Pegna protesta, sciopero della fame
Alessandro Mantovani, il manifesto - 10 Ottobre 2003

L'ex di Prima linea, uscito dall'inchiesta sulle nuove Br, denuncia maltrattamenti nella casa lavoro di Sulmona
Lettera dal carcere Le accuse sono cadute, sconta un anno di internamento per violazione della libertà vigilata. «Da dieci mesi mi tengono isolato, vogliono provocarmi»

Nel carcere di Sulmona (Pescara) l'ex di Prima linea Michele Pegna subisce una sorta di vendetta dello stato. Anche se ha pagato il vecchio debito con la giustizia, anche se nessuno lo sospetta più di far parte delle nuove Brigate rosse, continua a subire perquisizioni («più di duecento in nove mesi», denuncia) e vessazioni. Gli censurano la corrispondenza, lo tengono in cella da solo e - scrive Pegna al manifesto - «per due mesi in fondo alla sezione: dentro pioveva, la temperatura andava sotto lo zero. Ci rimettevo la salute». Ha avuto due interventi all'ernia del disco (51 per cento di invalidità) ma gli hanno fatto portare a spalla sacchi d'immondizia di 30-40 chili, chiamandolo «comunista con la scopa in mano», fino all'intervento dei medici. Una volta, invece di ascoltare dal centralino, «durante una telefonata si sono messi a origliare accanto a me», racconta ancora. «Cercano di provocare una mia reazione violenta», sostiene Pegna, che per la legge è internato in casa-lavoro (non detenuto) ma subisce un isolamento da 41 bis. «Temo - confida - una proroga della misura», che la legge consente. Dal 1° ottobre fa sciopero della fame, comincia a star male. Oggi Graziella Mascia (Prc) va a trovarlo a Sulmona. Se il giudice di sorveglianza non sembra molto interessato, la direzione del carcere nega i maltrattamenti. Non può smentire, però, le numerose note riservate trasmesse ai giudici fino al 3 luglio scorso - quando ormai Pegna non rivestiva il minimo interesse per le indagini sugli omicidi di Marco Biagi e Massimo D'Antona - per sconsigliare la «licenza» che prima o poi, di solito, spetta agli internati: ancora a luglio scrivevano di «eventuali contatti che il predetto potrebbe riattivare anche all'esterno, considerata la natura dei reati per i quali il Pegna è stato tenuto in custodia cautelare fino al 3.1.2003», cioè l'accusa sostanzialmente caduta di appartenere alle nuove Br (banda armata e associazione sovversiva). Poi il magistrato, il 20 settembre, ha deciso di tenerlo dentro nonostante i positivi esiti della «inchiesta socio-familiare», perché mancava «l'osservazione scientifica della personalità». Per la direzione conta solo la vecchia ordinanza, non importa che il tribunale del riesame l'abbia annullata il 3 gennaio. Caso raro, i pm avevano «dimenticato» di depositare gli atti che giustificavano l'arresto. Un investigatore della polizia la spiega così: «Oggi sappiamo che non sta nelle nuove Br, però i sospetti iniziali erano più che giustificati».
Pegna venne arrestato il 17 dicembre 2002 dal gip di Roma Maria Teresa Covatta, su richiesto dei pm antiterrorismo Franco Ionta e Giovanni Saviotti. A monte c'era l'ex Ucigos, che andava a caccia di «irreperibili» e si imbattè in questo Pegna pochi mesi dopo il delitto Biagi. Era uscito dal supercarcere di Trani nel 2000 dopo sedici anni per banda armata, furto, rapina e detenzione di armi ed esplosivi. Processo Prima linea bis, niente Br neanche allora. Avrebbe dovuto fare un anno di libertà vigilata, invece era scomparso proprio a Bologna dove era stato ucciso Biagi. La polizia l'aveva rintracciato a Napoli, insieme a una donna che poteva somigliare a Simonetta Giorgeri, ex Br-Pcc irreperibile e sospettata di far parte delle nuove Br. Secondo la polizia, Pegna aveva avuto rapporti con gli «irriducibili» nelle celle di Trani (gli trovarono quasi in tempo reale una copia della rivendicazione dell'omicidio D'Antona) e un'insegnante del carcere confermava la sua «intenzione» di prendere contatti con i nuovi br.
Sbattuto sui giornali, indicato da Pisanu come «elemento di spicco dell'eversione», Pegna uscì da Rebibbia in quindici giorni, con l'assistenza dell'avvocato Mario D'Alessandro. Non c'è ancora stata l'archiviazione, comunque Pegna aveva dimostrato che a Napoli faceva una vita tranquilla, lavorava con un fornitore dei supermercati Gs e viveva con una donna che non è la Giorgeri (e le somiglia poco). Gli rimaneva, però, il problema della fuga dalla libertà vigilata, tramutata in un anno di casa-lavoro. Sono le guardie di Sulmona, a perseguitarlo? È già stato in carcere dai 24 ai 40 anni: non è ora di rimandarlo a casa?


Pegna interrompe la protesta
Mascia (Prc) a Sulmona: «Abolire l'internamento»
Alessandro Mantovani, il manifesto - 11 Ottobre 2003

Michele Pegna, internato nella casa di lavoro del carcere di Sulmona (Pescara), ha interrotto lo sciopero della fame che portava avanti dal 1° ottobre. A Graziella Mascia, la deputata del Prc che è andata a trovarlo in cella, è parso depresso, ai limiti della resistenza fisica: da tre settimane solo acqua, sigarette e caffè. L'ex militante di Prima Linea ha ripreso ad alimentarsi dopo che il suo caso è finito sui giornali, i parlamentari sono di nuovo intervenuti e il nuovo direttore dell'istituto - il dottor Giacinto Siciliano che è arrivato la scorsa estate - gli ha offerto qualche garanzia. Pegna denuncia una pesante sequenza di violenze psicologiche, maltrattamenti e provocazioni da parte degli agenti di Sulmona, dove è arrivato il 4 gennaio per scontare un anno di casa-lavoro per violazione degli obblighi della libertà vigilata. All'inizio la direttrice era Armide Miserere, la donna di ferro morta suicida il 19 aprile scorso. Pegna, scarcerato nel 2000 dopo sedici anni di galera, era rimasto coinvolto alla fine del 2002 nelle indagini romane sulle nuove Brigate rosse, ma dopo l'arresto aveva chiarito la sua posizione ed era stato scarcerato dal tribunale del riesame (3/1/2003). Ha però dovuto affrontare un anno di casa lavoro perché era scomparso dalla circolazione invece di presentarsi a Bologna dal tutore della libertà vigilanza. E a Sulmona Pegna, «dove si fatica a vedere la differenza tra detenuti e internati», racconta di averne subite di tutti i colori: duecento perquisizioni in nove mesi, isolamento quasi completo e insulti ripetuti al suo passato politico, quasi che volessero ottenere una sua reazione da utilizzare come prova della pericolosità. La direzione del carcere, nelle note inviate al magistrato di sorveglianza che decide su licenze, sospensioni e proroghe della misura, ha continuato fino allo scorso luglio scorso a considerarlo come un brigatista pericoloso. Sarà adesso il giudice a stabilire se l'anno di internamento, dopo altri sedici di detenzione, possa bastare. In base al giudizio sulla «pericolosità sociale», la legge consente infatti la proroga per un altro anno (fino a quattro nei casi di delinquenti abituali e professionali). Per Pegna sarebbe incomprensibile dal momento nessuno, dopo le indagini su quanto ha fatto a Napoli tra il 2000 e il 2002, può oggi accusarlo di alcunché. Lo conferma anche l'antiterrorismo del Viminale.
L'«assegnazione a una casa di lavoro» è un vecchio istituto fascista, la più dura delle «misure di sicurezza» contestate da molti giuristi perché legate al giudizio di pericolosità sociale e quindi sottratte alle garanzie previste dalla Costituzione in fatto di libertà personale. In Italia si applica attualmente a 654 persone, l'on. Mascia ha già annunciato un progetto di legge per abolire l'internamento. Le case di lavoro sono quattro: Castelfranco Emilia e Saliceta a San Giuliano (Modena), Favignana (Trapani) e Sulmona. «Il trattamento - spiega Mascia - di fatto carcerario. Loro si sentono internati e non detenuti, ma il regolamento è lo stesso e questo provoca disagio, tensioni. Anche per loro due ore d'aria alla mattina e due al pomeriggio; nelle botteghe in cui fanno scarpe e vestiti lavorano gomito a gomito internati e detenuti. A Sulmona c'è persino un internato in 41 bis. Un conto è il carcere, dove la pena è definita e per quanto doloroso si deve accettare quella logica. Nella casa di lavoro, invece, si entra e si rimane in base a valutazioni che appaiono discrezionali. Quanto al lavoro, a Sulmona a fine maggio l'80 per cento degli internati non faceva nulla, adesso però lavora più della metà». Sia pure, come i detenuti, con gli stipendi ridotti (massimo un quinto) rispetto ai minimi contrattuali.