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Il carcere nel cinema (americano)

Corrado Colorno

Golem, n. 1, gennaio 2003

Il prison movie è un genere che appartiene in modo peculiare al cinema statunitense, si colloca abbastanza bene nel filone di intrattenimento e avventura e principalmente racconta di una (spettacolare, difficile, tesissima) evasione.
Questa premessa, però, non basta a dire quali e quante pellicole, americane e europee, abbiano messo in scena il carcere, facendone il luogo dell'azione o usando l'ambientazione carceraria per svolgere una parte della vicenda.
Il carcerato ha attratto il cinema in quanto figura avvincente, anche se non troppo ricca di sfaccettature, quasi un carattere, per intrattenere un pubblico abbastanza vario.
Il film carcerario offre lo spunto per dibattere il tema, non da poco, della giustizia (e conseguentemente dell'ingiustizia); esalta lo spirito di ribellione, lo scarto dalle regole, parla di autoritarismo e di garantismo. Il soggetto è avvincente perché talvolta si ispira ad una storia vera, ad una evasione riuscita che ha fatto, e giustamente, notizia; inoltre permette di snellire e drammatizzare la sceneggiatura, perché focalizza l'attenzione su un protagonista principale cui si affiancano pochi comprimari, anche se non mancano le eccezioni, come i film di prigionia corali, dove si amplifica l'impresa dell'evasione, aggiungendovi un sovrappiù di rischio che vale la vita di tutti (fuga da campi di prigionia bellica, cioè campi di concentramento, dove il genere carcerario si mescola con il film di guerra, come ad esempio nel classico La grande fuga, di John Sturges, Usa, 1963).

Di fatto, nella realizzazione il prison movie si conferma come genere: prendere innanzitutto in esame i personaggi principali può forse aiutare a compiere una breve disamina, poiché questi si sono affermati come stereotipi, dal protagonista al direttore del carcere, ai comprimari. Brevemente gli altri elementi costitutivi: lo schema classico è quello dell'evasione, della fuga intesa generalmente come (ri)conquista della libertà.
La localizzazione del penitenziario è altrettanto importante: tanto più appare come luogo inaccessibile, di massima sicurezza, tanto più si alza la posta in gioco in questa sfida dell'evasione (Alcatraz è la location per eccellenza).

Prendendo in esame i personaggi, l'elemento che in genere accomuna ogni protagonista di prison movie è il fatto di non essere un "cattivo", una rappresentazione del male; il cinema manifesta così la lodevole intenzione di connotare chi si trova in prigione come un personaggio non negativo: prigioniero (imprigionato) prima che carcerato, galeotto in senso generico e non criminale. Il protagonista è un uomo privo di libertà, dunque, nelle molte forme in cui si può esserlo; un ergastolano, forse, ma innanzitutto un furfante, cioè un personaggio con una connotazione quasi bonaria e dotato di viva intelligenza o "scafato", esperto della vita. Sembra che con questa figura il cinema voglia dimostrare allo spettatore che la natura degli uomini è in fondo sempre positiva o che voglia provare semplicemente la dimensione umana del carcerato, tanto simile o esattamente uguale a quella di una persona qualunque in condizioni difficili.
O meglio, la tradizione cinematografica spesso nega il male che avrebbe condotto dietro le sbarre il personaggio per farne un esempio di abilità, astuzia, intelligenza, adattabilità; in fin dei conti un eroe. A questo devono aver pensato Joel e Ethan Coen per rivisitare in modo personale la saga del prigioniero in fuga in Fratello, dove sei? (Usa, 2000): l'evaso Everett Ulysses McGill promette ai compagni di fuga, inseparabili perché attaccati a lui con delle catene, la spartizione di un bel bottino nascosto, mentre in realtà vuole solo raggiungere la moglie, Penny, per impedirle di risposarsi: rileggendo in modo originale l'Odissea, archetipo del viaggio avventuroso, i Coen decostruiscono il genere e intessono un divertissement, un racconto cinéphile secondo il loro gusto.

Altro tipo di prigioniero è spesso quello vittima delle circostanze, che va incontro a diversa sorte a seconda che si trovi ad agire in una commedia oppure in un film drammatico.
Soprattutto nelle commedie, il carcerato sa rivelarsi di buon cuore. Humphrey Bogart, Aldo Rey, Peter Ustinov, I tre fuggitivi dai lavori forzati all'Isola del Diavolo di Non siamo angeli (Usa, 1955) di Michael Curtiz fanno miracoli aiutando una famiglia di disgraziati e, in un sussulto di integrità morale, ritornano in prigione. Meglio la galera, dopotutto. In un solo film si uniscono in un edificante insieme il tema della famiglia, del carcere, della solidarietà e dell'amicizia.
Il forzato in fuga più esilarante è il personaggio di Virgil Starkwell di Woody Allen in Prendi i soldi e scappa (Usa, 1969), condannato a otto secoli di galera. Anche Woody Allen decostruisce il genere, montando spezzoni e interviste come in un documentario, in cui parlano i genitori (camuffati da Groucho Marx), la moglie, e conoscenti di Virgil, che, scontrandosi in modo surreale con la realtà, provoca pasticci a catena con il suo inverosimile modo di compiere le rapine, con pistole di sapone che si trasformano in schiuma sotto la pioggia o bigliettini destinati a rapinare cassieri di banca pieni di errori ortografici, tentativi goffi e disastrosi di fuga dai lavori forzati.

Una gradevolissima commedia animata con i pupazzi di plastilina riprende il filone corale e la metafora del lager nelle sembianze di un allevamento: Galline in fuga (Chicken run, Usa, 2000) di Peter Lord e Nick Park racconta di una comunità di galline prigioniere in un pollaio che, con un piano ingegnoso, riescono a fuggire e a salvarsi dallo spiedo o dalla pentola cui sarebbero destinate una volta divenute improduttive.
Galline come uomini, non sempre stupide. Lo sforzo dell'ingegno e quello delle ali messi insieme si dimostrano vincenti.
Le ali, il volo, simboli di libertà: va al cuore della metafora il film di Frank Darabont, perfettamente rappresentativo del genere, Le ali della libertà, almeno nella traduzione italiana (l'originale suona The Shawshank Redemption, Usa, 1994, ed è tratto dal racconto Rita Hayworth and the Shawshank Redemption di Stephen King). Nel titolo originale è contenuta una parola chiave per leggere molti dei film carcerari: la redenzione come il risultato di una lunga esperienza del carcere. Il percorso ha delle tappe obbligate da seguire: l'accoglienza violenta da parte di qualche detenuto che emerge dalla massa indifferenziata che lo spalleggia; l'individuazione di un amico vero e sincero, come fuori, nella società ipocrita, non se ne trovano; l'apprendistato delle regole che valgono dentro le mura della prigione; la lenta ricostruzione di una identità, che il detenuto si conquista riscattando se stesso attraverso il lavoro e grazie alle sue capacità; la lenta pianificazione e quindi l'esecuzione della via d'uscita; l'esecuzione della vendetta non violenta (una eccezione nel genere); infine l'emersione, letteralmente, dal tunnel sotterraneo verso la libertà. Nella scena conclusiva della fuga la pioggia torrenziale lava via tutta la sporcizia, il sudiciume accumulato, mostrando una sorta di battesimo alla nuova vita, il ritorno alla condizione civile, allo status di uomo e cittadino.
Un poco più ambizioso rispetto ad altri film di tenore avventuroso, anche Le ali della libertà ripercorre una serie di passaggi codificati. E termina con un happy end. Infatti, anche quando un film finisce con la clandestinità del protagonista - si può immaginare che il fuggiasco mai più ritrovato si sia rifatto una vita sotto un'altra identità - o l'esito sia semplicemente la riuscita di una ingegnosa fuga, in ogni caso si tratta di un successo, di un'impresa andata a buon fine.
La valenza del volo, ma di segno opposto, senza fuga e libertà, è nella storia vera di Robert Stroud, interpretato da Burt Lancaster ne L'uomo di Alcatraz(Usa, 1962), un condannato all'ergastolo che nella cella di isolamento, mentre alleva un uccellino, suo unico compagno, studia fino a diventare un esperto ornitologo.

Per la stessa via obbligata, avendo fatto del protagonista un eroe, la sua controparte, il rappresentante della giustizia, della legge, diventa la personificazione dell'arbitrio, e ogni volta incarna un potere dispotico, ottuso e colluso con le organizzazioni criminali sia esterne che di quei detenuti generici senza neanche una battuta. Il direttore del carcere è solitamente una macchietta, una caratterizzazione forzosa, senza scarti, la consueta nota dolente nel genere. Con qualche felice eccezione. Dove bene e male si mescolano, dove i confini sono più labili, e la cella di massima sicurezza non ha sbarre ed è totalmente trasparente, come nel Il silenzio degli innocenti (Usa, 1991) di Jonathan Demme, anche la caricaturalità del direttore del carcere è scoperta, perfino ostentata.

Ma di genere si tratta, perciò spesso teso a reiterare cliché, a separare in modo netto il bene dal male, a rappresentare un universo in cui la colpa (ove ammessa, ove cioè il protagonista non sia un innocente ingiustamente accusato) è il male minore, mentre il male maggiore è la pena. Il messaggio dunque è che il vizio è insito nel sistema (ma nella finzione è più comprensibile per lo spettatore attribuire il difetto a chi lo rappresenta) che produce carceri e detenuti, di cui d'altro canto dovrebbero essere innanzitutto garantiti i diritti. Oltre a rispettare sempre uno stereotipo, questo è il binario obbligato lungo il quale si muovono pressoché tutti i film carcerari: ascrivere ad una immaginaria lista dei "buoni" il prigioniero, a quella dei "cattivi" il direttore, i secondini, i carcerieri. Non sono i galeotti ad essere malvagi, ma è la gestione del carcere ad essere repressiva, ottusa, violenta. La colpa è delle istituzioni, delle autorità, se dentro il carcere è tollerata la violenza.
Il carcere è lo specchio della società, un sobborgo violento dove si riproducono le gerarchie di potere dell'esterno, della società di fuori. L'universo concentrazionario è una scuola di vita, una giungla dove vale la legge del più forte, dove i detenuti si dividono in gang, dove vige la corruzione: tale e quale alla società che lo ha prodotto. Spesso, purtroppo, questa intuizione non si sviluppa in una analisi critica, ma si limita a rappresentare questo mondo senza l'ambizione di leggerlo, quando non lo presenti con il fervorino finale di redenzione e rivincita dell'innocente sui cattivi. Innocente che ha appreso la lezione e la applica a coloro che l'hanno precipitato in una situazione anomala. La legge del taglione o della vendetta, che innerva il peggior filone carcerario, finisce per giustificare la violenza e la vendetta individuale, ispirandosi al modello del giustiziere solitario.
Un film già visto: la deprivazione della vita normale, l'essere scaraventato in una situazione violenta e senza via di scampo, costringe l'innocente coinvolto suo malgrado nel meccanismo dell'errore giudiziario a perdere tutto; da lì deve ripartire, da zero: si trova in una situazione di convivenza forzata, in una comunità di bassa umanità in cui si deve imparare tutto daccapo. E si finisce col (di)mostrare che il carcere è una scuola del male del mondo, dove il cittadino tranquillo che trascorre la vita in una zona protetta impara suo malgrado l'altra faccia delle cose, accresce la sua consapevolezza.

Il cinema americano nel carcere mette in scena la segregazione dei corpi, alla quale la capacità individuale (una versione coatta del self-made man) può trovare rimedio - su un piano spettacolare, pratico - nella fuga o nella morte (nell'accettazione della morte) come liberazione dai vincoli terreni. Emblematico in questo senso Il miglio verde, sempre tratto da Stephen King e sempre con la regia di Darabont. Il film legge la condanna a morte in chiave spiritualista, togliendo efficacia alla rappresentazione e facendo passare in secondo piano l'impegno garantista e democratico del libro.
Gli attori militanti nel partito democratico americano hanno prodotto e interpretato film contro la pena di morte o tesi a mettere in evidenza la possibilità di errori giudiziari per nulla infrequenti (non pare un caso che Tim Robbins fosse protagonista di Le ali della libertà).
Con Dead man walking (Usa, 1995) Sean Penn si schiera apertamente contro la barbarie della morte inflitta dallo Stato anche ad un colpevole indubbio e reo confesso. Il film denuncia l'inciviltà senza scuse o possibili giustificazioni della pena di morte registrando l'agonia e quasi l'impazzimento del condannato nell'affrontare la morte lenta data attraverso l'iniezione.
Molti anni prima era stata Susan Hayward ad affrontare la camera a gas nel film Non voglio morire (Usa, 1958) di Robert Wise, la storia vera di una donna ingiustamente accusata di un delitto e condannata a morte nel 1955.
Il carcere è, realisticamente, per un numero molto elevato di detenuti negli Stati Uniti, senza fuga, senza via d'uscita. La legge dei 3-strike, secondo la quale dopo tre condanne, di qualunque reato si tratti, anche minimo, c'è la condanna all'ergastolo e le numerose esecuzioni che assicurano il ricambio nei bracci della morte segnano un netto divario dalla finzione cinematografica.

Universo prettamente maschile, il cinema ha però rivolto lo sguardo anche alla modalità femminile del carcere, senza però saper uscire dai cliché. È certamente più difficile imporre azione e violenza ad un universo che si deve confrontare con un altro ordine di problemi, legato all'essere donne. Poiché le regole sono simili, le carceriere sono spesso rappresentate come aguzzine e le detenute come delle psicopatiche; mettendo in scena lo stesso dramma, pur nella differenza di genere, cioè lasciando in disparte la forza bruta, si vedono accentuate la crudeltà, la ripicca, il tormento psicologico; oppure si indirizza l'attenzione su una galleria di ritratti, come ha fatto anche il cinema italiano (Nella città l'inferno di Renato Castellani, Italia, 1958).
Generalmente la quotidianità in carcere, la maternità o il legame affettivo spinto fino alla complicità con un detenuto restano in attesa di una degna resa al cinema.

Vorrei chiudere accennando a prigioni reali e vicine. Le carceri più terribili ce le racconta la cronaca dei morti per sciopero della fame in Turchia. Detenuti e parenti scioperano per ottenere concessioni al durissimo regime di isolamento (i famigerati carceri di tipo F): da molto tempo la situazione è grave, al punto che, pure se sporadicamente (e bisogna risalire a venti anni fa), le carceri turche sono arrivate perfino al cinema. Ispirandosi ad un fatto di cronaca Alan Parker ne ha fatto una sorta di girone infernale in Fuga di mezzanotte (GB, 1977), dove si racconta la vicenda di un americano arrestato all'aeroporto di Istanbul per detenzione di hashish e condannato a trenta anni.
Una sorta di crudele miscuglio tra finzione e realtà è la vicenda poetica e politica di Yilmaz Guney, che ha scritto cinque sceneggiature e ha diretto parte dei suoi film dal carcere, raccontandolo.
La rivolta (Le mur, Francia, 1983) racconta di un gruppo di minorenni che cercano di ottenere condizioni carcerarie meno dure, in qualche modo anticipando lotte attuali, mentre in Yol (Francia/Svizzera, 1982; diretto da Serif Guren) cinque detenuti, temporaneamente liberi grazie ad una licenza, una volta fuori perpetuano le stesse regole e modelli comportamentali che seguivano dentro il carcere. Un percorso inverso rispetto al cinema americano: la comunità carceraria ha permeato di sé le persone, la società civile, generalizzandosi. In un rapporto reciproco di sostentamento e scambio, "dentro" e "fuori" sono complemento l'uno dell'altro.