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La mia impossibile uscita dalle patrie galere

Camminando lungo l'interminabile corridoio del carcere, ho incontrato un compagno di detenzione che chiamerò Mauro. So che è stato via per un bel po', e allora gli chiedo di raccontarmi dove è stato. “Sognavo sempre delle cose strane”, confessa Mauro. “Mi svegliavo alla mattina con un senso di stanchezza e pensavo a quello che avevo appena sognato. A volte erano immagini tetre e buie. Quella era per me allora già in partenza una brutta giornata: mi chiudevo in me e non parlavo con nessuno. Mi prendeva una tristezza che mi pareva irreversibile, e che di solito durava delle ore. Poi, spesso, riuscivo a dimenticare questo mio malumore scrivendo una lettera oppure ascoltando della musica. Ma non era sempre così. Altre volte i miei sogni erano belli, avventurosi o rilassanti. Allora mi svegliavo con la voglia di parlare a tutti, di scherzare. Dallo psichiatra ero andato a chiedere se era normale avere questi sbalzi d'umore. Mi prescrisse subito dei farmaci. Seguii questa cura per circa una settimana, ma mi accorsi che le mattine erano sempre uguali: aprivo gli occhi ed ero triste e melanconico.
Chiesi allora un altro colloquio con lo psichiatra. Lui mi chiamò dopo due giorni, non mi diede il tempo di finire di spiegare che si mise a scrivere qualcosa. Mi disse che era tutto a posto e che non mi dovevo preoccupare. Dopo nemmeno tre ore, mi chiamano in accettazione e mi comunicano che lo psichiatra ha raccomandato il Trattamento Sanitario Obbligatorio in una struttura specializzata. La struttura specializzata naturalmente non può essere altro che l'Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.) di Reggio Emilia. In pochi minuti mi trovo in un furgone blindato in viaggio verso il ‘luogo di cura'. Appena arrivato al manicomio, l'ambiente mi si è presentato come una realtà molto crudele: pazienti legati sul letto, grida strazianti provenienti da un altro tempo. Un vero incubo. Tremavo dall'angoscia. Un vero incubo. Scene tremende che si ripetevano in continuazione. Facce sofferenti, corpi appesantiti dai farmaci, anonime vite che si trascinavano lentamente, appoggiate sui muri. Questo era lo spettacolo che mi somministravano ogni giorno per curarmi dalla mia ‘grave malattia' ”.

Fonte: testimonianza raccolta da Elton Kalica e pubblicata su Vita il 21 agosto 2003 a cura di Ornella Favero.