Un po' manicomi, un po' carceri
Ospedali psichiatrici giudiziari. Dove la «pena» si chiama «misura
di sicurezza», e non ha limite massimo.
Maria Grazia Giannichedda
il manifesto, 22 agosto 2007
Gli «ospedali psichiatrici giudiziari», che hanno sostituito i vecchi manicomi criminali, potrebbero in molti casi essere sostituiti dall'affidamento ai servizi di salute mentale e altre misure alternative. Ma i servizi mancano, e l'inerzia è forte. Così restano sovrappopolati Rinchiudere è più facile che curare Una buona metà degli internati negli Opg ha commesso reati minori, ma spesso la «misura di sicurezza» si prolunga molto più della carcerazione corrispondente. Essere dichiarati «non imputabili».
In fila alla biglietteria della stazione Termini, Antonietta Bernardini, quarantenne,
diversi ricoveri in ospedale psichiatrico alle spalle, litiga con un'anziana
signora e schiaffeggia un giovane che si era intromesso e che è un
carabiniere in borghese. Antonietta è arrestata, fa pochi giorni di
carcere e di ospedale psichiatrico e viene mandata al manicomio giudiziario
di Pozzuoli in osservazione. Vi resterà 14 mesi in attesa di processo,
spesso legata al letto. Era legata da quattro giorni quando il materasso prese
fuoco, per un incidente o per un gesto estremo di protesta.
Antonietta Bernardini morì il 31 dicembre 1974 per le ustioni riportate;
direttore e sorveglianti furono condannati in primo grado ma poi assolti,
la sezione femminile di Pozzuoli fu chiusa, il ministro di grazia e giustizia
dichiarò che il governo si sarebbe impegnato per una chiusura rapida
dei manicomi giudiziari, che da allora presero la denominazione attuale di
ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Le indagini scoperchiarono però
anche un'altra realtà: quella di uomini della camorra per i quali il
meccanismo che aveva distrutto Antonietta Bernardini si convertiva in privilegio,
attraverso perizie psichiatriche che assicuravano soggiorni privilegiati in
Opg. Domenico Ragozzino e Guglielmo Rosapepe, direttori degli Opg di Aversa
e Napoli, condannati in primo grado ma poi assolti, si suicidarono.
Tre anni dopo questi fatti fu approvata la «legge 180», a torto
accusata di aver dimenticato gli Opg, che sono un problema non di legislazione
sanitaria ma di diritto penale e penitenziario.
Carcere e manicomio insieme
Il codice penale disciplina infatti le condizioni e le conseguenze della «non
imputabilità», totale o parziale, «per vizio di mente».
Gli Opg dipendono dal Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) ma
l'internamento in questi istituti non è una pena ma una «misura
di sicurezza», della quale è definito il tempo minimo (2, 5 e
10 anni in relazione al reato) ma non quello massimo. In sostanza: nell'Opg
i caratteri del carcere si sommano a quelli del manicomio.
Questa cornice normativa è rimasta immutata, e anche strutture e risorse
sono rimaste in gran parte le stesse di trent'anni fa. Ci sono stati però
dei mutamenti molto rilevanti nella normativa che riguarda l'invio e la permanenza
in Opg. La Corte Costituzionale infatti, attraverso una ventina di sentenze
emesse in gran parte dopo la «legge 180», ha cancellato alcuni
degli automatismi più aberranti delle vecchie norme o ne ha indotto
la modifica.
Così, pur senza una ridefinizione organica della cornice normativa,
si è messo in moto un processo di riforma che ha toccato i canali di
ingresso agli Opg e i meccanismi di uscita. Questo, insieme alla 180 e alle
norme sul passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario
Nazionale (articolo 5 della legge delega 30/11/1998 e decreto delegato 22/6/1999,
n. 230), ha creato da tempo le condizioni per ridurre fortemente sia il numero
degli internati che i nuovi ingressi.
Il punto è che le possibilità offerte dalle nuove norme in gran
parte non vengono colte, né dai servizi di salute mentale né
dai giudici e dai magistrati di sorveglianza. Così le ricadute del
processo di riforma avvenuto in questi anni restano labili, insufficienti.
Pochi casi e luoghi dimostrano come già oggi si possa fare a meno dell'Opg
o ridurre fortemente l'uso e la durata di questa misura, ma per lo più
prevale un inerziale ripetersi dei vecchi e non più obbligati automatismi.
Questo è il problema chiave su cui puntare l'attenzione: senza smettere
di indignarsi per la contenzione degli internati, per il degrado delle strutture
e la povertà dei mezzi, ma evitando di imputare interamente agli Opg
le responsabilità della situazione attuale, che vanno ridistribuite
sul più complesso sistema - magistratura, servizi di salute mentale,
amministrazione penitenziaria - che continua ad alimentare l'Opg e le sue
aberrazioni.
Un esempio. Oltre la metà degli internati hanno commesso reati minori
(alterchi, minacce, danneggiamenti etc) e sono stati perciò «condannati»
alle misure di durata più bassa, cioè due anni: si tratta del
49,5% delle persone riconosciute totalmente non imputabili, e del 12,4% di
quelle riconosciute parzialmente imputabili. All'opposto, solo al 16,5% degli
internati è stata inflitta la misura di durata più alta in quanto
autori di reati gravi come l'omicidio. Dunque una metà degli internati
ha commesso, in condizioni di sofferenza, reati minori che magari, senza il
giudizio di non imputabilità, avrebbero prodotto una carcerazione più
breve.
Prima di scandalizzarsi sull'iniquità di una tale situazione, bisogna
sapere che l'internamento in Opg oggi non è più la sola conseguenza
automatica per chi ha commesso un reato in condizioni di totale o parziale
incapacità. La Corte Costituzionale ha infatti riconosciuto da tempo
un dato importante: poiché la misura di sicurezza serve a controllare
la pericolosità sociale, occorre accertare se questa pericolosità
perdura dopo il reato commesso. Non è detto infatti che si mantenga
immutato lo stato di alterazione mentale in cui una persona ha fatto, ad esempio,
minacce gravi e tentato di metterle in atto, e non è detto che questa
persona, anche se non è guarita, tenderà a ripetere quel comportamento
e a essere, quindi, pericolosa. Com'è noto, il disturbo mentale si
può curare ed è anche possibile modificare le condizioni di
vita e il contesto in cui il fatto è avvenuto.
La Corte ha detto perciò al giudice che, quando proscioglie una persona
per vizio totale o la condanna a pena diminuita per vizio parziale, deve applicare
la misura di sicurezza non automaticamente ma solo se ravvisa la presenza
di una pericolosità sociale (art.231 della L. 10/10/1986 successiva
all' abrogazione art.204 del codice penale).
Inoltre, la misura di sicurezza deve essere eseguita solo se il magistrato
di sorveglianza (come dice l'art. 679 del codice di procedure penale) accerta
che la pericolosità sociale della persona perdura nel momento in cui
la misura deve essere eseguita. C'è anche una sentenza costituzionale
più recente (n.253 del 2003), che ha dichiarato illegittimo l'articolo
222 del codice penale «nella parte in cui non consente al giudice di
adottare, in luogo del ricovero in Opg, una diversa misura di sicurezza prevista
dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo di mente e a
far fronte alla sua pericolosità sociale». Questa sentenza chiarisce
che la misura di sicurezza può essere la libertà vigilata accompagnata
dalla prescrizione di un rapporto stabile e continuativo con il servizio psichiatrico
territoriale.
Una domanda a questo punto: quanta parte di quel 49,5% di internati avrebbe
potuto evitare l'invio automatico in Opg se i servizi di salute mentale, i
giudici e i magistrati si fossero messi a lavorare insieme, caso per caso,
utilizzando, come in alcune situazioni si fa, gli spazi normativi appena citati?
Un altro esempio. Una sentenza della Corte Costituzionale che risale all'epoca
della vicenda Bernardini (la n.110 del 1975) ha stabilito la possibilità
di revocare la misura di sicurezza prima del tempo minimo stabilito dalla
legge. Questo si è fatto e si fa, ma in casi davvero rari.
«Dimenticati» là demtro
Guardiamo infatti la tabella sul numero di proroghe: si tratta di una cifra
altissima che, come tutti i direttori di Opg testimoniano, è dovuta,
più che al perdurare della malattia e della pericolosità, al
fatto che i servizi di salute mentale non vogliono o non possono occuparsi
di queste persone. L'Opg diventa perciò, agli occhi del magistrato
di sorveglianza che si limita a registrare questo dato, la sola risposta disponibile,
anche se non l'unica possibile e di certo non la più adeguata.
Un questione, a questo punto, sulla politica e sulla sua capacità di
produrre e governare innovazioni istituzionali orientate al rispetto dei diritti.
Abbiamo avuto una riforma, la «180», criticata in quanto non graduale,
«violenta», nella scelta di chiudere il manicomio. Abbiamo sotto
gli occhi il processo graduale che ha riformato gli Opg. Ma in un caso e nell'altro,
abbiamo una politica che poco o nulla ha fatto per promuovere il riorientamento
delle istituzioni sulle nuove norme e per scoraggiare la persistenza delle
vecchie attitudini e di comportamenti ai margini della legalità. Avrà
ben poco esito una riforma organica degli Opg se la politica non saprà
riformarsi.
Gli Opg in Italia, in cifre
I dati più aggiornati sulle presenze nei sei Ospedali Psichiatrici
Giudiziari (Opg) sono forniti dall'Associazione Antigone, che li ha visitati
lo scorso maggio.
Risultavano in tutto 1.266 internati distribuiti come segue: Aversa 316 (capienza
regolamentare 164), Barcellona Pozzo di Gotto 215 (capienza regolamentare
216), Castiglione dello Stiviere 225 di cui 90 donne (capienza regolamentare
193), Montelupo Fiorentino 137 (capienza regolamentare 100), Napoli Sant'Eframo
105 (capienza regolamentare 150), Reggio nell'Emilia 268 (capienza regolamentare
120).
Gli internati provenienti da paesi extracomunitari erano 116, il 9,16% del
totale. Questa percentuale è molto più bassa rispetto a quella
degli extracomunitari detenuti, che sono il 35,31% della popolazione reclusa,
ma indica situazioni di grandissima sofferenza anche per la carenza, in queste
strutture, di mediatori culturali.
Le tabelle qui accanto si riferiscono invece alla situazione degli Opg nel
2004 e sono tratte dal rapporto del Gruppo di lavoro Interministeriale «Giustizia
e Salute» diffuso nel novembre 2006. Il numero complessivo di internati
nel 2004 era 1057.