Il punto di non ritorno
Resoconto di un carro di pensieri da un carcere ad un O.P.G. femminile

Il passaggio dalla normalità alla non-normalità era segnato in un solo viaggio, e forse solo in andata. Era questa la mia nuova consapevolezza.
     Avevo le manette ai polsi, e il mio mondo era diventato piccolo: stavo su un treno, in un compartimento di 6 cuccette tutte per me e per due guardie donne. E loro non mi concedevano neppure di giocare con loro a carte, neppure con le manette. L'unica libertà erano le diapositive del mondo che questo treno in corsa mi concedeva; diapositive che non poteva togliermi nessuno perché mi entravano negli occhi con una velocità tale che anche se qualcuno avesse provato a rubarmele non ce l'avrebbe fatta.
     Il capo treno era passato per accertarsi che mi tenessero a bada e chiusa nel mio compartimento. Mi ricordo che pronunciò quelle parole tranquillamente, mentre io piangevo.
     Sì, piangevo: ancora non so bene perché avergli dato tanta soddisfazione alimentando così la sua libertà superba. Non potevo reagire, non potevo. Non avevo troppa paura di un'arma, delle loro armi, quanto delle punture che avrei preso come conseguenza. Avevo paura di quelle, o di un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) tipico da ospedale siciliano.
     La porta del mio compartimento era chiusa, ma le tendine erano completamente scostate. Oltre la porta c'erano quelle persone che avevano deciso di giocare a staffetta, vedendo a turno la povera ragazza carcerata. Nessuna delle due guardie si è preoccupata di chiudere le tendine, non avevano nulla da temere loro. Nessuno si preoccupava di chiudere le tendine di quello spettacolo.
     Quel viaggio è durato una eternità di traballamenti sporcizie solitudine e vergogna.
     Non hanno aperto neppure la cuccetta per farmi riposare. Hanno lasciato che il mio sonno facesse pendolare la mia testa contro lo scomodo sedile e lo sporco del finestrino.
     Al mio arrivo, alla stazione, mi guardavano in pochi, quasi nessuno. Forse per quel divario tra sud (povero e curioso) e nord (ricco ed egoista).
     Sono arrivata all'O.P.G. (ospedale psichiatrico giudiziario) e, nel tempo, ho scoperto perché fosse chiamato manicomio giudiziario. Ho imparato in fretta a viverci dentro.
     Il primo segno, che mi ha permesso di comprendere il mio stato, mi è stato dato da una ragazza, una paziente qualunque che con un ceffone qualunque mi ha aperto la mente su chi vince e chi perde. La doccia fredda di entrata era più leggera e più sopportabile di quello, certamente più sopportabile.
     La prima esperienza di quella settimana è racchiusa in un fiala e in un letto di contenzione.
     Forse è partito tutto da lì: ho cominciato a "perdere la mia realtà", la sua concretezza e la sua astrazione. Ho capito che la gente parla solo per ascoltare se stessa, e ti ascolta solo per alimentare la convinzione che ha di te.
     Ho conosciuto qualcuno che sapeva urlare e picchiare più di me.
     Ho compreso che bastava farsi toccare da una paziente per avere una sigaretta in più... solo per scegliere di che morte morire, solo per scegliere autonomamente di che morte morire.
     Ricordo il corridoio, e le mie camminate.
     Ricordo quante volte ho sbattuto la testa contro quel muro, credendo di poter aprire una crepa e scappare. E ricordo quante volte ho strappato i punti sulla mia testa, perché, secondo me, mi impedivano di raggiungere la libertà. Concepivo la cosa in modo molto schematico e ripetitivo: se ci sbatto la testa mi apro un varco verso la libertà, se mi faccio male è perché sono brava a farlo, ma se mi danno i punti mi chiudono quel varco.
     Ricevevo visite dalla Sicilia. Semestrali.
     E tutte le volte non sapevo cosa dire quando mi chiedevano 'perché ti sei ridotta così? guarda come eri carina in queste foto da bambina'.
     Mia madre piangeva e tremava, forse non mi riconosceva.
     Volevo il caffé, solo quello ricordo. Era l'unico stordimento VOLONTARIO concesso.
     Tutti gli altri erano imposti, non voluti e somministrati in fiala quando non stavi buona.
     Mi ricordo poco della fine delle visite e dei saluti. Ricordo meglio il dopo: il rumore della chiusura dei portoni perché era tutte le volte l'ennesima sentenza.
     Ho imparato anch'io ad urlare e picchiare.
     Ho imparato ad odiare quel mondo che mi aveva rinchiusa in quel posto, che aveva deciso di non aiutarmi. Ed ho odiato anche me stessa, per non aver trovato posto nel 'mondo giusto'.
     Ho vissuto "solo" per 2 anni e 9 mesi in quell'edificio, e mi sento fortunata rispetto a tantissimi altri. Qualcuno ha avuto la forza di tirarmi fuori di lì e volermi: nessuna istituzione, NESSUNA.
     Solo il tribunale dei diritti del malato della mia città e la mia famiglia.
     Nessuna assistente sociale, nessuna psichiatra, nessuna infermiera potrà mai capire.
     Ed è giusto che sia così, è giusto che ognuno si nasconda in una vita senza botte e senza urla.
     In posti simili, hai un sacco di tempo e di spazio per toccare il fondo, e quando arrivi ti spingono, ti obbligano a scavare, a continuare... fino ad arrivare ad un punto di non ritorno.
     Una volta ho sentito che mia sorella urlava, quando era a colloquio con la mia dottoressa. Una frase tra tante: 'l'avete fatta diventare un animale, e nelle occasioni migliori un oggetto da lettera di protocollo'.
     Forse era vero. Ero una specie di "oggetto pingpongante" tra il DSM (Dipartimento di Salute Mentale) del mio povero paese e l'O.P.G. di arrivo.
     Dopo un parcheggio in una comunità da parte del DSM, sono tornata a casa. Ero priva di contatti con la mia coscienza la biancheria le posate l'acqua i sorrisi le mani l'affetto la vita… Riprenderli, mi è costato tempo e fatica.
     Ma non riuscirò mai a dimenticare, perché tante volte il ricordo di quella follia, albergata nella mia mente, confezionata da pastiglie gocce e cinghie, mi torna tra i pensieri.
     E reagisco… ma solo perché ho paura.


Fonte: pubblicato sul sito http://www.barcellonapg.it/index.htm