Dalle Pampas ai City Garden: in Argentina come a New York un uso comune della terra è possibile. Il dibattito è partito con la lettera del Nobel Esquivel a Benetton, in favore dei Mapuche di Patagonia. Quando Bette Midler comprò i giardini per salvare il verde della Grande Mela.
Un premio Nobel scrive a Benetton a proposito delle terre in Patagonia e l'industriale risponde «parliamone». La Microsoft Europa scrive al senatore Fiorello Cortiana: «vediamoci». Ramazzotti, Jannacci e altri musicisti scrivono un appello in difesa della loro creatività, contro i pirati di note. Insomma, si registra una grande attività epistolare, di questi tempi, ma con una caratteristica comune: in tutti questi casi e al di là delle diverse fattispecie, l'oggetto è uno solo, la proprietà di alcuni beni comuni (Commons) e le loro modalità di uso e gestione, eventualmente in vista di un benessere comune (Commonwealth), oppure la loro riduzione a merci di largo consumo e di scarso valore (Commodities). La lettera del Nobel per la pace argentino, Adolfo Perez Esquivel, pubblicata da Repubblica, prende le mosse da un caso giudiziario: un tribunale ha dato ragione alla Compañía de Tierras (www.companiadetierras.com.ar/), controllata dalla famiglia Benetton, la quale anni fa acquistò 900 mila ettari di Patagonia, destinandoli a allevamento; su 385 di quegli ettari si insediò in seguito la famiglia di Attilio Curinanco, rivendicando la precedente storica presenza della popolazione Mapuche su quelle terre. Diritto che il tribunale ha negato, riconoscendo per buoni i titoli proprietari di Benetton.
Al di là del diritto, tuttavia, Esquivel chiama in causa la sensibilità ambientale e sociale della famiglia di Treviso, sollecitandola a dare seguito concreto alle loro molte campagne pubbliche a favore degli ultimi. Luciano Benetton ha risposto, sempre su Repubblica, aprendo il dialogo verso soluzioni eque, e tuttavia ricordando che «il diritto di proprietà rappresenta il fondamento stesso della società civile» e precisando che egli si riferisce sia alla «proprietà fisica come a quella intellettuale».
Questo è appunto il problema perché non è affatto vero che la proprietà di terra, software e musiche sia il fondamento del mondo e meno che mai un diritto naturale. Dei filosofi lo hanno sostenuto, ma la storia dei popoli ha prodotto una grande molteplicità di soluzioni proprietarie, le quali non necessariamente sono dei «residui», destinati a essere superati dal progresso. Anzi alcuni modelli «vecchia maniera» sono certamente migliori di quelli che oggi vengono considerati moderni e possono anzi dare delle buone indicazioni per un futuro migliore.
In Patagonia i Benetton gestiscono un allevamento di pecore da investitori socialmente responsabili. Potrebbero fare di più? Certamente, perché sempre si può fare di più, pur di essere disposti a spendere e a rinunciare a una quota di comando. Ma finché restano autoconfinati in quel modello di «capitalismo benevolo» tipicamente eurocentrico, difficilmente potranno essere in sintonia con i Mapuche e con il movimento globale dei diritti.
Invece altre strade sono possibili, in questo come in altri casi. Una di queste si chiama «property on the outside, commons on the inside», ovvero alzare un recinto proprietario tra un territorio e il resto del mondo (verso l'esterno, outside), ma avere all'interno una gestione comunitaria. Proprio questo è successo in un'altra parte del mondo, molto più densamente popolata della Patagonia, e precisamente a New York City, nel 1999. Qui il sindaco di allora, Rudolph Giuliani, aveva deciso che i «community gardens» sarebbero stati venduti come beni immobili per fare cassa e valorizzare quei terreni in piena città.
I giardini in questione erano una moltitudine di lotti di proprietà comunale che la continua trasformazione della città aveva lasciato abbandonati a Harlem, Brooklyn e nel Lower East Side; su di essi un movimento di cittadini (la «green guerrilla») aveva cominciato spontaneamente a coltivare il verde, organizzandosi a gruppi e gestendoli in maniera condivisa. Oltre a tutto in maniera efficiente: si valuta che il costo di un piede quadrato di parco urbano sia di 50 dollari, mentre quello di un city garden è solo un decimo.
Malgrado le proteste, la vendita di Giuliani stava per avere successo, ma in quel 12 maggio 1999, l'attrice Bette Midler decise di intervenire con una sua fondazione non profit, offrendosi di comprarli in blocco per preservarne l'uso pubblico. Lo stesso fece il Trust for Public Land, e l'esito fu appunto di garantire comunque alla città un certo incasso, ma senza innalzare nuovi palazzi e salvando quella specifica forma di autogestione.
Può apparire un paradosso, ma la lezione riformista che si può trarre da quella vicenda è questa: in una società in cui la proprietà e il denaro sono la misura di tutto (come sembra pensare anche Luciano Benetton), il meccanismo dei recinti proprietari è sovente inevitabile, ma all'interno si può fare qualcosa di diverso: preservare una riserva naturale, per esempio, e meglio ancora farlo attivando le conoscenze e i saperi locali; magari richiamando persone che da quelle terre erano state allontanate in epoca di latifondi e che oggi stentano persino a riconoscersi come una comunità: non possono più esserlo perché è stato loro chiesto di farsi operai e contadini a cottimo, non titolari della loro madre terra.
Le forme giuridiche con cui farlo sono molte, ma una cosa è certa: essi sono stakeholder, come dicono gli esperti di relazioni pubbliche, ovvero titolari di interessi, magari non formalizzati ma veri. In quanto tali hanno da essere coinvolti nelle scelte e non possono essere solo i destinatari di un'azione decisa a Treviso, per quanto illuminata e seria essa sia.