La mente imprigionata
di Cristina Gardel Soriano
Narcomafie 4 aprile 2002

"I folli sono persone che hanno visto più lontano di noi e che, di conseguenza, si sono rotte". Quando Basaglia scriveva queste parole l'Italia si preparava a una rivoluzione scomoda, difficile da portare a compimento. Nonostante le resistenze, la società civile promosse una svolta verso una "età della consapevolezza" in cui i problemi non si nascondono, ma si analizzano per cercare di risolverli.
     Questo almeno era quanto si credeva di poter fare con la legge Basaglia, la numero 180 del 1978, che prevedeva la chiusura dei manicomi. Quelle strutture vennero progressivamente trasformate, gli stessi sistemi di terapia vennero modificati; l'agognata svolta, però, ancora oggi appare incompiuta. La ricerca e i finanziamenti destinati alla psichiatria sono sempre più esigui, la possibilità di intervenire prima che il malato precipiti in quel cupo dolore che è la follia è sempre più limitata. Eppure in tutto questo si continua a lavorare, si cerca di fare il possibile per arginare il peggio e si tira avanti. È questa la sensazione che si percepisce attraversando i corridoi di un qualsiasi centro psichiatrico.

Una risposta logica?
È un mondo abitato da uomini serrati nella loro storia, che li ha portati lontano - troppo per noi - fino a ritrovarsi in un Opg, Ospedale psichiatrico giudiziario. Si tratta di strutture vecchie e incapaci di risolvere l'ambiguità che li ha generati - metà carcere e metà manicomio - nate per accogliere i pazienti giudicati "incapaci di intendere e di volere" e giudicati socialmente pericolosi. In Italia ce ne sono sei: Barcellona-Pozzo di Gotto (Messina), Napoli, Aversa (Napoli), Montelupo Fiorentino (Firenze), Castiglione delle Stiviere (Mantova) e Reggio Emilia.
     La storia di questi centri è fatta di racconti incredibili e denunce, ma anche di tenacia e generosità degli uomini che vi lavorano. Di tutto questo abbiamo parlato con la direzione del più antico ospedale psichiatrico giudiziario, quello di Aversa.
     Ci raccontano della pet therapy (la terapia con gli animali) inserita nei progetti di intervento per i detenuti, ma anche delle frustrazioni, delle paure, della volontà di fare qualcosa e del quotidiano scontro con la burocrazia, fino all'indifferenza di alcuni degli operatori che lavorano all 'interno dell'Opg. Sullo sfondo storie spezzate e altre che vanno invece sanandosi, sempre però ai margini della realtà sociale.
     L'Ospedale psichiatrico giudiziario è sorto prima delle normative che oggi prevedono l'inserimento del soggetto in quella struttura. Quando l' Amministrazione penitenziaria e, con essa, vari operatori del diritto e della psichiatria, propongono soluzioni alternative all'Opg, si scontrano innanzitutto con le disposizioni del codice penale vigente e con le relative misure di sicurezza. La previsione legale legittima l'esistenza degli Opg e questi ultimi - in qualche modo - sostengono quella: perché fra la volontà di rinunciare agli ospedali psichiatrici giudiziari e la possibilità di una reale alternativa il passo non è breve. Nessuno difende l'Opg, ma va riconosciuto come lo stesso fornisca una risposta che non viene da altre istituzioni, o meglio, colma una lacuna del servizio psichiatrico pubblico e nel carcere. Inoltre, dinanzi alla complessità e all'inspiegabilità di grandi crimini, l'Ospedale psichiatrico giudiziario rappresenta una risposta apparentemente "logica" a ciò che sembra privo di logica.

Quindici mesi legato a un letto
Chi è uscito da un Opg racconta solo il peggio che si possa immaginare. Storie di uomini e donne che nella maggior parte dei casi restano sconosciute, per poi esplodere come nel caso di G.P.
     Tredici agosto 1994. Un uomo ricoverato all'interno dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia viene legato al letto di contenzione per quindici mesi. Il caso esplode con la denuncia da parte di un medico psichiatra, Giuseppe Cupiello, che in seguito si dimetterà dal centro rendendo pubblico ciò che accadeva all'interno.
     Cupiello ha collaborato complessivamente per cinque anni all'interno dell' Opg di Reggio. Tra alti e bassi il suo lavoro è continuato fino alla decisione di denunciare i metodi fortemente repressivi utilizzati all' interno del centro. "La conduzione dell'Opg - dice Cupiello - era molto repressiva, rigida e poco attenta alle esigenze della cura. Purtroppo tuttora l'andamento è questo. Io arrivai a denunciare questa cosa, protestando con la direzione. Fui allontanato dall'istituto, e decisi quindi di rendere pubblica la questione". Domando al professor Cupiello se G.P. venne davvero tenuto legato a un letto di contenzione per quindici mesi. La conferma trascina con sé anche la motivazione di una tale scelta. "Si è cercato così di contenere l'aggressività del paziente, sia verso se stesso sia verso gli altri: si trattava in effetti di un caso molto grave. Quello che io criticavo era che non fosse stata valutata nessuna altra possibilità terapeutica alternativa, di tipo farmacologico ad esempio. Veniva cioè dato per scontato che questa persona dovesse restare lì dove è rimasto almeno quindici mesi".

Due volte no!
Ogni sezione dell'istituto di Reggio porta il nome di una costellazione. Perseo è una delle quattro sezioni "normali" del manicomio giudiziario. Qui, come in tutte le altre, sono ospitati gli infermi di mente e i semi-infermi. Un corridoio su cui si affacciano le celle, un'infermeria ed una stanza adibita alla contenzione. La stanza adibita alla contenzione è grande e asettica. La dottoressa Calevro, direttrice dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, spiega che qui si cercano di tenere gli internati per non più di un giorno, e solo per la tutela della loro incolumità personale. L' interno dell'istituto emiliano è molto simile a quello di un carcere, anche se appare più pulito e silenzioso. Solo al piano terra l'ambiente è più animato ed allegro: qui si svolgono le attività ricreative e culturali. Il problema più pressante dell'istituto è ancora una volta la carenza di personale, in particolare di medici psichiatri ed operatori.
     La storia di G. P. è una tra le tante che abitano questi luoghi. Scrive così Igino Cappelli, ex magistrato di sorveglianza del Tribunale di Napoli, che all'argomento ha dedicato un libro: "Il manicomio giudiziario è un'istituzione due volte da negare, perché due volte violenta e due volte, inumanamente e irrazionalmente, totale: come carcere e come manicomio. La sua abolizione sarebbe una scelta di civiltà".