L'ex di Prima linea, uscito dall'inchiesta sulle nuove Br, denuncia maltrattamenti
nella casa lavoro di Sulmona
Lettera dal carcere Le accuse sono cadute, sconta un anno di internamento
per violazione della libertà vigilata. «Da dieci mesi mi tengono
isolato, vogliono provocarmi»
Nel carcere di Sulmona (Pescara) l'ex di Prima linea Michele Pegna subisce
una sorta di vendetta dello stato. Anche se ha pagato il vecchio debito con
la giustizia, anche se nessuno lo sospetta più di far parte delle nuove
Brigate rosse, continua a subire perquisizioni («più di duecento
in nove mesi», denuncia) e vessazioni. Gli censurano la corrispondenza,
lo tengono in cella da solo e - scrive Pegna al manifesto - «per due mesi
in fondo alla sezione: dentro pioveva, la temperatura andava sotto lo zero.
Ci rimettevo la salute». Ha avuto due interventi all'ernia del disco (51
per cento di invalidità) ma gli hanno fatto portare a spalla sacchi d'immondizia
di 30-40 chili, chiamandolo «comunista con la scopa in mano», fino
all'intervento dei medici. Una volta, invece di ascoltare dal centralino, «durante
una telefonata si sono messi a origliare accanto a me», racconta ancora.
«Cercano di provocare una mia reazione violenta», sostiene Pegna,
che per la legge è internato in casa-lavoro (non detenuto) ma subisce
un isolamento da 41 bis. «Temo - confida - una proroga della misura»,
che la legge consente. Dal 1° ottobre fa sciopero della fame, comincia a
star male. Oggi Graziella Mascia (Prc) va a trovarlo a Sulmona. Se il giudice
di sorveglianza non sembra molto interessato, la direzione del carcere nega
i maltrattamenti. Non può smentire, però, le numerose note riservate
trasmesse ai giudici fino al 3 luglio scorso - quando ormai Pegna non rivestiva
il minimo interesse per le indagini sugli omicidi di Marco Biagi e Massimo D'Antona
- per sconsigliare la «licenza» che prima o poi, di solito, spetta
agli internati: ancora a luglio scrivevano di «eventuali contatti che
il predetto potrebbe riattivare anche all'esterno, considerata la natura dei
reati per i quali il Pegna è stato tenuto in custodia cautelare fino
al 3.1.2003», cioè l'accusa sostanzialmente caduta di appartenere
alle nuove Br (banda armata e associazione sovversiva). Poi il magistrato, il
20 settembre, ha deciso di tenerlo dentro nonostante i positivi esiti della
«inchiesta socio-familiare», perché mancava «l'osservazione
scientifica della personalità». Per la direzione conta solo la
vecchia ordinanza, non importa che il tribunale del riesame l'abbia annullata
il 3 gennaio. Caso raro, i pm avevano «dimenticato» di depositare
gli atti che giustificavano l'arresto. Un investigatore della polizia la spiega
così: «Oggi sappiamo che non sta nelle nuove Br, però i
sospetti iniziali erano più che giustificati».
Pegna venne arrestato il 17 dicembre 2002 dal gip di Roma Maria Teresa Covatta,
su richiesto dei pm antiterrorismo Franco Ionta e Giovanni Saviotti. A monte
c'era l'ex Ucigos, che andava a caccia di «irreperibili» e si imbattè
in questo Pegna pochi mesi dopo il delitto Biagi. Era uscito dal supercarcere
di Trani nel 2000 dopo sedici anni per banda armata, furto, rapina e detenzione
di armi ed esplosivi. Processo Prima linea bis, niente Br neanche allora. Avrebbe
dovuto fare un anno di libertà vigilata, invece era scomparso proprio
a Bologna dove era stato ucciso Biagi. La polizia l'aveva rintracciato a Napoli,
insieme a una donna che poteva somigliare a Simonetta Giorgeri, ex Br-Pcc irreperibile
e sospettata di far parte delle nuove Br. Secondo la polizia, Pegna aveva avuto
rapporti con gli «irriducibili» nelle celle di Trani (gli trovarono
quasi in tempo reale una copia della rivendicazione dell'omicidio D'Antona)
e un'insegnante del carcere confermava la sua «intenzione» di prendere
contatti con i nuovi br.
Sbattuto sui giornali, indicato da Pisanu come «elemento di spicco dell'eversione»,
Pegna uscì da Rebibbia in quindici giorni, con l'assistenza dell'avvocato
Mario D'Alessandro. Non c'è ancora stata l'archiviazione, comunque Pegna
aveva dimostrato che a Napoli faceva una vita tranquilla, lavorava con un fornitore
dei supermercati Gs e viveva con una donna che non è la Giorgeri (e le
somiglia poco). Gli rimaneva, però, il problema della fuga dalla libertà
vigilata, tramutata in un anno di casa-lavoro. Sono le guardie di Sulmona, a
perseguitarlo? È già stato in carcere dai 24 ai 40 anni: non è
ora di rimandarlo a casa?
Pegna interrompe la protesta
Mascia (Prc) a Sulmona: «Abolire l'internamento»
Alessandro Mantovani, il manifesto - 11 Ottobre 2003
Michele Pegna, internato nella casa di lavoro del carcere di Sulmona (Pescara),
ha interrotto lo sciopero della fame che portava avanti dal 1° ottobre.
A Graziella Mascia, la deputata del Prc che è andata a trovarlo in
cella, è parso depresso, ai limiti della resistenza fisica: da tre
settimane solo acqua, sigarette e caffè. L'ex militante di Prima Linea
ha ripreso ad alimentarsi dopo che il suo caso è finito sui giornali,
i parlamentari sono di nuovo intervenuti e il nuovo direttore dell'istituto
- il dottor Giacinto Siciliano che è arrivato la scorsa estate - gli
ha offerto qualche garanzia. Pegna denuncia una pesante sequenza di violenze
psicologiche, maltrattamenti e provocazioni da parte degli agenti di Sulmona,
dove è arrivato il 4 gennaio per scontare un anno di casa-lavoro per
violazione degli obblighi della libertà vigilata. All'inizio la direttrice
era Armide Miserere, la donna di ferro morta suicida il 19 aprile scorso.
Pegna, scarcerato nel 2000 dopo sedici anni di galera, era rimasto coinvolto
alla fine del 2002 nelle indagini romane sulle nuove Brigate rosse, ma dopo
l'arresto aveva chiarito la sua posizione ed era stato scarcerato dal tribunale
del riesame (3/1/2003). Ha però dovuto affrontare un anno di casa lavoro
perché era scomparso dalla circolazione invece di presentarsi a Bologna
dal tutore della libertà vigilanza. E a Sulmona Pegna, «dove
si fatica a vedere la differenza tra detenuti e internati», racconta
di averne subite di tutti i colori: duecento perquisizioni in nove mesi, isolamento
quasi completo e insulti ripetuti al suo passato politico, quasi che volessero
ottenere una sua reazione da utilizzare come prova della pericolosità.
La direzione del carcere, nelle note inviate al magistrato di sorveglianza
che decide su licenze, sospensioni e proroghe della misura, ha continuato
fino allo scorso luglio scorso a considerarlo come un brigatista pericoloso.
Sarà adesso il giudice a stabilire se l'anno di internamento, dopo
altri sedici di detenzione, possa bastare. In base al giudizio sulla «pericolosità
sociale», la legge consente infatti la proroga per un altro anno (fino
a quattro nei casi di delinquenti abituali e professionali). Per Pegna sarebbe
incomprensibile dal momento nessuno, dopo le indagini su quanto ha fatto a
Napoli tra il 2000 e il 2002, può oggi accusarlo di alcunché.
Lo conferma anche l'antiterrorismo del Viminale.
L'«assegnazione a una casa di lavoro» è un vecchio istituto
fascista, la più dura delle «misure di sicurezza» contestate
da molti giuristi perché legate al giudizio di pericolosità
sociale e quindi sottratte alle garanzie previste dalla Costituzione in fatto
di libertà personale. In Italia si applica attualmente a 654 persone,
l'on. Mascia ha già annunciato un progetto di legge per abolire l'internamento.
Le case di lavoro sono quattro: Castelfranco Emilia e Saliceta a San Giuliano
(Modena), Favignana (Trapani) e Sulmona. «Il trattamento - spiega Mascia
- di fatto carcerario. Loro si sentono internati e non detenuti, ma il regolamento
è lo stesso e questo provoca disagio, tensioni. Anche per loro due
ore d'aria alla mattina e due al pomeriggio; nelle botteghe in cui fanno scarpe
e vestiti lavorano gomito a gomito internati e detenuti. A Sulmona c'è
persino un internato in 41 bis. Un conto è il carcere, dove la pena
è definita e per quanto doloroso si deve accettare quella logica. Nella
casa di lavoro, invece, si entra e si rimane in base a valutazioni che appaiono
discrezionali. Quanto al lavoro, a Sulmona a fine maggio l'80 per cento degli
internati non faceva nulla, adesso però lavora più della metà».
Sia pure, come i detenuti, con gli stipendi ridotti (massimo un quinto) rispetto
ai minimi contrattuali.