e progresso dall'altra.
     Quanto affermato non significa affatto che il sistema penale di una società emancipatasi in una prospettiva libertaria dovrà ispirarsi ai principi che fondano l'attuale sistema penale, sempre avversato dal sistema libertario quale espressione emblematica del potere e manifestazione della natura repressiva e oppressiva dello stato. Ciò premesso, è doveroso avvertire il lettore che il mio approccio a questa problematica terrà conto essenzialmente del sistema penale italiano e avrà come riferimento teorico la lezione proudhoniana che individua nel sistema penale il necessario strumento non tanto di controllo sociale quanto di reazione controllabile alla trasgressione e di ricomposizione del conflitto insorto.

Il sistema penale
Prima di affrontare la problematica della pena nei suoi aspetti di concreta esecuzione, soffermiamoci a ricostruire l'iter che l'ha determinata.
     Nulla poena sine iudicio. Il noto broccardo sta a significare che nessuna sanzione può essere irrogata se non a seguito di un giudizio la cui celebrazione avviene nelle forme del processo. Per processo possiamo intendere quella rappresentazione di alto valore rituale carica di contenuti emotivi e passionali che ha per protagonista la stessa società o meglio quella che oggi definiremmo la comunità statalizzata.
     Attraverso lo strumento processuale, la società che si autorappresenta esperisce un'indagine conoscitivo-valutativa, compiendo un'analisi introspettiva di ricerca delle cause e di eventuale reperimento delle soluzioni ai conflitti insorti.
     Protagonista di questa prima fase processuale non è il reo (mero pretesto per la celebrazione del rito e vittima sacrificale), ma la complessa attività di cognizione e valutazione mirante a ricostruire le ragioni e i fatti di causa (processo di autorappresentazione).
     A tale atto di cognizione, e quale suo frutto, segue la decisione (sentenza) ovvero quell'atto di volizione che si realizza con l'accoglimento o il rigetto della pretesa punitiva.
     Atto di cognizione e atto di volizione stanno tra loro in un rapporto di consequenzialità logica, determinando (nell'eventualità dell'irrogazione di una sanzione) la formazione di un comando contenuto in sentenza. Tale comando realizza sul piano della mera volontà e della potenzialità i risultati dell'operazione di indagine conoscitivo-valutativa svoltasi durante il processo.
     Questo atto emanativo (sentenza di condanna), per non rimanere un'entità giuridica meramente enunciativa, deve essere attuato e cioè concretamente realizzato. Questo terzo momento del sistema penale ben potrebbe essere definito come un atto di obbedienza tanto per chi si sottomette al titolo (comando contenuto in sentenza esecutiva) quanto per chi deve curarne l'esecuzione.
     In sostanza l'atto di volizione raggiunge lo scopo per il quale è emanato solo con l'atto di esecuzione, unico momento in cui la realtà viene modificata nel senso, più o meno voluto, dalla decisione del giudice.

Un'utile digressione
Il giureconsulto francese Jacopo Cuiacio così definiva l'esecuzione penale: "merum imperium est coercendorum facinorum potestas, lege data, ac definita nominatim", ossia un'attività penale demandata dalla legge a poteri distinti dall'autorità giudiziaria. Ottemperare all'ordine determina la formazione di un potere (potestas) investito di uno ius gladii, altrove chiamato ius ferri, ovvero l'uso legittimo della forza, manifestazione di merum imperium. Ancora Cuiacio: "merum imperium definitur gladii potestas simpliciter". L'esecuzione è semplicemente imperium allo stato puro "abstractum a iurisdictione" che non ha più niente a che fare con l'attività giurisdizionale anche se ciò non esclude che (con le parole di un contemporaneo di Cuiacio, anch'egli francese e membro dell'Accademia dei Culti, Ugo Donello) "istud imperium ( ... ) sit coniunctum" a dei meccanismi cognitivi, demandati al giudice in executivis, organo chiamato a decidere dalle questioni sul titolo a interventi sul giudicato.
     Tale eccezione conferma la regola che vuole l'esecuzione penale ancorata a modelli tassativi che non ammettono cognizione, valutazione e discrezione consentendo solo, con le parole di Franco Cordero, la "nuda potenza normativa intesa al castigo" (ancora Donello nella lettura di Oswald Hilliger: "gladio enim non fit cognitio, sed executio"). L'esecuzione è atto di forza e la forza è strumento non di conoscenza, ma di esecuzione. L'atto di obbedienza al comando contenuto nella sentenza assume così le forme dell'atto di sottomissione allo stato, unico legittimato a dare concreta esecuzione alla pena irrogata.

Intangibilità del giudicato
L'atto di esecuzione, a differenza dell'atto di cognizione e di quello di volizione, è caratterizzato da una diversa natura non più emotivo-passionale-morale, ma al contrario lucida, razionale, etica. In altri termini, cessata l'attività giurisdizionale di cognizione e volizione, la fase esecutiva assume i caratteri della tipica attività amministrativa che, prendendo atto della decisione (frutto dell'immedesimazione con l'interesse che ha sostenuto la pretesa punitiva), attua e realizza in un complesso atto esecutivo lo ius puniendi espresso dalla condanna. A differenza dell'attività giurisdizionale (cognizione e volizione), che almeno tendenzialmente mira alla rappresentazione e composizione dei conflitti, l'atto meramente esecutivo si disinteressa del conflitto sottostante svolgendosi unicamente in un'era di amministrazione della pena, di coercizione delle libertà e di compressione dei diritti del condannato che ne seguono. In definitiva l'atto esecutivo marchia indelebilmente il condannato, disinteressandosi, però, non solo del conflitto che ha determinato la condotta sanzionata, ma (di regola) anche della ricomposizione degli effetti determinati dalla stessa. Ciò detto, iniziamo a trarre le prime conclusioni utili al primo quesito proposto: l'atto esecutivo è autonomo rispetto all'atto di cognizione-volizione; ha come presupposto necessario la pronuncia e il comando contenuti in sentenza, ma è relativamente svincolato-temporale quanto all'obbligatorietà della realizzazione spazio del comando stesso; la sentenza assume il carattere di atto inderogabilmente vincolante solo con il suo passaggio a cosa giudicata; la funzione giurisdizionale ha infatti, rispetto a quella esecutiva, una natura essenzialmente dichiarativa e non necessariamente costitutiva; se vogliamo aprire spiragli di libertà e umanità nella fredda gabbia dell'esecuzione penale, è necessario attribuire alla stessa nuovi caratteri dettati dalla priorità dei principi dell'umanità della pena sul prestigio della legge, dell'adeguatezza del trattamento sanzionatorio sulla certezza della sua applicazione, della comprensibilità-accettabilità delle ragioni etico-sociali che fondano la pena sulla pubblicità della sua esecuzione; o eseguire la condanna non deve più esclusivamente significare dare giuridica attuazione al comando inteso come esatta e pedissequa applicazione del comando e sua conformità alla legge, ma reinterpretare la legittimità, giustezza e utilità del comando stesso nella sua validità attuale e con riferimento al soggetto sottoposto a punizione. Queste prime conclusioni come si possono conciliare con i dominanti principi di intangibilità del giudicato, di inderogabilità della pena e con l'onnicomprensivo principio di legalità, logico complemento della teoria retributiva della pena e baluardo giuridico contro l'indeterminatezza delle sanzioni e l'incertezza della loro esecuzione?
     In un momento storico in cui in Italia, ma dovunque in Europa, si assiste al crollo della certezza del diritto e per contro al trionfo della sua flessibilizzazione, all'individualizzazione della pena e al trattamento differenziato del condannato, i suddetti principi, superabili in presenza di superiori ragioni di politica internazionale, di ordine pubblico e, soprattutto, di interessi di classe e di potere, paiono essere vivi e indistruttibili solo al fine di impedire ai soggetti provenienti da settori sociali sconfitti l'accesso ai benefici tipici della fase esecutiva e penitenziaria.
     Allorché la dialettica sociale, infatti, lascia il posto a quella interna ai gruppi dominanti ecco che spariscono gli ostacoli alla rideterminazione della pena in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, al ridimensionamento dell'afflittività della detenzione mediante l'ammissione a regimi di espiazione della pena di particolare favore (lavoro all'esterno, semilibertà) o, infine, all'estinzione della condanna attraverso la concessione di benefici di diritto penitenziario ampiamente liberatori (affidamento al servizio sociale, liberazione condizionale e così via). In questo quadro registriamo le contraddizioni della teoria retributiva della pena che, almeno astrattamente, individua nella sanzione il corrispettivo della lesione prodotta tale da ricomporre il rapporto sinallagmatico che lega il cittadino contraente con il corpo sociale. Oggi, infatti, la teoria retributiva della pena, che pur resta centrale nell'elaborazione di un diritto penale della libertà nella diversità, ha nel principio di legalità (tassatività, inderogabilità e immutabilità della pena) non più àncore contro l'arbitrio e il terrorismo penale, ma ceppi che impediscono la valutazione dell'utilità della pena relativamente alla persona del reo e alle circostanze di tempo e luogo di sua applicazione.
     È proprio per queste ragioni che il principio di inderogabilità della pena (nel sistema sanzionatorio italiano la quantità e la qualità della pena da espiare in concreto, così come determinata in sede cognitiva, è teoricamente insuscettibile di modificazione o riduzione e integralmente espiata) ha trovato numerosi correttivi soprattutto in considerazione della funzione cosiddetta rieducativa, e non solo retributiva e preventiva, della pena, che, nella sede fredda e razionale dell'esecuzione, ha il momento elettivo per la propria realizzazione.
     A fronte dell'integrale espiazione della pena, infatti, la teoria rieducativa ha voluto privilegiare il recupero dell'individuo, la sua risocializzazione, il suo reinserimento nelle dinamiche fisiologiche della società, disinteressandosi delle ragioni individuali e sociali che avevano determinato la condotta sanzionata. Merito di questo indirizzo è stato, però, quello di abbandonare i principi classici dell'esecuzione penale rinnovando la politica penitenziaria, che oggi, se svincolata dal pregiudizio rieducativo, può concretamente rafforzarsi ispirandosi a nuovi criteri di utilità, convenienza ed economicità della pena, in una logica di equilibrio costruttivo tra lesione e riparazione.
     Non possiamo certo, come pretenderebbe la teoria rieducativa della pena, pensare di costringere il condannato a sottoporsi a un processo continuo per tutta la vita e cioè prima ai fini dell'affermazione della sua penale responsabilità e poi allo scopo di accertarsi dell'esistenza di uno pseudo e chissà quanto mai sincero processo di ripensamento critico sulla propria condotta. Operare, invece, per mantenere la fase esecutiva come un momento freddo e lucido di valutazione non ex ante ma ex post della condotta incriminata consentirebbe di attualizzare la pena sotto il profilo della sua accettabilità, della sua armonizzazione con il momento esterno e, infine, della sua utilità sociale.
     Solo in tal modo l'esecuzione penale perderebbe il suo carattere ragionieristico di calcolo della pena e assumerebbe quello dinamico di rivisitazione dell'uomo e del contesto nel quale ha operato applicando in modo evolutivo in sede esecutiva le norme poste a fondamento della condanna senza sottoposizione del reo a processi perpetui.
     In altri termini, se la funzione rieducativa della pena ha avuto il merito di infrangere il principio del permanere immutato della pretesa punitiva, questo indirizzo, presupponendo un'unicità logico-giuridica rappresentata dal sistema penale nei suoi tre momenti cognitivo, volitivo ed esecutivo, riassorbe l'esecuzione penale nella sfera valutativa sottoponendo a un processo sine die il condannato. L'esecuzione penale, al contrario, deve trovare la sua autonomia che si traduce in una valutazione prevalentemente oggettiva della più utile attuazione del comando contenuto nella sentenza. Contribuisce a questo progetto l'incrinarsi di un altro principio dell'esecuzione penale classica: l'immodificabilità assoluta dell'accertamento che ha formato cosa giudicata (res iudicata pro veritate habetur).
     Tale principio che ha la sua ragion d'essere nella irrevocabilità della sentenza penale di condanna, segnando la definitività dell'attività cognitivo-valutativa sul fatto-reato e sulla responsabilità, garantisce al condannato la definitività della determinazione della pena e ciò chiaramente in bonam e non in malam partem e cioè a favore e non a danno del soggetto sottoposto a pena. Pertanto, fermo restando l'impegno nel disinnescare il modello punitivo dell'attuale sistema penale e la sua logica di criminalizzazione di tutte le condotte trasgressive e devianti, se vi è una prospettiva civile e umana dell'esecuzione penale questa potrebbe individuarsi:

In conclusione: nel quadro progettuale di una società finalmente non più intenzionata a dare una risposta penale a problemi, situazioni ed eventi interpretabili e risolvibili altrimenti; in attesa quantomeno di una radicale depenalizzazione della maggioranza delle condotte trasgressive e devianti attualmente rilevanti penalmente; o con riferimento a quelle condotte la cui interpretazione-valutazione non riesce a prescindere da quella penale-criminale; e con riguardo alle intervenute condanne relative a questi ultimi reati e a maggior ragione per quelle relative a reati di minore gravità la cui risposta penale costituisce un'anacronistica e sterile reazione; l'esecuzione penale per assumere una parvenza di civiltà, giustezza e umanità ha la necessità di liberarsi dai vincoli dell'intangibilità del giudicato e di reagire al comando contenuto in sentenza non con un atto di obbedienza, ma con un atto critico di relativa modificabilità della condanna la cui presa d'atto non dovrà più essere intesa come indefettibile, permanente e inderogabile doverosità al comando ivi contenuto.
     Solo in tale modo l'esecuzione penale potrà assumere una qualche funzione di utilità nei confronti dei protagonisti e degli spettatori del conflitto insorto affinché, anche in assenza di una preventiva problematizzazione del caso individuale e sociale che ha dato luogo alla condotta incriminata, si riesca quantomeno ad attenuare gli effetti inutilmente deleteri della stessa sulle persone coinvolte nel reato e sul suo autore.

Abolire il carcere
Il carcere come istituzione internante, ovvero luogo e modo di espiazione della pena, non è sempre esistito. Fino alla metà del Settecento l'umanità ha preferito la tortura e l'ammazzamento alla segregazione e all'internamento a vita.
     Il carcere ancora oggi è lo strumento di violenta privazione della libertà personale caratterizzata da regole para-monastiche: impossibilità di movimento (stabilitas loci), castità e povertà-impossidenza (conservatio morum), penitenza attraverso il rispetto delle regole (oboedientia).
     Il carcere è uno strumento studiato unicamente per l'inflizione di sofferenze che coinvolge necessariamente tanto il condannato quanto coloro che fanno parte della sua sfera affettiva e di relazione.
     Il sistema carcerario non ha mai perso la sua funzione di serbatoio di forza lavoro il cui internamento parziale consente l'equilibrio e il controllo del mercato del lavoro nonché l'emarginazione di forze soprattutto giovanili nuove e indesiderate.
     Oggi il carcere ospita di regola solo gli strati più poveri e comunque con minori potenzialità della società.

Si può fare a meno del carcere
La privazione della libertà attraverso lo strumento di un'organizzazione di uomini, di mezzi e di idee destinata, istituzionalmente e in via sostanzialmente esclusiva, a punire le condotte trasgressive è un'aberrazione mentale che registra la nostra paura per il diverso nell'ipocrita tentativo di cancellare i problemi segregando chi ne è la semplice manifestazione.
     Sotto diverso profilo e con particolare attenzione a chi ne subisce le conseguenze dirette e immediate, il carcere costituisce l'espressione più abietta dello ius imperi dello stato, strumento barbaro di annichilimento e annientamento psicofisico di una parte considerevole della popolazione. Si calcola che in Italia la popolazione detenuta e internata superi le cinquantamila unità ovvero un cittadino su mille è ospite delle galere di stato!
     È dato pacifico che la sofferenza determinata dalla violenta privazione della libertà personale causa danni e comporta oneri e spese senza produrre benefici né sotto l'aspetto della prevenzione criminale né sotto quello della rieducazione del reo e il suo reinserimento sociale. L'esistenza del carcere è giustificata, pertanto, dalla sola esistenza dello stato, del cui potere coercitivo è la sua massima manifestazione.
     L'umanità che, almeno per ora, non sembra riuscire a concepire un modello sociale diverso da quello della società statalizzata, ha, però, il dovere di concepire quantomeno un modello punitivo che preveda pene meno inutilmente afflittive per il condannato, meno onerose per la società, di maggior soddisfazione per le persone offese dal reato.
     Prendiamo atto che la trasgressione è ineluttabile e la condotta penale una sua manifestazione, dando a questa constatazione un valore non patologico ma fisiologico. Rabbia e rassegnazione debbono lasciare in questo campo spazio alla razionalità e al principio del maggiore utile sociale. Impariamo, pertanto, a trarre vantaggio dalla condotta penale come il proprietario di un immobile lesionato approfitta dell'evento dannoso per ristrutturarlo o ricostruirlo meglio.
     Fuor di metafora, la sterilità del carcere impone all'umanità la scelta di uscire dalla logica della restrizione-carcerazione per poter sperimentare nuove vie di umana riparazione-comprensione-conciliazione della lesione prodotta dalla condotta criminale al fine di una composizione del conflitto e il suo successivo superamento.
     Solo sostituendo alla sequenza logica: stato-fatto da punire-persona da assoggettare a punizione, quella di società-conflitto-ipotesi di risoluzione, che può comportare anche l'assoggettamento a punizione, potremo pensare al carcere non più come strumento punitivo unico, efficace, costante, necessario e irrinunciabile.
     In attesa che all'autore di condotte indesiderate sia consentito di ovviare agli effetti lesivi del suo comportamento attraverso la mediazione e il dialogo con la società, determinando in tal modo non una transizione dei diritti in contesa ma una loro composizione-ricomposizione, le proposte alternative alla detenzione sono quelle comunque già sperimentate dai sistemi penali occidentali.
     Con modalità più o meno gravose a seconda degli ordinamenti, tali istituti comprendono: l'affidamento in prova al servizio sociale (probation), la semilibertà, la liberazione anticipata premiale del comportamento in stato di detenzione, l'attività lavorativa all'esterno del carcere, la detenzione domiciliare, nel fine settimana e durante la pausa feriale, il collocamento in comunità terapeutiche, di lavoro o correzionali.
     Altri istituti parapenitenziari applicati in passato (popolamento di zone disabitate) e ancora oggi (prestazioni di attività pericolose e sottoposizione volontaria a sperimentazione scientifica) non possono, a parere dello scrivente, essere riproposti in una società civile. Diversa attenzione merita lo studio di modalità di estinzione della pena che differiscono dalla carcerazione con lo scopo di restituire in termini di solidarietà sociale quanto si pretende essere stato sottratto. In questa direzione vanno le proposte di assistenza sociale ai malati, agli anziani e ai bisognosi; di prestazione di attività in comunità terapeutiche; di impegno nella protezione civile e così via. In conclusione. Il carcere oggi non esercita un monopolio incontrastato tra le modalità di espiazione della pena come in passato, ma tutti gli istituti di diritto penitenziario non possono prescindere dal carcere di cui sono emanazioni terapeutiche o rieducative.
     La linea di tendenza operata dallo stato italiano, peraltro, è quella di proporre una razionale differenziazione del regime di espiazione attraverso la tripartizione della popolazione sottoposta a esecuzione penale: quella coinvolta in reati di scarso rilievo criminale, quella protagonista anche di reati gravi ma espressione di delinquenza individuale e infine quella comunque legata a forme di criminalità organizzata.
     La prima fascia interessata, a causa della brevità delle pene e del complesso, burocratico e perverso sistema per accedere ai benefici di diritto penitenziario, gode solo parzialmente di un regime privilegiato finalizzato, almeno teoricamente, al tempestivo trattamento rieducativo e risocializzante del condannato come previsto dalla riforma penitenziaria del 1975.
     È possibile che, per ragioni di politica criminale e penitenziaria, in un prossimo futuro questa fascia di popolazione carceraria non debba più passare, necessariamente e integralmente, per le patrie galere utilizzate come "discariche" per rifiuti sociali Per quanto riguarda la seconda categoria di detenuti, l'enormità delle pene detentive (per esempio, in tema di stupefacenti) e la criminalizzazione sproporzionata di molte condotte giovanili impongono la necessità di scelte legislative di mitigazione delle pene e ciò per consentire agli autori di reati di delinquenza ordinaria di accedere dopo breve tempo a regimi di espiazione della pena se non liberatori (affidamento al servizio sociale) quantomeno meno afflittivi (semilibertà).
     Sono le carceri di massima sicurezza quelle che ospitano la terza fascia di popolazione detenuta.
     Questo sistema che presuppone la costruzione di appositi stabilimenti a struttura cellulare, l'isolamento, il relativo arbitrio nel trattamento, non va ulteriormente analizzato ma combattuto ed eliminato.
     In questo quadro registriamo, pertanto, l'irrinunciabilità dello stato a ricorrere al carcere non solo per gli autori di particolari categorie di reati ma anche per quella diffusa criminalità sociale espressione di una società criminale.
     In questo contesto, pertanto, parlare di riforma del carcere è ipocrita. Il carcere non va riformato ma abolito.
     L'abolizione del carcere rimane sempre un obiettivo di civile e umana convivenza sociale il cui raggiungimento è, però, affidato alla capacità di concepire una società senza stato o quantomeno una società che riesca a prescindere non tanto dal sistema penale quanto dal modello punitivo.


Fonte: pubblicato sulla rivista Volontà, numero Delitto e castigo, 1994